tasse

Tassa Rai, paga pure chi non ha la tv

Tassa Rai, paga pure chi non ha la tv

Paolo Bracalini – Il Giornale

Un «contributo», nemmeno più un «canone Rai», più basso per tutti ma dovuto da tutte le famiglie, anche da chi in casa non ha tv, né radio, né internet, e usa solo carta, penna e telefono. Le slide sono già pronte, con le simulazione di quel che entrerà alla Rai, e di quel che pagheranno gli italiani con il nuovo sistema di finanziamento del servizio pubblico messo a punto dal ministero dello Sviluppo economico (Mise), nella persona del sottosegretario Giacomelli. Si attende solo il via libera del premier Renzi (che potrà così annunciare: «Abbassiamo il canone Rai», ben consapevole che si tratta dell’imposta più odiata dagli italiani), e la decisione se farlo passare come decreto legge, sempre che il Quirinale ne riconosca il carattere di urgenza, quella cioè di vararlo entro dicembre, prima che partano i bollettini del «vecchio» canone 2015.

Cosa cambierà? Molto, se non tutto. Intanto le cifre. Il nuovo canone, che il ministero non chiama più così ma «contributo al servizio pubblico radio-tv», sarà molto più basso. Si pensa ad una forbice tra i 35 e gli 80 euro, a seconda delle capacità di spesa dei nuclei famigliari (calcolata sul reddito, ma anche sui consumi e altre variabili). Nessuna famiglia, dunque, nemmeno le più ricche, pagherà più di cento euro per finanziare il servizio pubblico radio-tv, e molte pagheranno parecchio di meno, fino ad un terzo rispetto agli attuali 113,50 euro del canone Rai (mentre si studia un’esenzione per le famiglie con soglie di reddito minime). Fin qui tutte notizie positive.

Ma l’altro aspetto difficilmente farà contenti molti contribuenti, quelli ad esempio che hanno fatto disdetta del canone Rai, quelli che non lo pagano perché non posseggono televisori né apparecchi «atti alla ricezione del servizio radio televisivo» (quasi tutti evasori secondo i calcoli governativi, visto che il 98% delle case, dicono le indagini, ha un tv in casa). Ebbene, anche loro, col nuovo sistema che potrebbe entrare in vigore già dal 2015, dovranno pagare il contributo alla Rai, pensato in verità come contributo generico al servizio pubblico, quindi in teoria e in misura parziale, se si riuscirà, anche alle tv locali.

Si rottama insomma il cardine della vecchia legge sul canone Rai, che vincola l’obbligo del pagamento al reale possesso (tutto da accertare, impresa impossibile di fatto, come lamenta a Mix24 il direttore dell’Agenzia delle entrate Rossella Orlandi) di un televisore in salotto, e trasforma l’obolo in un contributo strutturale delle famiglie al servizio pubblico, un servizio che lo Stato offre e che i contribuenti finanziano. La stessa legge, che si articola in una riforma radicale della Rai, prevede anche che le risorse affidate a Viale Mazzini siano effettivamente usate per svolgere il servizio pubblico, e su questo vigilerà un nuovo organo ad hoc. Scompaiono quindi anche i bollettini di pagamento della Rai, si vocifera che l’importo verrà pagato insieme alle tasse, forse con un F24, di certo Viale Mazzini non seguirà più direttamente la riscossione del tributo (a proposito, che fine faranno i dipendenti della direzione canone Rai?). Le simulazioni del Mise garantiscono un gettito di 1,8 miliardi di euro, quello che entra attualmente alla Rai dal canone, ma recuperando tutta l’attuale evasione, stimata nel 27%. In più si potrà giocare su un extragettito preso dalle lotterie, che però varrà qualche decina di milioni d’euro, non di più. Pagare meno, pagare tutti.

