statali

Debito, tasse e statali: le tre mosse per far ripartire il Paese

Debito, tasse e statali: le tre mosse per far ripartire il Paese

Carlo Pelanda – Libero

Nei prossimi 3 anni l’Italia galleggerà a pelo d’acqua. Tutte le proiezioni correnti prevedono una crescita attorno allo 0,5% nel 2015 e a cavallo dell’1%, più sotto che sopra, nel 2016-17. Meglio che affondare? Attenti, stagnazione prolungata significa impoverimento sistemico: figli che migrano, figlie costrette ad umiliarsi. Possibile? Il governo non sta alleggerendo i pesi che soffocano la crescita. Infatti l’uscita dalla recessione nel secondo trimestre 2015 non sarà spinta dalla politica economica, ma da fattori diversi: (a) la svalutazione dell’euro che facilita l’export e l’importazione di turismo; (b) un minimo aumento dei consumi dovuto al fatto che tante famiglie, pur con poca fiducia nel futuro, dovranno comprare una nuova auto o il guardaroba del bimbo che cresce, ecc., cioè il fenomeno della «ripresa passiva»; (c) un leggero miglioramento del credito grazie alla stimolazione monetaria della Bce; (d) una riduzione (temporanea) dei costi dell’energia importata. L’insieme di questi fattori potrebbe dare una spinta ben maggiore alla crescita, ma il mantenimento di pesi fiscali eccessivi farà continuare la caduta recessiva di parte del mercato interno. Pertanto la somma tra fattori di spinta e caduta mostra come risultato un misero 0,5% nel 2015, cioè il galleggiamento, poi seguito dalla «stabilizzazione destabilizzante» della stagnazione.

La stimolazione
Un’analisi simile ha portato S&P a declassare l’affidabilità di lungo termine del debito italiano, nell’ambito di una previsione di non peggioramento nel medio termine. Significa che l’Italia in mero galleggiamento potrà ripagare il debito nei prossimi due o tre anni, ma che poi, senza cambiamenti, potrebbe non riuscirci più perché dopo recessioni e stagnazioni prolungate è probabile, senza discontinuità di modello, una spirale depressiva. Mi spiace considerare di efficacia nulla l’azione del governo Renzi che sta rompendo tanti tabù, ma la verità è che il suo progetto di stimolazione economica è e sarà insufficiente: sposta le tasse senza ridurle, modifica in modo irrilevante le norme protezioniste sul lavoro e, soprattutto, mostra poca reattività concreta alla crisi. Ed è ovvio: una maggioranza di sinistra, anche se guidata da un pragmatico, non vorrà mai ridurre le tasse in quanto i suoi elettori in stragrande maggioranza vivono di denaro pubblico. Il punto: senza detassazione stimolativa, cioè senza trasferire una gran massa di capitale dall’intermediazione burocratica al mercato, non sarà possibile invertire la stagnazione-declino. Italia condannata? Non necessariamente, perché la maggioranza degli italiani vive di mercato e se fosse possibile condensare in forma politica la rappresentanza dei loro interessi vi sarebbe il consenso per un’operazione mega-stimolativa: (1) abbattimento della spesa pubblica di circa 100 miliardi; (2) riduzione delle tasse di 70, lasciandone 30 di margine al servizio dell’equilibrio di bilancio; (3) abbattimento di circa 500 miliardi del debito pubblico (2.100 miliardi, circa) con una operazione «patrimonio contro debito» (ripagare parzialmente con obbligazioni basate sul rendimento del patrimonio pubblico i possessori di titoli invece di emettere nuovo debito) allo scopo di portarlo vicino e poi sotto al 100% del Pil, così risparmiando ¼ della spesa annua per interessi nonché altri soldi per il rifinanziamento del debito residuo grazie ad un aumento del rating.

