tasse

Troppe combinazioni per una sola tassa

Troppe combinazioni per una sola tassa

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

Ormai ci siamo. Entro giovedì 16 ottobre i contribuenti dovranno versare la Tasi, la tassa sui servizi indivisibili (che ha sostituito l’Imu sulla prima casa, anzi l’Ici, anzi l’Isi, anzi la Iuc, solo per ricordare alcuni dei molteplici nomi con i quali sono state chiamate le imposte sugli immobili). E si tratta della gran parte dei Comuni che non erano riusciti a rispettare i tempi della scadenza di giugno. Ne restano ancora 659 che non hanno ancora fissato l’aliquota, per questi centri si pagherà tutto in una volta, il 16 dicembre. Un groviglio di scadenze e conteggi che non è degno di un Paese civile. Chi ha provato a calcolare in quanti modi si potranno saldare i conti con il Fisco è arrivato a misurare fino a 85 mila combinazioni diverse. Ottantacinquemila modi che dipendono da aliquote, comune di residenza, detrazioni, rendite catastali. Definirlo un sistema bizantino, sinonimo di complicazioni burocratiche non basta. È qualche cosa di più. E questo è il capitolo delle regole.

Se poi andiamo ai conteggi la sorpresa è ancora maggiore. L’illusione, ribadita dai ministri del Tesoro che si sono susseguiti, era che la Tasi dovesse, in qualche modo, pesare meno del’Imu, della vecchia imposta municipale. Ma non sarà così. Secondo i conteggi della Uil su 15 milioni di contribuenti, almeno sette milioni verseranno di più. A versare di più saranno i proprietari delle abitazioni principali più piccole. Dire beffa è dire poco. Adesso i tecnici stanno studiando un modo per evitare che i proprietari di più abitazioni versino due imposte, la vecchia Imu e la Tasi. Il progetto di unificarle semplificherebbe un po’ la vita dei contribuenti. Ma il punto è un altro: la casa assomiglia ad una specie di bancomat dello Stato. E adesso che i Comuni sono alle prese con il taglio dei trasferimenti la sensazione è che la situazione possa complicarsi. Forse è arrivato il momento di una tregua.

Strade e tasse a senso unico

Strade e tasse a senso unico

Raffalello Lupi – Il Tempo

Strade e tasse: due territori fuori controllo. Quando il limite di velocità è cinquanta, tutti vanno a settanta-ottanta, e qualcuno strombazza per superarli, a centotrenta, non arriva mai una macchina della stradale o dei vigili. Che evidentemente trovano più comodo passare col taccuino e multare le auto in divieto di sosta, dove tutti hanno sempre parcheggiato e sempre parcheggeranno senza dare fastidio a nessuno, anche perché altri posti non se ne trovano. La stessa mancanza di controllo del territorio c’è per le tasse, dove l’ufficio controlli di Civitavecchia si trova a Trastevere, e gli operatori economici indipendenti al consumo finale, che magari evadono qualcosa, sono magari rosi dal dubbio di poter nascondere molto di più, migliorando il loro tenore di vita; è una frustrazione analoga al tarlo dell’automobilista in coda, che vede altri sfrecciare sulla corsia di emergenza, o sulla preferenziale completamente inutile, dove passa un autobus ogni mezz’ora.

Le strade e le tasse sembrano insomma distanti, ma sono invece legate dalla mancanza di adeguato controllo amministrativo del territorio. Così come i vigili urbani non riescono a distinguere la guida pericolosa dall’innocuo divieto di sosta, gli uffici tributari non riescono a distinguere, nella vastissima platea degli operatori economici, chi è povero davvero da chi si finge tale. Automobilisti e contribuenti vengono così torchiati a casaccio, per comportamenti diffusi, senza raggiungere, in entrambi i settori, i comportamenti che la pubblica opinione avverte come veramente insidiosi. La responsabilità è dell’esasperata legificazione, figlia degenere di una malintesa «cultura delle regole», che ha danneggiato la cultura dei valori e del buonsenso , irrigidendo la società e trasformando sempre più la macchina pubblica in una asettica burocrazia, desiderosa solo di prendersi meno rischi possibili.