I rumors da Viale Mazzini però non trasmettono grande euforia dai vertici Rai. Sia il dg Gubitosi che la presidente Tarantola in ogni occasione ribadiscono che il canone Rai è un’eccezione in Europa perché è il più basso di tutti. Abbassarlo, e di tanto, suscita perplessità. Anche perché nella legge di Stabilità è previsto un prelievo statale del 5% su quel gettito, un’idea partorita dal Tesoro indipendentemente dal Mise. E che sta già terremotando Viale Mazzini. L’assemblea dei giornalisti esprime «grave preoccupazione per il nuovo taglio al servizio pubblico» e prepara una diffida ai vertici Rai per costringerli ad adire le vie legali. Cosa che il consigliere Antonio Verro è già intenzionato a fare: «Nel prossimo Cda chiederò formalmente che i consiglieri si esprimano con un voto sull’opportunità di procedere in sede giudiziaria a tutela del patrimonio aziendale». E come non pensare ai 150 milioni di euro già chiesti dal governo alla Rai. Insomma, il fronte già aperto tra Renzi e la Rai rischia di diventare ancora più caldo. «Una riforma radicale del canone – dice il sottosegretario Giovannelli – che introduca equità e dia certezze e risorse, e che sia vissuta in modo meno negativo dai cittadini». Forse non da tutti.

Nuove tasse? Prima le Regioni taglino gli sprechi

Nuove tasse? Prima le Regioni taglino gli sprechi

Daniele Di Mario – Il Tempo

C’è chi le difende e chi le attacca. Chi ne sottolinea gli sforzi di risanamento e abbattimento delle spese e chi invece ne ricorda gli scandali. Lo scontro politico sulle Regione prosegue, così come il dibattito sulla legge di stabilità. I governatori restano in trincea, nonostante l’apertura di Debora Serracchiani, vicesegretario del Pd e governatrice del Friuli che invita a valutare la manovra «nel suo complesso», ma ammonisce: «Siamo tutti chiamati con responsabilità ad azioni di governo, anche in Friuli Venezia Giulia abbiamo messo mano a molte sacche di improduttività, constatando che la razionalizzazione della spesa ha margini di miglioramento».

Perché il nodo alla fine è sempre quello: tagliare. Non i servizi, non la sanità, ma gli sprechi. E le Regioni italiane ne abbondano, nonostante nell’ultimo biennio dopo i vari scandali che hanno interessato un po’ tutti i Consigli d’Italia, abbiano intrapreso un percorso di revisione di una spesa che complessivamente ammontava a 131 miliardi e che conteneva dentro di tutto, dagli studi per le trote ai consulenti per la neve, il salvataggio delle biblioteche in Mauritania e le auto blu. I Consigli regionali hanno fatto la loro parte, riducendo i compensi dei consiglieri, tagliando gruppi e commissioni, abolendo i vitalizi. Ma sarebbe disonesto negare che le Regioni potrebbero fare di più, mettendo mano ad esempio a società partecipate ed enti (comunità montane, enti parco, unioni di comuni, università agrarie), riducendo gli assessori esterni, razionalizzando le spese per una sanità spesso fuori controllo, tagliando dirigenti e ruoli apicali. Le Regioni spendono complessivamente molto più dei Comuni e del Parlamento e rappresentano circa un terzo della spesa pubblica italiana. Ma la questione afferisce al più generale e cronico problema del regionalismo italiano.

Il ministro per gli Affari Regionali Maria Carmela Lanzetta è netta: «Il periodo è molto complesso, dobbiamo tutti quanti rinunciare a qualcosa, riorganizzarci per favorire l’assunzione di giovani nelle aziende, che mi sembra una buona risposta alla crisi». Ma Stefano Fassina – che parla di «tagli drastici, orizzontali, insostenibili a servizi fondamentali» – contrattacca: «Capisco le posizioni dei presidenti delle Regioni, che non sono estremisti antirenziani: sono solo attenti ai servizi che devono tagliare o alle tasse che debbono aumentare». Il governatore del Piemonte e presidente della Conferenza delle Regioni Sergio Chiamparino apre ufficialmente la trattativa col governo: «Da Renzi andiamo con delle proposte concrete, che non toccano i quattro miliardi ma che li articolano in modo tale da consentire di reggerli. La polemica è inevitabile, ma è indispensabile un incontro per raggiungere l’obiettivo. Il premier ha ragione quando dice che ci sono tanti sprechi da eliminare, ci sono delle cose da migliorare come le società partecipate, ad esempio. E poi parliamoci chiaro, è anche vero che sugli sprechi, come diceva il Vangelo, chi è senza peccato…». E Paola De Micheli, vicepresidente vicario del gruppo Pd alla Camera difende i governatori: i tagli di 4 miliardi alla Regioni «sono un fattore di preoccupazione per le possibili ripercussioni su alcuni servizi ai cittadini».