La simulazione
Questi numeri sono usciti da una simulazione, continuamente aggiornata dal 2010, fatta dal mio gruppo di ricerca con l’obiettivo di trovare le quantità allo stesso tempo utili e possibili per invertire il destino dell’Italia, in costanza dei vincoli europei. Semplificando, con tale operazione l’Italia volerebbe rapidamente verso una crescita prolungata oltre il 3% annuo perché la tassazione (totale) sulle imprese andrebbe al 20% e quella sulle famiglie sarebbe ridotta di almeno 1/5. Non dovrebbe essere fatta tutto e subito, ma basterebbe renderla credibile per far scontare al mercato immediatamente il buon esito futuro, bilanciando così con un effetto fiducia – che scongela il risparmio – l’impatto deflattivo momentaneo del taglio di spesa. Il dissenso da parte degli statalisti sarà violento. Ma dobbiamo dirci la verità: senza una tale operazione, che per altro non riduce la socialità dello Stato, l’Italia è finita. Suggerisco, infatti, di chiamare l’operazione tecnica detta sopra «operazione verità», luce che spero illumini il popolo del mercato affinché si compatti e salvi se stesso e la nazione sostenendo l’unica soluzione veramente efficace.

Sanità e dipendenti, tutti i tagli possibili per le Regioni sprecone

Sanità e dipendenti, tutti i tagli possibili per le Regioni sprecone

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

«Discuto con tutti, ma le Regioni facciano la loro parte perché hanno qualcosa da farsi perdonare». Il premier Matteo Renzi non vuole toccare l’impostazione della Legge di Stabilità, ma dovrà fare i conti con un mostro a venti teste (21 se includiamo il superautonomo Alto Adige). Quei 4 miliardi di tagli previsti sono stati proprio maldigeriti, anche se, a conti fatti, si tratterebbe di solo di risparmiare 2 miliardi in quanto le dotazioni per il Fondo sanitario nazionale che viene ripartito tra gli enti locali è stato aumentato di 2 miliardi per l’anno prossimo.

Ed è proprio da quei 110 miliardi che l’anno prossimo saliranno a 112 che si potrebbe partire per tagliare qualche spreco. Non foss’altro perché tale maxistanziamento finisce sempre per rivelarsi insufficiente, tant’è vero che alla fine del quarto trimestre 2013 – sia che fossero sotto piano di rientro sia che non lo fossero – le Regioni hanno accumulato altro deficit sanitario per circa un miliardo, un terzo dei -3 miliardi del 2012. Tra il 2002 e il 2013 la spesa sanitaria è cresciuta in media del 3% annuo a fronte di un incremento medio annuale del Pil dell’1,7 per cento. Non c’è stata, perciò, proporzionalità tra le due variabili. Anche se è in lenta discesa il costo del personale sanitario ammonta ancora a 36 miliardi, mentre l’acquisto di beni e servizi (ivi inclusa la farmaceutica) è in costante aumento e l’anno scorso ha toccato quota 29,2 miliardi. Se una sanitaria perugina (lo hanno testimoniato Le Iene mercoledì scorso) vende un plantare per bambini a 69 euro a un privato e a 172 euro alla Asl? Ci sarà un motivo se una colonscopia costa circa 103 euro in tutta Italia e ben 175 in Val d’Aosta? La risposta sarebbero i famosi costi standard, ovvero l’allineamento ai criteri di economicità dei servizi, ma chissà perché in ambito sanitario hanno fatto quasi tutti orecchie da mercante.

I governatori non riescono inoltre a fare molta economia nemmeno sul personale dipendente. Secondo uno studio di Confartigianato, oltre 25mila dipendenti sono di troppo (la sola Sicilia ne conta 19mila, più di quelli del governo britannico), un surplus che costa 2,5 miliardi di euro. Ancor più severa è stata Confcommercio che non ha misurato solo i costi del sistema-Regioni, ma anche la loro produttività. Ebbene, prendendo come esempio la virtuosa Lombardia con 2.651 euro di spesa pro-capite (il livello più basso a fronte di buoni servizi e il 23% di personale in meno rispetto alla media italiana), si potrebbero risparmiare ben 82,3 miliardi di euro. Un quarto di questo sbilancio si concentra in Sicilia (13,8 miliardi) e in Calabria (6,4 miliardi), anche se la spesa pro capite più elevata è quella di Trentino (3.669 euro) e Valle d’Aosta (5.400 euro, oltre il doppio di Milano & C.). Sì, c’è molto da farsi perdonare se, ad esempio, la Regione Calabria ha buttato decine di milioni in assegnazione di incarichi dirigenziali e di contratti di consulenza a soggetti privi dei requisiti necessari.

