riforme

Tante idee ma confuse

Tante idee ma confuse

Stefano Lepri – La Stampa

Di nuovo importanti scelte annunciate sembravano decadere a «linee guida» per poi scomparire del tutto nel Consiglio dei ministri di oggi. E allora è bene cercare un significato di insieme di ciò che ribolle dentro il governo di Matteo Renzi, tra promesse e retromarce, azzardi e smentite. Dei contrasti non c’è da stupirsi, dato che per fare riforme vere occorre scontentare molti interessi; ma la confusione di idee è grande. La salutare intenzione di rompere tabù annosi si intreccia con ipotesi di stravecchie misure conformi a vecchi modelli politici. Nessun «cambio di verso» ci sarebbe ad esempio nell’assumere senza concorso decine di migliaia di precari della scuola.

Nelle bozze del provvedimento «Sblocca Italia» oggi all’esame compaiono insieme interessanti novità ed erogazioni di tipo clientelare. Un modo diverso di governare non può certo emergere già bell’e formato. Il guaio è che il fronte tra vecchio e nuovo molto spesso non si capisce dove passi, e nemmeno tra chi. In parte si tratta ancora di inesperienza, da parte dei giovani oggi arrivati al potere con Renzi. Ma più passa il tempo, più si parlerà di carente abilità nel progettare.

Ad esempio l’importantissima questione delle partecipate degli enti locali è arrivata alla ribalta solo grazie all’impegno del commissario alla revisione della spesa Carlo Cottarelli. Si trova lì un nodo cruciale dei veri «costi della politica». Ma occorre saper distinguere. Un gran numero di società in annosa perdita, o con scopi poco attinenti al settore pubblico, può essere chiusa senza complimenti. Invece i trasporti locali, da dove viene gran parte delle perdite, devono essere riformati costringendo gli amministratori a tagliare gli sprechi. C’è una Autorità per i trasporti che ha cominciato a funzionare, esistono esempi in altri Paesi; una razionalizzazione su base regionale sarebbe utile seppur non sufficiente. Occorre però che i ministri si facciano carico di elaborare proposte.

Un altro esempio sono le privatizzazioni. È salutare che si sia rivelata un bluff la privatizzazione delle Poste, azienda dove il confine tra le aree di servizio pubblico e quelle di mercato rimane alquanto oscuro. È interessante che si discuta di ridurre la quota dello Stato in Eni ed Enel oltre limiti che finora venivano considerati invalicabili: ma si chiarisca anche a quale scopo.

L’Eni, di gran lunga la componente più valida dell’industria di Stato, negli anni ha funzionato come importante strumento per approvvigionarci di petrolio. Oggi la sensazione – diffusa tra i Paesi amici ed alleati – che condizioni un po’ troppo la politica estera italiana è solo il riflesso politico della crescente difficoltà economica di fare scelte energetiche indipendenti su scala solo nazionale. Prima di decidere che fare dell’Eni, occorre avere un’idea di quali scelte in materia di energia farà l’Europa nel suo insieme; Vladimir Putin ce ne impone l’urgenza. Una ipotesi possibile è che invece di muoversi in ordine sparso le imprese di Stato esistenti in vari Paesi dell’Unione possano trovare strategie comuni, forse persino unirsi.

Perché i progetti ancora latitano? Il rischio sta nella via breve di un ritorno al primato della politica: ovvero che i nuovi arrivati al potere con Renzi si limitino a proporre la novità di se stessi, magari inventando nemici di comodo per sfruttare a proprio vantaggio l’insofferenza contro tutte le élites. Non può funzionare. Trovare consenso al dettaglio, con favori all’una o all’altra categoria (pensionandi o supplenti o altri ancora), è oggi disastrosamente dispendioso. Solo mostrando una visione di insieme si può consolidare il consenso dei cittadini in quanto cittadini.

Non disturbare il manovratore

Non disturbare il manovratore

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Con una certa solennità, il capo II della riforma della pubblica amministrazione, nel testo convertito, è dedicato alle misure in materia di organizzazione. Si inizia con le società a partecipazione pubblica: «(…) salva la facoltà di nominare un amministratore unico, i consigli di amministrazione delle società controllate (…) che abbiano conseguito nel 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di amministrazioni pubbliche superiore al 90% dell’intero fatturato devono essere composti da non più di tre membri, ferme restando le disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità (…) il costo per compensi agli amministratori deve essere contenuto nell’80% di quanto speso nel 2013 (…) per le altre società a totale partecipazione pubblica il numero dei consiglieri non può superare i 3 o i 5 membri (…)».

Queste norme, criptiche e farraginose, meritano qualche spiegazione. Nella prima parte dell’articolo (il 16), si parla, in sostanza, della massa di aziende, nate sotto l’egida della riforma degli enti locali condotta da Franco Bassanini. Si tratta dell’in-house, di società a prevalente partecipazione comunale (provinciale, regionale) che hanno, come scopo sociale, compiti propri dell’ente di cui sono emanazione. Un esempio: per la realizzazione di infrastrutture di loro competenza, molti comuni hanno costituito un’apposita società che gestisce l’intero procedimento. C’è, in questa modalità organizzativa, un non detto: se il comune dovesse appaltare la costruzione di un ponte sul fiume che lo attraversa, dovrebbe applicare le norme europee e indire una gara abbastanza libera che potrebbe essere vinta da un’impresa sgradita al sindaco e ai suoi assessori. Rivolgendosi alla propria società, formalmente, privata, gli amministratori locali pensano che l’operazione sia manovrabile e che, comunque, trattandosi di un soggetto privatistico, come dire, è più difficile che la magistratura intervenga. Una bubbola infondata, vista la severa giurisprudenza penale. Tuttavia, le possibilità di farla franca sono oggettivamente maggiori.

