spending review

La spending review e il bluff delle centrali di acquisto

La spending review e il bluff delle centrali di acquisto

Gustavo Piga – Panorama

Partirà in ritardo il tavolo degli aggregatori degli appalti pubblici voluto da Matteo Renzi: i decreti attuativi non arrivano e l’urgenza per una mossa istituzionale apparentemente epocale che doveva generare risparmi di spesa per lo sviluppo e per la riduzione delle tasse sembra essere svanita. Ma non c’è solo il ritardo che infastidisce: c’è anche il messaggio che appare oggi troppo ottimistico rispetto alle intenzioni annunciate. Se qualcuno avesse infatti capito che dovevano essere ridotte a 35 le stazioni appaltanti del Paese (la Consip del Tesoro, le 20 «Consip regionali» e alcune «Consip metropolitane») dalle migliaia attuali, quel qualcuno si deve ricredere. Perché l’obbligo di acquistare presso queste 35 varrà solo per alcune categorie di beni e servizi, non varrà per i Comuni capoluoghi di provincia o nemmeno per l’enorme galassia dei lavori pubblici.

Certo il decreto di aprile (aprile!) di quest’anno prevede di nuovo (come da anni è previsto e mai avvenuto) che i Comuni più piccoli si aggreghino e non possano più acquistare in solitudine, ma non è possibile prevedere quando avverrà un tale miracolo. In realtà qualcosa di buono ci sarebbe: l’idea di far diventare le Province (poco più di 100) l’unità amministrativa di riferimento per accentrare le gare di beni, servizi e lavori. Perché dentro le Province albergano le migliori competenze come stazioni appaltanti (hanno fatto per decenni la cura di ambiente, strade e scuole) e come personale (gli uffici tecnici provinciali hanno personale qualificato) e proprio loro sono anche l’unità più vicina culturalmente al territorio e alle piccole imprese. Ma tutto appare molto confuso e privo di un progetto deciso e coinvolgente per rivoluzionare il modo con cui compra il settore pubblico.

Per uscire dalla corruzione e dall’incompetenza ci vorrebbe un solido piano per investire tanti soldi nelle competenze di chi lavora nelle stazioni appaltanti, per rafforzare i controlli che scoraggiano la corruzione, per creare database che permettano il paragone delle performance tra diversi centri di costo. Fantascienza che questo governo, come i precedenti, non sa rendere reale, impantanando il Paese sempre più nella morsa del declino.

Dei tagli non parla più nessuno

Dei tagli non parla più nessuno

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

Che fine ha fatto quella «revisione della spesa» di cui tanto si è parlato nell’ultimo anno? E che doveva fungere da leva per risanare il settore pubblico sul versante delle uscite, in base a criteri di efficienza ed equità? Purtroppo ha fatto una brutta fine. Con le dimissioni del Commissario Carlo Cottarelli, lo scorso ottobre, il processo si è bloccato. Sull’apposito sito Internet compaiono solo scarne e obsolete informazioni. Nella scorsa primavera, la spending era diventata la regina dei talk show. L’omissione del sostantivo (review, ossia revisione, ristrutturazione) avrebbe dovuto insospettire. Molti politici consideravano infatti i risparmi futuri come un tesoretto a cui attingere per nuove spese. Clamoroso il tentativo di finanziare il pensionamento con le regole pre-Fornero di alcune categorie di insegnanti attraverso, appunto, la spending. I materiali prodotti da Cottarelli non sono mai stati discussi apertamente. In un’intervista televisiva quasi imbarazzante, il Commissario si è limitato a menzionare come «sprechi» le solite siringhe calabresi (che costano più di quelle lombarde) e le sedi estere di alcune Regioni.

Nella legge di Stabilità i tagli ci sono, è vero (per circa 15 miliardi di euro). Ma sappiamo come sono stati definiti: un tira e molla fra i vari ministeri e fra governo centrale e Regioni. Non c’è da stupirsi se questa vicenda ha rafforzato i dubbi dell’Europa. Nelle sue valutazioni sulla legge di Stabilità, Bruxelles ha espresso preoccupazioni, tanto più che la Commissione aveva fornito precise indicazioni su come impostare buone spending reviews. L’ingrediente principale è un forte investimento politico da parte dei governi, con una chiara definizione degli obiettivi e un mandato preciso alle strutture coinvolte. Poi servono buoni dati, analisi accurate, coordinamento organizzativo, trasparenza, comunicazione pubblica, monitoraggio e valutazione ex post, integrazione permanente di tutti questi elementi nel ciclo annuale di bilancio. Queste sono le condizioni perché una revisione della spesa possa avere successo. Quasi tutte, purtroppo, sono clamorosamente mancate nella spending di casa nostra. È comprensibile che i declassamenti di rating e i rimproveri di Angela Merkel diano fastidio. E sarebbe ingeneroso non riconoscere a Matteo Renzi un serio impegno per le riforme. La superficialità con cui è stata gestita la partita dei tagli da inserire nella legge di Stabilità è però difficilmente comprensibile. Ed è soprattutto un errore a cui il governo deve al più presto rimediare.