E va ancora peggio se si considera la giungla delle oltre 400 partecipate regionali. Oltre 100 milioni di perdite, 1,5 miliardi erogati a vario titolo e una decina di miliardi di indebitamento a carico della collettività. Non fossero poco più che stipendifici avrebbero anche un senso, ma se si ricordano i fallimenti dei corsi di formazione e il proliferare di competenze, soprattutto in ambiti strategici come il turismo non se ne può uscire soddisfatti. Ecco, i governatori hanno tutti moltissimo da farsi perdonare. Nessuno, però, lo ammetterà mai: molto più facile aumentare le addizionali.

Statali, un esercito in ritirata

Statali, un esercito in ritirata

Giusy Franzese – Il Messaggero

Colletti bianchi e tute blu in picchiata. Le politiche di austerity con il blocco del turnover nel settore pubblico e la crisi nera nel settore privato stanno decimando i principali due battaglioni dell’esercito dei lavoratori italiani: travet e operai. Ma copiose sono anche le emorragie in altri comparti: dagli apprendisti alle colf, fino ai lavoratori autonomi. A fotografare disagi e difficoltà di un’Italia stremata dalla lunga crisi è il bilancio sociale Inps 2013 illustrato ieri a Roma. Una presentazione interrotta (e poi ripresa) dalle proteste di alcuni precari che hanno fatto irruzione sul palco contestando il ministro del Welfare Giuliano Poletti e il Jobs act.

Emorragia di statali
Nel 2013 i dipendenti pubblici sono calati di altre 64.000 unità, proseguendo un trend iniziato già da anni. Basti pensare che nel 2008 erano 3 milioni e 436.000 e adesso sono 3 milioni e 39.536. La flessione comunque inizia a rallentare: nel 2012 il calo era stato doppio (130.000). In realtà il 2013 è stato l’annus horribilis soprattutto per gli operai: i dipendenti privati sono diminuiti di 313.000 unità, di questi ben 230.000 sono tute blu (-3,5%). Le aziende non assumono più nemmeno gli apprendisti (-4%) e crollano anche i lavoratori auto- nomi (-15,7% gli iscritti alla gestione separata dell’Inps). Con l’aumento dei disoccupati sono lievitate le spese per gli ammortizzatori sociali, arrivate a 23,5 miliardi di euro (+4,1%). Tra cassa integrazione, disoccupazione e mobilità l’Inps ha assistito ben 4,5 milioni di persone (mezzo milione in più rispetto al 2012).

Italiane con la ramazza
Per tamponare le minori entrate familiari e le paure di un futuro opaco, le famiglie hanno iniziato a risparmiare nella spesa per aiuti domestici, le colf per molti sono diventate un lusso che non ci si può più permettere: sono 43.000 in meno rispetto al 2012 (-5,4%). Ma nel saldo si nota anche un altro fenomeno che sembra riportare il calendario a oltre 40 anni fa: aumentano le italiane che per sbarcare il lunario accettano lavori di collaborazione domestica (+2,8% rispetto al 2012). Le colf italiane restano comunque una minoranza: solo il 21% (su un totale di 749.840).