Va notato il 90% del fatturato destinato a servizi della pubblica amministrazione di cui la società è figlia: questa qualificazione mostra come il governo sappia bene la natura distorsiva di questi strumenti organizzativi e di malaffare, ma che ne voglia limitare i costi. Chiamare una norma del genere «riforma» è una inqualificabile mistificazione.

È vero che da qualche giorno si parla di obbligare gli enti locali a liquidare gran parte delle 7/10 mila società e, proprio oggi, il consiglio dei ministri dovrebbe decidere qualcosa. Leggeremo i testi con la solita attenzione, anche se è lecito immaginare che la «vis» riformatrice si limiterà a un piccolo aggiustamento, senza incidere seriamente sul deleterio sistema. La massa di quadri politici che vivono da parassiti e malversatori nel mondo delle aziende pubbliche (che drena una impressionante quantità di denaro dei cittadini e che procura ai partiti risorse non dichiarate) non può essere colpita senza compromettere il patto tra vertici dei partiti e cosiddetta base e, per li rami, il consenso elettorale. Meglio prendersela con i pensionati il cui peso nelle urne non è paragonabile a quello dei quadri di cui sopra.

L’art. 17 della riforma induce all’ilarità: si occupa di «sic!» di ricognizione degli enti pubblici e unificazione delle banche dati delle società partecipate. La solita domanda viene spontanea: è necessaria una legge per una semplice, normale attività amministrativa gestibile con semplici direttive dalla presidenza del consiglio dei ministri? Si pensi che il comma 2 ter, dispone che entro il 15 febbraio 2015 «sono pubblicati sul sito internet istituzionale del Dipartimento della funzione pubblica della presidenza del consiglio dei ministri l’elenco delle amministrazioni adempienti e di quelle non adempienti all’obbligo di inserimento di cui al comma 2 e i dati inviati a norma del medesimo comma. A parte la zoppicante costruzione della frase, immaginate come trema, per esempio, il sindaco di Napoli di fronte alla prospettiva di essere inserito nell’elenco dei «cattivi» che non hanno contribuito all’unificazione delle banche dati nazionali? Purtroppo, questo è il metodo. Questi sono i contenuti.

Al paese decotto non basta solo la politica monetaria

Al paese decotto non basta solo la politica monetaria

Antonio Salvi – Il Giornale

Bene ha fatto Draghi a ricordare ai governi europei che la politica monetaria da sola non può rilanciare in maniera strutturale le economie decotte. Ha parlato a nuora perché suocera (il primo ministro italiano, su tutti) intenda.

Draghi ha semplicemente sostenuto che, per sperare di prendere un buon voto a scuola occorre prima fare bene i propri compiti a casa e poi eventualmente sperare nella mano paterna del professore. Il rilancio delle economie in maniera non effimera non è mai, dico mai, stato realizzato attraverso l’attuazione di politiche monetarie ad hoc. Affinché il rilancio dell’economia avvenga in maniera durevole è necessario perseguire un recupero di competitività complessiva del sistema. Come? Facendo le riforme. L’Italia sta facendo i compiti a casa? No. E tutti i bei discorsi di Renzi? Parole al vento. Segnalo che sono già passati 6 mesi (centottanta giorni!), e ancora di riforme concrete non se ne vede l’ombra. Sacrosanto dunque il richiamo da parte di Draghi. L’agenda delle riforme che contano è chiara e il governo ha – temo per poco ancora – il giusto consenso nel paese per poterla attuare, eppure si traccheggia e si procede con tentativi velleitari e di pura facciata. Renzi non era colui che nell’ormai remoto 22 febbraio scorso aveva promesso una riforma al mese nei primi cento giorni del suo governo. Il fanfarone, vista la mala parata, ha pensato bene di aggiungere uno zero ai cento giorni, preferendo adesso cambiare il nostro paese in mille giorni. Approfittando della dabbenaggine degli italiani.

Ad avviso di chi scrive, la prima grande riforma da portare avanti è quella della pubblica amministrazione. Eppure, quella fin qui varata è solo una riformina che non cambia granché. Aspettiamo invece la legge delega, che forse arriverà nel giro di qualche anno. L’abolizione delle provincie? È solo sulla carta. Più in generale, è necessario ridurre la spesa pubblica. Dove? Ovunque. Sono solo io il cittadino italiano che quando entra in qualsiasi ufficio pubblico è investito dalla netta sensazione che dappertutto si batta la fiacca? E allora giù di scure, senza tanti riguardi. Il lavoro è un’altra emergenza del nostro paese. Renzi non ha fatto praticamente nulla a riguardo (salvo il poverissimo ddl Poletti), mentre la vera partita si gioca altrove, dove non c’è traccia di volontà del governo di voler intervenire seriamente. Ad esempio, sull’articolo 18, il quale andrebbe semplicemente cassato in toto. Si tratta di una tutela discriminatoria (distinguendo tra lavoratori di serie A e lavoratori di serie B) e anacronistica. Lo capiscono infatti anche i bambini (ma non le teste d’uovo della sinistra italiana) che inibire la crescita delle aziende oltre i 15 dipendenti vuol dire far partecipare il nostro sistema produttivo a una battaglia globale con i canotti, laddove gli altri paesi hanno le portaerei.