Per crescere tagliare più spese

Per crescere tagliare più spese

Stefano Lepri – La Stampa

No, la manovra di bilancio del governo Renzi non è «espansiva». Avrebbe potuto essere nettamene restrittiva se si fosse dato ascolto in pieno alle richieste della Commissione europea uscente, a José Barroso e a Jyrki Katainen. E quando, a ragione, giudichiamo esagerati i loro timori, ricordiamoci che del tutto infondati purtroppo non sono. La capacità dei governi italiani di contrastare la recessione con interventi di bilancio (meno tasse, o investimenti utili) è pesantemente limitata dal fardello di debito pubblico che ci portiamo addosso. Pesa l’eredità di scelte sbagliate dei governi passati; soprattutto negli anni dal 1981 al 1991 e dal 2000 al 2004.

Nel momento attuale, con tassi di interesse bassissimi in tutto il mondo, è lontano il pericolo che il debito italiano diventi instabile; più remoto, appunto, di quanto si ostinino a credere alcuni a Bruxelles e molti a Berlino. Inoltre è poco probabile che si ripeta una crisi interna all’area euro come quella del 2011-2012. Tuttavia, l’Italia deve esercitare prudenza. Sarebbe eccessiva l’austerità impostaci dal «Fiscal Compact» europeo; la Banca d’Italia conferma che ritiene giustificato non rispettarla. Ma, come Ignazio Visco avvertiva venerdì scorso, una manovra apertamente espansiva adottata dalla sola Italia potrebbe «dar luogo a reazioni negative da parte dei mercati».

Così com’è all’esame del Parlamento, la legge di stabilità 2015 è espansiva solo nel senso improprio di accrescere il deficit rispetto alle leggi vigenti (riduce le tasse più di quanto riduca le spese, se si considerano gli 80 euro come sgravio). In senso proprio, si limita a «rallentare il processo di aggiustamento dei conti pubblici»; in assoluto il deficit continua a ridursi, su questo si fonda anche il giudizio dell’Istat. All’interno dei vincoli dati, è possibile aiutare la crescita se si tagliano spese poco produttive sostituendole o con sgravi fiscali efficaci o con investimenti pubblici di qualità. Su questo è legittimo chiedersi se il governo abbia fatto abbastanza; specie dopo che ha accantonato proposte significative sulla spesa, quelle sulle partecipate locali e sulle stazioni appaltanti.

Dalla politica peraltro non vengono alternative valide. La destra, a cui il presidente del Consiglio ha sottratto uno dei cavalli di battaglia, il calo dell’Irap, si mobilita contro le tasse sulla casa: ma a parità di risorse è molto più efficace sulla crescita pagare meno Irap o altri tributi sul reddito. Movimento 5 stelle e Lega Nord vorrebbero uscire dall’euro: però oggi se fossimo fuori il costo del debito sarebbe quasi certamente più alto, non più basso. L’opposizione di sinistra, ossia la Cgil, vorrebbe un piano massiccio di investimenti pubblici finanziato da una patrimoniale. A parte le ben note (anche a tecnici di sinistra) difficoltà di tassare patrimoni diversi dagli immobili, occorre riflettere su un recente sondaggio: in grande maggioranza gli italiani ritengono che per ridurre gli squilibri sociali sia meglio calare le tasse ai poveri che aumentarle ai ricchi.

Costruttive invece sono le obiezioni venute ieri dalla Banca d’Italia, sul limitato valore di alcune misure, sui possibili inconvenienti di altre. Indicano una urgenza di riforme più profonde, piena responsabilità tributaria degli enti locali, maggiori ambizioni di rinnovamento della scuola. Più oltre, nel 2016 e 2017, i conti tornano solo grazie ad una «clausola di salvaguardia» che impone gravosi aumenti di tasse (Iva al 25% e oltre) qualora non si riesca a ridurre le spese. Quella distanza di tempo è il luogo dove si incrociano le grandi variabili del nostro futuro: se cambierà l’Italia, se si romperà la gabbia di sfiducia tra Stati che soffoca l’Europa.