Ma la materia è delicata. Fabrizio Cicchitto (Ncd) chiede alle Regioni di darsi un taglio, mentre in FI non c’è univocità di giudizio. Giovanni Toti e Raffaele Fitto si trovano finalmente d’accordo su una cosa: la difesa degli enti locali. Mentre Maria Stella Gelmini dice nettamente che «il taglio di 4 miliardi ai trasferimenti non può diventare l’alibi per i presidenti delle Regioni di aumentare le tasse locali o i ticket nella sanità. È il tempo della responsabilità. Le Regioni devono trovare il grasso che cola dai loro apparati burocratici, e ne hanno ancora tanto, prima di pensare a mettere le mani nelle tasche dei cittadini». Già, ma loro, i governatori, restano sull’Aventino. Stefano Caldoro (Campania) usa Twitter per ricordare a Renzi i tagli effettuati e propone di sciogliere le Regioni per varare le macroaree. Roberto Maroni (Lombardia) attacca: «Non sarà l’esecutore testamentario, il killer, della Regione più virtuosa d’Italia. Renzi vuol riportare le Regioni a com’erano negli anni Settanta». «Da quale cattedra viene la lezione sugli sprechi delle Regioni? È irricevibile», sbotta Nichi Vendola (Puglia). Luca Zaia (Veneto) minaccia: «Il ricorso contro la legge di stabilità lo faremo».

Insanità regionale

Insanità regionale

Davide Giacalone – Libero

Posto che la pressione fiscale generata dagli enti locali è aumentata dell’80 per cento in quattordici anni, senza che sia diminuita quella nazionale, posto, quindi, che da tre lustri gli italiani s’impoveriscono e perdono competitività anche per finanziare enti la cui utilità è nota più che altro a chi li abita, è facile capire il perché non si trovi divertente la polemica fra il governo e le regioni. Oltre tutto giocata usando il linguaggio della più sciatta demagogia: “spreconi”, da una parte, “affamatori”, dall’altra. I governatori regionali, abituati a batter cassa presso il governo, non s’aspettavano di trovarsi di fronte chi usa la cassa per battergliela in testa. Molti di loro sognarono il partito di “lotta e di governo”, eccoli serviti: salvo che usa la lotta demagogica contro di loro.

Piuttosto che l’opera dei pupi, però, si possono fare operazioni interessanti: chiudere la tragica storia della sanità regionalizzata, che con la riforma Bindi, del 1999, elevò a sistema la militarizzazione partitocratica dell’amministrazione, e con la riforma costituzionale del 2001 stese una pietra tombale sull’idea che la salute e la sanità fossero questioni di competenza nazionale. Due operazioni “Made in left”, così anche i newcomers capiscono. Contabilizzati i disastri è ora di farla finita.

Inutile continuare a polemizzare sul costo delle siringhe. Anche stucchevole e oltraggioso, perché sentendolo ripetere da anni, da governi e governanti di ogni colore, il cittadino si chiede: ma a chi lo stanno dicendo? Se il sistema fa così schifo, e lo fa, lo cambino. La soluzione non è che le tasse per coprire quei costi siano a cura degli enti locali anziché dello Stato, dato che a pagare sono i medesimi italiani. Semmai si deve avere il coraggio di spiegare perché il politico regionale nomina i capi dell’amministrazione sanitaria e perché l’organizzazione che presiede alla difesa della mia salute debba essere regionale. Non saprei spiegarlo, perché lo considero sbagliato.

Fin qui ci si è trastullati con le siringhe e i costi standard, che già di loro sono un non senso: se l’acquirente compra molto materiale sanitario e molti farmaci, bandendo una gara fra fornitori, è ovvio che riesce a spuntare un prezzo migliore rispetto a venti acquirenti che comprano un ventesimo e bandiscono centinaia di gare. Oggi le regioni ricevono un rimborso, dallo Stato, pari alla media dei tre migliori prezzi. A parte che il prezzo adottabile dovrebbe essere il più basso, non una media, quando comprano pagando più degli altri generano nuovo debito, che si somma a quello immenso, già esistente. Quando, sventuratamente, negli anni 70, si chiusero le mutue queste lasciarono un immenso patrimonio immobiliare, avendo fornito assistenza a tutti i mutuati. Oggi ci sono solo deficit e debiti. Cosa serve di più per capire che la regionalizzazione è una follia?