Troppo poveri
Resta sempre troppo affollata la platea di pensionati che vive con meno di mille euro al mese: 6,8 milioni di persone, il 43,5% del totale (erano 7,2 milioni nel 2012) e di questi ben 2,1 milioni non arriva a 500 euro. I pensionati ricchi, con assegni superiori ai 3.000 euro al mese, sono 676.000 (il 4,3%) e assorbono ben 38 miliardi di euro (contro i 52,4 spesi per i 6,8 milioni di pensionati poveri). Intanto iniziano a vedersi i primi frutti della riforma Monti-Fornero: le pensioni liquidate nel 2013 sono costate il 12,7% in meno rispetto al 2012, un risultato ottenuto dal combinato disposto tra il calo del numero dei nuovi pensionati (-5,3%) e la riduzione dell’importo medio mensile (-7,9%). I conti dell’istituto comunque restano in rosso (8,7 miliardi di euro) ma registrano un miglioramento di circa un miliardo rispetto al 2012 quando il disavanzo fu di 9,7 miliardi.

Miraggio assunzione per 3mila statali

Miraggio assunzione per 3mila statali

Luca Cifoni – Il Messaggero

Tremila vincitori di concorso che hanno qualche possibilità di essere assunti, anche se i tempi sono tutti da definire. E 84 mila idonei che appaiono in buona parte destinati ad uscire dalle graduatorie. Il governo ha fatto il punto sulla situazione dei concorsi pubblici del passato pubblicando sul sito del Dipartimento della Funzione pubblica i primi risultati di una rilevazione condotta tra le varie amministrazioni, comunque incompleta e destinata ad essere aggiornata con altri dati.

La procedura attivata nasce da un provvedimento di oltre un anno fa, il decreto sulla pubblica amministrazione voluto dal precedente governo. In quel testo era stata prorogata fino al 31 dicembre 2016 la validità delle vigenti graduatorie dei concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato. Veniva poi prevista la ricognizione delle graduatorie stesse, in particolare per individuare al loro interno coloro che avessero lavorato come dipendenti pubblici con contratto a tempo indeterminato, maturando quindi anzianità. Con l’obiettivo di ridurre il ricorso ai contratti a termine la legge ipotizzava una possibile assunzione a tempo indeterminato di queste persone, sulla base delle disponibilità finanziarie che avrebbero dovuto essere precisate da un decreto (di concerto tra ministero della Pubblica amministrazione ed Economia) da adottare entro il 30 marzo 2014. Ad oggi questo decreto non risulta emanato e dunque tutta l’operazione appare ancora in alto mare.

Cambio di strategia
Se non che nel frattempo il nuovo governo, mosso evidentemente da priorità diverse da quelle che avevano spinto l’allora ministro D’Alia a scegliere questa strada, ha approvato un altro decreto legge di riforma della pubblica amministrazione e poi un disegno di legge che si trova attualmente all’esame del Senato. In quest’ultimo tra i principi per la revisione dei concorsi pubblici vengono indicati: «definizione di limiti assoluti e percentuali, in relazione al numero dei posti banditi, per gli idonei non vincitori; riduzione dei termini di validità delle graduatorie». Insomma in particolare sugli idonei la linea non sembra la stessa che aveva originato la necessità della ricognizione. Nel dettaglio, la gran parte delle posizioni nelle graduatorie si riferiscono al mondo della sanità e delle autonomie locali: quasi 2.200 su 3 mila per quel che riguarda i vincitori, oltre 67 mila su 84 mila tra gli idonei. Tra le amministrazioni centrali, spicca il ministero della Difesa che ha 252 vincitori da assumere e 346 idonei per l’eventuale assunzione. Un numero analogo di idonei (ma non di vincitori da assumere) si trova ai dicasteri dell’Istruzione e dello Sviluppo economico.