Uno stato che non vuole dimagrire

Uno stato che non vuole dimagrire

Gaetano Pedullà – La Notizia

Resistere, resistere, resistere. Più si rischia di finire asfaltati dalla storia – prima ancora che dalle riforme – e più l’imperativo è alzare le barricate per non sparire. E conservare i privilegi di sempre. Guardiamo all’ultimo allarme della Banca d’Italia. Il Governo prova a mettere il Tfr in busta paga per sostenere i consumi e Palazzo Koch cosa fa? Boccia tutto, gettando nel panico chi potrebbe essere presto chiamato a scegliere, avvisando che le pensioni saranno più povere. Beh, è evidente anche al più sprovveduto che le risorse utilizzate oggi non ci saranno domani. Quello che appare meno chiaro è cosa ci stia a fare oggi la Banca d’Italia, priva di competenze sulla moneta e sulla vigilanza bancaria. Buon senso vorrebbe che si sciogliesse, anche per risparmiare i molti milioni che brucia strapagando dal governatore all’ultimo dei suoi privilegiatissimi impiegati. Un rischio concreto, che bisogna scongiurare, magari prima che a qualcuno venga voglia di cambiare verso pure su via Nazionale. Una musica identica a quella che si sente dalle parti dei sindacati, delle Regioni, di una burocrazia che sa di aver fatto il suo tempo. Ma che di mollare non ci pensa proprio.

Renzi tassa più di Letta

Renzi tassa più di Letta

Franco Bechis – Libero

Al momento la differenza è di 10 miliardi di euro, cifra che è sicuramente destinata a cambiare quando finalmente sarà rivelata la relazione tecnica alla legge di stabilità 2015. Ma fino a quel documento – che non incide sui conti del 2014 – la differenza fra il governo di Matteo Renzi e quello di Enrico Letta è esattamente quella: 10 miliardi. E non è poco, perché si tratta di tasse. Con i suoi provvedimenti fino ad oggi il governo Renzi ha segnato nelle relazioni tecniche che li accompagnavano 13 miliardi e 414 milioni di euro di nuove entrate fiscali. Durante tutto il governo di Enrico Letta, con la sola esclusione delle clausole di salvaguardia future (che vengono contabilizzate solo quando scattano), le nuove entrate nette furono di 3 miliardi e 436,5 milioni di euro (anche in questo caso la fonte è nelle relazioni tecniche dei provvedimenti che accompagnavano disegni di legge e decreti).

Sarete sorpresi dal Renzi tassatore. Il premier in carica sostiene infatti di avere fatto la più grande operazione di alleggerimento della pressione fiscale nella storia di Italia. E si riferisce al suo bonus 80 euro e alla riduzione Irap per le imprese. Gli 80 euro sono effettivamente arrivati in busta paga. Ma tecnicamente quelli erogati nel 2014 non hanno toccato nemmeno di un decimale di punto la pressione fiscale prevista. Era un bonus, una sorta di elargizione da parte dell’esecutivo in carica proprio alla vigilia delle elezioni europee (che infatti hanno premiato Renzi e il suo Pd più o meno come al- l’epoca la scarpa donata ai napoletani prima del voto aveva premiato Achille Lauro e la dc dell’epoca). È stato contabilizzato in aumento della spesa pubblica fra i trasferimenti alle famiglie, e così è stato inserito anche nei provvedimenti di finanza pubblica del governo. Non è andato quindi a diminuire la pressione fiscale complessiva, come invece ha fatto (per cifre molto inferiori) lo sconto Irap alle imprese che ora verrà completamente riassorbito nei 5 miliardi del 2015 previsti dalla nuova legge di stabilità.

Il cosiddetto decreto sugli 80 euro (che comprendeva anche l’Irap) aveva invece in relazione tecnica 10,8 miliardi di maggiori entrate tributarie, altri 4,7 miliardi di maggiori entrate extratributarie e 7,2 miliardi di minori entrate tributarie. La variazione netta che si è portata dietro era di 8,3 miliardi di maggiori tasse. Tre di queste erano state conteggiate per l’aumento di sei punti dell’aliquota di tassazione sulle rendite finanziarie, che è passata dal primo luglio scorso dal 20 al 26 per cento. Al governo Renzi spetta la firma anche sul decreto che fa entrate in vigore la Tasi: è stato il suo primo provvedimento, e poco importa che sia conseguente alle previsioni della legge di stabilità precedente. In quel decreto veniva di fatto riassorbita l’Imu sulla prima casa che il governo Letta aveva cancellato nel 2013: si tratta di 3,7 miliardi di tasse in più sulle famiglie. Ma la cifra è indirettamente aumentata, perché il governo precedente aveva approvato un fondo da 500 milioni per il 2014 da girare ai Comuni finalizzato per legge alla concessione delle detrazioni prima casa e figli per le famiglie con redditi più bassi (per loro la Tasi rappresenta una stangata imprevìsta, perchè di fatto con le detrazioni prima l’Imu non la pagavano).

