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Ridurre la spesa si può: chiedete a Maroni
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Massimo Blasoni – Panorama
Nei primi anni Settanta il peso di tasse e imposte sul Pil italiano non arrivava al 25%. Oggi supera il 50% in termini reali. È necessaria una significativa riduzione di questo carico che grava sui consumi degli italiani e frena la possibilità di fare impresa e di attirare investimenti esteri. Ciò è possibile solo a patto di comprimere il perimetro di attività dello Stato: Regioni, Province e Comuni hanno moltissimo,incrementando costantemente costi e attività svolte anche quando, con vantaggio, potevano essere lasciate al mercato. Oggi si ipotizza di abolire la Tasi, ma ogni annuncio di minori tasse che non parta da una precisa elencazione delle spese che si vogliono tagliare, rischia di risultare poi disatteso. Ovvero di produrre nuove imposte in luogo di quelle abolite: è già successo.
Nelle intenzioni del Governo il minor gettito derivante dall’abolizione della tassa sulla prima casa e altro dovrebbe essere compensato da tagli per almeno 10 miliardi di euro. Operazione non facile se pensiamo che negli ultimi anni la spesa è sempre cresciuta malgrado tutti i propositi di razionalizzarla. I dati del DEF sono impietosi: nel 2012 la spesa corrente al netto degli interessi sul debito era pari a più di 671 miliardi, cresciuti nel 2013 a 684 e poi a 692,3 miliardi nel 2014. Non è ovunque così, tanto che il governo di David Cameron in Inghilterra è riuscito a ridurre tra il 2010 e il 2013 la spesa di quasi 50 miliardi e oggi l’economia britannica, nonostante sia stata colpita da una crisi finanziaria più grave di quella che investito l’Italia, cresce tra il 2 e il 3% annui. In Italia invece, diversamente dagli altri partner europei, si riduce la spesa per investimenti anziché quella corrente. Lo Stato ha tagliato tra il 2009 e il 2013 15,9 miliardi di euro di investimenti – dato Eurostat – ma malgrado ciò la spesa complessiva è salita.
Quanto a incremento di spesa corrente negli ultimi anni, meritano un richiamo le Regioni. Dai dati resi noti dalla Corte dei Conti sui flussi di cassa necessari a sostenere la loro spesa, si rileva che dal 2011 al 2014, in pieno periodo di spending review, questa è cresciuta da 141,7 a 145,6 miliardi. Non tutte le Regioni si comportano ugualmente, però. Nello stesso arco temporale la virtuosa Lombardia ha ridotto del 11,6% le proprie spese, mentre il Lazio le ha accresciute del 33%. In termini assoluti per ogni cittadino la Lombardia spende 1.739 euro, poco più della metà del Lazio, la Regione che, con i suoi 3.129 euro di spesa corrente procapite, fa segnare l’esborso più alto tra tutte quelle a statuto ordinario. Questa rilevante differenza, a parità di competenze, fa riflettere e, se proiettata a livello nazionale, ci convince ancor di più che ridurre la spesa pubblica è possibile. In questo caso la Lombardia insegna.
Tasse e burocrazia, l’Italia soffoca le imprese
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Massimo Blasoni – Il Giornale
Il dibattito politico viene da mesi monopolizzato da numeri, percentuali, tendenze del Pil e andamento dell’occupazione. Cresciamo dello 0,7%, l’inflazione cresce dello 0,2%: si ha spesso l’impressione di parlare di qualcosa di etereo e poco concreto. Le tasse, la burocrazia, le difficoltà di accesso al credito sono invece aspetti quotidiani e molto concreti con cui le imprese si confrontano ogni giorno.
La difficoltà di fare impresa in Italia è evidente dal confronto con gli altri partner europei: ipotizziamo una sfida Italia-Inghilterra. Prendiamo due aziende manifatturiere che producono esattamente la stessa cosa. Una ha sede nell’hinterland milanese e l’altra nella periferia di Londra. Partiamo da uno dei principali fattori produttivi: il lavoro. Anche lasciando da parte per un attimo i difficili rapporti sindacali, il tasso di assenteismo e di sciopero, lo scarso aiuto che i servizi pubblici di collocamento offrono alle imprese ci rendiamo subito conto che il costo che le due aziende sostengono per retribuire i propri dipendenti penalizza nettamente l’impresa italiana. Questa avrà, secondo i dati Eurostat, un costo medio orario di 28,3 euro, contro i 22,3 euro dell’azienda inglese. Purtroppo i nostri lavoratori non sono pagati meglio, piuttosto subiscono un cuneo fiscale (tasse e contributi) che pesa per il 44,9% in Italia e per il 26,8% in Inghilterra.