E poi c’è la riforma del fisco, inizialmente prevista per maggio, ma persasi anch’essa chissà dove. Renzi ha promesso la semplificazione fiscale. Chi l’ha vista? Intanto, nel 2015 ci arriverà il 730 precompilato, strumento straordinariamente illiberale, su cui non mi è parso di aver assistito a grandi grida di dolore da parte degli intellettuali liberali. E poi c’è la riforma della giustizia, anch’essa ferma alle buone intenzioni. E poi tanto altro ancora. Renzi ha affermato che è necessario togliere il paese dalle mani dei soliti noti, quelli che vanno in tutti i salotti buoni a concludere gli affari di un capitalismo di relazione ormai trito e ritrito. Capitalismo di relazione? E la politica che fa il nostro premier? Cos’altro è se non delle sue relazioni e del suo vicinato, visto che la maggior parte del tempo l’ha finora spesa a piazzare nei posti giusti amici e corregionali, con scelte molto spesso quantomeno di dubbio gusto. #Matteomafacciilpiacere…

Riforme? Cominciamo dalla Bce

Riforme? Cominciamo dalla Bce

Gaetano Pedullà – La Notizia

Come si fa a chiedere agli altri di fare qualcosa che poi non si sa fare con se stessi? La domanda certamente non sfiora Mario Draghi, lodato presidente della Banca centrale europea, ma proprio per il suo caso riguarda tutti noi. Draghi, ieri a summit economico di Jacksone Hole, è tornato ad annunciare misure anche non convenzionali per sostenere la ripresa in Europa, e a chiedere contemporaneamente ai singoli Stati di non rinviare più le necessarie riforme strutturali. Ora chi segue appena un po’ l’economia ricorderà che la Bce promette misure non convenzionali da anni. Cosa sono queste misure? In sintesi l’immissione di un po’ di liquidità per contrastare una crisi che è economica ma anche monetaria. Con un euro che vale il 30% più del dollaro è chiaro che l’export delle imprese europee è mostruosamente sfavorito e di conseguenza naturale che ci siano meno opportunità di lavoro. Tutto qui? No, perché altro grandissimo problema è la spaventosa stretta creditizia sotto gli occhi di tutti. A chi tocca governare questi problemi: agli Stati o alla Banca centrale? Ovviamente alla Bce, che però da anni promette e ripromette ma poi non fa nulla solo perché i tedeschi non vogliono. Fatto salvo che riformare regole vecchie come quelle che abbiamo non solo in campo economico è sacrosanto, non è che insieme all’azione riformatrice dei singoli Stati sia arrivata l’ora di riformare la stessa Banca centrale? Anche perché la Fed americana promette, promette ma poi i tassi del dollaro non li alza. Ma a Francoforte evidentemente voglia di cambiare non ce n’è.

Date una pensione a Renzi e Poletti

Date una pensione a Renzi e Poletti

Giorgo Mulè – Panorama

Nei piani del governo, quello sulle pensioni doveva essere un blitz: improvviso e, aggiungo io, improvvido. Me lo confidò, lunedì 4 agosto, una mia fonte assai addentro ai segreti ministeriali. Con dovizia di particolari elencò le misure del blitzkrieg fissato per ottobre che prevedeva tra l’altro il varo dell’ennesimo e ipocrita «contributo di solidarietà», la rimodulazione degli assegni calcolati con il metodo retributivo e la revisione delle pensioni di reversibilità. Scrivemmo tutto, ovviamente, e giovedì 7 agosto mandammo in edicola la copertina di Panorama (numero 33) con Matteo Renzi nelle vesti di un vampiro e il titolo: Il prelievo. Nessun giornalone, nei giorni seguenti, approfondì la notizia. Normale, nel provincialismo editoriale italiano. Fin quando domenica 17 agosto il ministro del Lavoro, Guliano Poletti, ha confermato tutto con un’intervista al Corriere della sera. Il resto lo state leggendo in questi giorni (ben svegliati, colleghi) e continuerete a leggerlo nelle prossime settimane.

Sono circa 300 i miliardi che l’Italia paga ai pensionati ogni anno. Per ogni governo si tratta di una categoria bancomat: non c’è manovra, manovrina o manovrona che li abbia risparmiati. Le storture non mancano, per carità, ed è giusto intervenire anche in profondità. Il problema è che bisogna farlo con raziocinio e non a colpi di rapine indiscriminate. Evitando, soprattutto, azioni demagogiche modello Robin Hood come quella in corso: è profondamente sbagliato dipingere il titolare di una pensione da 3.000 euro come un ricco sfondato e quindi meritevole di essere spennato per cedere parte dei suoi soldi a chi ne ha di meno. Perché il pensionato che perderà soldi si sentirà povero e impaurito e spenderà ancora di meno rispetto a oggi mentre l’altro pensionato (già terrorizzato dalla congiuntura attuale e fresco di fregatura dal mancato arrivo degli 80 euro) che ne prenderà poco di più non si accorgerà neppure dell’incremento.