Come suo primo atto Renzi ha incrementato di 125 milioni di euro quel fondo per i Comuni, ma ha abrogato la finalizzazione.Via le detrazioni, è come fosse aumentata la pressione fiscale sulla prima casa per 625 milioni di euro. Nei mesi scorsi con altri due provvedimenti Renzi ha aumentato la tassazione dei tabacchi di 163 milioni di euro l’anno e – per finanziare l’Ace – le accise sulla benzina di 435,4 milioni di euro in più anni futuri (ma già decisi con legge). Altre piccole tasse messe vanno da quelle inserite nel decreto sulla cultura, al nuovo contributo unificato previsto per i pignoramenti, alle maggiori entrate contributive obbligatorie previste dal primo decreto sul jobs act.

Anche Letta non ha scherzato con le nuove tasse, ma è riuscito ben più del suo successore a equilibrarle con la cancellazione di altri tributi. Ha tolto l’Imu e inserito le detrazioni sulla Tasi (poi cancellate da Renzi). Nella sua legge di stabilità ha messo nuove entrate da 8,5 miliardi di euro (in parte sulle banche), e previsto cali di tasse per quasi 3 miliardi di euro al netto delle clausole di salvaguardia. In tutto 5,6 miliardi in più. Ma ha tolto tasse sulla prima casa e anche su alcuni immobili produttivi per quasi 4,5 miliardi di euro. Ha aumentato la tassazione sui giochi e concesso sgravi contributivi più o meno per la stessa cifra. Ha costretto le imprese ad anticipi di imposta anche consistenti per 655 milioni di euro. Si è trovato di fronte a una clausola di salvaguardia messa da Mario Monti sull’Iva. È riuscito a rimandarla di tre mesi con uno sgravio di 1,05 miliardi di euro. Non è riuscito a farlo per gli ultimi tre mesi dall’anno, con un aggravio identico. Sul 2013 il risultato netto è stato nullo.

LA SCHEDA

Sgravi e aggravi
A fronte di sgravi Irap concessi alle imprese pari a 4,1 miliardi di euro la legge di Stabilità ha cancellato di fatto tutti i benefici sulla medesima Imposta introdotti dal governo Letta: 1,9 miliardi.

Clausola capestro
Qualora in corso d’anno (2015) le previsioni contenute nella finanziaria non fossero rispettate scatterebbe la clausola di salvaguardia che farebbe scattare nuove tasse, sotto forma di Iva e accise. Ben 18 miliardi nel 2016, 24 nel 2017 e addirittura 28 l’anno successivo.

Tagli lineari
Sia sui ministeri sia sulle amministrazioni centrali viene operato un taglio che complessivamente vale 6,1 miliardi. Il meccanismo è quello del taglio lineare applicato dall’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti e tanto criticato.

Regioni spremute
Altri 4 miliardi di risparmi dovrebbero arrivare da «efficientamenti» della spesa nelle Regioni. In questo caso, addirittura, l’esecutivo non fissa neppure le linee guida degli interventi. La scelta spetterebbe ai governatori. Palazzo Chigi non ha tenuto conto nemmeno del lavoro svolto al riguardo dall’ex commissario alla spending review Cottarelli.

Regioni senza cassa, Stato in bolletta

Regioni senza cassa, Stato in bolletta

Roberto Sommella – Europa

Se si vuole cercare una data precisa per capire da quando le finanze pubbliche hanno cominciato a prendere una brutta piega, non ci si può sbagliare. è il primo gennaio 2002, l’anno della nascita dell’euro e della concreta attuazione della riforma del titolo V della Costituzione. Se l’avvento della moneta unica ha comportato un passaggio storico in termini di minore costo del denaro, dall’altra ha segnato una costante devoluzione dei poteri economico-monetari alle istituzioni comunitarie.

La stessa cessione di sovranità che è avvenuta in contemporanea a favore delle regioni, sulla base della nuova suddivisione delle funzioni legislative tra stato centrale e periferico. è allora che si è aperta la forbice che sta ora dilaniando i rapporti tra il governo (Renzi arriva buon ultimo dopo Berlusconi, Monti e Letta) e i governatori. Il primo, a causa della crisi finanziaria del 2008 e della recessione che dura dal 2011, ha dovuto varare manovre per oltre 200 miliardi di euro, soprattutto fatte di tasse, per ottemperare ai Trattati. I secondi, si sono trovati a fare i conti con una situazione sempre più precaria dal punto di vista dei trasferimenti dello Stato alle regioni, governando di fatto in mezza Italia uno situazione di pre-default finanziario.