Non va meglio se guardiamo ai costi dell’energia. Una media impresa italiana paga le proprie forniture energetiche il 30% in più di un’azienda britannica evidenziando tutti gli errori di prospettiva che si sono commessi negli ultimi vent’anni in materia, dall’aprioristico rifiuto del nucleare ai cronici ritardi infrastrutturali.
La burocrazia rende il divario ancora maggiore. Per costruire un nuovo capannone l’imprenditore italiano attenderà 233 giorni per ricevere dalle autorità competenti il permesso di costruzione. L’imprenditore londinese avrà già iniziato a far lavorare l’impresa edile da ben 4 mesi, dovendo aspettare 105 giorni, meno della metà. E a Londra si attende meno della metà anche per l’esito di una causa in sede civile: 407 giorni contro i 1.185 giorni necessari per i nostri tre gradi di giudizio. I dati sono tutti tratti dal rapporto annuale della Banca Mondiale.
Se poi la nostra impresa si trova nella sfortunata condizione di essere fornitrice di una Pubblica Amministrazione dovrà sopportare un’attesa media di 144 giorni. Un tempo sei volte superiore a quello medio nel Regno Unito, dove con 24 giorni trascorsi tra l’emissione della fattura e il pagamento il settore pubblico si dimostra addirittura più celere di quanto richiesto dalla direttiva comunitaria in materia. Questi ritardi nei pagamenti hanno un costo assai rilevante per le nostre imprese: i crediti vanno anticipati presso il sistema bancario e il nostro sistema creditizio è tra i più costosi d’Europa.
Infine ci sono le tasse. Al cuneo fiscale cui si è accennato poco sopra vanno aggiunte le tasse sugli utili d’impresa, con un Total Tax Rate –lo dice sempre la Banca Mondiale – che raggiunge nel nostro paese il livello record del 65.4% dei profitti. Più di 30 punti percentuali sopra il Tax Rate dei sudditi di Sua Maestà che si ferma al 33,7%. Non basta: per noi è anche difficile essere in regola con il fisco. Una media impresa britannica impiega ogni anno 110 ore per gli otto appuntamenti fiscali previsti dal governo. In Italia la cifra raddoppia: 15 pagamenti ogni anno per un impiego di 269 ore e un costo per l’azienda di 7.600 euro. Una specie di tassa sulle tasse.
Un solo accenno alla spesa pubblica, che indirettamente molto incide sulla vita delle aziende. L’esecutivo di David Cameron, dal 2010 al 2013, ha tagliando 2,6 punti percentuali di Pil di spesa facendo scendere i costi statali dal 47% al 44,4%. Una sforbiciata che vale in termini reali 57 miliardi. Nello stesso periodo, nonostante i molti annunci di spending review e i tanti Commissari per la revisione della spesa, l’Italia ha visto crescere la spese pubblica. Ovviamente finanziandosi con le sempre crescenti tasse di cittadini e imprese.
Davanti a questi numeri è davvero difficile stupirsi nel vedere il Pil del Regno Unito crescere del 2,6% su base annua e non capire perché è davvero difficile fare impresa in Italia. Un ultima considerazione. Abbiamo evitato di confrontare la difficoltà del nostro imprenditore dell’hinterland milanese con quelle di un imprenditore bavarese: il confronto sarebbe diventato davvero impietoso.
Massimo Blasoni
Imprenditore, Presidente Centro Studi ImpresaLavoro
Il martedì di Imu-Tasi: 12 miliardi e nell’83% delle città saldo a rischio rincaro – La Repubblica
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Roberto Petrini – La Repubblica
Conto alla rovescia per il taxDay sulla casa. Martedì 19,7 milioni di proprietari di prima casa e 25 milioni di proprietari di altri immobili saranno chiamati a pagare rispettivamente l’acconto Tasi e la prima rata dell’Imu. Un doppio prelievo fiscale che vale almeno 12 miliardi (9,7 di Imu e 2,3 di Tasi). La data rischia di essere un vero e proprio «martedì nero»: tra acconti e saldi Irpef, Ires e Irap e altro i contribuenti saranno chiamati a versare altri 38 miliardi.
