spending review

Spending review fuori moda. Il paradosso dell’ACI

Spending review fuori moda. Il paradosso dell’ACI

Massimo Blasoni – Metro

Più volte annunciata e promessa, la spending review sembra ormai passata di moda. Col risultato che possono così restare in vita istituzioni le cui funzioni appaiono spesso ridondanti e costose. È il caso dell’Automobile Club Italiano, che dal 2012 riveste una duplice veste: da un lato è un ente pubblico non economico senza scopo di lucro a base federativa (in relazione alla gestione del pubblico registro automobilistico e all’acquisizione dei relativi contributi); dall’altro è una federazione sportiva automobilistica privata riconosciuta a livello internazionale. 

L’Aci ha 106 sedi provinciali, 13 direzioni regionali e 3.500 dipendenti a libro paga – in esubero in molte sedi provinciali – che costano oltre 158 milioni di euro l’anno. Per tenere aggiornato il Pubblico Registro Automobilistico (PRA), che contiene le informazioni relative alle proprietà dei veicoli in circolazione, riceve ogni anno dagli automobilisti italiani compensi per 190 milioni di euro. 

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Aumenta la spesa delle regioni, al Lazio la maglia nera

Aumenta la spesa delle regioni, al Lazio la maglia nera

Andrea Morigi – Libero

Altro che spending review: le Regioni rimangono sprecone. Un’analisi effettuata dal Centro studi ImpresaLavoro che rielabora i dati della Corte dei Conti, rivela come nel periodo 2011-2014 dalle casse delle Regioni siano usciti altri 3,9 miliardi di euro, portando l’esborso in termini di spesa corrente da 141,7 a 145,6 miliardi, con un incremento del 2,76 per cento.
Ci sono anche eccezioni virtuose. La Lombardia emerge come la Regione che, al netto degli importi riversati allo Stato per il cosiddetto Fondo di Solidarietà, ha effettuato i maggiori tagli alla spesa corrente, scesa dell’11,63%. L’Abruzzo ha ridotto le proprie spese correnti del 6,09%. Ma il Lazio, al contrario, detiene il record del maggiore incremento della spesa nel periodo considerato (+33,33%) seguito dalla Calabria (+31,06%). Lo stesso vale per la spesa corrente pro-capite. Per ogni cittadino in Lombardia si spendono infatti 1.739 euro, meno della metà rispetto al Lazio, che con i suoi 3.129 euro di spesa corrente pro-capite fa segnare l’esborso maggiore tra le Regioni a statuto ordinario.
Tra le autonomie speciali, invece, è la Valle d’Aosta a posizionarsi decisamente sopra la media delle altre Regioni, ordinarie e non. Ogni valdostano costa 8.995 euro ogni anno di spesa corrente. Sa gestire meglio la Sicilia con i suoi 2.529 euro, seguita da Sardegna e Friuli Venezia Giulia. In termini generali le Regioni a statuto speciale hanno ridotto le loro uscite per spese correnti del 2,46%, passando da 31,3 a 30,6 miliardi di euro tra il 2011 e il 2014. Tra gli enti a statuto speciale buone performance di riduzione della spesa sono state registrate dalla Provincia Autonoma di Bolzano (-6,33%) seguita dalla Sardegna (-5,94 per cento).
In ogni caso, la spesa di larga parte delle autonomie rimane più alta della media delle Regioni a statuto ordinario, nonostante la riduzione. Allo stesso tempo sembra impossibile prevedere altri tagli nelle altre Regioni a statuto ordinario, le cui uscite rappresentano quasi l’80% della spesa totale. Tranne il caso di Lombardia e Abruzzo, che si confermano le Regioni che hanno saputo risparmiare più delle altre. Anche se finora il loro esempio non è stato seguito.
I tagli e l’aritmetica del consenso

I tagli e l’aritmetica del consenso

Alberto Mingardi – La Stampa

Negli Anni Sessanta, l’economista statunitense Milton Friedman, durante un viaggio in Asia, venne portato a vedere i lavori di costruzione di un canale. Friedman constatò sorpreso che c’erano pochissime ruspe in cantiere e gli operai si aiutavano solo col badile. Non doveva meravigliarsi, gli spiegò uno zelante funzionario, quella «grande opera» faceva parte di un programma per aumentare l’occupazione. Par di vederlo, Friedman, che alza un sopracciglio e dice: «Pensavo doveste costruire un canale. Se volete creare posti di lavoro, dovreste dare a queste persone dei cucchiai, non dei badili».