In sostanza, con la riforma fatta a maggioranza dal centrosinistra nel 2001, mentre lo Stato centrale si consegnava mani e piedi alle rigide regole di bilancio di Bruxelles e di Francoforte, inevitabilmente indebolendosi, dall’altra gran parte del peso della gestione amministrativa locale si spostava sulle spalle di regioni ognuna diversa dalle altre, in un federalismo del tutto incompiuto. Con il risultato all’amatriciana: abbiamo i lander, ma chi li presiede non ha poteri compiuti dal punto di vista della devolution fiscale né dei costi standard da applicare alla spesa per beni e servizi. Sono proprio questi gli anni (dal 2001 ad oggi) in cui, non sarà un caso, il debito pubblico italiano è passato da 1.620 miliardi di euro (solo il 108% del Pil) a 2.148 miliardi (oltre il 133% del Pil, ora 127% per via dei nuovi criteri di calcolo Eurostat): in termini assoluti, 528 miliardi in più, uno score catastrofico.

Eppure basta rileggersi con attenzione l’articolo 117 della Costituzione, novellato proprio da quella revisione di inizio millennio, per capire che si sarebbe andati a sbattere. È lunghissima e piena di ricadute finanziarie la lista delle cosiddette materie “di legislazione concorrente” e cioè di competenza esclusiva delle regioni, un mare magnum che soffoca ogni logica senza un adeguato sistema di controlli ex ante della spesa e un analogo potere impositivo territoriale, che permetterebbe agli elettori di giudicare i propri amministratori anche e soprattutto dal punto di vista dei servizi offerti. Vale la pena ricordarli, solo per farsi un’idea della mostruosità e economica e forse anche giuridica. Rapporti internazionali e con l’Unione europea; commercio con l’estero, tutela e sicurezza del lavoro; istruzione (salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale); professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Gran parte di queste mansioni va gestita con i soldi dello Stato centrale. Un’assurdità.

L’interminabile elenco spiega più di tante altre parole come sia potuto accadere che oggi, nel 2014, lo Stato abbia un debito pubblico che lo impegna per 80 miliardi di euro di interessi all’anno e ben sei regioni (Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Molise, Sicilia) siano costrette ad attuare forzosi piani di rientro dal deficit sanitario che per alcune di esse supera e di molto il miliardo di euro. Spetta alla Corte dei conti, ma solo a babbo morto e quindi ex post, cercare di fare luce su una situazione al limite del collasso; ai governi, come quello attuale, tocca invece il gravoso compito di chiedere sacrifici anche agli amministratori locali tagliando, come nel caso della legge di stabilità, 4 miliardi su 36 di computo totale.

È una strada ancora percorribile quella di impugnare le forbici a palazzo Chigi quando molti poteri (persino molti beni, come nel caso della devolution immobiliare) sono volati via? Se si ragiona nell’ottica dei sacrifici necessari data l’urgenza del momento, la risposta è affermativa. Ma in un’ottica di lungo periodo diventa impossibile andare avanti così. Esecutivo e amministratori regionali devono mettersi intorno ad un tavolo non tanto per avviare il consueto balletto di modifiche ai tagli inseriti nella manovra, quanto per porre mano alla doverosa e non più procastinabile revisione della riforma del Titolo V. Se è vero che senza rappresentanza non può esserci tassazione, a maggior ragione senza poteri fiscali non si possono delegare funzioni cruciali del vivere sociale a mega-organismi dai piedi (e dai bilanci) d’argilla. Questo al netto degli scandali che hanno colpito quasi tutti i consigli regionali e delle inchieste che ne seguono in alcuni casi l’evolversi. Lo Stato è diventato una Ferrari che deve consumare come una Panda, il sistema delle Regioni è l’esatto contrario. La benzina è la stessa e sta finendo per tutti.

Il Fus resiste (o no?)

Il Fus resiste (o no?)