Il comparto sanitario
Nel comparto sanitario ci sono, tra gli altri, 170 vincitori da assumere nei servizi di emergenza (118) e 118 nella sola Asl di Bergamo. Quanto agli idonei per l’eventuale assunzione, il singolo ente che ne conta di più è 1’ente per i servizi tecnico amministrativi di area vasta del Centro, con 2.846, mentre gli ospedali riuniti di Ancona ne hanno 1.356 e l’azienda sanita- ria provinciale di Palermo 1.136. Tra gli enti locali attira decisamente l’attenzione il caso di Roma Capitale. Su 1.410 posti banditi, risultano assunti solo 307 vincitori; di conseguenza sono 1.013 quelli che ancora aspettano di vedersi assegnare un posto. E sono stati censiti 2.921 idonei per un’assunzione che si presenta però alquanto remota. Decisamente più contenuti i numeri del Comune di Milano, che ha non ha vincitori ancora da assumere ma 928 idonei potenzialmente candidati.

Controllori distratti

Controllori distratti

Pier Francesco De Robertis – La Nazione

Eravamo rimasti ai quarantacinque giorni di ferie dei magistrati (che poi sono trenta più quindici per stendere le sentenze, come se nel resto dell’anno non fossero pagati per quello) ma scopriamo che non era solo quello. Nell’universo dell’impiego pubblico c’è di tutto, specie nel “particolare”, quando le dimensioni dell’ente dell “erogatore” sono modeste e tutto possa più facilmente sotto silenzio. Perché piccolo non sempre è bello, almeno molto poco bello per la decenza. Ci sono le indennità speciali ai musicisti per muovere la testa, quella ai vigili urbani per stare in strada, ad alcune categorie di impiegati per essere presenti.

Un vero e proprio bestiario, che alle prime cinque righe dell’elenco fa un po ridere ma alla sesta fa già montare la rabbia. Tutti piccoli bonus via via elargiti da politici spreconi in cerca di consenso o dirigenti di enti lirici e similari per assicurarsi una pace sindacale. Non si capisce perché gli insegnanti non debbano avere uno speciale riconoscimento per stare in classe con gli studenti, gli stradini uno per ricoprire le buche, i forestali per andare nei boschi. Magari qualche comune o regione ci avrà anche pensato, quegli stessi che poi piangono con il governo perché mancano i soldi dallo stato centrale e si devono chiudere gli asili.

Ma il punto non è(solo) questo. I punti sono due: il primo è una ormai inconcepibile discrepanza di trattamento tra dipendenti pubblici e dipendenti privati (lo sappiamo tutti benissimo: non c’e azienda privata che avrebbe riconosciuto simili indennità); il secondo è la mancanza di controlli veri ed efficaci “centrali” sui livelli di contrattazioni periferiche. L’autonomia va bene, ma a patto di non sforare il ridicolo e sfondare l’erario. Riguardo al primo punto ricordiamo che è in atto da parte del governo una riforma della pubblica amministrazione, la famosa riforma Madia: evidentemente è il caso che la delega all’esame del Parlamento si occupi anche di questi aspetti che non sono secondari. Nel secondo aspetto citato, la domanda è: ma dove sono i controllori tipo Corte dei conti o organismi simili? Anche in questo caso girati dall’altra parte oppure mancano gli strumenti legislativi per permettono un intervento? Sia come sia, è il caso di rimediare. In fretta.

Macché pensione, trasferiamo gli statali

Macché pensione, trasferiamo gli statali

Vittorio Feltri – Il Giornale

Quando si parla di pensioni, in tivù e sui giornali, immancabilmente si prende di mira la ex ministra Elsa Fornero, colpevole, secondo la vulgata, di essersene infischiata degli esodati.

I quali invece sono vittime di un sistema perverso denominato prepensionamento: certi lavoratori si dimettono, incentivati dal datore di lavoro, poi si trovano in brache di tela perché nel frattempo lo Stato ha modificato le regole. Esso ha deciso che non si va più in quiescenza a 63 anni, ma a 68. Di modo che uno sfigato che avesse scelto di collocarsi a riposo in base alle vecchie norme, piomba nella spiacevole situazione di non ricevere più lo stipendio dalla ditta (che lo ha liquidato con fior di quattrini) e neppure l’assegno dell’Inps, in quanto non ha ancora maturato l’età per incassarlo, per effetto delle modifiche nel frattempo intervenute.

