tasse

Con la nuova delega la caccia agli evasori è più difficile

Con la nuova delega la caccia agli evasori è più difficile

Paolo Baroni – La Stampa

Altro che soglia del 3%, si potrebbe dire. Nel decreto sulla certezza del diritto, quello della famigerata norma salva-Berlusconi, alla luce delle novità sulla lista Falciani, c’è un altro “buco” grande come un paradiso fiscale. È la norma che elimina il raddoppio degli anni di indagini in caso di reati fiscali. Oggi, infatti, se il Fisco ha 4 anni di tempo per richiedere il pagamento di una tassa evasa e notificarlo al contribuente infedele, sul piano penale i tempi sono doppi, 8 anni. E questo perché tra quando è stato commesso il reato in questione e quando lo si scopre, occorre molto più tempo per disporre delle relative prove, condurre le indagini, attivare rogatorie internazionali, indagare su paradisi fiscali e triangolazioni internazionali, e misurarsi con marchingegni contabili alquanto complessi e sofisticati.

E per venire al caso Falciani-Swissleaks, acclarato che chi era presente nella prima lista di 5439 nomi (ora lievitata a 7437) e non è stato pizzicato per tempo vede il suo reato prescritto, va detto che anche i nuovi nomi presenti nella lista di qui a breve non potrebbero assolutamente più essere perseguiti penalmente, come ad esempio ha già annunciato di voler fare la Procura di Roma.

La nuova strategia contenuta nei decreti delegati in via di approvazione, che parte dal sacrosanto bisogno semplificare i rapporti col fisco e affermare in questo campo la certezza del diritto, potrebbe avere l’effetto di spuntare le armi contro eventuali reati. Introducendo, al rovescio, nel nostro ordinamento una norma pro-evasori. Le nuove norme, che avevano già ricevuto il via libera del consiglio dei Ministri, contenevano infatti un articolo che di fatto in pochi hanno notato (e contestato) con «modifiche alla disciplina del raddoppio dei termini» per presentare le denunce penali. «Il raddoppio – recita il nuovo testo – opera a condizione che la denuncia sia presentata o trasmessa entro la scadenza dei termini ordinari».

La lista Falciani purtroppo è del 2009, la magistratura e il fisco italiano l’hanno acquisita poi l’anno seguente. Il Fisco nel passato ha già attivato controlli e contestazioni e ieri la Guardia di Finanza ha presentato il suo rapporto sull’attività di riscossione svolta (su 740 milioni di evasione accertata, 30 milioni di tasse da incassare ma appena 3,3 già messi a ruolo), ma sul piano penale (senza tornare alla questione della possibilità o meno di utilizzare dossier ottenuti in maniera fraudolente), di fatto non si può combinare nulla. La preoccupazione che circolava in ambienti tributari, raccolta ieri dall’Agenzia Ansa, è che se dovessero emergere nuovi nomi o nuovi reati il tempo risulterebbe scaduto: non potrebbero essere più contestati davanti al giudice. L’unica chance rimasta è quella di una corsa contro il tempo, prima dell’approvazione delle nuove norme che torneranno al consiglio dei ministri del 20 febbraio: una corsa ad ostacoli impossibile vista la complessità tecnica degli adempimenti necessari per avviare una contestazione penale.

L’Agenzia delle entrate, informalmente, nelle scorse settimane aveva fatto presente che il riallineamento dei termini di prescrizione avrebbe creato grossi problemi nel campo delle indagini, ma le sue proteste sono rimaste inascoltate. Oltre alla vicenda che tiene banco in questi giorni infatti c’è un problema generale, di prospettiva, visto che in questo modo si complica in maniera esponenziale la vita ai magistrati chiamati ad indagare sugli evasori fiscali. L’ex ministro Vincenzo Visco, in più occasioni, ha segnalato il problema: non solo sarebbe molto più complicato istruire i processi, ma questo cambiamento – tra l’altro – rischia di provocare una perdita di gettito davvero ingente, una perdita sia immediata (e poi permanente) di molti miliardi in quanto verrebbero vanificati moltissimi accertamenti.