Marco Valerio Lo Prete – Il Foglio

Ammesso pure che per le regioni non ci sia la possibilità di “scontare” risorse dai fondi aggiuntivi per la sanità concordati con l’esecutivo, alcuni governatori adesso si mostrano pronti in linea di principio ad accogliere la sfida di Renzi. Il presidente della Toscana, Enrico Rossi, ieri ha annunciato per esempio l’intenzione di “riorganizzare il servizio in tre aziende sanitarie ospedaliere universitarie al posto delle attuali 16. Tuttavia – e questa per certo sarà la seconda linea di difesa rispetto all’esecutivo – anche le riorganizzazioni più drastiche richiedono tempo per generare risparmi. Linea cui si potrebbero opporre alcuni dati pubblicati dalla Corte dei Conti, non esattamente un bastione di turbocapitalisti prevenuti con la Pubblica amministrazione: dal 2003 al 2008, cioè alla vigilia dell’inizio della crisi, la spesa regionale è cresciuta dell’53 per cento all’anno, con una frenata soltanto a partire dal 2009. Poi ci sono vicende patologiche che arrivano ai giorni nostri, e che contraddicono la retorica di chi agita lo spauracchio degli ospedali da chiudere: la stessa Corte dei Conti infatti, nella sua Relazione sulla gestione finanziaria delle regioni, osserva che “spesso i bilanci regionali si giovano delle risorse destinate alla sanità per far fronte ad esigenze di liquidità in altri settori”.

Non a caso alcune regioni tentano timidamente di differenziare la propria posizione rispetto a quella del “Fronte unico spendaccíone”: “Il fronte unico si forma per contrastare la palese irragionevolezza della proposta – dice al Foglio Massimo Garavaglia, assessore all’Economia della Lombardia, già deputato e senatore della Lega nord – Dopodiché al governo, che nella legge di stabilità propone di suddividere i 4 miliardi di tagli in base a popolazione e pil delle diverse regioni, chiediamo piuttosto di applicare i “costi standard”. Garavaglia fa un esempio, diverso da quello più noto della siringa che ha un costo diverso da Asl a Asl: “In Lombardia la spesa pro capite per il personale e di 19,8 euro. Quella della Basilicata è di 97,1 euro. Ridurre la spesa in modo ragionevole vorrebbe dire per esempio portare tutti e due a 18 euro, così da accrescere i risparmi. E non invece concedere con la stessa legge di stabilità 40 milioni di euro, o 1.200 euro pro capite alla sanità del Molise solo perché alla vigilia di un voto locale”. L’esecutivo della regione Lombardia, inoltre, è certo di avere “la giurisprudenza” dalla propria parte: già nel 2013, conclude infatti Garavaglia, la Corte costituzionale si è espressa contro i tagli lineari alle regioni. Procedere con la legge di stabilità di oggi vorrebbe dire dunque andare incontro a un’altra bocciatura, facendo automaticamente mancare le coperture per le misure dell”esecutivo Renzi.

I quattro filtri

I quattro filtri

Giuseppe Turani – La Nazione

Il premier Renzi è uno che corre veloce, e infatti anche la sua Legge di Stabilità è arrivata in perfetto orario. Adesso, però, la corsa rallenta obbligatoriamente: infatti l’aspettano ben quattro filtri importanti. Il primo è quello della coerenza delle cifre. Si sa che Renzi ha molta voglia di fare e quindi è possibile che da qualche parte si sia stati un po’ larghi. Oggi, però, c’è il testo definitivo e chiunque (opposizione compresa) potrà valutare se c’è coerenza fra quello che si promette di spendere e quello che si spera di incassare. È un esame che sarà fatto da economisti, giornali, opinione pubblica: tutta gente che non ha ruoli istituzionali ma che conta in un paese in cui tutti si sentono commissari tecnici della Nazionale e primi ministri.

Il secondo  filtro sarà probabilmente il più severo. Si tratta infatti dei guardiani dell’Unione europea fra cui spiccano tedeschi e esponenti dei paesi nordici. In pratica dei puritani del bilancio pubblico in ordine. Si può star certi che nei confronti della prima Legge di Stabilità di Renzi saranno attentissimi. E non disposti a fare sconti. È vero che il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan dovrebbe rappresentare un buon scudo. Oltre a essere un uomo di riconosciuta prudenza e ben noto negli ambienti internazionali, tutti sanno che non avrebbe mai firmato una legge tenuta insieme con lo spago e gli elastici. Però questa Legge è, in buona sostanza, un bilancio di previsione: sta insieme se le previsioni che si sono fatte, a proposito ad esempio della crescita economica (e quindi delle entrate fiscali) sono ragionevoli. In questi ultimi anni l’Italia è diventata famosa per mettere nero su bianco previsioni di crescita manicomiali: a un certo punto si era persino detto che quest’anno avremmo avuto una crescita dell’l,1 per cento. Invece andremo indietro dello 0,3 per cento, ma c’è anche chi parla dello 0,4 per cento. Su questo punto, che poi è il cuore della Legge di Stabilità, si può stare certi che il confronto con di Bruxelles non sarà semplice.