Si dirà che il mondo è cambiato: è tempo di spending review. Ma come si fa a ridurre le spese, se non è cambiata la mentalità delle pubbliche amministrazioni? L’ultimo Documento di Economia e Finanza ha riacceso i riflettori sui tagli al servizio sanitario nazionale. Nell’estate scorsa, governo e Regioni si erano accordati, col cosiddetto Patto per la Salute, sull’ammontare delle spese per questo comparto nel triennio 2014­-2016. Più di recente, la legge di stabilità ha previsto un aumento del contributo a carico delle Regioni per il contenimento della spesa pubblica. Potendo scegliere dove tagliare, le Regioni hanno deciso di aumentare la sforbiciata ai servizi sanitari. In pochi si sono lamentati. È vero che quasi l’80% del budget dei governi regionali è impiegato per la sanità, ma è difficile immaginare che non si possano limare le uscite anche in altri settori. E nella sanità, che cosa hanno scelto di tagliare le Regioni?

Potremmo pensare che la «spending review» fosse il momento buono per mettere mano a un riordino della rete ospedaliera. Se ne parla da anni: sono molti i piccoli ospedali che potrebbero essere accorpati, recuperando efficienza. La moltiplicazione dei nosocomi serviva alla salute dei partiti: l’idea di avere un ospedale vicino rassicura gli elettori. Ci sono però buoni motivi per «concentrare» risorse e persone in strutture più grandi: la probabilità di morire nel corso di un intervento chirurgico è minore in un ospedale in cui se ne fanno molti, di interventi di quel tipo. Le Regioni non hanno scelto di rivedere la rete ospedaliera: al contrario, hanno annunciato tagli, e importanti, all’acquisto di beni e servizi e all’ospedalità privata.

È una decisione assennata? Le ruspe costano di più dei badili, ma aumentano la produttività degli operai e accorciano i tempi di realizzazione del canale. Fuori di metafora, ogni tanto un farmaco può ridurre le giornate da trascorrere a letto. Ogni tanto un macchinario può aiutare ad individuare per tempo una malattia, consentendo il ricorso a terapie meno debilitanti. Ogni tanto acquistare prestazioni dagli ospedali privati (che col 15% della spesa coprono il 24% dei ricoveri) significa spendere in modo più efficace i soldi di tutti.

Al contribuente, non interessa che i suoi quattrini finiscano nelle tasche della pubblica amministrazione o di fornitori «esterni»: interessa che «comprino» una sanità d’eccellenza. Se le Regioni preferiscono rivedere gli acquisti che gli stipendi, è perché gli scanner per la risonanza magnetica non votano, ma i percettori di un salario statale invece sì. I tagli lineari non piacevano a nessuno. Pareva incredibile che la politica non sapesse scegliere cosa fare e cosa ridurre. Ma quando la politica sceglie, l’impressione è che lo faccia secondo l’unica aritmetica che conosce: l’aritmetica del consenso.

La Corte dei Conti cancella il bonus 80 euro di Renzi

La Corte dei Conti cancella il bonus 80 euro di Renzi

Davide Giacalone – Libero

La sola spending review fatta è consistita nel tagliare il commissario incaricato di metterla a punto. Le sole spinte alla ripresa vengono da fattori esterni e le dobbiamo alle scelte della Banca centrale europea (altro che eurorigore). Gli 80 euro hanno funzionato egregiamente come messaggio elettorale, ma non hanno spinto i consumi, appesantendo invece la spesa pubblica, proprio perché non sono permanenti sgravi erariali e sono stati finanziati con aggravi fiscali. Così messe le cose c’è il serio rischio di vedere scattare le clausole di salvaguardia, messe a presidio dei conti pubblici e grazie alle quali il governo ha ottenuto il consenso delle autorità europee. Clausole che significano una sola cosa: ulteriore pressione fiscale. Tutte cose che i nostri lettori hanno già letto molte volte, ma che ora sono scritte anche nel «Rapporto sulle prospettive della finanza pubblica dopo la legge di stabilità», inviato dalla Corte dei conti al Parlamento.

Cose che noi abbiamo illustrato e temuto per tempo. Senza alcun compiacimento, semmai con rammarico. Sono le cose che portano a prevedere (dati della Commissione europea) una crescita dell’Italia inferiore alla metà della crescita dell’eurozona (0,65 contro 1,3%). Noi qui suoniamo e cantiamo l’inno alla fine della crisi e all’inizio della ripresa, ma si tratta di un risultato che dobbiamo al pezzo d’Italia che non ha  ai smesso di restare agganciato ai mercati globali, non ha mai smesso di vedere crescere le esportazioni (nel 2014, rispetto al 2013, in crescita del 2% verso il mondo intero e del 3,7 verso l’Ue), ma commettiamo il gravissimo errore, o cediamo al perfido trucco propagandistco, di misurarci solo con noi stessi, mentre ci si deve misurare con gli altri paesi, con i concorrenti. E mentre le nostre imprese concorrono bene con i loro simili, l’Italia concorre male, sprofondando più degli altri e poi crescendo meno degli altri. Perché? La spiegazione sta tutta nelle cose non fatte, nella spesa non rivista, nella burocrazia pazzotica, nell’incertezza del diritto, nelle tasse troppo alte. Abbiamo messo troppa zavorra sulle spalle dell’Italia che corre. Che non è stramazzata e ancora procede perché ha una forza straordinaria, ma non può reggere il ritmo di chi non viene salassato negli spogliatoi. Questo è quel che ci siamo sforzati di spiegare. Questo quel che la Corte dei conti certifica. Non se ne sentiva il bisogno, ma ora c’è anche il bollo dei contabili in toga.