Il costo medio della Tasi, secondo il consueto rapporto della Uil servizio politiche territoriali, sarà di 180 euro medi (90 euro da versare con l’acconto), ma se si prendono a riferimento le città capoluogo l’importo sale a 230 euro medi (115 euro per l’acconto), con punte di 403 euro. Cifre decisamente più alte per quanto riguarda l’acconto Imu sulle seconde case: il costo medio in questo caso è di 866 euro di cui 433 euro da pagare con l’accconto di giugno, con punte di 2.028 euro a Roma (1.014 euro l’acconto) e 1.828 euro a Milano (914 euro di acconto). Tra le città in cui l’acconto Tasi prima casa sarà «mini», la classifica vede in prima fila Asti (10 euro), seguita da Ascoli Piceno (23 euro) e da Crotone con 26 euro.
Le sorprese tuttavia non sono finite. Quest’anno non dovrebbe verificarsi il caos del 2014 quando si rimase nell’incertezza dell’aliquota in attesa delle delibere: si pagherà infatti con l’aliquota approvata dai Comuni per l’anno 2014.Tuttavia questo sollievo potrebbe essere solo apparente, perché i Municipi hanno tempo fino al 31 luglio per approvare i bilanci e le relative delibere Tasi- Imu: di conseguenza in sede di saldo, il 16 dicembre, potrebbe arrivare la «stangata» dell’aumento. Ad oggi infatti, secondo uno studio dell’Agefis, l’associazione dei geometri fiscalisti, solo il 16,5 per cento dei Comuni ha deliberato le nuove aliquote, il restante 83,5 per cento potrebbe riservare una sgradevole scoperta al contribuente. In pochissimi casi, a parte la virtuosa Valle d’Aosta che raggiunge un 81 per cento, nelle regioni italiane si trovano percentuali superiori al 20 per cento. Al Sud le delibere non raggiungono il 10 per cento. «Dove non c’è delibera non si possono dormire sonni tranquilli», dice Mirco Mion, presidente dell’Agefis.
La pressione fiscale sulla casa è comunque in crescita: secondo una rilevazione del Centro studi ImpresaLavoro il totale delle imposte che gravano sugli immobili sono cresciute rapidamente negli ultimi quattro anni, passando dai 38 del 2011 agli oltre 50 nel 2014. Si attende per il prossimo anno la più volte annunciata local tax: «Cambierà il nome, ma non la sostanza delle cose, bisogna rivedere le addizionali comunali Irpef, avverte Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil.
Superati i 50 miliardi di tasse sulla casa – Libero
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Davide Giacalone – Libero
Ingannevole e intollerabile. Un Paese ricco abitato da poveri. Queste le caratteristiche del ritratto fiscale, come ogni anno desumibile dalle dichiarazioni dei redditi. Un profilo deformato dal satanismo fiscale, in una gara di disonestà fra l’esattore e l’esatto, il cui esito è l’impoverimento collettivo.
L’Italia è in cima alla classifica europea per il prelievo fiscale sui redditi da lavoro (implicit tax rate). Al secondo per quello sui redditi d’impresa. Al quarto, ma stiamo risalendo, per la tassazione ricorrente sul patrimonio immobiliare. Ha un senso che chi tassa molto il patrimonio tassi meno i redditi, e viceversa, ma noi primeggiamo nel tassare tutto, portando il prelievo fiscale al 43,4% del prodotto interno lordo, nel mentre la spesa per investimenti è crollata, in tre anni, del 27%. In sei anni, dal 2009 al 2014, le entrate fiscali sono cresciute di 55 miliardi. La media europea del peso fiscale sui ricavi d’impresa (total tax rate) è del 41,8%. Lasciamo nel mondo dei sogni (nostri), il Regno Unito, dove è del 33,7, ma in Germania arriva al 48,8, mentre da noi ha toccato la vetta del 65,4%.