Senza mai dimenticare che la qualità media dell’assistenza sanitaria, in Italia, è ottima. Purtroppo con vergognose sperequazioni interne (ulteriore conferma della pessima regionalizzazione), ma mediamente fra le migliori al mondo. Il che dimostra, se ve ne fosse bisogno, che il nostro problema non sono i medici, ma gli amministratori. Ed è questo il lato positivo: per formare buoni medici ci vogliono anni, per mandare a casa cattivi amministratori, protettori di amministrativi nullafacenti, soci di sindacati corporativi, ci vogliono, a saperlo e volerlo fare, un paio di mesi. A patto di non perderli in battibecchi degradanti e di utilizzarli per fare vere e sane riforme.

I tanti illegittimi dubbi sul taglio delle tasse

I tanti illegittimi dubbi sul taglio delle tasse

Massimo Francaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

L’idea che il peso delle tasse possa (finalmente) diminuire rappresenta un segnale importante per le persone e le imprese. E quei 18 miliardi di riduzione indicati nella legge di Stabilità rappresentano un passo importante. Eppure, quando si parla di tasse è legittimo avere qualche dubbio. Quando fu dato l’addio all’Imu sull’abitazione principale si disse che le imposte sugli immobili sarebbero diminuite e che il sistema sarebbe stato semplificato. Sappiamo che, purtroppo, non è andata così. E allora proviamo a ripercorrere alcuni degli interventi varati.

Partiamo dal Tfr. Se, come sembra, l’anticipo sarà tassato con le aliquote progressive Irpef, si tratta di una misura che alla fine (oltre i 29 mila euro) avrà come principale beneficiario soprattutto il Fisco. Se l’obiettivo era quello di spingere i consumi sarebbe stato meglio lasciare una tassazione più favorevole. Ai lavoratori che faranno questa scelta, infatti, verrà applicata l’aliquota marginale, ovvero quella che si paga sulla quota più elevata di reddito (oscilla tra il 23% e il 43%). Mentre se si decide di incassarlo a fine carriera, come avviene oggi, si subirà un prelievo nettamente inferiore (dal 23% al 33%). E, se lo si investe nei fondi pensione, l’aliquota è ancora inferiore: tra il 9% e il 15%. L’unico a guadagnarci sarà alla fine lo Stato, che riceverà in anticipo (e in misura maggiorata) le imposte che altrimenti incasserebbe tra 15 o venti anni.

Un brutto segnale viene dal capitolo della previdenza integrativa. Qui, per cercare di coprire altri sgravi, si propone di portare il prelievo annuo sui rendimenti dei fondi pensione dall’11,5% al 20% (e dal 20% al 26% quello delle casse private). L’aumento comporta maggiori tasse per 3,6 miliardi. Il 10% delle entrate previste. Un colpo gobbo che colpisce i risparmiatori più previdenti, quelli che stanno investendo per il loro futuro. Quasi tutti l’hanno fatto sapendo di poter beneficiare di un trattamento favorevole, mentre ora vedono infrangersi il patto con il Fisco. La previdenza complementare rischia l’estinzione.

E arriviamo al capitolo più ambiguo: quello degli enti locali. Come è già avvenuto in passato si rischia che la riduzione dei finanziamenti statali venga compensata dagli aumenti delle addizionali Irpef o dei tributi di competenza regionale e comunale. Lo scontro tra Regioni e Stato centrale è appena agli inizi. Diventa sempre più stretta la via per chi amministra e deve rispettare i nuovi parametri di bilancio. Risultato: andiamo verso un nuovo aumento a orologeria. Lo stesso ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, a una domanda su questo rischio ha risposto con un laconico «Può darsi». Speriamo che si sbagli.

Iva, maxi-aumento in arrivo dal 2016

Iva, maxi-aumento in arrivo dal 2016

Andrea Bassi – Il Messaggero

Stavolta è più di una mina da disinnescare. È una bomba ad orologeria con il timer fissato sulla data del primo gennaio del 2016. Tra quattordici mesi l’Iva e le accise aumenteranno. La novità è messa nero su bianco all’articolo 45 della bozza della legge di stabilità approvata dal consiglio dei ministri di mercoledì scorso. E questa volta non si tratta di una «clausola di salvaguardia», una misura di sicurezza destinata a scattare solo nel caso in cui altri strumenti, come la spending review, dovessero fallire. Le aliquote Iva del 10% e del 22%, spiega il testo, sono incrementate a decorrere dal primo gennaio del 2016. Anche le accise su benzina e gasolio avranno lo stesso destino. Quello che manca ancora, almeno nelle ultime bozze circolate, sono le cifre di questo aumento. Ma non saranno irrilevanti.