Grazie alle politiche della Bce pagheremo, quest’anno, fra i 5 e i 7 miliardi in meno di interessi sul debito pubblico. Basta dare un occhio agli spread, che tre­quattro anni fa erano l’indicatore (falsato, lo spiegammo, ma reale) del nostro collasso, per rendersi conto che quelle politiche hanno avuto successo. Ma, da sole, non bastano. I tagli alla spesa pubblica, ricorda la Corte, sono previsti, dal governo, in 16 miliardi per il 2016 e 23 nel 2017. Con la legge di stabilità, per far tornare i saldi, se ne sono aggiunti altri 3 nel 2016. Come pensiamo di arrivarci se manca una politica coerentemente a ciò indirizzata? Anzi, andiamo in direzione opposta, come testimonia la gioia con cui s’è comunicata l’imminente assunzione di un’altra vagonata d’insegnanti, rigorosamente presi da quelle graduatorie che altro non sono se non testimonianza fossile dell’inefficienza pubblica, sicché avremo più spesa per meno (o, nel migliore dei casi, medesima) qualità.

Questo è l’andazzo, che difficilmente conduce verso i risultati annunciati. Sicché si passa alle misure d’emergenza già previste: tasse. Le quali, a loro volta, comprimono la crescita, contribuendo a spingerci sotto la metà di quella altrui. L’ossigeno viene da fuori, ma noi ne sprechiamo una parte per alimentare il fuoco che ci arrostisce le terga. La Corte fa due ulteriori osservazioni. Prirna: la si smetta d’indicare la lotta all’evasione come fonte di copertura delle nuove spese. Giusto, ne sento parlare da quando sono nato e se fosse anche solo lontanamente vero gli evasori fiscali dovrebbero essere protetti come il Wwf protegge i Panda, invece si moltiplicano come conigli. Seconda: l’elasticità concessa dalle autorità europee agevola il govemo. Vero solo apparentemente, perché fa perdere tempo. Anche questo lo abbiamo ripetuto cento volte: crea effetti illusori, lasciando correre l’infezione della spesa improduttiva. Il Rapporto morirà nei cassetti parlamentari. I problemi irrisolti s’incancreniscono, infischiandosene delle sceneggiate assembleari.

E Cottarelli disse: la riforma Madia? Non ha risparmi

E Cottarelli disse: la riforma Madia? Non ha risparmi

Antonella Baccaro – Corriere della Sera

Gli ormai mitici testi della spending review dell’ex commissario Carlo Cottarelli, reclamati da più parti in nome della trasparenza, restano tuttora coperti dal mistero. In compenso l’Istituto Bruno Leoni ha dato alle stampe l’ultimo discorso ufficiale del commissario: la «Lectio Marco Minghetti», tenuta a fine 2014, commentata da Lucrezia Reichlin (London Business School) e Nicola Rossi (Università Tor Vergata Roma). Parole, quelle di Cottarelli, che suonano talvolta caute, talaltra accusatorie. Come quando afferma che «non bisogna farsi illusioni: la riforma è stata avviata ma è lontano dall’essere completata», o quando ammette che la parte del leone nella spending «l’hanno fatta i tagli alle spese di beni e servizi», e che va verificato ex post che «gli enti territoriali siano riusciti effettivamente a raggiungere i risparmi» senza aumenti di tasse.

Ed ecco i messaggi in bottiglia: al ministro della Funzione pubblica, Marianna Madia, dice che «gli obiettivi della riforma della P.a. non sembrano includere, almeno non esplicitamente, il risparmio di risorse»: «Spero si possa ovviare» è la chiosa. E ancora: «Non si può tar tinta che (con i tagli ndr) non ci siano risparmi in termini di personale». Al governo (Letta e Renzi, l’incarico di Cottarelli è a cavallo tra i due esecutivi) rimprovera la mancanza di obiettivi: «In un anno non ho mai sentito dire che una certa proposta di spesa non è accettabile perché è contraria ai nostri principi fondamentali su quello che lo Stato dovrebbe fare». Ma anche che «occorre riconoscere che spesso scelte impopolari sono necessarie». E possono «comportare revisioni che toccano non solo i soliti “pochi privilegiati”, ma anche un’ampia fascia della popolazione».