E mentre lor signori discettano di quanto e a chi rapinare, che cosa c’è da aspettarsi se non l’ennesima gelata sui consumi da parte di coloro che con quei 300 miliardi equivalgono al 20 per cento del prodotto interno lordo? Nella platea dei «ricchi» pensionati chi spenderà un euro in più oltre lo stretto necessario? Non ci vuole un economista di Harvard per enunciare questo banale parallelo, lo sanno perfettamente al ministero dell’Economia e pure a quello del Lavoro e lo ha sottolineato un insospettabile come Stefano «chi?» Fassina.

Alla radice di tutto c’è un problema di cultura di governo. Il ministro Poletti è una degnissima persona, un “tecnico” chiamato da Renzi: ma si è nutrito di pane e comunismo (pochissimo il pane) fin da quando aveva le brache corte. Nel defunto Partito comunista ha ricoperto incarichi importanti, è stato custode di quell’ortodossia maledetta nella rossissima Imola negli Anni 80. Che cosa c’è da aspettarsi da un ministro così se non un prelievo dalle pensioni che lui si ostina a chiamare «d’oro»? Inutilmente s’è atteso il colpo d’ala dal sempre assai loquace Renzi, una frasettina tipo: «Suvvia Giuliano, nun di’ bischerate». Macché, muto è stato. Poi, tanto per tenersi sulle generali, ha scritto un tweet che però non smentisce nulla: dice vagamente che i giornalisti a Ferragosto si inventano cose che il governo non ha neppure pensato. Ma a quali cose si riferisce? Tweet da Sibilla cumana.

Comincio a pensare che Renzi, oltreché muto, sia pure sordo. Al premier, che pure dall’orecchio destro, quello delle riforme, sembra recepire qualche segnale, bisogna sturare al più presto l’orecchio sinistro, quello dell’economia: deve avere un tappo che puntualmente gli impedisce di sentire. E, ahinoi, di cogliere la realtà.

Pubblica amministrazione sospesa

Pubblica amministrazione sospesa

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Il secondo capitolo della riforma della pubblica Amministrazione dovrebbe essere il più importante, giacché contiene le misure sulla sua riorganizzazione («semplificare e aumentare l’efficienza delle pubbliche amministrazioni» scrive la legge). Dall’organizzazione discende la qualità e l’intensità del prodotto dello Stato: quindi, visto che, quanto a numero di dipendenti pubblici (Stato e aggregati), siamo in linea con i paesi dell’Ue, ne siamo lontani quando a produttività.

I servizi che le amministrazioni pubbliche italiane offrono ai cittadini sono molto diversi se si guarda al Nord, al centro, al Sud e alle isole. Sud e isole presentano una qualità scadente non confrontabile con il resto del Paese. Tuttavia, mediamente, il prodotto della pubblica Amministrazione italiana è nettamente inferiore a quello offerto in Francia, in Germania e, addirittura, in Spagna. C’è da aggiungere che, da noi, il fattore corruzione incide di più e coinvolge le strutture funzionali e quelle politiche.

C’era da aspettarsi, quindi, che la riforma affrontasse questo genere di problemi che non sono una novità e sono stati risolti in vario modo all’estero (il più interessante è l’Amministrazione per progetti, che consente di aggregare su specifiche missioni personale addestrabile o addestrato e di misurarne i risultati).

Vediamo adesso quali sono le misure approvate. Si comincia con la razionalizzazione delle autorità indipendenti. In particolare: è esclusa la possibilità che i componenti, alla scadenza del mandato, possano essere nominati presso altra autorità nei cinque anni successivi e vengono introdotte incompatibilità per dirigenti e membri delle autorità di regolazione dei servizi pubblici, Consob, Banca d’Italia e Ivass. Viene introdotta poi una nuova procedura unitaria per i concorsi del personale nelle autorità e si prospettano misure per la riduzione percentuale del trattamento economico accessorio (che pone questo personale in condizione privilegiata).

Si riduce anche la spesa per consulenze, studi, ricerche e per gli organi collegiali. S’introduce la gestione unitaria dei servizi strumentali e l’assoggettamento alle disposizioni in materia di acquisti centralizzati. Saranno individuati criteri comuni per la gestione delle spese per gli immobili.

È soppressa, dopo il suo totale fallimento, l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (Avcp). Le sue funzioni sono trasferite all’Autorità nazionale anticorruzione (Anac). Vengono unificate le scuole di formazione pubblica mediante soppressione di cinque organismi e la contestuale riassegnazione delle funzioni di reclutamento e formazione alla Scuola nazionale dell’amministrazione – Sna.

I regolamenti di riorganizzazione dei ministeri saranno adottati entro la metà di ottobre, semplicemente con decreti del presidente del Consiglio dei ministri (modalità rapida).

Come si può vedere dalla sintetica (ma puntuale) definizione della riforma, in materia di riorganizzazione, nessuno dei nodi che hanno impedito e impediscono la creazione di uno Stato efficiente e moderno a servizio dei cittadini è stato affrontato. Non si è nemmeno immaginato –è probabile- che potesse essere risolto, come s’era fatto in passato con alcune leggi storiche di riforma. Ricordiamo l’ultima e la più importante, la 241 del 7 agosto 1990: da essa si doveva partire per aggiornare il procedimento amministrativo e le responsabilità dirigenziali.

Come abbiamo scritto nei mesi scorsi, la qualità tecnica dello staff presidenziale (e del ministro Madia) è chiaramente insufficiente. E, questa della riforma della pubblica Amministrazione, è un’altra occasione perduta, anche se viene presentata come una svolta epocale. Di nuovo ci sono piccole misure di razionalizzazione che non incideranno né sul prodotto né sulla sua qualità.