Intollerabile quel che emerge dalle dichiarazioni dei redditi, perché nel mentre si continua a sentir dire che dovrebbe aumentare la pressione fiscale sui ricchi, lasciando perdere le fasce meno abbienti, questa è la realtà (messa bene in luce da Alberto Brambilla e Paolo Novati): lo 0.19% dei contribuenti versa il 6.9% dell’intero gettito Irpef; l’1,2 il 16,3; il 4,01 il 32.6. A questi signori si dovrebbe fare un monumento, invece li si continua a tartassare con la scusa che sono “ricchi”. In realtà non lo sono affatto. Sono solo onesti. Intanto poco più di 10 milioni di italiani, il 25,23% dei contribuenti che presentano la dichiarazione dei redditi (circa 41 milioni), non versa praticamente nulla: 55 euro. Già solo per pagare le loro spese sanitarie si deve ricorrere ai soldi altrui. Mettete questi numeri in relazione con la retorica del daglialricco e arrivate alla conclusione: intollerabile. Ma anche ingannevole. Perché l’Irpef è solo l’imposta sui redditi, mica il complesso delle pretese fiscali dello Stato. Martedì 16 si pagano le tasse sulla casa, che sono patrimoniali variamente mascherate. Quest’anno si batterà il record: per la prima volta si sfonda il tetto dei 50 miliardi. Il calcolo fatto dal centro studi ImpresaLavoro è impressionante: nel 2011 gravavano, sulla casa, tasse per 38 miliardi, quattro anni dopo siamo sopra 50. Non so quanti sono in grado di ricordare il balletto delle sigle: Ici, Imu, Tarsu, Tares, Tari e Tasi. Ogni volta si prometteva che non ci sarebbero stati aggravi, se non addirittura sgravi, il risultato è quello appena descritto.
Già, però abbiamo avuto le semplificazioni. Quali? Le dichiarazioni precompilate si sono rivelate, come qui anticipato, precomplicate. Siamo giunti al punto che quelle già firmate e inviate potevano essere modificate e rispedite, dato che la fonte degli errori era l’amministrazione pubblica. L’introduzione della certificazione unica ha creato un caos pericoloso, anche perché il programma per poterla fare correttamente è stato distribuito pochi giorni prima della scadenza, risultato: ritardi, errori, certificazioni non regolari. Per ciascuna difformità il contribuente dovrebbe pagare 100 euro di multa, salvo l’aggravio d’imposta e relativa maggiorazione. Stanno provando a eliminare almeno la multa, visto che è proprio l’Agenzia a perdonare sé stessa. Per le tasse locali dovevano arrivare i bollettini precompilati, che non solo mancano, nella grande maggioranza dei casi, ma neanche è stata fissata l’aliquota da pagarsi, per cui martedì siamo tenuti a pagare quanto pagammo l’anno scorso, salvo attendere che ci facciano sapere a quanto ammonta la differenza da versare poi. Alla faccia delle semplificazioni.
Il satanismo fiscale, inoltre, ha affondato l’ipotesi di far aumentare la liquidità nelle tasche delle famiglie, quindi la propensione alla spesa, mediante anticipazione in busta paga del Trattamento fine rapporto. Ha aderito all’idea solo lo 0,056% dei lavoratori, mentre il 60% dichiarava di non volerlo fare perché avrebbe comportato un consistente svantaggio fiscale. Ed è così.
Nessuno, che sia serio e abbia sale in zucca, crede che questa sia una materia semplice o che si possa cambiarla con un tocco di bacchetta magica. Ma nessuno, che non sia un propagandista da tre palle un soldo, può sostenere che si siano fatti passi in avanti. Il cappio è invariato: la pressione fiscale quale variabile dipendente dalla spesa pubblica, che nonostante i tagli, il drastico abbattimento degli investimenti e i bassi tassi d’interesse che dobbiamo alla Banca centrale europea, continua a camminare per i fatti suoi. Questo è il quadro in cui si deve inserire l’idea del governo Renzi di tornare al capitalismo di Stato, che nell’illusione di far crescere il pil mantiene altissima una pressione fiscale che lo asfissia.
Tasse sul mattone
Redazione Studi casa, fisco, immobili, impresalavoro, imu, tasse
NOTA
Alla vigilia del pagamento della prima rata annuale dell’IMU-TASI, va ricordato che il peso delle tasse sul mattone ha sfondato la quota record di 50 miliardi di euro, di cui 38 a carico delle famiglie. È quanto emerge da un’indagine condotta dal centro studi ImpresaLavoro, secondo il quale il totale delle imposte gravanti a vario titolo sugli immobili in Italia (a carico sia dei soggetti privati sia di professionisti e imprese) è cresciuto rapidamente in questi ultimi quattro anni, passando dai 38 miliardi del 2011 agli oltre 50 del 2014. Sulle sole famiglie, il rincaro complessivo è stato nel periodo di 7,2 miliardi (da 31 a 38,2), con una crescente incidenza delle imposte di tipo patrimoniale (da 16,1 a 27,5).