Il terzo filtro è rappresentato dal Parlamento. E qui la faccenda si complica. Per due motivi. In primo luogo c’è che i deputati approfittano sempre dell’arrivo della Legge di Stabilità per cercare di infilarvi dentro qualcosa per i loro protetti. Ma c’è un altro aspetto parlamentare da tener presente. Non è un mistero che a molti deputati e senatori questa manovra non piace. Inoltre c’è una certa quota di onorevoli che farebbe qualunque cosa pur di vedere Renzi ruzzolare insieme alla sua Legge di Stabilità. Il confronto parlamentare, quindi, sarà una prova politica fra le più difficili per il premier.

Infine c’è l’ultimo filtro: i sindacati. Renzi ha dato l’impressione, fin qui, di non curarsene molto, a causa della loro relativa impopolarità presso gli elettori. Però, se alla fine ci si trova davvero con un milione di persone in piazza e con la prospettiva di uno sciopero generale, bisognerà inventarsi qualcosa. Non sono più i tempi del governo Rumor, quando bastava l’annuncio di uno sciopero generale per provocare le dimissioni del governo. Però, insomma, non si potrà nemmeno cavarsela con due battute e tre tweet. Oggi nessuno può dire che cosa resterà della Legge di Stabilità dopo il passaggio in questi quattro filtri. Si sa solo che “qualcosa” entro la mezzanotte del 31 dicembre va approvato.

Un terzo degli ospedali nella lista degli sprechi. Persi 4 miliardi all’anno

Un terzo degli ospedali nella lista degli sprechi. Persi 4 miliardi all’anno

Paolo Russo – La Stampa

Ospedali spreconi e pericolosi. Perché mantengono in piedi reparti che vanno sotto giri e che dovrebbero chiudere i battenti o essere riaccorpati. E perché fanno così poca pratica da mettere a rischio gli ignari pazienti. Mentre le regioni continuano a battere cassa con il governo, il ministero della Salute presenta il «Piano esiti», fotografia delle performance dei nostri ospedali che, nonostante qualche miglioramento rispetto agli anni precedenti, descrive un quadro ancora desolante. Oltre che a rischio per migliaia di pazienti. Quelli che vanno a ricoverarsi in reparti che trattano meno casi degli standard minimi di sicurezza fissati da fior di studi internazionali. Quanti sono ogni anno li hanno calcolati i tecnici del dicastero: 48mila e 500 ogni anno. Per cose come by pass aortocoronarico (77% degli ospedali sotto la soglia dei 200 interventi), al colon (79% sotto la soglia di sicurezza di 50 interventi), al polmone (84% sotto i 100 interventi), alla mammella (76% sotto i 150 interventi), allo stomaco (84% sotto i 20 interventi). E i grafici dimostrano che la curva della mortalità sale proporzionalmente con il diminuire dei pazienti trattati.

Un vizietto, quello di mantenere in piedi i reparti inutili e costosi, che si stima riguardi circa un terzo dei nosocomi italiani. Uno spreco, oltre che un rischio. Così come soldi buttati sono quelli per i ricoveri inappropriati. Ad esempio una colecistectomia operata in via laparoscopica, ossia senza bisturi, andrebbe trattata in day surgery, ovvero senza ricovero, ma solo il 15% degli ospedali lo fa. E così via per broncopneumopatia, interventi alle tonsille, isterectomia. In qualche ospedale si occupano letti persino per una banale gastroenterite pediatrica.

Tra reparti da sbaraccare e ricoveri inutili l’Agenas, l’Agenzia per i servizi sanitari regionali, stima uno spreco tra i 3 e i 4 miliardi. Guarda caso gli stessi che Renzi ha chiesto alle regioni. Che per la Lorenzin «non possono intervenire sul Fondo sanitario che la legge di stabilità conferma per il 2015 a 112 miliardi». Due in più di quest’anno. Ma su ricoveri a rischio o inappropriati il ministro non fa sconti ai Governatori: «disparità e differenze tra regioni non sono più accettabili» e i direttori generali delle Asl che non si adegueranno agli standard virtuosi del «Piano esiti» stiano attenti perché «sarà il ministero questa volta a commissariarli». Una minaccia alla quale il Presidente della federazione di Asl e ospedali (Fiaso), Francesco Ripa di Meana, replica ricordando che «nonostante i coni d’ombra un miglioramento delle performance c’è stato è questo è frutto della spending condotta dalle aziende sanitarie in questi anni».