La Cassazione ribalta le sentenze ragionevoli sulle tasse non pagate

La Cassazione ribalta le sentenze ragionevoli sulle tasse non pagate

Matteo Mion – Libero

La Cassazione penale non molla la presa. Il nuovo orientamento della giurisdizione di ultima istanza è ormai feroce nel sanzionare penalmente le inadempienze tributarie. La Suprema Corte sta pian piano chiudendo i varchi aperti dalle sentenze dei tribunali che si erano permessi di non condannare gli imprenditori rei di aver omesso il versamento di tributi a causa della crisi o del fallimento della propria azienda. In molti casi, infatti, i giudici di prime cure avevano ritenuto dovuta l’imposta, ma avevano chiuso un occhio sull’aspetto penalistico. Così il tribunale di Pescara con ordinanza del 29 ottobre 2013 non aveva attribuito rilevanza penale all’omesso versamento di Iva da parte del titolare di una ditta individuale che, come emergeva dalle scritture contabili, non aveva incassato l’imposta da due aziende, poiché una era fallita, l’altra era in procedura concordataria: un provvedimento logico e scritto con la penna del buon padre di famiglia. Hai fatturato l’Iva, ma non l’hai mai incassata: pagala, perché sei un pirla a non adeguare la contabilità, ma non ti condanno penalmente, perché non sei un delinquente.

Niente da fare, perché la Cassazione penale Sezione Terza con sentenza 863/2014 accoglie il ricorso presentato dalla Procura della repubblica di Pescara con la seguente motivazione: «il reato contestato non si realizza allorché l’imprenditore trattiene presso di sé le somme che egli ha ricevuto a titolo di Iva dai suoi aventi causa, ma allorché egli ometta di versare le somme quali risultanti dalla dichiarazione Iva da lui presentata, prescindendosi dalla effettiva percezione di esse da parte del contribuente che è pertanto tenuto a pagare l’imposta». Nessuna pietà contro gli imprenditori, nemmeno qualora sia provata la loro buona fede. Ci sarebbe molto da discutere sulla condotta di uno stato che esige l’Iva non percepita da un’azienda che non abbia adeguato la dichiarazione contabile, ma è senza dubbio canaglia lo stato che si accanisce penalmente contro un imprenditore, reo di non pagare le tasse sugli insoluti che lui stesso ha subito. Siamo alla follia gabelliera, alla polizia fiscale.

La magistratura dei palazzi romani è completamente distaccata dalla drammatica realtà economica del paese. Dopo un lauto banchetto e un sontuoso convegno, seduti sugli scranni fregiati della Suprema Corte capitolina, con stipendio sicuro e senza essere responsabili del loro operato, cinque giudici di massimo rango stabiliscono che D.P. è evasore per il reato penale di cui all’art. 10 ter D.lgs. 74/2000 e cioè l’omesso versamento d’imposte. D.P. invece non è un ladro, ma un italiano come tanti che fatica a tenere in piedi la baracca a causa della crisi e di una magistratura come questa.

Chi si rivede, l’Imu sulla prima casa

Chi si rivede, l’Imu sulla prima casa

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Renzi prepara l’ennesimo gioco di prestigio per la tassazione sulla casa. La legge di Stabilità dovrebbe partorire, secondo alcune indiscrezioni, una nuova Imu sulla prima casa. Probabilmente non si chiamerà così perché il premier vorrà marcare la differenza con i precedenti governi e brillare per inventiva, ma la sostanza non cambia. I tecnici del ministero dell’Economia sono al lavoro per sfornare, a tempi record, in occasione della presentazione della manovra economica per il 2015 fissata per il 15 ottobre, una tassazione sulla casa nuova di zecca. Renzi ha già preparato il terreno di quella che sarà un’altra operazione di marketing. Ha annunciato che unificherà le diverse imposte in un’unica tassa. Il prossimo passo sarà dire che la Tasi ha creato tanta confusione e disagi ai proprietari di immobili, che è un’imposta iniqua perché le aliquote sono state lasciate in mano ai Comuni con un effetto a macchia di leopardo su tutto il territorio nazionale e che le diverse scadenze hanno creato il caos.

Si dirà quindi che occorre tornare all’antica. Ecco quindi l’arrivo di un’unica imposta che solo sulla carta rappresenterà un minor onere per i contribuenti. La Tasi, secondo le ipotesi allo studio dovrebbe confluire in un’altra imposta, una sorta di Imu bis che dovrebbe però assicurare almeno lo stesso gettito. Secondo le valutazioni in corso al ministero dell’Economia potrebbe essere molto simile all’Imu con una detrazione fissa a livello nazionale pari a 200 euro per la prima casa più uno sconto per ogni figlio sotto i 26 anni residente nello stesso immobile. Le aliquote sulle quali si sta ragionando sono per la prima casa comprese in un range tra il 4 e il 6 per mille e per le seconde abitazioni tra il 7,6 e il 10,6 per mille.