Ed è ancora un’accusa quella del commissario che dice: «La complessità dei testi legislativi è tale che i vertici dei ministeri a partire dai ministri hanno difficoltà» a seguirne la definizione: «Non è talvolta chiarissimo chi abbia scritto materialmente questo o quell’altro comma». O quando, sull’attuazione delle leggi, sollecita «controlli di sostanza e non di forma» e «penalità in caso di mancata implementazione». Infine una curiosità: proponendogli l’incarico, il ministro del Tesoro, Fabrizio Saccomanni, spiegò che «si cercava una figura che elevasse il profilo del dibattito sulla revisione della spesa». D’accordo sul profilo ma il bilancio, commenta Rossi, è «piuttosto deludente». Alla spending è «mancata una motivazione» di fondo, conclude Lucrezia Reichlin.

Camera, lo spreco siede sulle poltrone Frau

Camera, lo spreco siede sulle poltrone Frau

Carmine Gazzanni – La Notizia

Non c’è niente da fare. Dopo annunci e strombazzamenti vari, sprechi e spese colossali continuano tranquillamente ad entrare a Montecitorio e, come se non bastasse, ad accomodarsi su comode poltrone Frau per le quali, soltanto negli ultimi sei mesi del 2014, la Camera dei Deputati ha speso oltre 18 mila euro. Non è, questo, che uno dei tanti esempi che si potrebbero fare delle tante spese che Montecitorio ha collezionato nell’ultimo semestre dell’anno appena trascorso, i cui dati sono stati resi pubblici ieri. Ma la conclusione è una soltanto: rispetto allo stesso periodo del 2013 la spesa per beni, servizi e forniture è aumentata di ben 5 milioni di euro. Alla faccia della spending review. Tanto che, anche facendo un calcolo complessivo sulla spesa annuale, quello che era stato annunciato come un taglio poderoso, alla fine si è risolto in un taglietto: siamo passati dai 121 milioni spesi in forniture, beni e servizi del 2013 ai 118 milioni del 2014.

Ma entriamo nel dettaglio. Secondo le tabelle visionate da La Notizia, nel periodo luglio-dicembre 2014 la Camera dei Deputati ha speso oltre 16 milioni di euro (che si aggiungono ai 102 milioni del primo semestre, periodo durante il quale fisiologicamente le spese sono più alte per via di contratti, appalti e via dicendo) contro gli 11 invece spesi nello stesso periodo del 2013. Ma, come spesso accade, sono i dettagli che fanno la differenza. E così, scorrendo le singole voci, scopriamo che, oltre alle comodissime poltrone Frau, la Camera di Laura Boldrini ha speso in arredi oltre 780 mila euro contro i 158 dell’anno precedente. Molti, però, sono stati anche i trasferimenti. E così per il facchinaggio, se da luglio a dicembre del 2013 l’esborso è stato pari a poco più di 186 mila euro, nell’ultimo periodo 2014 se ne sono andati quasi 600 mila. E se i mobili sono di nuova fattura, ovviamente anche i dipendenti devono vestire di tutto punto. E così anche le spese per il vestiario salgono: scarpe e divise di alta rappresentanza sono costate 171 mila euro contro i 101 del secondo semestre 2013.

Ma non basta. Perché le spese di maggiore entità le ritroviamo alla voce – manco a dirlo – “ristorazione”. Tra buffet, catering vari e mensa in sei mesi Montecitorio ha bruciato 2 milioni 832 mila euro, in clamoroso aumento rispetto al secondo semestre 2013 quando si spesero solo 330 mila euro. E che dire, ancora, dei servizi informatici: tra assistenza e forniture, nell’ultimo periodo abbiamo speso quasi 3 milioni contro i 2 del 2013.

Spazio, poi, a un’ultima curiosità. Tra le tante, spunta anche la voce “studi”. Questa volta non parliamo di cifre esorbitanti (246 mila euro). Ciò che stupisce, però, sono i beneficiari di tale cifra. Il potenziamento dell’attività di studio, infatti, è stata affidata, tra gli altri, al Cespi (42 mila euro), all’Ispi (altri 42) e all’Iai (25 mila euro). Tutti enti già finanziati lautamente dal ministero degli Esteri e nei cui direttivi siedono una marea di deputati e senatori. Ma, per carità, sarà semplicemente un caso.