Fede fiscale

Fede fiscale

Davide Giacalone – Libero

Attenzione alla mala fede della (presunta) buona fede. Il fisco è già materia dolorosa e ingarbugliata, sicché non si sente alcun bisogno d’imbrogliarla ulteriormente. Per giunta con la pretesa di semplificarla. Sono stato fra i pochissimi che hanno difeso il senso del decreto legislativo approvato dal governo a Natale. Pur inorridendo per il successivo congelamento e trovando raccapricciante che alcune norme siano state inserite dopo il consiglio dei ministri, rendendo falso il verbale. Difendo la soglia del 3%, al di sotto della quale non scatterebbe il procedimento penale. Ma lo faccio senza ipocrisie e senza birignao inconcludenti: ha un senso se serve ad evitare il proliferare di processi in gran parte inconcludenti, spingendo il contribuente a pagare subito il dovuto. Ora, però, il presidente del Consiglio dice che varrà solo per chi evade in buona fede. Non ha alcun senso: chi è in buona fede, ovvero commette un errore, già oggi non viene punito penalmente. Il fatto è che se distinguo fra buona e mala fede occorre che ci sia qualctrno preposto a giudicare se quel singolo contribuente, per quel singolo importo non versato, si trova nella prima o nella seconda condizione. Quindi ci vuole il giudice. Quindi non c’è nessuna innovazione, perché è già così. L’innovazione sarebbe: sotto una certa soglia non me ne importa nulla se tu sei in huona o cattiva fede, paga (ammesso che tu debba pagare, perché se non è così farai ricorso avverso l’ingiunzione).

Questo è un favore a Silvio Berlusconi? Questa è una convenienza collettiva, perché diminuisce il contenzioso penale, noto per la sua lentezza, e potenzialmente aumenta il gettito fiscale. Se è un favore a qualcuno in particolare, semmai, è a quanti si ritrovano quel tipo di procedimenti penali da affrontare (e ci sono bei nomi), non a chi avrà già scontato la pena. (A proposito, e fra parentesi, quando Matteo Renzi dice, a Rtl 102.5, che solo poche decine sono gli italiani condannati a pena per questioni fiscali, si rende conto di solidarizzare con quanti sostengono essere anomala quella condanna, per giunta dopo l’assoluzione di chi stilò e firmò i bilanci incriminati?). E, comunque, se anche fosse: ma vi pare il modo di legiferare? Pro o contro che siano, le leggi per un solo caso sono riprovevoli. Aggiungono, dal governo: non si può depenalizzare la frode. Ma lo sanno che nel medesimo decreto sono depenalizzate (entro limiti) le fatture false?

Rischiano di riprodurre l’errore del Jobs Act: per i licenziamenti, si torna sempre dal giudice per sapere se sono legittimi o meno. Come oggi, tale quale. Mentre principi come il no al reintegro e il risarcimento crescente o il no al procedimento penale obbligatorio se hai pagato il 97% del dovuto, cambiano la realtà. Senza regalare nulla a chi viola le regole. Mentre supporre che sia severo chi vuole il penale e accondiscendente chi pretende la pecunia, significa non sapere nulla, ma proprio nulla, della giustizia italiana. Le imprese estere che vogliono investire in Italia sono spaventate dalla malagiustizia, mica dall’idea che non si possa evadere (in quel caso vanno a investire nei paradisi, non negli inferni fiscali).

Renzi ammise l’errore sulle partite Iva (con la triplicazione dell’aliquota sui minimi), che ha colpito proprio i giovani spinti fuori dal lavoro dipendente e stangati perché autonomi. Dice che il 20 sarà corretto. È lecito sapere come? Perché è perverso farti sapere cosa devi fare la sera prima di quando lo devi fare. Se non il giorno dopo. In questo senso l’abuso di diritto e la dichiarazione precompilata stanno trasformando i commercialisti da professionisti pagati dai clienti per far da esattori dello Stato in esattori e accertatori al servizio del fisco. Il tutto cambiando le norme mentre sono chiamati ad applicarle. Una condotta inaccettabile, certo non accompagnata da alcuna buona fede. Semmai da incapacità e dipendenza dalla cultura della burocrazia fiscale.

Se l’incertezza diventa la regola

Se l’incertezza diventa la regola

Enrico De Mita – Il Sole 24 Ore

Il 20 febbraio il Consiglio dei ministri esaminerà un pacchetto di provvedimenti attuativi della delega fiscale. Il tema della certezza del diritto è destinato, dunque, a rimanere all’ordine del giorno. Non stupisce, dunque, che il Consiglio nazionale dei commercialisti, nei giorni scorsi, sia intervenuto stigmatizzando «il susseguirsi di riforme che pongono la professione davanti a situazioni nelle quali incertezza interpretativa e stretti tempi di attuazione delle norme, spesso addirittura retroattive, rendono difficile l’attività di consulenza». Questa è una delle cause della incertezza che caratterizza il sistema tributario.