Ci sono mille occasioni di riforma sul tappeto. Se il governo le coglierà come ha colto questa, sprecandole nel momento in cui passa al merito, avremo illuso gli italiani e non avremo dato loro la prospettiva che meritano. Certo, ci vorrebbe una massiccia dose di liberismo radicale o, in sciagurata alternativa, di collettivismo sovietico. Le mezze-mezze misure non servono che ad accentuare le difficoltà.

Fisco e lavoro, riforme urgenti per la crescita

Fisco e lavoro, riforme urgenti per la crescita

Guido Tabellini – Il Sole 24 Ore

Perché l’economia italiana non riesce a uscire dalla recessione? È da questa domanda che bisogna partire per impostare qualunque strategia di politica economica. La risposta va cercata negli eventi del 2011, quando in seguito alla crisi dell’euro l’Italia fu colpita da un sudden stop, un arresto improvviso nell’afflusso di capitali dall’estero e una fuga di capitali privati, tipico dei paesi emergenti. Il sudden stop ha fatto crollare la domanda interna, attraverso tre canali: i) Una feroce stretta creditizia, imposta da un sistema bancario che dipendeva dall’estero per i suoi finanziamenti, e che poi (non si sa quanto spontaneamente) ha spiazzato il credito privato per comprare il debito pubblico venduto dagli investitori esteri. ii) Una forte stretta fiscale, imposta dall’esigenza di rassicurare i mercati finanziari e i partners europei. iii) Un effetto diretto dell’incertezza e della mancanza di fiducia sugli investimenti e sui consumi di beni durevoli.

Ora il sudden stop è parzialmente rientrato e la liquidità è abbondante, ma è illusorio pensare che ciò sia sufficiente per tornare a crescere. Le tre cause di riduzione della domanda sopra indicate sono ancora operanti, e a queste se ne sono aggiunte altre. Anche se le banche non hanno più difficoltà a finanziarsi, i loro bilanci sono pieni di partite deteriorate (a marzo erano il 10% dei prestiti complessivi, al netto delle svalutazioni), e i prestiti in sofferenza continuano a crescere, sebbene a un tasso che sta progressivamente rallentando. Di conseguenza, la morsa del credito non si è allentata in modo significativo (a giugno i prestiti al settore privato sono scesi del 2,3%). Il deleveraging delle banche è destinato a continuare, anche perché a ottobre si attende l’esito dell’Asset Quality Review della Bce.

La politica fiscale resta restrittiva. Il Def presentato ad aprile dal Ministro Padoan prevede che nel 2014 e 2015 la pressione fiscale rimanga al 44% del reddito nazionale, lo stesso livello raggiunto nel 2012 dal governo Monti. È ancora presto per valutare appieno gli effetti del bonus fiscale, ma è plausibile che essi siano trascurabili, perché solo una piccola parte delle maggiori detrazioni sarà coperta da effettivi tagli di spesa, e perché i vincoli europei impediscono aumenti di disavanzo; più che un taglio d’imposta, il bonus fiscale è stata un’operazione redistributiva.

Quanto alla fiducia, gli indicatori congiunturali suggeriscono un miglioramento. Ma la vulnerabilità dell’Italia è ancora troppo elevata, e il futuro economico troppo incerto, perché gli operatori economici possano scommettere sul futuro con tranquillità e assumere rischi rilevanti. In particolare, il mercato del lavoro è una grave fonte di preoccupazione per le famiglie (a giugno il tasso di disoccupazione era il 12,3%, in calo rispetto a maggio ma in forte aumento rispetto a un anno prima). Inoltre, l’andamento dei prezzi è a un passo dalla deflazione, il che fa salire il peso del debito, e può indurre a rinviare la spesa nell’aspettativa che i prezzi futuri siano ancora più bassi. Infine, la recente incertezza geopolitica ha provocato un arresto della crescita in Germania e in altri Paesi dell’area euro; e purtroppo non si tratta di fenomeni transitori.

Se questo è il quadro, cosa può fare la politica economica nazionale per uscire dalla recessione? Anche se oggi il problema principale è la carenza di domanda aggregata, è comunque urgente realizzare riforme dal lato dell’offerta. Non è un paradosso, è la realtà della moneta unica. Gli strumenti classici di sostegno alla domanda aggregata sono in mano alle autorità europee, che non li stanno usando in modo adeguato. Il loro atteggiamento refrattario riflette anche il timore che i Paesi del Sud Europa (e l’Italia in particolare) non attuino le riforme necessarie a rendere più competitive le loro economie. Sta a noi non offrire alibi.

La riforma più urgente riguarda il mercato del lavoro. Due aspetti sono prioritari: lasciare più spazio alla contrattazione aziendale, evitando che la contrattazione collettiva stabilisca salari minimi inderogabili; e aumentare la flessibilità in uscita per i neo-assunti, secondo lo schema del contratto a tutele progressive nella versione di Pietro Ichino. Riforme innovative del mercato del lavoro non servono solo ad aumentare la nostra capacità di persuasione in Europa, ma sono indispensabili anche per riacquistare competitività. È anche grazie a queste riforme se in Spagna occupazione e produzione stanno tornando a crescere.