Centrali d’acquisto, i tagli promessi da Renzi su un binario morto

Centrali d’acquisto, i tagli promessi da Renzi su un binario morto

Stefano Caviglia – Panorama

Se il buongiorno si vede dal mattino, la spending review di Matteo Renzi viaggia sotto i peggiori auspici. È dal 24 aprile 2014, con la presentazione del «decreto competitività e giustizia sociale», che il governo promette di ridurre il numero abnorme di centrali di acquisto dello Stato, delle Regioni e (soprattutto) dei Comuni italiani. Ma è proprio quel primo passo che non riesce a compiere. Il testo del provvedimento, lo stesso del bonus degli 80 euro, fissava l’inizio delle operazioni al primo luglio: delle circa 32 mila stazioni appaltanti della Pubblica amministrazione (responsabili di circa 130 miliardi di acquisti di beni e servizi), era la promessa, ne sarebbero soprawissute al massimo 35, compresa la Consip, la centrale di acquisti nazionale posseduta dal ministero dell’Econornia. I Comuni non capoluogo di provincia sarebbero stati obbligati ad acquistare attraverso una di queste (oppure tramite aggregazioni ad hoc con altre amministrazioni) qualunque bene, servizio o lavoro pubblico. Sono passati più di sette mesi e non solo lo spettacolare taglio non s’è visto, ma la sua stessa eventualità è messa pesantemente in discussione. L’idea di ridurre le centrali di acquisto provoca infatti reazioni di sdegno nella potentissima associazione dei Comuni italiani. «Quella norma rischia di causare il blocco degli appalti in tutto il Paese», tuonò l’Anci al momento dell’approvazione del decreto, ottenendo uno slittamento dell’applicazione al primo gennaio 2015.

Ora che il tempo è scaduto, l’offensiva si sposta in Parlamento. Alla Camera una pioggia di emendamenti si è abbattuta sul Milleproroghe, il decreto che ogni anno mantiene in vita per il tempo necessario i provvedimenti in scadenza. Chiedono quasi tutti di far slittare di sei mesi o di un anno la norma sulla riduzione delle stazioni appaltanti, forse nella speranza che si perda nei corridoi del Parlamento o che sia travolta da una fine anticipata della legislatura. La palla è ora nel campo del governo, che entro la metà di febbraio dovrà decidere se rinviare per la seconda volta l’entrata in vigore della legge oppure mantenere la promessa fatta agli italiani. L’esecutivo, a quanto risulta a Panorama, è in grande imbarazzo: da un lato ci sono le pressioni sempre più forti dei Comuni, dall’altro il fatto che un nuovo rinvio comporterebbe un prezzo da pagare in termini di credibilità, anche perché la razionalizzazione delle stazioni appaltanti equivale a una discreta fetta dei tagli tante volte annunciati. Alla voce «Iniziative su beni e servizi», le famose slides dell’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli avevano stimato una riduzione di spesa di 800 milioni di euro nel 2014 e di 2,3 miliardi nel 2015. In tutto fa più di 3 miliardi, che nella migliore delle ipolesi già non sono più interamente disponibili (siamo a febbraio) e nella peggiore stanno per svanire del tutto insieme a tanti altri risparmi e alle diininuzioni di tasse cui dovrebbero essere destinati.

Il discorso delle centrali di acquisto, infatti, è solo la punta dell’iceberg. Dei tagli promessi dal governo, almeno di quelli più importanti, non se n’e fatto finora neanche uno. Difficilmente arriveranno risorse dalla riduzione dei trasferimenti alle imprese (un miliardo era previsto da Cottarelli nel 2014 e 1,6 miliardi nel 2015) o dalla cessione delle aziende municipalizzate in perdita (100 milioni nel 2014 e altrettanto nel 2015). Non si vede nulla all’orizzonte neppure per quel che riguarda la riorganizzazione delle forze di polizia (800 milioni nel 2015) ne dalla soppressione di enti o agenzie (100 milioni nel 2014 e 200 nel 2015). Solo il taglio delle retribuzioni di presidente e consiglieri del Cnel produrrà qualche risparmio, ma non certo nella misura attesa, visto che l’iter legislativo della chiusura del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e ancora in corso. Poi ci sono voci ormai mitiche come la digitalizzazione della Pubblica amministrazione che, sempre nei piani di Cottarelli, nel 2015 avrebbe dovuto dare più di 1 miliardo. È ancora valida quella previsione ora che l’ex commissario è stato accompagnato alla porta da Renzi? Bisogna essere molto ottimisti per rispondere in modo affermativo.

Alla fine restano solo i vecchi arnesi della riduzione di spesa tradizionale, come i tagli lineari nei ministeri, da cui si prevede di ottenere quasi due miliardi, e quelli dei trasferimenti a Regioni, Province e Comuni, che infatti hanno fatto fuoco e fiamme riguardo alla Legge di stabilità. Tocca a loro il salasso più pesante: 3,5 miliardi in meno alle Regioni e 2,2 ai Comuni. E qui si tocca un altro tasto dolente. Se gli unici risparmi si fanno chiudendo il rubinetto dei trasferimenti agli enti locali, si può parlare di riduzione degli sprechi? Lo stesso sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio (ex presidente dell’Anci) ha riconosciuto in un’intervista alla Repubblica che il 2015 sarà un anno durissimo per i Comuni. E se per compensare quel che manca sindaci e presidenti di Regione aumentano le tasse? Queste voci compongono quasi la metà della manovra 2015 con cui il governo ha cercato di non lasciar vedere troppo lo scarto fra la montagna delle promesse e il topolino dei risparmi reali. Sulla carta i tagli di spesa previsti dalla Legge di stabilità ammontano a 16 miliardi, quattro in meno dei 20 annunciati alla fine dell’estate. Ma il vero problema è la loro incertezza. Per ottenere il via libera della Commissione europea ai conti dell’Italia, il governo si è protetto con la clausola di salvaguardia che prevede dal gennaio 2016, in caso di mancato rispetto delle previsioni, l’aumento dell’Iva al 12 per cento per i beni che oggi pagano il dieci e al 24 per quelli soggetti al 22. Ulteriori aumenti sono previsti nel 2017 e nel 2018. Se i conti dello Stato sono al sicuro, le nostre tasche molto meno.