Ma il quadro delle incertezze (come condizionamento esterno della legislazione) è molto più ampio. Lo ha tracciato Antonio Berliri, uno studioso attento alla pratica. Ricorso eccessivo alla decretazione d’urgenza, anche quando manchi l’urgenza. Susseguirsi a breve distanza di norme che modificano le precedenti. Il contribuente ha tempo per conoscere la nuova legge. Scadente tecnica legislativa, con leggi che poi vengono precisate nelle circolari. Esempio di questa tecnica è il richiamo, vietato nello Statuto del contribuente, a leggi precedenti mediante numeri e date dai quali è difficile ricostruire la nuova normativa. Mancato coordinamento fra norme, quindi contraddizioni e incertezze che regolarmente vengono riempite dalle circolari. Norme restrittive e interpretazione autentica di leggi tributarie. Vi sono sentenze della Consulta nelle quali si afferma che l’interpretazione autentica non può violare il principio di affidamento.

Eccessivo numero delle circolari. È pur vero che la Cassazione sostiene che le circolari non hanno efficacia legislativa e che quindi non vincolano nessuno, neppure la stessa amministrazione. Questo in teoria, ma in pratica il diritto vivente lo fanno le circolari. Davanti al giudice si discute la legge interpretata dalle circolari. E quando dall’inosservanza di un obbligo viene fatta discendere una sanzione penale il contribuente preferisce pagare per evitare il processo penale e propone domanda di rimborso: rivive la regola del solve e repete. Bisognerebbe, come ha proposto Capaccioli, che l’emanazione di una circolare puntualizzi l’interesse a ricorrere con l’accertamento negativo da parte del giudice tributario. Ma l’incertezza più rilevante introdotta dalle circolari si ha quando l’amministrazione cambia opinione su una legge, proponendo la tassazione che in un primo momento aveva escluso. Qui viene in discussione il principio di buona fede.

Impossibilità per contribuenti e amministrazione di assicurare il tempo necessario per assimilare le disposizioni che sono chiamati ad applicare. Imperfetto coordinamento fra Governo e Parlamento che non presenta emendamenti migliorativi ma solo dilatazione della legge per interessi corporativi. Scarsa efficienza dell’amministrazione. È un punto rilevato fin dalla riforma del 1971. In sintesi, c’è confusione fra Governo e amministrazione. Il Governo come guida della legislazione non esiste, perché non esiste una politica tributaria. Poche cose vengono proposte dal Governo, alcune sacrosante perché attendono alle grandi linee della politica tributaria. Ma la legislazione ordinaria, quella diretta a combattere l’evasione, viene fatta dall’amministrazione con leggi che sono per lo più inasprimento della tassazione. Ma il vizio principale dell’amministrazione è culturale, quel vizio di interpretare solo in un senso la legge, l’ostinazione fiscale anche in presenza di una legge non favorevole al fisco. Il Governo si limita a interventi propagandistici come gli 80 euro e la dichiarazione precompilata che non sarebbe stata approvata da Vanoni per la responsabilità che il contribuente deve assumere di fronte allo Stato.

Fisco contribuenti: l’ufficio complicazioni è sempre aperto

Fisco contribuenti: l’ufficio complicazioni è sempre aperto

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere Economia

Come tutti i passaggi in qualche modo epocali, anche quello del modello 730 precompilato, se da un lato ci mostra il lato gentile del Fisco, dall’altro svela le fragilità del sistema. E le numerose contraddizioni delle norme tributarie che negli ultimi cinquant’anni si sono accatastate (oltre alle tasse, naturalmente) sulle spalle dei poveri contribuenti. L’idea di un modello precompilato per sollevare i cittadini da un onere improprio, è senza dubbio un fatto positivo: lo Stato non chiederà di scrivere un’altra volta (nella dichiarazione, appunto) le cose che conosce già, a cominciare dalle imposte dovute dai dipendenti e versate direttamente dai datori di lavoro. Ma qui comincia il percorso a ostacoli.