Un secondo provvedimento urgente per riacquistare competitività è la svalutazione fiscale. Questo intervento è stato ignorato da tutti i governi che si sono succeduti dal 2011 a oggi, ma è suggerito dall’esperienza dei Paesi emergenti. Quando un Paese è colpito da un sudden stop, la prima cosa che fa è svalutare il cambio. La svalutazione sostiene la domanda aggregata attraverso il canale estero, e, rendendo il Paese più competitivo, facilita il rientro dei capitali dall’estero. Naturalmente l’Italia non può svalutare senza uscire dall’euro. Tuttavia, è possibile riprodurre gran parte degli effetti economici di una svalutazione con gli strumenti di politica fiscale.

Il modo per farlo è tagliare i contributi sociali pagati dalle imprese, coprendo la perdita di gettito con l’aumento dell’Iva e riduzioni della spesa. Il gettito Iva può essere aumentato con accorpamenti delle aliquote più basse. Per realizzare una svalutazione fiscale, i tagli di spesa dovrebbero concentrarsi innanzitutto sui trasferimenti e sussidi ai trasporti locali e ferroviari e ad altri servizi, con corrispondenti aumenti di tariffe. Per evitare effetti regressivi, la manovra andrebbe integrata da un aumento delle detrazioni fiscali sui redditi più bassi. Un intervento di questo tipo allontanerebbe il rischio di deflazione e faciliterebbe la stabilizzazione del debito.

L’evidenza empirica internazionale mostra che eventuali effetti depressivi sulla domanda interna sarebbero più che compensati dalla maggiore domanda estera. Queste sono le priorità a cui dovrebbe ispirarsi la strategia di politica economica, per far uscire l’Italia da un’interminabile recessione. Avrà il governo la lungimiranza per imboccare questa strada? E se lo facesse, troverebbe in Parlamento il consenso per proseguire? Non è detto che la risposta a entrambe queste domande sia positiva. Ma non illudiamoci che vi siano molte altre alternative. Sicuramente non lo è aspettare, sperando che le cose migliorino da sole.

Ue alla svolta, ecco perché coordinare le riforme non è aggressione alla sovranità

Ue alla svolta, ecco perché coordinare le riforme non è aggressione alla sovranità

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

Negli ultimi sette anni per sei volte gli europei hanno previsto una crescita maggiore di quella poi realizzata. Si dice che gli ottimisti vivano più felici, ma evidentemente in economia non funziona. Tra il 2008 e oggi la perdita di reddito dell’euro-area rispetto agli Usa è pari all’8% del Pil e molti milioni di posti di lavoro sono andati perduti. Dopo i dati di ieri, la revisione di quest’anno sarà tra le più ampie. Evidentemente ci illudiamo o vogliamo evitare misure eccezionali. Inoltre siamo abituati a utilizzare modelli che non colgono le interdipendenze economiche e le incertezze politiche nell’euro area. Ad esse infatti sono legati la debolezza degli investimenti e dell’export che stanno frenando tutte le maggiori economie dell’euro area.

Se tuttavia vogliamo proprio essere ottimisti, si può dire che le cattive notizie sull’economia arrivano al momento giusto. Il 30 agosto infatti i lavori del Consiglio Ue dei capi di governo riprenderanno sotto la sferza della recessione. Dopo aver risolto il puzzle delle nomine della Commissione (e ancora non mi capacito di come l’Italia stia rinunciando alla presidenza del Consiglio offertale su un piatto d’argento), i capi di governo discuteranno il dossier sui 300 miliardi di euro di investimenti annunciati dal nuovo presidente della Commissione Juncker. Fino a ieri quella di Juncker poteva essere una promessa elettorale, ora è una necessità vitale. Merkel, Renzi e colleghi dovranno decidere in quale modo finanziare l’ingente pacchetto, tra Bei, fondi strutturali od obbligazioni a progetto, e dovranno poi litigare su come destinare le risorse. E questo secondo capitolo promette di essere molto interessante.

La proposta di cui si sente parlare a Berlino è infatti di legare la disponibilità degli investimenti a «condizionalità» specifiche per il governo che riceve i fondi. In parole semplici, la realizzazione delle riforme strutturali diventerebbe la condizione per ottenere gli investimenti finanziati dall’Europa. Ci sono due metodi per far questo: assecondare il vecchio e criticato progetto della cancelliera Merkel di far stipulare accordi bilaterali tra il Paese richiedente e la Commissione Ue, oppure condividere la sovranità delle riforme strutturali. Nel primo caso alla fragilità economica corrisponde minorità politica. Nel secondo caso invece tutti i paesi crescono insieme coordinando le riforme: Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo, ne aveva fatto cenno a maggio a un convegno della Bce; il ministro dell’Economia Piercarlo Padoan ne aveva già discusso con i colleghi a una riunione a marzo e poi in un articolo con il collega tedesco Wolfgang Schaeuble. Altri hanno parlato di un sistema di valutazione congiunta delle riforme strutturali. Il presidente della Bce, Mario Draghi, infine aveva suggerito a luglio di sottoporre le riforme dei singoli Paesi a «una disciplina a livello comunitario».

Alcuni giorni fa Draghi ha ripetuto l’idea della sovranità condivisa ma, per i meccanismi misteriosi del discorso pubblico italiano, si sono levati allarmi di aggressione alla sovranità nazionale. Il paradosso è che coordinando le riforme si fa esattamente il contrario: tutti i Paesi – non solo quelli deboli – procedono verso le stesse riforme negli stessi tempi e si scambiano esperienze e benefici. Un esempio concreto è venuto dall’Eurogruppo del 7 luglio che ha citato 11 Paesi – tra cui Italia, Germania e Francia – a cui chiede di ridurre il cuneo fiscale che grava sul costo del lavoro. I Paesi sono identificati dalla Commissione nelle “raccomandazioni specifiche” che essa ha elaborato e che sono sottoscritte dai capi di governo. Di arcane e oscure potenze nemmeno l’orrida ombra.