Che colpa ne ha la Fornero? Nessuna. Ella infatti si è limitata a varare una legge – da tutti approvata in Parlamento – tenendo conto dei dati forniti dalla Previdenza. Sono sbagliati? L’ente previdenziale si batta il petto.

Negli ultimi tempi, esodati a parte, le cose si sono ulteriormente complicate. L’amministrazione pubblica recentemente si è alleggerita di 260mila dipendenti. E uno è portato a dire: ottimo, tanti stipendi in meno da versare, un bel risparmio. Un corno. Perché un impiegato statale che va in pensione continua a costare allo Stato la stessa cifra: prima riscuoteva lo stipendio, ora incassa l’assegno di quiescenza, e il risultato finale non muta. Sempre soldi pubblici incamera. E così via.

Il problema va affrontato diversamente. Le persone oggi sono più in forma rispetto a 20 o 30 anni fa e possono continuare a prestare servizio sino in tarda età. È da stupidi spedirli a casa quando sono ancora efficienti. Conviene trattenerli e trasferirli, semmai, in uffici carenti di personale e bisognosi di assunzioni. Chi cessa si recarsi al lavoro perché bacucco peserà sui bilanci per qualche anno, poi andrà al Creatore e non costerà più nulla. E chi invece continuerà l’attività fino al limite della vecchiaia si guadagnerà la paga in un settore o in un altro, indifferentemente. È un fatto che il numero complessivo dei dipendenti pubblici vada ridotto al massimo, ma non scaricando gli esuberi sulla cassa pensioni, bensì evitando nuove assunzioni.

Obiezione: e i giovani, a quale occupazione possono aspirare? I mestieri da imparare sono tanti, non esistono solo le scrivanie della burocrazia. In Francia, l’agricoltura è la colonna vertebrale dell’economia, da noi è la cenerentola. Perché? Evidentemente, il contadino, il pastore, l’allevatore, il produttore di formaggi e confetture varie non godono qui di buona fama. È assurdo. Segno che i nostri giovani hanno una mentalità retrograda e non capiscono che lavorare in campagna richiede una cultura specialistica profonda, sicuramente non inferiore dal punto di vista qualitativo a quella di uno che timbra carte e sbriga pratiche allo sportello di un ente (spesso inutile).

Serve una svolta. Occorre passare dal culto della camicia bianca alla gioia del fare. Creare ricchezza e non scartoffie è un’esigenza primaria. Quanto ai pensionati, bisogna selezionare: i minatori (categoria estinta) hanno diritto ad appendere il piccone a 60 anni, ma chi ha maneggiato la penna tutta la vita vada avanti a farlo sino a 68–70 anni. Dov’è il dramma? I calli alle dita? Una volta si diceva: lavorare di meno, lavorare tutti. Aggiornarsi: lavorare di più e fino in tarda età, senza aggravare la spesa sociale che non ci possiamo più permettere. I ragazzi si ingegnino. Emigrino come fecero i nostri padri e i nostri nonni, si inventino nuovi mestieri come noi ci inventammo.

Mi scuso se mi cito. All’inizio degli anni Settanta non esistevano le tivù private. Furono quelli della mia generazione – io compreso – a inaugurare il filone: dal nulla mettemmo in piedi delle antenne. Che all’inizio facevano schifo. Poi ci specializzammo e le emittenti locali spopolarono, fecero fortuna.

Qualcuno di noi guadagnò parecchio, altri – meno bravi o meno fortunati – rimasero al palo, c’est la vie. Il famoso terziario si sviluppò negli anni Ottanta. Prima non si sapeva neanche cosa fosse. Ogni epoca offre occasioni e impone il superamento di vari ostacoli. Darsi da fare è l’unica soluzione. Lo Stato non può e non deve essere una balia. Arrangiatevi, fratelli, nipoti e cugini.