L’aumento dell’Iva e delle accise ingloba la vecchia clausola di salvaguardia dei conti pubblici inserita dal governo Letta nella manovra dello scorso anno. Una norma che prevedeva un taglio lineare di 3 miliardi nel 2015, 7 miliardi nel 2016 e 10 miliardi nel 2017, di tutte le agevolazioni fiscali nel caso in cui la spending review delegata al Commissario Carlo Cottarelli non avesse prodotto i risultati sperati. Il governo Renzi ha parzialmente disinnescato questa clausola. Il taglio da 3 miliardi per quest’anno è stato azzerato, mentre quello da 7 del prossimo è stato ridotto a 4 miliardi. Non è detto tuttavia, che l’incremento dell’Iva e delle accise del 2016 si limiti a questi 4 miliardi. Nella nota di aggiornamento del Def, il Documento di economia e finanza, il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, aveva già paventato l’ipotesi di un incremento decisamente più consistente dell’imposta sul valore aggiunto e delle accise, per rimettere i conti pubblici sul sentiero della riduzione del deficit strutturale e del debito prevista dai patti europei. Un incremento monstre da 51,6 miliardi di euro in un triennio: 12,4 miliardi di euro nel 2016, 17,8 miliardi di euro nel 2017, 21,4 miliardi di euro nel 2018. Ogni punto di Iva vale 4 miliardi di euro.

Le cifre in gioco
Se l’incremento fosse interamente concentrato sull’aliquota al 10 e quella al 22%, entrambe potrebbero salire di due punti percentuali già dal primo anno. Uno scenario da brividi, come ammesso dallo stesso documento del governo. Se la clausola dovesse scattare, secondo le stime del Def, comporterebbe alla fine del periodo una perdita di Prodotto interno lordo di 0,7 punti percentuali e una caduta dei consumi di 1,3 punti. Se l’aumento dell’Iva a partire dal gennaio del 2016 dovesse essere confermato nelle versioni definitive della legge di stabilità, è prevedibile che il prossimo anno il governo dovrà iniziare una lunga corsa contro il tempo per mettere a punto una manovra in grado di reperire risorse da altre fonti in grado di scongiurare il balzo delle imposte. Il primo allarme è arrivato da Assopetroli. «Le accise e l’Iva, se verranno realmente aumentate, altro non sono che aumento della pressione fiscale per cittadini e imprese», ha commentato ieri il presidente Franco Ferrari Aggradi. «Per questo», ha aggiunto, «ci auguriamo che il Parlamento, responsabilmente, trovi altre soluzioni che non prevedano aumenti dell’Iva e delle accise, per una manovra che altrimenti, così come è rischia di essere fortemente recessiva per i consumi». Sempre sul fronte dell’Iva, ma alla voce «lotta all’elusione», è stato inserito, come annunciato, nel testo della manovra il cosiddetto «reverse charge», l’inversione contabile, per cui a versare l’imposta non è il venditore ma il compratore. Il meccanismo sarà allargato per quattro anni ai settori delle pulizie, dell’edilizia (demolizioni e installazioni di impianti), al trasferimento di quote di emissioni di gas serra, al gas e all’energia elettrica. Se arriverà il via libera Ue, potrebbe essere coinvolta anche la pubblica amministrazione.

Ottimisti nel mungere l’evasione

Ottimisti nel mungere l’evasione

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Da oggi, in mare aperto, esposti ai refoli di burrasca e ai momenti di bonaccia. La nostra barca è vecchia, lo scafo è corroso e tante incrostazioni impediscono di navigare regolarmente. Così, la rotta che l’attuale capitano ha impostato (legge di stabilità) si presta a numerose critiche. Esse non possono essere risparmiate a chi promette di condurci fuori dall’area di rischio e di rilanciare la boccheggiante economia. Prima di tutto facciamo ammenda dei rilievi rivolti al sottosegretario Delrio a proposito dell’evasione fiscale e della sua importanza nella manovra. Diceva la verità. Come si faceva in passato, alla fine, se, per esempio, mancavano duemila miliardi di lire per quadrare i conti, si inserivano duemila miliardi di ricavi da lotta all’evasione e il problema era risolto.

Nella legge di stabilità Renzi-Padoan (più Renzi che Padoan) ci sono 3,8 miliardi di lotta all’evasione. Tanto per dare un’idea precisa a chi ha più di cinquant’anni, qualcosa come 7.600 miliardi di vecchie lire. Chi ha appostato questa somma o era in preda a ubriachezza molesta o era in malafede. Propendo per la seconda ipotesi ed è un’aggravante. 3,8 miliardi di lotta all’evasione sono la più palese testimonianza di assenza di realistiche analisi della situazione della nostra economia e degli strumenti di cui dispongono le autorità.

La seconda posta deludente riguarda i tagli ai trasferimenti alle regioni e ai comuni e alle spese dei ministeri, all’interno del capitolo spending review. «Sostiene Pereira» (Renzi) che sarà nell’autonomia dei soggetti percossi dove e come tagliare. In questo modo, si dà la zappa sui piedi: in sostanza, ripropone i tagli lineari che tanto abbiamo criticato in passato e che dimostrano l’incapacità del governo di compiere scelte coraggiose, intestandosene il merito e assumendosene le relative responsabilità. E dire ch’è in possesso del ponderoso e ragionato documento redatto da Carlo Cottarelli, in procinto, ormai, di tornarsene a Washington. C’è da chiedersi con preoccupazione perché il documento non sia stato mai pubblicato se non per brevi stralci. Le peggiori ipotesi sono sul tappeto: la più convincente riguarda il timore che si sarebbe messo in evidenza il mancato intervento del governo sui casi eclatanti, quelli da cui traggono alimento corrotti e corruttori al Nord come al Sud. E che, comunque, la mancata decisa introduzione dei costi standard consentirà ancora alla regione Sicilia di pagare le siringhe, ormai emblematiche, una trentina di volte di più che il Veneto.

Il premier ribadisce che è nella responsabilità di ministeri, regioni e comuni stabilire come e dove risparmiare e che si tratta di una specie di doveroso atto di fiducia. Follie. Mentre i disastri di Genova, Parma, Maremma, Trieste e Piemonte sono precisi atti di accusa nei confronti dei carrozzoni Regione, comunque realizzati, capaci solo di dissipare risorse senza contribuire al buon andamento del Paese, l’affermazione di Renzi appare viziata da ipocrita condiscendenza o da ammissione di grave impotenza.

Fermiamoci qua. Il testo della legge di stabilità è a Bruxelles e trova un ambiente meno arcigno del passato, viste le difficoltà generali che investono l’Unione europea. È possibile che, dopo gli accordi riservati tra Germania e Francia (come avevamo previsto, Hollande, incassato l’appoggio di Renzi, s’è occupato solo del suo Paese) che garantirebbero un’imprevista indulgenza della cancelliera di ferro, anche per l’Italia si manifesti un tasso (minore) di comprensione. In ogni caso, avremo un «cahier» di prescrizioni che ci costringeranno a svolgere difficili compiti a casa. Tutti i problemi tutt’insieme: l’economia, l’occupazione, Ebola e la politica estera con i dossier Isi, Ucraina-Russia, la Libia. Tante decisioni interconnesse da adottare nelle prossime settimane. Senza un soggetto politico unitario o unitariamente concepito. L’Europa è nana, divisa e senza leader con qualità adeguate.

Carta vince, carta perde

Carta vince, carta perde

Stefano Feltri – Il Fatto Quotidiano

Evviva, evviva: Matteo Renzi sfascia l’austerità, taglia le tasse di 18 miliardi, regala soldi alle imprese, infila la liquidazione in busta paga ai dipendenti, conferma gli 80 euro, favorisce le assunzioni, c’è perfino qualcosa per le partita Iva. Tutti felici e tutti grati al premier e al Pd: un utile consenso, casomai arrivassero presto le elezioni.

Qualche obiezione però dovrebbe essere lecita. Primo: le coperture sono, come sempre, all’italiana. Oltre 11 miliardi arrivano dall’aumento del deficit: come dire che la copertura non c’è. Ma visto che ormai siamo tutti keynesiani, chiudiamo un occhio. Però ci sono i tagli: non ai tanto odiati “sprechi”, visto che il commissario alla revisione Carlo Cottarelli è stato licenziato e il suo lavoro sepolto negli archivi. No, si taglia (poco) sui ministeri e (molto, 6,2 miliardi) su Regioni ed enti locali: solo chi è in malafede può sostenere che ci sia ancora grasso da asportare. Dopo quattro anni in cui lo Stato centrale ha sottratto oltre 40 miliardi a Regioni e Comuni, ogni ulteriore stretta ridurrà i servizi, visto che le tasse non si possono più alzare senza rivolte di piazza (anche se il ministro Padoan è favorevole a un aggravio delle imposte locali).

L’austerità è ottusa, non c’è dubbio. E va ridiscussa perché non sta funzionando. Ma ancora una volta l’Italia viola i suoi impegni, oggi su debito e domani sul deficit, e non per finanziare investimenti che creino la base della crescita dei prossimi anni, ma per una versione rinforzata della deludente “operazione 80 euro”. Legittimo, ma il crollo delle Borse di ieri sulle voci di elezioni anticipate e di rigetto del rigore in Grecia dimostra quanto fragile è la tregua concessa dallo spread. Spendere in deficit e sbertucciare Bruxelles è facile. La parte difficile è affrontare le sanzioni europee – ormai certe – e l’eventuale furia dei mercati. Oltre a quella dei cittadini, se dovessero scoprire che i regali della politica sono prestiti con tasso di interesse da usura.

Evasione, la Ue dice addio al segreto bancario

Evasione, la Ue dice addio al segreto bancario

Andrea Bonanni – La Repubblica

Dopo decenni di battaglie, i governi hanno decretato ieri la fine del segreto bancario in Europa. I ventotto ministri delle Finanze dell’Unione, sotto la presidenza dell’italiano Pier Carlo Padoan, hanno finalmente trovato un accordo nella loro riunione a Lussemburgo per aderire ad un meccanismo di scambio automatico di informazioni tra le amministrazioni che prevede tra l’altro anche quelle relative ai dati bancari oltre che ai redditi da lavoro, alle pensioni, ai redditi patrimoniali e immobiliari. In pratica qualsiasi amministrazione fiscale potrà ottenere in modo automatico dalla controparte di un altro stato membro tutte le informazioni patrimoniali relative ad un proprio contribuente che abbia redditi, depositi o immobili in quel Paese.

L’accordo che, come ha spiegato Padoan, «costituisce una pietra miliare nella lotta contro l’evasione fiscale», è stato possibile grazie al fatto che Austria e Lussemburgo hanno rinunciato ad opporre il veto che avevano mantenuto per anni contro qualsiasi decisione in materia. La svolta è maturata dopo che in seno all’Ocse e al G-20 si era formato un consenso generale tra i governi interessati per generalizzare lo scambio di informazioni in modo da mettere un freno all’evasione fiscale.

La direttiva, che era stata proposta più di un anno fa dalla Commissione europea, entrerà in vigore al primo gennaio dell’anno prossimo. Ma il meccanismo di scambio automatico, che richiede l’adozione di uno speciale software da parte delle amministrazioni fiscali degli stati membri, diventerà operativo solo entro il 2017. L’Austria, che ieri ha dato il proprio accordo politico all’intesa, ha chiesto e ottenuto una proroga dì un anno per adeguarsi alle nuove norme, e dunque entrerà a far parte del sistema solo a partire dal 2018. Il Lussemburgo, invece, ha fatto sapere che si adeguerà al sistema di scambio automatico entro i tempi previsti.

L’accordo, naturalmente, aumenta enormemente la pressione sugli altri paradisi bancari del Continente. La Commissione europea ha ricevuto mandato dal Consiglio di chiudere i negoziati per cooptare nel meccanismo di informazioni la Svizzera, San Marino, il Liechtenstein, il principato di Monaco e Andorra. I governi di questi cinque Paesi hanno già, in linea di principio, accettato di adeguarsi alla nuova normativa europea e all’accordo delineato in sede Ocse, anche se c’è da aspettarsi che alcuni cercheranno di guadagnar tempo. Forse un po’ ottimisticamente, la Commissione ha comunicato che conta di chiudere il negoziato con questi Paesi entro la fine dell’anno. Ieri tra l’altro, il Consiglio sotto presidenza italiana ha anche concluso con la Svizzera un accordo che pone fine al contenzioso tra la Ue e la Confederazione sulla tassazione delle imprese, e che riguardava un regime fiscale particolarmente favorevole che la Svizzera applicava alle società che trasferivano la propria sede sul suo territorio. Un regime che molti governi europei consideravano come una forma di «concorrenza fiscale» sleale.