Non solo gli investimenti, anche la debolezza dell’export pongono a Merkel e Renzi un interrogativo politico. Buona parte dell’eccezionale crescita tedesca dal 2004 dipendeva dall’esorbitante privilegio di essere l’àncora dell’euro area: finanziandosi a bassi costi e investendo ad alto rendimento nella stessa valuta. Ridottosi questo privilegio con i rischi della crisi e poi con gli interventi della Bce, la crescita tedesca è rientrata nella normalità: 1,1% annuo dal 2013 a oggi. La Germania resta una delle poche economie che cresca al proprio reddito potenziale, ma il suo “limite di velocità” è basso ed esposto a rischi: nel 2014 l’export tedesco verso Usa e Cina sta aumentando del 7-10%, mentre crolla verso Turchia, Ucraina e Russia: il rischio “geo-politico” spiega dunque buona parte del calo del pil ed evidenzia le conseguenze economiche dell’assenza di una forte politica estera comune. L’economia dipende dunque dalla strategia politica europea. Il caso vuole che la presidenza Ue sia in mano italiana. È il momento di giocare bene questa formidabile mano di carte.

Il vero incubo adesso è il debito

Il vero incubo adesso è il debito

Massimo Riva – La Repubblica

A preoccupare non è tanto che Moody’s tagli le sue stime sul Pil di quest’anno: ormai lo sanno anche a Palazzo Chigi che il previsto più 0,8 per cento è diventato un obiettivo irraggiungibile. Quel che più dovrebbe allarmare è l’effetto che i giudizi negativi sulla lentezza delle riforme possono avere sui mercati finanziari. Le agenzie di rating – ormai questi anni di crisi ce l’hanno insegnato – non sono né arbitri distaccati da interessi concreti né istituti di beneficenza. Il loro ruolo è quello di orientare gli operatori mercantili ed è un compito che ne alimenta il reddito e il successo soltanto nella misura in cui le annunciate profezie si avverino.

Occorre, dunque, maneggiare con cura questa sortita di Moody’s perché essa potrebbe facilmente trasformarsi in un nuovo segnale di attacco sul fronte più fragile delle tante nostre oggettive difficoltà. In particolare, quello del finanziamento del debito pubblico che in questi mesi è riuscito a reggere con il vento in poppa di una costante e significativa discesa dei tassi d’interesse. È chiaro a tutti, infatti, che un brusco rincaro del servizio del debito non solo priverebbe il governo di risorse utili a misure di stimolo all’economia ma metterebbe a rischio anche quel rispetto del fatidico 3 per cento di deficit che è condizione importante per poter fare la voce grossa in Europa.

Il nodo cruciale attorno al quale ruotano i giudizi negativi dell’agenzia americana riguarda soprattutto la lentezza con cui l’Italia procede sul terreno delle riforme strutturali. Dunque, la stessa questione sollevata appena qualche giorno fa dal presidente della Bce, Mario Draghi. A quest’ultimo il presidente del Consiglio ha risposto in termini al tempo stesso consenzienti e infastiditi. Da un lato, ha detto di essere anche lui consapevole della necessità di attuare le attese riforme. Dall’altro lato, ha tenuto a ricordare che la scelta sulle riforme da fare spetta al governo italiano e non alla Bce o alla Commissione di Bruxelles, tanto meno alla troika fra i due e il Fondo monetario.

Una rivendicazione di sovranità formalmente legittima e per certi versi oggi anche ovvia sul piano istituzionale. Ma che per non avere un senso di battuta occasionale ed estemporanea avrà bisogno di essere seguita da comportamenti e azioni all’altezza dei problemi del momento su due tavoli principali, interno ed esterno.

In primo luogo, evidentemente, si tratterà di realizzare le attese riforme in tempi che evitino al Paese il rischio di quel discredito sui mercati che potrebbe essere alimentato da iniziative come quelle di Moody’s. In secondo luogo, si tratterà di muoversi con più cautela sul piano europeo proprio per quanto riguarda i rapporti di potere all’interno dell’Unione, laddove sempre Moody’s (non a caso) preconizza forti tensioni fra Italia e Germania.

Nel reclamare cessioni di sovranità dai governi nazionali alle istituzioni comunitarie, Mario Draghi ha posto il dito sulla piaga più dolente di un impianto europeo dove ogni spinta in senso federale è regolarmente bloccata dall’esercizio della legge del più forte. Come dimostra l’impotenza dei paesi favorevoli a una politica economica espansiva a far cadere il muro dell’austerità contabile a qualunque costo costruito dalla Germania. Perciò Matteo Renzi, tanto più nel corso del semestre italiano di presidenza, dovrà fare non poca attenzione alle controindicazioni implicite nella sua rivendicazione di sovranità. Quello che può oggi sembrare un punto di forza a Roma facilmente può diventare un fattore di debolezza a Bruxelles perché fornirebbe alibi potenti ai governi che intendono l’Europa come poco più di un’unione doganale.