Su 20 milioni di potenziali dichiaranti che potrebbero essere esenti da ogni onere, per ben 14 milioni si rende necessaria la cosiddetta integrazione del modello. Risultato: per il 70% dei cittadini che vorranno beneficiare della possibilità di scaricare le spese mediche, i modelli andranno in qualche modo compilati. E qui arriva il passaggio delicato: chi pagherà in caso di errore? La norma è chiara, con il «visto di conformità» la responsabilità ricadrà sui Caf (Centri di assistenza fiscale) e sui commercialisti che daranno il loro via libera al modello integrato. Cosa che naturalmente ha scatenato molte preoccupazioni. Rossella Orlandi, direttore dell’Agenzia delle Entrate, ha spiegato a Mario Sensini come sarà fondamentale l’uso della tessera sanitaria nel 2015 per beneficiare dei calcoli automatici nel 2016 anche per le spese legate alla salute. E la cosa si potrebbe estendere, ad esempio ai mutui. Non era meglio partire con il sistema in ordine?

Si tratta, comunque, di un piccolo passo in avanti. Che speriamo sia seguito al più presto dai Comuni. Perché non adottare anche per Imu e Tasi il modello della tassa rifiuti che viene pagata su bollettini precompilati e spediti a casa del contribuente? Gli enti locali hanno tutti i dati per farlo. Le tasse non calano, almeno cerchiamo di rendere semplici le cose complicate, invece che complicare le cose semplici.

Mercato del lavoro e tasse sulle imprese: ecco dove ci batte persino la Grecia

Mercato del lavoro e tasse sulle imprese: ecco dove ci batte persino la Grecia

ANALISI

Pur strangolata dal debito pubblico e scossa da una profondissima crisi economica e sociale, la Grecia riesce comunque a battere l’Italia 12 a 0 sul fronte del mercato del lavoro e delle tasse sulle imprese. È quanto emerge da una ricerca del Centro studi “ImpresaLavoro”, che ha elaborato i dati più recenti pubblicati dal World Economic Forum e dalla Banca Mondiale.
Analizzando le classifiche del “Global Competitiviness Report 2014-2015” stilate dal World Economic Forum si scopre infatti che la Grecia occupa nel rank mondiale una posizione migliore della nostra per quanto riguarda l’efficienza generale del mercato del lavoro (è 118esima mentre l’Italia è 136esima), la collaborazione nelle relazioni tra imprese e lavoratore (108esima contro 137esima), la flessibilità nella determinazione dei salari (118esima contro 138esima), l’efficienza nelle modalità di assunzione e di licenziamento (92esima contro 141esima), il legame tra salari e produttività (121esima contro 139esima), l’effetto della tassazione sull’incentivo a lavorare (138esima contro 143esima), il merito nella scelta delle posizioni manageriali (98esima contro 122esima) e infine la capacità del sistema sia nel trattenere talenti (96esima contro 121esima) sia nell’attrarli (127esima contro 128esima).
Il recentissimo rapporto “Doing Business 2015” curato dalla Banca Mondiale certifica invece la situazione di indubbio vantaggio che le aziende elleniche godono rispetto alle loro concorrenti italiane. Non soltanto in Grecia il Total Tax Rate sulle imprese (49,9%) è infatti decisamente inferiore al nostro (65,4%) ma sul fronte delle modalità di pagamento delle imposte la Repubblica ellenica si dimostra meno matrigna della nostra per il numero sia degli adempimenti (8 contro 15) sia delle ore impiegate in media ogni anno da ciascuna azienda (193 contro 269).
«L’Italia ha certamente fondamentali economici migliori di quelli greci» osserva il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni. «Tuttavia occorre notare come l’analisi puntuale di due aspetti importanti dell’economia come efficienza del mercato del lavoro e tassazione sulle imprese dimostrino l’arretratezza del nostro Paese. Non è un dato banale perché i fondamentali economici sono figli delle scelte fatte in passato: liberare le nostre aziende da un fardello fiscale ormai insostenibile e produrre regole sul lavoro semplici e certe sono due passaggi non più rimandabili su cui il governo si dovrebbe impegnare maggiormente. Altrimenti il rischio è di scivolare sempre più verso la Grecia».
tabelle 1 nuovo
tabelle 2 nuovo
Quanto costa la Grecia al contribuente italiano

Quanto costa la Grecia al contribuente italiano

Isabella Bufacchi – Il Sole 24 Ore

C’è periferia e periferia. L’Italia, al fianco dei creditori “core” ma con costi più pesanti, ha aiutato la Grecia con i prestiti bilaterali, l’Efsf e l’Eurosistema. Dove inizia la “periferia” e dove finisce? Per i mercati l’Italia è senza ombra di dubbio un paese periferico: in termini di debito/Pil, rating sovrano e debolissima crescita potenziale causata da un accumulo di inefficienze, scarsa competitività, tassazione eccessiva. All’interno dell’Eurozona, l’Italia è invece allineata agli Stati “core”, è un paese creditore quando si tratta di soccorrere i periferici in difficoltà. In termini assoluti , è vero che l’Italia ha un’esposizione tramite Efsf e Esm verso la Grecia inferiore a quella della Germania o della Francia (peso ponderato in base al Pil nazionale e alla popolazione): ma in termini relativi l’assistenza finanziaria che l’Italia ha concesso finora alla Grecia ha pesato, pesa e peserà maggiormente perchè indebitarsi costa assai più caro al Tesoro italiano che non a quello tedesco o francese (anche adesso nell’era del QE). Va anche detto che l’aumento del debito pubblico tramite le garanzie all’Efsf o le quote di capitale Esm (finanziate con emissione di BTp) grava di più quando il un debito/Pil è già molto alto, e dovrebbe scendere invece di salire come nel caso italiano. Tutto questo ha rilevanza anche al fine dei negoziati sulla maggiore flessibilità chiesta dall’Italia.

Al di là delle considerazioni di opportunità politica, la crisi greca ha avuto un costo per i conti pubblici italiani. L’Italia ha concesso alla Grecia due prestiti bilaterali per un importo di circa 10 miliardi di euro, spalmati nel 2010 e nel 2011. In quegli anni il rendimento del BTp decennale ha oscillato tra il 4% e il 6% con picchi oltre il 7%: condizioni fisse. Il prestito bilaterale greco, invece, è stato ristrutturato: allungamento della scadenza di 15 anni (ora ha una vita media di 30 anni), un periodo di grazia sugli interessi di 10 anni e un abbattimento del tasso di interesse di 100 punti.

Attraverso l’Efsf, l’Italia ha aiutato la Grecia per 25 miliardi di euro(l’Italia pesa al 18% circa sul totale delle garanzie dell’Efsf e il fondo ha concesso alla Grecia 141,8 miliardi di euro, resta in bilico l’ultima tranche da 1,8 miliardi). L’Efsf ha già allungato le scadenze dei prestiti alla Grecia fino al 2054 (vita media oltre 32 anni) e ha concesso ad Atene un periodo di grazia sospendendo il pagamento degli interessi sul debito dal 2012 al 2023: con un risparmio per il budget di Atene di 8,6 miliardi nel 2013 e attorno agli 8 miliardi nel 2014 e 2015. L’Efsf e i suoi garanti non hanno perso il capitale investito in Grecia (non c’è stato haircut) ma l’investimento molto rende meno del previsto. Se rende.

La Banca d’Italia, come tutte le banche centrali dell’Eurosistema, sta restituendo alla Grecia la plusvalenza realizzata tra il prezzo di acquisto dei titoli di Stato greci (comprati con il Securities markets programme al picco della crisi a prezzi ben sotto la pari) e il rimborso a 100. Il debito pubblico italiano sale, proquota, anche per quei 10,9 miliardi di Efsf bond trasferiti all’Hellenic Financial Stability Fund per ricapitalizzare la banche greche e dare collateral per i finanziamenti presso l’Eurosistema. La chiusura del programma di aiuti dell’Efsf alla Grecia (la cui scadenza è stata estesa già dal 31/12/2014 al 28/02/2015) costringerebbe la Grecia a restituire questi Efsf bond. Infine, nel caso in cui Atene dovesse richiedere nei prossimi mesi un nuovo programma di aiuti, questa volta con l’Esm, o l’accensione di una linea di credito precauzionale ECCL all’Esm (con acquisto di titoli di Stato in asta da parte dell’Esm per candidare i bond greci alle OMTs di Draghi e probabilmente anche al QE), l’Italia avrebbe aiutato la Grecia anche tramite la partecipazione al capitale dell’Esm, costata per il paid-in oltre 14 miliardi di euro.