Per capire come stiano davvero le cose, del resto, basta dare un’occhiata ai numeri generali della Legge di stabilità. Lungi dal diminuire, la spesa pubblica nel periodo fra il 2013 e il 2015 è prevista in aumento da 827,2 a 838,8 miliardi, per arrivare addirittura a 860,3 nel 2017. È vero che queste cifre sono condizionate dal fatto che Bruxelles ha imposto di contabilizzare il bonus degli 80 euro come aumento di spesa anziché come riduzione fiscale, ma anche senza questa penalizzazione nel
2015 la spesa diminuirebbe di appena 6 miliardi, per poi ritrovarsi di nuovo in crescita di altri 20 miliardi nel 2017.

Nemmeno Renzi cambia verso al carrozzone municipale (per ora)

Nemmeno Renzi cambia verso al carrozzone municipale (per ora)

Marco Valerio Lo Prete – Il Foglio

In origine ci fu un tweet, ovviamente: “#municipalizzate: sfoltire e semplificare da 8.000 a 1.000″. Parola di Matteo Renzi, presidente del Consiglio, nell’aprile 2014, a poche settimane dall’insediamento. Poi in agosto il “programma di razionalizzazione delle partecipate locali” di Carlo Cottarelli, allora commissario governativo alla spesa pubblica: sono 7.726 le società che hanno come azionista – maggioritario o meno – le amministrazioni locali, anche se “non si conosce il numero esatto delle partecipate” (sic!), per un totale di 235 mila dipendenti. Poi di nuovo Renzi che annuncia: “Le ridurremo a un ottavo di quante sono oggi”. Quindi, al rientro dalle ferie estive, la rassicurazione del potente sottosegretario Graziano Delrio: “Il governo affronterà la questione in modo organico nella legge di stabilità”. “Una vergogna inaccettabile”, ha ribadito Renzi all’inizio di dicembre alla Camera sulla scorta del tormentone “Mafia Capitale”.

Adesso però il testo definitivo della legge di stabilità c’è, e le municipalizzate sembrano continuare a godere ancora di ottima salute, che si tratti del prosciuttificio o della società del trasporto pubblico locale. A dire il vero di un “processo di razionalizzazione” del capitalismo municipale, in Finanziaria, si parla. In maniera però poco radicale o rottamatrice, a giudicare dai commi 610 e seguenti del maxiemendamento governativo. “Una novità positiva è il riferimento alla soppressione delle partecipate “inutili”, cioè quelle non indispensabili al perseguimento delle finalità istituzionali, come agenzie di stampa, assicurazioni e farmacie, nel caso specifico in cui siano ‘composte da soli amministratori o da un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti’ dice al Foglio Serena Sileoni, vicedirettore generale dell’Istituto Bruno Leoni. Per il resto il governo si muove, ma come i gamberi, per tornare indietro. infatti la liquidazione delle partecipate inutili doveva avvenire entro il 31 dicembre 2014, cioè entro pochi giorni. Invece, parlando di una nuova scadenza, il 31 dicembre 2015, di fatto si concede un anno in più di tempo agli enti locali. Una proroga che ricorda quella contenuta nel dicembre 2013 nella Finanziaria del governo Letta.

Nel 2012 il decreto Spending review del governo Monti prevedeva lo scioglimento entro il 31 dicembre 2013 delle società “strumentali”, quelle che lavorano quasi totalmente per l’ente pubblico che le controlla; o la loro alienazione dal 2014. In più c’erano le norme ad hoc per le municipalizzate “inutili”, introdotte addirittura nel 2007 e da allora periodicamente rinviate. Fino al rinvio voluto dal governo di grande coalizione di Enrico Letta, appunto; un esecutivo che in alcune fasi sembrò navigare con l’obiettivo di evitare i dossier più spinosi. Ma perché Renzi, sulle municipalizzate, avanza pure lui a suon di annunci e proroghe? La spiegazione ufficiale – che soprattutto i tecnici del ministero dell’Economia (Mef) offrono agli investitori internazionali – è la seguente: “Non si poteva mettere troppa came al fuoco nella legge di stabilità”. Tuttavia negli ultimi mesi c’e stato un altro ostacolo: Palazzo Chigi sembra preferire che sia il ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia, a tirare le fila dell’iniziativa riformatrice, incentivando così un continuo palleggio tra i due dicasteri (Mef e Pa). Se Delrio annunciava norme chiare già in legge di stabilità, Madia finora sul tema è intervenuta poche volte in pubblico, dando l’idea di un work (molto) in progress: parlò di “riduzione delle municipalizzate” al punto 36 (su 44) della lettera inviata in aprile a tutti i dipendenti della Pa; poi in una recente intervista al Messaggero ha annunciato un “Testo unico” sulle partecipate in arrivo il prossimo anno.