Tale aumento è dovuto in particolare a tre ragioni: l’introduzione anticipata dell’Imu a partire dal 2012 in sostituzione dell’Ici e di una parte dell’Irpef prelevata sugli immobili; la sostituzione della Tarsu con la Tares, divenuta successivamente Tari, con un ricarico finale complessivo pari a circa 2 miliardi annui; l’introduzione della Tasi (2014), per un gettito complessivo di 4,6 miliardi, destinato a sostituirsi alla mancata riscossione dell’Imu sulle abitazioni principali, sostanzialmente abolita dal 2013. Risulta quindi evidente che con l’introduzione anticipata dell’Imu la composizione stessa del prelievo fiscale sugli immobili si sia notevolmente modificata, con una quota ben più elevata (a partire dal 2012) della componente di tipo patrimoniale, non collegata quindi alla produzione di reddito immobiliare ma esclusivamente dalla proprietà o dal possesso delle abitazioni.
Se si considera la sola componente riferita alla tassa di proprietà sugli immobili (nel caso italiano dunque l’IMU ex ICI), nel periodo 2011-2013 il prelievo nel nostro Paese è così salito a 9,9 miliardi (+107,4%): si tratta dell’incremento più rilevante nel campione di 34 paesi per i quali esistono i dati Eurostat e OCSE. La nuova IMU ha poi portato l’entità del gettito dallo 0,6% del PIL dell’ultimo anno di ICI con esenzione dell’abitazione di residenza (era lo 0,7% fino al 2007) prima all’1,4% e poi all’1,2%: un aumento che colloca l’Italia al sesto posto nella classifica europea dopo Regno Unito (3,2%), Francia (2,5%), Islanda (1,7%), Danimarca (1,4%) e Belgio (1,3%), e prima della Spagna (1,1%) e di altri 19 paesi tra cui la Germania (0,4%).
Le tasse universitarie sono cresciute del 51% e non valgono la spesa
Redazione Edicola - Opinioni davide giacalone, giovani, libero, studenti, tasse, università
Davide Giacalone – Libero
Le tasse universitarie crescono tanto e in fretta, ma il problema principale è che sono tasse, senza alcun rapporto fra quel che si paga e la qualità degli studi che si fanno. A tutti è nota la differenza fra una zucchina e il caviale, né avrebbe senso paragonare il prezzo della prima al secondo. Questo non senso, invece, è pienamente vigente nelle scuole e nelle università italiane, ove le pur esistenti differenze qualitative non si riflettono né in differenze di valore dei titoli di studio, né in quattrini necessari per arrivarci.
L’Unione degli universitari ha eseguito un’operazione imprecisa, ma significativa, dividendo, in ciascuna università, il gettito da tasse per il numero degli iscritti. È imprecisa, perché fra quelli c’è chi è esonerato dal pagamento e chi, invece, paga più della media, essendo alto il reddito familiare. È significativa perché dimostra come le tasse siano cresciute del 5% in un anno e del 51% in dieci. E stiamo parlando di anni a bassa inflazione, quando non negativa. Andando oltre la media si scoprono cose ragguardevoli: le tasse sono cresciute del 189% a Lecce, del 135 a Varese e 132 a Trento.
Contrariamente a quanto sembrano provare i giovani dell’Udu, questi dati non mi scandalizzano. È giusto che il costo degli studi sia sostenuto significativamente da chi li frequenta e, quindi, ne trarrà beneficio. Lo scandalo consiste nel chiedere alle famiglie di pagare, ma senza dare uno straccio di dato sui risultati e la qualità. Tasse, appunto, non rette. Obbligo, appunto, non scelta. In gran parte soldi buttati sull’altare di una divinità tarocca: il valore legale del titolo di studio. Quello è il totem da abbattere, se si vuole puntare alla qualità e alla comparabilità.
Sostiene Gianluca Scuccimarra, coordinatore dell’Udu, che «è venuto il momento di operare una riforma complessiva del sistema, che riduca il peso delle tasse, soprattutto per i redditi più bassi, e introduca un criterio forte di progressività». No, si deve fare l’esatto contrario. Quella è la ricetta del socialismo dell’ignoranza. Questo è un sindacalese che fa apparire decrepito anche un giovine. Gli atenei non sono tutti uguali, e ciò deve riflettersi anche sul loro costo. Il diritto allo studio non consiste nel concedere a tutti i redditi di languire in un diplomificio, ma di assicurare ai meritevoli di sopravanzare i somari. La giustizia sociale, nelle università, è assicurata dal prestigio e dalle rette che dipendono dai risultati ottenuti, talché un giovane promettente, ma povero, non solo non lo fanno pagare, ma se lo contendono, perché alzerà la media dei risultati, accrescerà il prestigio dell’ateneo e, quindi, le richieste di denaro che potranno essere fatte a chi voglia frequentarlo.
Le “tasse” producono due negatività. Intanto sono funzione della spesa, non di progetti didattici o investimenti nella qualità. Crescono perché sono diminuiti i finanziamenti governativi, quindi si paga di più senza avere nulla di più. In un sistema più libero e aperto non avrei nulla in contrario a che il rettore metta in cattedra la moglie, ma gli chiederei quanto intende pagarmi se convincessi mio figlio a frequentare quella famiglia di cattedratici. Con le tasse, invece, devo pagare io per potere frequentare il magnifico. Che mi pare una magnifica fregatura.
Local Tax inesistente? Ci costerà più dell’anno scorso
Redazione Edicola - Opinioni davide giacalone, fisco, libero, local tax, tasse
Davide Giacalone – Libero
Giugno, è ora di pagare. Naturalmente, come ogni anno, non si sa come e non si sa quanto. Il satanismo fiscale ha una sua maniacale coerenza, accompagnata da aspetti che potrebbero essere considerati intriganti, se solo si coltiva la passione delle messe nere. Nel 2015, fu detto l’anno prima, non ci saranno più l’Imu e la Tasi, sostituite da una tassa unica, la Local Tax (l’Ici era la stessa cosa, nel senso di “comunale”, e l’Imu era la stesa cosa, nel senso di “unica”: l’innovazione, quindi, stava nell’uso dell’inglesorum). La tassa anglofona, promisero, sarà facile e costerà meno. L’annuncio fu poi corretto: per il 2015 non ci sarà ancora la Local Tax, perché sarebbe sciocco bruciare un’idea cosi innovativa e brillante sulla pira della fretta.
Per andare sul sicuro, quindi, si replicherà la tassazione del 2014, ma con due novità: a. Questa volta i bollettini arriveranno precompilati, sicché il contribuente non dovrà fare altro che scucire; b. Le aliquote saranno fissate entro marzo, assieme all’approvazione dei bilanci comunali. Delusi? No, illusi. Perché nulla di tutto questo è avvenuto, visto che il termine per l’approvazione dei bilanci è slittato al 30 luglio, mentre le patrimoniali sulla casa (perché di questo si tratta: patrimoniali sul bene primario degli italiani, mascherate da esazioni per supposti servizi locali) si pagano entro il 16 giugno. E perché è pur vero che l’obbligo d’inviare i bollettini precompilati era stato fissato, niente popo di meno, che nella legge di Stabilità, ma neanche questi ci saranno, perché i Comuni non saprebbero che aliquota applicare. Già, ma la stessa cosa vale per il contribuente. Esatto: quindi meglio scaricare su di lui la colpa. Non vi pare geniale? Belzebù in persona s’è commosso, benché abbia sollecitato gli accoliti a non esagerare in sadismo.
Allora, come si deve fare? Il fisco stregonesco risponde: niente paura, ci date quello che ci avevate dato l’anno scorso, con le stesse modalità, tanto poi, con la seconda rata, vi facciamo avere l’entità del conguaglio, ovvero il di più che ci avreste dovuto dare fin dalla prima, ma che, con la scusa che nessuno vi ha detto a quanto ammontava, ci avete negato. Già, ma non doveva diminuire, la tassa? Occhio a fare certe domande, che potrebbe esserci una soprattassa peri creduloni. In contemporanea si dovrà anche inviare la dichiarazione dei redditi, che per molti doveva essere anche quella precompilata, esente da errori e senza controlli ulteriori nel caso in cui il contribuente avesse accettato i conti per lui fatti dal fisco.