La Tasi fu introdotta sotto il governo Letta, come un escamotage voluto da Alfano che non voleva intestarsi il ritorno dell’Imu sulla prima casa dal momento che Berlusconi aveva ottenuto dall’ex premier l’esenzione dell’imposta sull’abitazione principale. Questo la dice lunga sulla volontà maturata da tempo, di colpire la prima casa. L’imposta unica e l’abolizione della Tasi verrà quindi spacciata come un «regalo» ai proprietari e dovrebbe servire a far digerire le maggiori imposte più o meno mascherate contenute nella legge di Stabilità.

Al momento non è stata fatta alcuna comunicazione ufficiale all’Anci. L’associazione dei Comuni ha comunque detto che, sulla base delle indiscrezioni emerse in questi giorni, «l’ipotesi di un vero riordino sulla Tasi è la benvenuta, ovviamente a condizione che si assicuri un sistema semplice, sostenibile e duraturo per la generalità dei Comuni, e che non si comprometta ancora una volta la possibilità di approvare i bilanci in tempo utile per gestire gli Enti». Poi l’Anci sottolinea che proprio «la variabilità delle aliquote e delle detrazione della Tasi sull’abitazione principale è tra i principali motivi della grande confusione». In base ai dati dell’Ifel il prelievo sull’abitazione principale media nel complesso dei capoluoghi è pari a 184 euro annui. Il prelievo annuo medio è molto diversificato: va dai 30 euro annui dei casi di minore impatto, ai circa 430 euro nei capoluoghi che hanno applicato un’aliquota relativamente elevata (intorno al 2,5 per mille)».

La Confedilizia in un dossier ha fatto il punto sul peso della tassazione immobiliare. L’Italia, nel confronto internazionale, è il paese con il maggior livello di imposizione fiscale sugli immobili. La manovra Monti per il 2012 ha portato il nostro Paese a una pressione del 2,2% sul Pil e del 2,75% sul reddito disponibile, contro la media Ocse di 1,27% e 1,59%, ossia circa 1 punto in meno sul Pil e 1,15 sul reddito disponibile. Il divario si accentua nei confronti della media Ue – che ha una pressione fiscale, rispettivamente, dell’1,15% e dell’1,40% – e, ulteriormente, con l’Eurozona, che ha una pressione dell’1,13% e dell’1,40%, ossia la metà circa di quella dell’Italia sia rispetto al Pil che al reddito disponibile.

Oltre al record di peso fiscale l’Italia detiene anche il primato per le stranezze sulle aliquote e le detrazioni. A Ferrara, per conoscere la detrazione applicabile per la Tasi sull’abitazione principale, bisogna applicare una formula matematica. A Modena, sono previste 11 detrazioni diverse, ad Asti 9. Il Comune di Parma, poi, prevede una detrazione maggiorata per le abitazioni principali con riferimento alla capacità contributiva della famiglia definita attraverso l’applicazione dell’indicatore Isee e declinata in ben 24 fattispecie diverse. In alcune città importanti (Bologna, Ancona, Treviso), le amministrazioni non si sono limitate a stabilire le aliquote relative al 2014, ma hanno fissato la misura dell’imposta anche per il 2015 e il 2016, sfruttando subito la possibilità di superare il limite massimo che la legge di stabilità dello scorso anno ha previsto solo per il 2014 (a Bologna, ad esempio, l’aliquota è stata fissata al 4,3 per mille sia per il 2015 che per il 2016). Sul «valore» dei figli, poi, ogni Comune ha la sua idea, che traduce in una diversa misura della (eventuale) specifica detrazione stabilita (10, 20, 25, 30 euro ecc.).

La nuova imposta – che, si ricorda, è solo una delle tre componenti della Iuc la sedicente imposta unica comunale che comprende anche l’Imu e la Tari – ha rappresentato infatti una nuova occasione, per i Comuni, per sbizzarrirsi nelle scelte più diverse, soprattutto con riferimento ad aliquote e detrazioni. A dimostrare lo stato d’incertezza e di confusione determinato da questo tributo vale del resto – ricorda Confedilizia – quanto accaduto a Lignano Sabbiadoro (Udine), dove, nonostante il Comune abbia deliberato l’azzeramento della Tasi, il sindaco ha riferito che dai cittadini sono arrivati decine e decine di versamenti del tributo. Il presidente della Confedilizia ha chiesto al governo di dare un segnale con la legge di Stabilità per consentire il rilancio del settore immobiliare «che non può essere la valvola di sicurezza ogni volta che lo stato ha bisogno di far cassa». Un intervento significativo potrebbe essere, secondo la Confedilizia, «una riduzione importante delle rendite catastali».