Le inattese avvisaglie di stagnazione che si profilano all’orizzonte della grande Germania stanno facendo capire anche ai tedeschi che la crescita in un Paese solo è oggi una pura illusione. Berlino ha bisogno dell’Europa non meno di quanto l’Europa di Berlino. Figuriamoci, quindi, quanto più questa equazione possa essere valida per l’Italia. A maggior ragione in una fase nella quale lo scenario internazionale – dall’Ucraina alla Libia passando per il Medio Oriente – solleva nubi minacciose anche sui rifornimenti energetici.

L’inverno non è così lontano e tutto l’Italia può permettersi fuorché trovarsi nella tenaglia di rincari congiunti dei tassi d’interesse e di gas e petrolio. Coraggio, perciò, presidente Renzi mandi in porto le riforme “sovrane” che vuole ma lo faccia presto. Anche perché solo su questa strada troverà i titoli politici per promuovere una svolta nella politica economica europea. Ci sono treni, in politica e nella vita, che passano una sola volta.

Lavoro, giustizia e competitività. Senza le riforme non ci sarà crescita

Lavoro, giustizia e competitività. Senza le riforme non ci sarà crescita

Alan Friedman – Corriere della Sera

Ora che l’Italia è ufficialmente di nuovo in recessione, per la terza volta in soli sei anni, sarebbe utile capire perché il nostro Paese sia il fanalino di coda in Europa per quanto riguarda la crescita.

A mio avviso la causa di questa situazione non è la moneta unica, e nemmeno il ciclo della congiuntura dell’economia europea. Non è neppure soltanto il fatto che la Germania cresca meno e acquisti in maniera meno massiccia le nostre merci, anche se questo è certamente vero.

Il motivo principale per cui l’economia italiana continua a essere così anemica è la mancanza di modernizzazione attraverso le riforme – del mercato del lavoro, del fisco, della burocrazia e del welfare. In altre parole, l’Italia non crescerà finché non avrà fatto le stesse riforme che altri Paesi hanno fatto dieci o venti anni fa.

Finché non saremo competitivi nei confronti dei nostri partner principali in Europa – in termini di una giustizia con delle regole chiare, di un costo del lavoro ragionevole, di una vera flessibilità del mercato dell’occupazione e di una migliorata produttività, equiparabile ad altri Paesi – l’Italia non potrà progredire. Le riforme non sono un optional. Sono necessarie. Servono a farci uscire dalla crisi. Sono una base per la crescita, non la soluzione magica.

Per un politico è difficile ammettere che l’impatto forte, salutare e visibile delle riforme non si otterrà in sei o dodici mesi, ma piuttosto in un periodo di almeno due o tre anni. Ma è così. Fare le riforme economiche in modo che il mercato italiano sia paragonabile a quelli tedesco, inglese o olandese significa intraprendere un percorso molto – ma molto! – ambizioso, e tutto questo in un Parlamento non proprio di leoni. Eppure il gioco varrebbe la candela, perché renderebbe l’Italia più forte.

La realtà è che viviamo da tempo in un Paese a crescita più o meno zero. Siamo da tempo in una fase di stagnazione nazionale, in cui l’economia non genera posti di lavoro, mancano investimenti pubblici e privati, manca una politica industriale, il tasso di disoccupazione aumenta, la burocrazia ci strangola, il denaro non gira, e la classe dirigente (compresa la politica) non sembra in grado di esercitare una leadership o una visione adeguata a portarci fuori dalla crisi. Ora c’è Renzi, che prova a spingere l’acceleratore sulle riforme ma inciampa ogni tanto a causa dei gattopardi della sinistra del suo partito, o delle resistenze da parte di Sel o dei cinquestelle. Renzi ha un consenso elettorale che non deve sprecare: deve spenderlo per fare una riforma coraggiosa dell’economia italiana. Deve, se necessario, «battere la testa contro il muro» per insistere su questo punto, e proporre anche qualche cambiamento strutturale che non farà piacere a Susanna Camusso.

La mia preoccupazione, in sintesi, è questa: se si facessero davvero tutte le riforme necessarie per rimettere l’Italia sul binario della crescita e dell’occupazione, i franchi tiratori sarebbero sempre lì, pronti ad affossare ogni singola proposta? La guerra potrebbe essere lunga. Ora Renzi ha bisogno di Berlusconi per portare a termine alcune modifiche istituzionali e la nuova legge elettorale. Bene. Ma si può fare in Italia una riforma radicale del mercato del lavoro, come hanno fatto i governi di centrosinistra in America durante l’Amministrazione Clinton, in Germania negli anni di Schröder o in Gran Bretagna con Blair? Laddove quelle modifiche sono state fatte, laddove c’è più flessibilità nel mercato, il tasso di disoccupazione è la metà di quello italiano.

È inutile girare intorno al problema. L’Italia non avrà nessun futuro di crescita ragionevole nel medio e lungo periodo se non fa subito le riforme strutturali che altri Paesi hanno già portato a termine. È ovvio. Questi cambiamenti devono rappresentare un vero e autentico ammodernamento di una macchina che non funziona più, di un sistema sclerotico e vecchio. Se l’Italia riesce a fare ora, nei prossimi mesi, quelle riforme che altri Paesi hanno già fatto dieci anni fa, ci potrebbe essere la speranza di una ripresa ragionevole verso la fine del 2015. Se invece vengono bloccate nel sottobosco romano, in Parlamento e dintorni, saremo qui a scrivere di un’economia senza crescita.