Una frustata chiamata Irap

Una frustata chiamata Irap

Il Foglio

Matteo Renzi ha annunciato un progetto strutturale di grande importanza, ossia l’abolizione dell’Irap sui costi del lavoro, che consentirebbe di togliere di mezzo una tassazione dei costi di produzione che va pagata anche dalle imprese che sono in perdita. L’onere di questa abrogazione sarebbe complessivamente di 6,5 miliardi, secondo i calcoli del Sole 24 Ore. Ma ciò comporterebbe di immaginare che venga abrogato lo sgravio dello scorso anno, che dovrebbe valere circa 2,5 miliardi. E probabilmente ciò ancora non basterebbe, dato che attualmente il gettito sul lavoro dell’Irap è attorno ai 12-13 miliardi.

C’è. dunque. nell’immediato, un problema di copertura. Ma la linea che viene adottata è quella giusta e potrebbe essere completata in un biennio, anziché in un anno, con effetti equivalenti, purché il provvedimento sia reso certo e non sia coperto con imposte sul contribuente italiano, ma con una riduzione delle spese o con privatizzazioni e condoni che sterilizzano l’effetto negativo sul pil, generando un rientro di entrate permanenti (come nel caso degli accordi sul rientro di capitali tenuti in Svizzera). Una volta abrogata la tassazione dei costi del lavo- ro con l’Irap ci sarà il problema di dare alle regioni un contributo equivalente, da destinare alla spesa sanitaria, senza però aumentare l’ammontare dei contributi sociali. Cio puo avvenire togliendo da quelli nazionali, le aliquote che non hanno una base nel diritto a pensioni o indennità di malattia oppure invalidità. L’Irap rimanente è un tributo sul reddito, detraibile per gli accordi internazionali sulla doppia imposizione.

Questa riforma, così, può avere un importante effetto sugli investimenti in Italia da parte delle imprese multinazionali il cui carico fiscale risulterà così ridotto sia sul lavoro sia sul profitto. E, allo stesso modo, favorirà il mantenimento in Italia delle produzioni di servizi di lavoro qualificato, come ad esempio quelli dei centri manageriali e di ricerca, delle attività finanziarie e delle aziende che producono beni di qualità che maggiormente contribuiscono alle esportazioni, come molte dell’elettronica e della meccanica. Certo, rimangono ancora interrogativi a cui rispondere a partire da quello sull’onere da coprire e sul modo di finanziario. Ma la spinta strutturale alla crescita con occupazione può essere molto rilevante grazie alla mossa di Renzi.

Fisco senza segreti in Europa

Fisco senza segreti in Europa

Tancredi Cerne – Italia Oggi

Intesa raggiunta a livello Ue sullo scambio di informazioni fiscali. I ministri dell’Economia e delle finanze riuniti ieri a Lussemburgo in occasione dell’Ecofin hanno approvato l’Administrative Cooperation Directive – 2011/16/EU, ovvero la normativa che consente alla Ue di adeguarsi agli standard Ocse in materia di trasparenza fiscale. Un vero e proprio decalogo della lotta all’evasione, contenente dettagli di natura pratica sulle regole che dovranno seguire le amministrazioni per condividere i dati fiscali con una controparte europea. Ma solo a partire dal 2017 quando i 27 paesi firmatari dell’accordo inizieranno a scambiare in via automatica le informazioni fiscali su individui, fondi ed entità, dando vita alla «piena trasparenza fiscale in Ue». Unico grande escluso, l’Austria che ha ottenuto un posticipo di un anno (fino al 2018) per l’entrata in vigore della nuova direttiva.

Lo storico annuncio è arrivato ieri per bocca del ministro dell’economia e delle finanze italiano, Pier Carlo Padoan, presidente di turno dell’Ecofin. «Abbiamo un accordo a 27 paesi tranne uno che si è impegnato ad assicurare la sua partecipazione quando avrà risolto questioni tecniche», ha dichiarato il ministro definendo l’intesa «un traguardo politico molto importante. L’accordo è una riforma strutturale a livello internazionale che cambierà i comportamenti e farà uscire imprese e singoli dalla tentazione di evadere il fisco». Alle parole di Padoan hanno fatto eco quelle del Commissario agli Affari fiscali dell’Ue, Algirdas Semeta che ha decretato «la morte del segreto bancario in Europa». L’intesa politica raggiunta ieri sarà perfezionata per quanto riguarda la stesura in termini legali delle norme nella riunione Ecofin di novembre o dicembre.