Se aumenta le tasse lo Stato fa autogol

Se aumenta le tasse lo Stato fa autogol

Francesco Forte – Il Giornale

Il pastore che tosa le pecore rovinandone il vello ottiene meno lana di quello che si comporta con moderazione. Questa antica massima, riguardante gli effetti negativi di imposte con aliquote troppo elevate ha una triste conferma nel gettito delle imposte in Italia nei primi otto mesi del 2014, in confronto ai primi otto del 2013, che registra una flessione dello 0,4 per cento nonostante gli aumenti a raffica attuati dai governi Letta e Renzi.

Mi scuso per i numeri aridi. Ma valgono molto più delle parole retoriche che spesso si leggono in materia fiscale. Non si può attribuire questa diminuzione alla riduzione del nostro prodotto nazionale, che per il 2014 è ora calcolata dagli esperti del nostro ministero dell’Economia nel meno 0,3 per cento per il semplice fatto che nei primi sette mesi non c’è stata complessivamente alcun diminuzione, ma un andamento di crescita zero, che considerando il piccolo aumento dei prezzi che si è verificato, implica una piccola crescita del Pil in moneta corrente.

La diminuzione delle entrate si spiega con il fatto che il pastore del Pd, sia esso impersonato da Letta con Saccomanni ministro dell’Economia o da Renzi con Padoan nel ministero in questione strappa la pelle al contribuente con aliquote eccessive. La diminuzione dello 0,4 per cento del gettito delle imposte è avvenuta per somma algebrica dell’aumento dell’Iva del 3,8 per cento pari a un miliardo che deriva dall’aumento dell’aliquota ordinaria dal 21 al 22, decretata dal governo Letta e iniziata nel quarto trimestre dello scorso anno e quindi non operativa nei primi sette mesi del 2013 e la riduzione del 19% dell’Ires, l’imposta sulle società, che ha fatto perdere 2 miliardi a cui si aggiungono i 900 milioni in meno nell’imposta sul reddito personale l’Irpef, che ha registrato una diminuzione dello 0,8% e una vistosa diminuzione della cedolare secca sulle rendite finanziarie che arriva al 26 per cento per il risparmio gestito e al 11% per gli altri tipi di redditi di risparmi diversi dal debito pubblico.

Questa imposta è stata aumentata dal governo Renzi dal 20 al 26 per cento e chiaramente molti risparmiatori si sono disamorati di questo investimento, con grave danno per il mondo delle imprese che usano questi soldi per le loro attività produttive. Si dirà che l’aumento è entrato in vigore dal luglio del 2014. Ma il programma di Renzi di aumento di questa tassa era stato da tempo preannunciato e quindi già all’inizio di quest’anno il risparmiatore si è spaventato, Einaudi scriveva che i risparmiatori sono come le pecore in gregge che tendono a stare ferme, ma che quando si spaventano corrono via veloci. Ci sono tanti modi per portare il gruzzoletto all’estero.

Quanto all’Iva il suo maggior gettito è per il fisco un guadagno illusorio. Infatti aumentandola sono calati i consumi e le imprese hanno venduto di meno e ciò ha fatto scendere i loro utili e fatto scendere l’imposta sulle società e quella personale sul reddito e il minor consumo ha anche generato una erosione dell’imponibile Iva perché è aumentata l’economia in nero. Così le nuove elevate aliquote di Letta e Renzi (che oltre all’Iva ha aumentato la Tasi) in aggiunta agli altri aumenti di aliquote a cura del governo Monti (incubatore dei successivi governi Pd) con l’Imu e con l’aumento della cedolare sulle rendite finanziarie dal 12,5 al 20% ha fatto scappare una parte delle pecore, Altre sono dimagrite, altre hanno perso una parte del pelo (bilanci in rosso, fallimenti e chiusure di attività).