Che la nostra sanità marci a velocità diverse da un’area all’altra del Paese lo dimostra una elaborazione della regione Toscana sui dati del Piano esiti. Il maggior numero di ospedali con le migliori performance fa salire in ordine sul podio : la Valle d’Aosta, la stessa Toscana (che sarebbe prima calcolando che ha anche il minor numero di quelli sotto gli standard) e Trento. Seguite a ruota da Emilia Romagna, Friuli, Lombardia e Piemonte. Leggendo la classifica al contrario, ossia per numero di ospedali con i peggiori standard, maglia nera è la Campania, seguita da Calabria, Puglia e, a sorpresa, Bolzano. Medie che ancora non dicono però tutto sulle disparità tra una struttura e l’altra. Un by pass coronarico dovrebbe oramai essere una passeggiata. E lo è al San Michele di Gemona in Friuli e all’Ospedale di Orbetello in Toscana, dove la mortalità è pari a zero. Non certo ai Santissimi Anna e Sebastiano di Caserta, dove la mortalità è di un raccapricciante caso su dieci. Oppure prendiamo la frattura al femore. Se non viene operata entro le 48 ore si rischia di rimanere in carrozzella o peggio ancora. Essere tempestivi insomma non è un optional. Ma oltre la metà degli ospedali italiani quel termine non lo rispetta.

Noi scudi umani

Noi scudi umani

Giovanni Morandi – Il Resto del Carlino

Per capire se ha ragione Renzi a tagliare 4 miliardi alle Regioni o le Regioni che non ne vogliono sapere potremmo fare un referendum. E già che ci siamo potremmo chiedere se abbia ancora senso tenersi questi baracconi inutili per i cittadini, ma utilissimi per coloro che vi mettono piede e scoprono di poter vivere a nostre spese. Amara conclusione di un’età in cui c’era chi aveva il cuore verde di passione, almeno fino a quando non si sono accorti che era una passione che viaggiava cash per le spesucce più varie, per i figli, le amanti, gli amici, le case, le auto da corsa, le lauree in Albania e cose del genere.

Qualcosa mi dice che se si votasse le cose si metterebbero male per quelli che in modo altisonante amano farsi chiamare governatori. Governatore è colui che governa, ma che cosa governano questi che per loro ammissione sono solo passacarte, intermediari tra Stato e strutture sanitarie verso le quali va il 75 per cento del loro bilancio? Ci costano 180 miliardi e se li abolissimo sicuramente risparmieremmo. Potrà essere sgradevole dire queste cose ma è inevitabile dopo aver visto la loro scomposta reazione appena hanno saputo che le loro casse sarebbero state tagliate, sebbene nemmeno di tanto. Hanno fatto le vittime. Come se gli italiani non ricordassero gli scandali con le centinaia di politici che pensavano a far la bella vita non alla salute nostra. Per non parlare di quella truffa che sono le Regioni a statuto speciale, dove lo spreco è istituzionalizzato. Perché dovrebbero avere più denaro delle altre? 150 milioni solo per il consiglio regionale siciliano.

I governatori pensavano di prenderci come scudi umani, o ci date quei 4 miliardi o togliamo le spese alla sanità. Un’uscita che si chiama solo in un modo: ricatto. Ci provino, se ne accorgeranno. La verità è che la levata di scudi ha dimostrato che si sono solo preoccupati di difendere il proprio status, per continuare a disporre di fiumi di denaro. Ha fatto male Renzi a pensare che indicando il saldo del taglio le Regioni avrebbero deciso da sole come disporre della propria quota di denaro. L’unica cosa invece che hanno detto è stata: e noi aumentiamo le tasse. Ci provino e così vedranno come si sloggia dai grattacieli che si sono costruiti. Altra cosa sono i Sindaci, è vero che ci sono migliaia di Comuni microscopici, ma i sindaci e i Comuni rappresentano identità, storie specifiche, appartenenze, culture, sono le radici della nostra società e vanno conservati, tutt’altra cosa dalle Regioni che, in quanto enti non in quanto territori, non hanno mai rappresentato nessuno se non quel sottobosco politico che trovava in quei grattacieli un motivo di consolazione ben remunerato.

Quarant’anni di storia delle Regioni non sono bastati a dare loro un senso alla loro esistenza. Sono sempre state, sono e saranno solo enti per burocrati gonfi di denaro pubblico. Che ci siano o non ci siano, non fa nessuna diflerenza. Solo la spesa cambia. Se non ci fossero i finanziamenti andrebbero direttamente alle strutture sanitarie, anziché passare prima dalle Regioni che poi provvedono a ridistribuirli. È un passaggio in più e un risparmio in meno.