I buoni propositi, le occasioni sprecate

I buoni propositi, le occasioni sprecate

Angelo Cremonese – Il Sole 24 Ore

Una delle semplificazioni più rivoluzionarie che il governo si appresta a varare è costituita dalla dichiarazione precompilata. Nei prossimi mesi, infatti, circa 20 milioni di italiani, lavoratori dipendenti e pensionati, non dovranno più provvedere alla compilazione della dichiarazione dei redditi che a partire dal 15 aprile sarà messa a disposizione dall’agenzia delle Entrate. Sulla scia delle esperienze vissute negli ultimi anni da diversi paesi europei ed extraeuropei, che nel tempo ne hanno esteso l’operatività a molte altre categorie di redditi, questo nuovo servizio si propone di semplificare gli adempimenti per alcune fasce di contribuenti, ridurre gli oneri di controlli e verifiche su una vasta platea di soggetti, diminuire il rischio di errori e, soprattutto, migliorare il senso di fiducia del cittadino verso le istituzioni tributarie.

Questi principi appartengono senz’altro a un modo nuovo e più moderno di gestire la materia fiscale e vanno dunque valutati positivamente. Va peraltro ricordato che, soprattutto per il mondo delle imprese, la semplificazione vera resta una pagina ancora tutta da scrivere, per la quale è urgente una profonda riforma. È infatti difficile immaginare un rapporto sereno tra fisco e imprese con un livello del prelievo effettivo che raggiunge il 68,5% (total tax rate, Rapporto Paying Taxes 2013), ancora più elevato per le piccole e medie imprese, una giungla di norme spesso di difficile comprensione, adempimenti così complessi che rendono gli oneri tributari indiretti insostenibili, un sistema di giustizia tributaria lento e dai costi elevati con esiti spesso imprevedibili e contrastanti, un sistema sanzionatorio incapace di rispondere a criteri di proporzionalità. L’auspicio, dunque, è che con i decreti delegati si sia solo iniziato a percorrere, nella giusta direzione, il cammino della semplificazione. Un obiettivo fondamentale che, pur mantenendo invariato il livello complessivo del prelievo, potrebbe costituire una importante risorsa per lo Stato e per i cittadini, facendo realizzare forti risparmi in termini di oneri amministrativi.

Dalla sola dichiarazione precompilata, a regime, sono previsti benefici per oltre un miliardo di euro. Appare quindi poco comprensibile come, in un clima che spinge fortemente verso l’alleggerimento degli adempimenti per i contribuenti, proprio in questi giorni si sia sprecata una prima importante occasione per far esordire gli effetti del “nuovo corso”. L’invio con un modulo già precompilato della dichiarazione sostitutiva unica (Dsu), da trasmettere all’Inps al fine di ottenere il nuovo Isee, avrebbe infatti evitato il caos che stanno vivendo tutti coloro che, già svantaggiati economicamente, cercano di non perdere il diritto all’accesso a servizi sociali quali asili nido, prestazioni socio-assistenziali, mense scolastiche ecc, e sono costretti a rimbalzare, come una pallina del flipper, fra siti web dell’Inps, Caf in rivolta e uffici comunali. La modifica dei parametri del cosiddetto riccometro, dopo oltre 17 anni dal suo varo, risponde alla giusta esigenza di ottenere una fotografia più chiara e aggiornata delle reali condizioni economiche dei cittadini e di riservare il welfare ai soggetti realmente bisognosi. Considerando, però, che la maggior parte dei dati richiesti sono già disponibili nei sistemi informativi, fiscali e contributivi, dell’Amministrazione, si sarebbe potuto pensare di utilizzare il nuovo metodo, inviando una dichiarazione precompilata, con il solo onere per il contribuente di completarne il contenuto inserendo i dati eventualmente sconosciuti al fisco.

Guardando al prossimo futuro un limite del nuovo modello 730 inviato direttamente dalle Entrate è che, almeno sino al 2016, non terrà conto delle spese sanitarie. In questa prima fase, pertanto, si prevede un’alta percentuale, superiore al 70%, di soggetti che saranno costretti ad effettuare integrazioni. Successivamente questa percentuale è destinata a scendere drasticamente, come è anche auspicabile che si possa allargare la platea di soggetti che potranno usufruire di questo servizio. Il modello sono i paesi del nord Europa, la Danimarca su tutti, dove, dopo oltre 25 anni, il 100% dei contribuenti individuali riceve annualmente la propria dichiarazione dei redditi completa di stipendio, interessi, dividendi, capital gain, detrazioni, esenzioni e deduzioni, con una percentuale di richieste d’integrazione scesa sotto il 6%. Anche in Francia si è attuato questo esperimento da circa 10 anni e, pur con risultati molto diversi, si è ormai instaurata una linea di comunicazione diretta con i contribuenti, attivando canali telematici con cui l’Amministrazione è in grado di fornire risposte in tempo reale.

Per creare anche nel nostro Paese i presupposti di un rapporto tra fisco e contribuente diverso, ispirato a principi di trasparenza e di modernità non sono necessarie rivoluzioni o ricette nuove e sorprendenti, occorre solo perseverare sulla strada della semplificazione con serietà, coerenza e determinazione.

Patrimoniale mascherata sui nostri risparmi: 9 miliardi in più tra 2011 e 2014

Patrimoniale mascherata sui nostri risparmi: 9 miliardi in più tra 2011 e 2014

Liberoquotidiano.it

Il prelievo forzoso sui conti correnti degli italiani c’è già stato, e negli ultimi 3 anni ha tolto dalle nostre tasche qualcosa come 9 miliardi di euro. Per interdersi sulle proporzioni: quello ufficiale e dichiarato, anche se eseguito nottetempo, ad opera dell’allora premier Giuliano Amato nel luglio 1992 oggi corrisponderebbe a 3 miliardi di euro. A fare la conta sull’incredibile escalation di pressione fiscale sui 3.800 miliardi di euro di attività finanziarie detenute dalle famiglie italiane è una ricerca del centro studi ImpresaLavoro pubblicata sul settimanale Panorama. E i numeri del triennio 2011-2014, corrispondente ai governi di Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi, se messi l’uno dopo l’altro sono impressionanti.

La patrimoniale occulta di 9 miliardi – A pesare sulle tasche degli italiani sono stati tre interventi massicci, che sommati risultano una vera e propria patrimoniale mascherata. Innanzitutto, l’aumento delle aliquote sui redditi di natura finanziaria, passata dal 12,5% al 26% (eccetto i titoli di Stato), che nel 2015 porterà all’Erario 11,2 miliardi di euro rispetto ai 6,5 stimati per il 2011. Quindi l’introduzione della tassa su una parte delle transazioni finanziarie, la celebre Tobin Tax: secondo gli analisti, la tassa non ha portato nelle casse dello Stato non più di qualche centinaia di milioni di euro. Le stime parlano di 300 milioni, praticamente la stessa entità della diminuzione degli scambi sui mercati italiani, riflesso negativo della misura. Infine, l’imposta di bollo sul deposito titoli che, sottolinea Panorama, da imposta si è trasformata in vera e propria patrimoniale occulta. Dal 2012 a oggi ha già raddoppiato la sua portata e pesa per lo 0,2% su depositi bancari, fondi e alcune polizze e per 34,20 euro sui conti correnti con una giacenza media di 5.000 euro. Rispetto al 2011, nel 2015 questa misura dovrebbe portare allo Stato 4,4 miliardi, 4 in più rispetto al 2011. In tutto, dunque, le tasse sui risparmi degli italiani oggi ammontano a 15,9 miliardi, rispetto ai 6,9 del 2011. Una mazzata, in un quadro in cui a causa della crisi la ricchezza complessiva dei contribuenti si è ridotta contemporaneamente di 814 miliardi.

L’aumento su interessi e capital gain – Basta dare un’occhiata nello specifico alla progressione dell’imposta su interessi e capital gain per comprendere la portata degli interventi fiscali degli ultimi tre governi. Soltanto sui conti correnti e depositi bancari e postali c’è stato un leggero miglioramento, passando dal 27% del 31 dicembre 2011 al 26% attuale. C’è da dire però che fine al 30 giugno 2014 l’imposta era stata abbassata al 20 per cento. Invariata l’aliquota sui titoli di stato sovranazionali e governativi (12,5%), è cresciuta in modo esponenziale quella sui titoli azionari, obbligazionari societari e bancari, dal 12,5% del 2011 al 20% del 2014 fino al 26% attuale. Aumentate anche le imposte su fondi comuni e polizze vita (dal 12,5% alla media ponderata comunque oscillante tra il 12,5 e il 20%) e sui fondi pensione e piani pensionistici individuali (dall’11% alla media tra 12,5 e 20%). Alla luce di tutto ciò, ritrovare Amato al Colle sarebbe non tanto una beffa, quanto la perfetta chiusura del cerchio.