Non giova concedere esoneri ai bassi redditi tosando a dismisura coloro che ne hanno un po’ di più. È illusorio ridurre la diseguaglianza sociale creando e accentuando la diseguaglianza fiscale. E così l’operazione 80 euro in busta paga ai bassi redditi accompagnata dalla raffica dei rialzi di aliquote sui piccoli e medi borghesi è stata un’operazione a somma negativa: per tutti perché tutti stanno peggio, come mostrano i dati sulla crisi delle imprese.

Sbaglia l’Erario? Paga il commercialista

Sbaglia l’Erario? Paga il commercialista

Franco Bechis – Libero

I commercialisti e gli intermediari autorizzati come i Caf pagheranno per gli errori dell’Agenzia delle Entrate. Nonostante le richieste di modifica avanzate dalle commissioni parlamentari e le promesse avanzate negli incontri con i professionisti, il governo non modificherà la sostanza più controversa del decreto legislativo sulla semplificazione fiscale, quello che stabilisce la messa a disposizione dal 2015 della dichiarazione dei redditi precompilata.

Il provvedimento è uno dei fiori all’occhiello del governo Renzi, che a inizio estate aveva inviato a Camera e Senato la prima bozza di decreto legislativo sulla «dichiarazione dei redditi a casa». Molti punti però non sono piaciuti alla maggioranza che aveva inserito nei pareri votati sia alla Camera che al Senato decine di richieste di modifica. Il governo le ha quasi tutte rigettate con una procedura che non ha molti precedenti e ha inviato il nuovo testo per un parere alle commissioni parlamentari. Scelta un po’ inutile, vista l’inefficacia dei pareri precedenti, ma la forma è salva. Il decreto bis del governo non modifica il suo impianto: la dichiarazione dei redditi precompilata verrà inviata «per via telematica» ai pensionati e ai lavoratori dipendenti, e probabilmente non tutti ne ricaveranno grande vantaggio, costretti anche solo per imperizia tecnologica a rivolgersi a un intermediario come il commercialista o il Caf.

Ottenuta quella dichiarazione dei redditi precompilata i contribuenti avranno due facoltà: accettarla così come è, presentandola senza correzioni. Oppure modificarla anche solo per inserire detrazioni o deduzioni a cui si ha diritto (ad esempio le spese mediche). In tale caso la dichiarazione andrà ricompilata come non fosse arrivata dalla Agenzia delle Entrate e ogni vantaggio pratico sparirà. Ma sia nel primo caso (si rimanda indietro la dichiarazione ricevuta), che nel secondo (la si cambia inserendo deduzioni e detrazioni), l’Agenzia delle Entrate potrà effettuare un controllo formale e contestare le cifre inserite. Non lo farà nei confronti del singolo contribuente, a meno che non ci sia dolo o colpa manifesta, ma sanzionerà il commercialista o il Caf che presenta la dichiarazione dei redditi apponendovi il visto di conformità.

L’intermediario quindi dovrà controllare anche la semplice dichiarazione precompilata dall’Agenzia delle Entrate, perché se lo Stato compie errori per il difetto di incrocio delle sue banche dati (che infatti funzionano non alla perfezione), scatteranno sanzioni a commercialisti e Caf. Camera e Senato avevano chiesto di fare sparire questa norma, che sembra illogica: se lo Stato non è in grado di compilare una dichiarazione dei redditi fedele, perché mai dovrebbe essere in grado di controllare meglio un commercialista? Ma il governo è stato irremovibile: gli intermediari sono pagati per il loro lavoro, per cui debbono accettare il rischio conseguente. L’unica cosa che si concede loro è un po’ di tempo (da luglio al 10 novembre) per rettificare i dati presentati pagando una sanzione ridotta di un ottavo del minimo previsto.

Il grande gelo degli investimenti

Il grande gelo degli investimenti

Riccardo Gallo – Corriere della Sera

Il governo non ha abbastanza tempo e soldi per fare tutte le riforme necessarie. L’ideale sarebbe individuarne una che fosse tanto virtuosa da rendere le altre meno urgenti. Questo bandolo della matassa però non l’ha cercato ancora nessuno. Cominciamo col dire che ci può essere crescita economica e lavorativa solo se le imprese private tornano a investire. L’ha detto anche Mario Draghi.