Nella maggioranza dicono che fino a oggi tra i “frenatori” bisogna annoverare proprio l’ipercinetico Renzi, come dimostra la sorte dell’emendamento Lanzillotta-Chiavaroli (di due partiti della maggioranza, Scelta civica e Ncd) che almeno introduceva sanzioni per gli enti locali che non dismettono le partecipate inutili, emendamento cassato a notte fonda dal governo (cioè dal Pd). Il “partito dei sindaci”, con le sue ramificazioni societarie, ha ancora uninfluenza sull’ex primo cittadino di Firenze; visto che Renzi per mesi non ha escluso elezioni nella primavera 2015, finora ha preferito accarezzare quel partito nel verso giusto. D’adesso in poi si cambia?

Le partecipate sono 11mila ma 1500 non sono attive

Le partecipate sono 11mila ma 1500 non sono attive

Laura Serafini – Il Sole 24 Ore

L’Istat si cimenta in un arduo calcolo che sinora aveva trovato solo risposte vaghe, nonostante esso sia al centro di una della maggiori potenziali operazioni di spending review pubblica. L’Istituto di statistica ha pubblicato ieri un rapporto in cui tenta una quantificazione meticolosa del numero di società a partecipazione pubblica, sia statale che a livello locale. La fotografia, scattata sui dati 2012, inquadra 11.024 società con un totale di addetti che sfiora il milione di persone, per la precisione 977.792.

Il lavoro dell’istituto scaturisce dall’incrocio dei dati di sei fonti: Consob, registro delle imprese delle Camere di Commercio, bilanci civilistici e consolidati delle società di capitali, la banca dati Consoc del dipartimento della Funzione pubblica, le dichiarazioni delle partecipazioni pubbliche al ministero del Tesoro, le dichiarazioni delle partecipazioni detenute dagli enti locali alla Corte dei conti. E per la prima volta fissa un numero laddove prima c’erano piuttosto stime: 7.726 le partecipate degli enti locali che risultano nella banca dati del Tesoro, dato sul quale il commissario Carlo Cottarelli aveva impostato la sua proposta di spending review che avrebbe dovuto portare al taglio di 7mila municipalizzate su 8 mila nell’arco di 4 anni, con un risparmio di 2 miliardi. Anche se Cottarelli riteneva, ora si scopre a ragione, più veritiera la stima della presidenza del Consiglio, che calcolava in 10mila l’universo delle partecipate a matrice pubblica.

L’indagine Istat racconta che le realtà di maggiore dimensione (con più di 250 addetti) sono società per azioni, occupano circa 780mila addetti e sono realtà presenti soprattutto nel settore trasporto e magazzinaggio (116) e nel settore dell’acqua (quindi in sostanza municipalizzate). Il 68,7% delle 11mila realtà censite da Istat è controllata da un solo socio pubblico; quelle però controllate al 100% sono il 25,6 per cento; quelle controllate con quote entro il 50% rappresentano il 29,1%; quelle in cui la quota pubblica è inferiore al 20% sono il 25,6 percento.

Il dato che colpisce di più è il numero delle partecipate che risultano non considerabili tra le imprese attive. Le realtà attive sono complessivamente 7.685. E le altre 3.339 partecipate cosa sono? L’indagine rivela che 1.454 unità sono imprese non attive (dunque con zero addetti) ma che nel corso del 2012 hanno comunque presentato un bilancio o una dichiarazione dei redditi (e tra queste ce ne potrebbero essere alcune in fase di liquidazione). Altre 994 unità sono unità agricole o no profit, con un totale di 16.579 addetti e per le quali l’Istat ha potuto ottenere informazioni attraverso i censimenti 2011. Le restanti 891 unità, con 9.963 addetti, sono definite dal rapporto «non classificabili, che saranno oggetto di ulteriori analisi».

L’indagine si sofferma inoltre sui settori di attività economica dove è presente il maggior numero di partecipate: è quello delle attività professionali, scientifiche e tecniche, con il 13,4 per cento delle imprese e il 2,8% degli addetti. Segue nella classifica il settore del trattamento dell’acqua (con l’11,9% delle società) e poi le attività amministrative e servizi di supporto (con il 10,9% delle società). Nel 23,8% dei casi la sede delle imprese partecipate è situata nel Centro (53,4% degli addetti), con una dimensione media di 278 addetti per impresa, la gran parte è localizzata nel Lazio. La ripartizione territoriale con il maggior numero di partecipate è il Nord-ovest: 27,7% di imprese partecipate, 21,1% di addetti e una dimensione media di 94 addetti per impresa.