Raccontammo il perché erano bubbole, che i controlli ci sarebbero stati comunque (sui dati originati da soggetti terzi, anche se accettati dal fisco) e che gli errori si sarebbero pagati: cento euro per ciascuno, salvo maggiore addebito per contestata evasione, nel qual caso sono dolori. Prima ci snobbarono, poi ammisero: è esattamente così. Dunque, alla fine, non sai se è meglio la dichiarazione precompilata esistente, dove se firmi sbagli e se non firmi sbagli, o il bollettino precompilato inesistente, perché il governante non fece i decreti e le circolari applicative, sicché il Comune incassante non sa dirti quanto gli devi, ma tu li devi comunque, anche se sei l’unico a non avere mancato ad alcun dovere.
Come volete che riparta un’economia in cui l’amministrazione pubblica non solo non riesce a far scendere le proprie pretese fiscali (previste in aumento per il 2016), ma neanche a dirti quanto le devi dare e come? E nessuno dica che si tratta di cose impreviste, perché le prevedemmo. Si tratta di un’amministrazione incapace e arrogante, al servizio di un gettito il cui unico obiettivo è inseguire e coprire la spesa. In condizioni di almeno parziale serietà il governo, persa ogni possibilità di mantenere fede alle promesse, dovrebbe, se non altro, licenziare i responsabili. Non lo fanno perché i licenziati farebbero ricorso, dimostrando che irresponsabili sono i governanti.
Lavoro, un Paese che tassa troppo
Redazione Editoriali cuneo fiscale, fisco, lavoro, massimo blasoni, metro, tasse
Massimo Blasoni – Metro
Al netto della “narrazione” cara al premier Renzi, in Italia il carico fiscale sul lavoro non accenna a diminuire. Tra il 2013 e 2014 è addirittura aumentato del +0,4%, toccando il livello record del 48,2% rispetto al costo del lavoro: significa che quasi metà di quanto gli imprenditori pagano per le buste paga dei lavoratori se ne va in tasse e contributi sociali. La nostra elaborazione degli ultimi dati Ocse dimostra come l’Italia sia l’unico grande Paese europeo che registra una crescita consistente del cuneo fiscale. Quest’ultimo, infatti, diminuisce in Francia (-0,4%) e Regno Unito (-0,3%) mentre resta sostanzialmente invariato in Germania (+0,1%) e Spagna (0,1%).
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Fisco nemico della famiglia: 640 euro in più in cinque anni
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Maurizio Carucci – Avvenire
Che le politiche fiscali italiane non fossero “amiche” delle famiglie si sapeva. Ora arriva anche la certezza “scientifica”. Una famiglia monoreddito con figli ha in media pagato al fisco 640 euro in più di cinque anni prima. Contrariamente agli altri Paesi europei, in Italia il carico fiscale aumenta soprattutto per le famiglie monoreddito con figli (+0,5%) e i single con reddito sopra la media. Ne consegue che il bonus fiscale degli 80 euro ha paradossalmente prodotto effetti distorsivi, colpendo quanti sono costretti a mantenere una famiglia con un solo stipendio. Cioè quelli che maggiormente avrebbero dovuto godere degli effetti del bonus.
Lo certifica il documento del Centro studi ImpresaLavoro sul cuneo fiscale. Ed è l’ennesima dimostrazione, supportata dall’autorevolezza dei dati Ocse, della schizofrenia del sistema fiscale italiano. Tendenza dimostrata anche da un altro dato: rispetto al 2009 le famiglie monoreddito con figli hanno subìto un aumento (+2,1%) superiore a quelloper i single a redito elevato (+1,8%) emedio (+1,4%). La crescita del cuneo fiscale, insomma, finisce per penalizzare quei nuclei familiari che vivono con un solo stipendio e che invece andrebbero aiutate.
In valori assoluti, nel 2014 una famiglia con figli a carico e un unico reddito (in media pari a 32.462 euro) ha infatti sopportato un cuneo fiscale pari a 11.800 euro. Persino un single con un reddito medio e senza figli a carico ha avuto un incremento più contenuto. In conclusione, in Italia vengono varati provvedimenti contrari a quei principi sanciti dalla nostra Costituzione sulla tutela della famiglia e dei figli. In particolare, si continuano a scaricare sui nuclei familiari le contraddizioni delle scelte economiche. E ad attuare politiche fiscali che non rispondono affatto alla crisi economica e demografica.