In un lavoro di ricerca abbiamo analizzato dal 1992 al 2013 l’insieme delle imprese industriali censite da Mediobanca. È venuto fuori che l’anzianità dei mezzi di produzione è raddoppiata: nove anni nel 1992, undici nel 2003, diciannove nel 2013. Da tempo le imprese non rinnovano gli impianti, tirano il collo a quelli vecchi, con rischi per ambiente e sicurezza. Per ridurre i costi fissi, fanno fare sempre più cose ad altri. Il valore aggiunto, si sa, è quanto un’impresa ci mette di suo in quello che vende. Ebbene si è quasi dimezzato: nel 1992 era il 27% del prodotto, nel 2005 era sotto il 20%, nel 2013 appena il 15%. Gli impianti più vecchi sono già ammortizzati, perciò gli ammortamenti ancora da fare sono pochi e così, finché le fabbriche reggono, e nonostante il crollo del valore aggiunto, restano margini per utili incredibili.

Tutti festeggiano, anche il Fisco. Non spendendo per nuovi investimenti, né per impianti né per acquisire aziende, la cassa è piena e serve a ridurre l’esposizione bancaria. Alla fine, anche se i prodotti continuano ad avere domanda di mercato, le imprese chiudono gli impianti vecchi. Perciò mese dopo mese la produzione e gli ordini calano, ma mica solo per congiuntura avversa. È che l’Italia si deindustrializza. Dall’analisi si vede che gli indicatori sono peggiorati un po’ dopo l’euro. Ciò fa pensare a una resa degli imprenditori per la rigidità del cambio. Tra tutti gli indicatori però ce n’è uno che fa eccezione. Il surplus di cassa (per mancati investimenti) comincia a essere evidente già nel 1999, un istante prima del debutto dell’euro. La causa originaria del declino va dunque cercata in un momento antecedente.

Qualcos’altro dev’essersi rotto nella seconda metà degli anni Novanta nel modello industriale italiano. Per cinquant’anni gli imprenditori avevano evaso il Fisco, avevano portato capitali all’estero, avevano promosso investimenti di ampliamento, avevano chiesto mutui agli istituti di credito industriale, li avevano ottenuti dopo un esame di merito, spesso a condizione che prima ricapitalizzassero la società, avevano ubbidito e avevano riportato dall’estero i capitali a casa, senza condoni, anzi orgogliosi. Quasi mai licenziavano i loro collaboratori. È stato il modello di un’Italietta irregolare che se la cavava e cresceva.

Nel 1993 il varo della banca universale ha superato la bipartizione tra banche commerciali che finanziano il breve e istituti di credito industriale a medio-lungo termine. Tra il 1994 e il 1999 le banche commerciali hanno incorporato sei istituti di credito industriale e ne hanno disperso il mestiere. A quel punto le imprese industriali non hanno più chiesto o ricevuto mutui. Nel 1992 su 100 euro di capitale di rischio ce n’erano 60 di mutuo, nel 1998 ne restavano 37. Le imprese hanno smesso di fare investimenti tecnici, poche hanno fatto shopping societario all’estero. Tutto si è ridotto al breve: magazzino, incasso dai clienti, pagamento dei fornitori. Sono aumentate le sofferenze delle banche verso le imprese più piccole. Stentano i titoli ABS, le cartolarizzazioni. Abrogato il modello dell’Italietta, non è decollato l’altro per un’Italia moderna. Può essere questo del finanziamento degli investimenti il bandolo della matassa?

Entrate, in aumento Iva e rendite

Entrate, in aumento Iva e rendite

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Nell’anno in cui il Pil registrerà una contrazione dello 0,3%, le entrate tributarie per ora mostrano una sostanziale tenuta. Stando ai dati diffusi ieri dal ministero dell’Economia, nel periodo gennaio-agosto le entrate tributarie erariali, accertate in base al criterio della competenza giuridica, si sono attestare a quota 266 miliardi, in lieve flessione dello 0,4% rispetto allo stesso periodo del 2013. Un segnale positivo si evidenzia sul fronte dell’Iva che segna un incremento del 3,1% (due miliardi in più di gettito). Nel complesso, le imposte dirette registrano un gettito di 142,6 miliardi, in calo del 3,5% (-5,1 miliardi) nel confronto con i primi otto mesi dello scorso anno. L’Irpef – rileva il Mef – presenta una leggera variazione negativa dello 0,8% (-928 milioni di euro), che riflette gli andamenti delle ritenute sui redditi dei dipendenti del settore privato (-0,8%), delle ritenute sui redditi dei dipendenti del settore pubblico (-1%) e dei lavoratori autonomi (-2,5%), parzialmente compensati dall’aumento dei versamenti in autoliquidazione (+0,8%).

Quanto all’Ires, i dati diffusi ieri evidenziano un calo del 18,7% (-3,5 miliardi), «essenzialmente riconducibile ai minori versamenti a saldo 1013 e in acconto 2014, effettuati da banche e assicurazioni a seguito dell’incremento della misura dell’acconto 2013 fissato», per questi contribuenti, al 130% nel novembre del 2013. In calo anche l’imposta sostitutiva su interessi e altri redditi di capitale (-10,3%) e sul risparmio gestito e amministrato (-26,2%). Un effetto in qualche modo “compensativo” dell’aumento della percentuale dell’acconto dovuto nei mesi scorsi. Il bollettino segnala, invece, un aumento del 110,7% (465 milioni) del gettito dalle ritenute sugli utili distribuiti da persone giuridiche: la spiegazione è riconducibile sia all’aumento dei dividendi dovuti nel 1014 sia a un primo effetto dell’aumento della tassazione sulle rendite (passata dal 20% al 26% dal 1 luglio scorso).

Per quel che riguarda le imposte indirette, il gettito è pari a 123,4 miliardi, con un incremento del 3,4% (+4,1 miliardi), rispetto ai primi otto mesi dello scorso anno. Il Mef conferma che per l’Iva l’andamento positivo riguarda in particolare gli scambi interni (+4,1%) mentre il gettito dell’accisa sui prodotti energetici (oli minerali) registra un incremento del 6,8%, principalmente per effetto dell’abolizione della riserva destinata alle regioni a statuto ordinario, che dal mese di dicembre 2013 viene contabilizzata tra le imposte erariali. Le entrate relative ai giochi presentano infine una lieve crescita dello 0,5% (+36 milioni di euro), mentre gli incassi da attività di accertamento e controllo risultano in crescita del 14,2% (+681 milioni di euro).

Troppe tasse, ecco la gara a demolire la propria casa

Troppe tasse, ecco la gara a demolire la propria casa

Filippo Caleri – Il Tempo

Dal valore del mattone al piccone per demolirlo. È il triste destino del patrimonio immobiliare italiano, vanto della classe media, tra le più ricche del mondo grazie all’amore, viscerale ma comunque contraccambiato per la proprietà edilizia. Un amore finito, distrutto e lacerato dalle tasse. Sì, ora per non pagare più il conto al fisco, che sulle case ha messo radici e deciso di finanziare senza pietà e a oltranza il deficit dello Stato, si ricorre alla distruzione delle abitazioni o, nell’ipotesi migliore, alla donazione allo Stato. Non è uno scherzo. Ma il risultato inatteso, o forse pianificato e inconfessabile, dei grandi economisti consiglieri dei governi che hanno puntato inopinatamente sull’equazione casa uguale ricchezza, colpendo al cuore e al portafoglio una nazione intera e il nervo portante della sua economia. Dunque la Tasi, ultima invenzione di una classe politica incapace di costruire il futuro e in cerca solo di risorse per tappare i buchi creati dai privilegi accordati nel passato, sta diventando un incubo per molte famiglie italiane. E il genio italico, che nel Dna ha la ricerca della scappatoia per fuggire alla gabella, si è messo già all’opera.

Per la Confedilizia, che rappresenta una buona parte dei proprietari di immobili, sono sempre più frequenti i casi di proprietari di case che, tartassati per case ricevute in eredità e posizionate in angoli remoti del Paese, pensano di lasciare allo Stato i loro «mattoni». Una facoltà prevista dall’articolo 827 del codice civile che recita testuale: «I beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato». In linea di principio dunque basterebbe l’abbandono di fatto di una casa e la comunicazione ufficiale al comune in cui è sito l’immobile per far scattare il passaggio del bene nella disponibilità dello Stato. E la liberazione dall’Imu. Un’ipotesi che è dibattuta però tra i giuristi interrogati dall’associazione. Sì perché lo Stato potrebbe opporre che il passaggio di proprietà, anche se a titolo gratuito, non è esente dal pagamento delle tasse. In particolare potrebbe essere richiesta, se avvalorata l’ipotesi di una donazione, una quota pari all’8% del valore catastale. Se invece passasse l’idea di un trasferimento contrattuale a costo zero allora le Entrate potrebbero esigere l’imposta di registro, il 9% del valore iscritto al catasto, e la tassa catastale che è determinata in cifra fissa. Insomma nemmeno lasciando l’immobile nelle mani dell’amministrazione lo Stato si accontenterebbe. Regalo sì, ma a pagamento, dunque. Questo potrebbe essere il destino di molti italiani stanchi di pagare balzelli su case ereditate dai nonni, luoghi della memoria e dei momenti felici dell’infanzia. Immobili che si trovano, però, nelle aree interne colpite dal calo demografico, sulle quali si pagano comunque Imu (seconda casa) e Tasi esagerate rispetto al valore di mercato vicino allo zero. Tra quelli interessati alla cosiddetta «rinuncia» ci sono anche molti lavoratori con reddito decurtato dalla crisi che non riescono a più mantenere, tra imposte e costi aggiuntivi, la casa delle vacanze. Per queste, infatti, le possibilità di rivendita sono nulle visto che la crisi le ha prese particolarmente di mira.

Fin qui le ipotesi di cessione. Ma ci sono anche ipotesi più estreme. Come sempre più spesso accade nei territori collinari e montani. Lo spopolamento di queste aree ha lasciato in eredità centinaia di case nate per l’agricoltura sulle quali, a partire dal governo Monti, si pagano imposte al pari di fabbricati civili. Così alle manutenzioni si aggiungono costi fiscali insostenibili per molti. Le soluzioni anche in questo caso sono amare e violente. Molti rendono inagibile l’edificio staccando le utenze ed eliminando alcune parti come finestre e porte. Così se la casa non è abitabile ma è facilmente riattabile e l’Imu è decurtata del 50% con semplice richiesta al Comune. Ma se l’inagibilità è totale, ovvero l’immobile è a un passo dall’essere un rudere, l’Imu non si paga più. Ed è così che molti stanno distruggendo i tetti per dimostrare la non utilizzabilità del bene. Un processo che è l’anticamera della demolizione. E cioè il completo annullamento della registrazione catastale. Le pratiche di cancellazione di questo genere, lo scorso anno, sono aumentate del 20% spiega Confedilizia. Ma così, in nome del fisco e della colpevolizzazione della proprietà, si distrugge la storia di un Paese.

La retribuzione e la carica (doppia) del fisco

La retribuzione e la carica (doppia) del fisco

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

L’anticipo del Tfr in busta paga potrebbe valere un incasso annuo per lo Stato che va da 1,7 a 5,6 miliardi a seconda del tasso di adesione dei lavoratori alla proposta lanciata dal premier Matteo Renzi. I calcoli sono stati fatti dall’economista Stefano Patriarca per il sito la voce.info. Nell’ipotesi di un’adesione media, il gettito si posizionerebbe intorno ai 3 miliardi.

L’ipotesi è che il Tfr, anche se aggiunto in busta paga, venga tassato separatamente, non si sommi, quindi, agli stipendi ai fini delle trattenute mensili, e con l’applicazione di un’aliquota del 23%, la minima prevista ai fini Irpef. Si tratterebbe, ovviamente, di un anticipo di tassazione perché lo Stato incasserebbe oggi quello che, mantenendo l’istituto della liquidazione, incamererebbe tra 20 o 30 anni. Attualmente sul Tfr si paga anche un’imposta dell’11% sui rendimenti annui. Sulla sorte di questo prelievo non si hanno notizie. I progetti del governo non sono stati svelati completamente, ma guardando queste cifre viene il sospetto che l’obiettivo non sia solo quello di rilanciare i consumi. Certo, questo è l’obiettivo più importante. Ma con l’effetto non secondario di garantire all’Erario un tesoretto non indifferente. Se poi mettiamo in conto l’Iva sui maggiori consumi, il gettito si arrotonderebbe di un altro miliardo, forse di più.

Con il Tfr in busta paga i lavoratori vedrebbero aumentare il loro reddito e il loro potere d’acquisto, anticiperebbero ora le imposte sul Tfr, e lo Stato incasserebbe dai 3 ai 6/7 miliardi. Niente male. Senza contare che la rivalutazione potrebbe essere a rischio. Più consumi, incassando più tasse. Un piccolo miracolo all’italiana. Sarebbe importante chiarire da subito quale potrebbe essere il trattamento fiscale perché l’operazione non sembri finalizzata soprattutto ad aumentare le entrate. I sindacati chiedono che l’anticipo del Tfr sia a tassazione zero, difficile crederlo. Altrettanto importante è chiarire come andare incontro alle esigenze finanziarie delle piccole imprese. Le banche, questa volta, risponderanno presente?