Altro che tagli, tasse per 50 miliardi

Altro che tagli, tasse per 50 miliardi

Antonio Signorini – Il Giornale

«Questo Paese svolta in maniera definitiva dal punto di vista della pressione fiscale». Lo ha detto ieri il sottosegretario alla presidenza Graziano Delrio, probabilmente nel tentativo di rassicurare contribuenti sempre più dubbiosi. Lo ha ribadito in serata dagli studi di “Che tempo che fa” il premier Renzi, rincarando la dose: «Con la legge di stabilità la pressione fiscale non è invariata, è diminuita», ha detto. Ma lo scetticismo sulla legge di Stabilità è del tutto fondato. Alimentato, più che da retroscena di gufi militanti, dai documenti ufficiali di governo e Parlamento. Il prospetto di copertura della prima «finanziaria» del governo Renzi, ad esempio, ci dice che nel 2016 e nel 2017, metteremo a posto i conti e non faremo più deficit, ma a un costo molto alto. Nel 2016 ci sono 31,7 miliardi di «nuove o maggiori entrate», che diventano 39,1 nel 2017. Sono in parte compensate, è vero, da «minori entrate», quindi da tagli di tasse, imposte e contributi rispettivamente per 9,4 e 9 miliardi. Ma il saldo resta da brividi: più di 20 miliardi nel 2016 e 30 nel 2017.

Nel conto della stangata fiscale futura ci sono soprattutto le clausole di salvaguardia. In altre parole, Bruxelles non vuole incertezze sui conti. Quindi, se una misura deve generare gettito o risparmi e ha effetti dubbi, a garanzia della cifra ci si mette un aumento di tasse certe. È il caso, famoso, delle accise sui carburanti, che potrebbero aumentare per coprire una entrata traballante da 1,7 miliardi, quella sul nuovo meccanismo di conteggio dell’Iva, messo in discussione dall’Ue. Poi ci sono le clausole che il governo Renzi ha ereditato dai precedenti esecutivi, che colpiscono l’Iva. Disinnescato l’aumento nel 2015, ritornano in grande stile dal 2016, quando è previsto un aumento dell’aliquota ordinaria dal 22 al 24% e di quella agevolata dal 10 al 12%. Nel 2018 l’imposta su beni e consumi, a legislazione vigente, dovrebbe arrivare rispettivamente a 25,5% e 13%. Solo le clausole, ha calcolato ieri Il Sole24Ore , a regime, cioè nel 2017, valgono otto miliardi di euro.

Ieri il testo della Stabilità è stato approvato senza modifiche dalla Commissione bilancio della Camera, nonostante i numerosi dubbi. «Abbiamo fatto un po’ di casini», ha ammesso lo stesso Renzi. Esulta il ministro Padoan che ringrazia «i senatori e lo staff del Governo, della Presidenza del Consiglio e del Ministero dell’Economia», ma i dubbi sul testo di legge rimangono. Ad esempio, sul credito di imposta del 10% sull’Irap a favore dei lavoratori senza dipendenti. Una modifica introdotta dal Senato per compensare un effetto indesiderato del taglio dell’imposta per le aziende. L’invito dei tecnici di Montecitorio di verificare la compatibilità con la norma europea ed «evitare eventuali procedure di infrazione», visto che «il beneficio è limitato a specifiche categorie di contribuenti». Problemi anche per lo stanziamento da cui si dovrebbero attingere parte dei 535 milioni di euro da dare alle Poste, per dare attuazione alla sentenza dell’Ue. Il fondo è quasi vuoto. Dubbi anche sul nuovo modo di pagare l’Iva (il cosiddetto reverse charge) che, come detto, è anche incerto per quanto riguarda gli effetti finanziari. Sotto la lente dei tecnici anche la platea dei beneficiari del credito di imposta, che potrebbe essere non aggiornata.

Nonostante il testo licenziato dal Senato sabato notte sia blindato, in Commissione Bilancio della Camera sono stati presentati circa 130 emendamenti. Dopo un primo esame ne sono restati solo 80. Il presidente Francesco Boccia ha dichiarato infatti inammissibili 50 proposte arrivate al testo da M5S, Forza Italia e Sel. Il Movimento 5 stelle ha trasmesso via Youtube la seduta domenicale della commissione Bilancio, con una diretta «clandestina». L’intenzione del governo è e arrivare all’approvazione definitiva della legge di Stabilità in Aula entro martedì, comunque «prima di Natale», perché bisogna «dare segnali di stabilità», ha spiegato il sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta.