tfr

Tfr, tutto e subito

Tfr, tutto e subito

Davide Giacalone – Libero

Cancellare il Tfr, restituendolo ai lavoratori, è una riforma seria e strutturale. Renderne volontario l’incasso minimale e rateale, mantenendone l’obbligatorietà dell’accumulazione, è una via di mezzo insipida, che somiglia a un trucco contabile. Evitiamo di fare come con le pensioni, cui mettono mano tutti quelli che passano, meglio cambiamenti stabili.

L’allarme da noi lanciato la scorsa settimana, avvertendo che se il Trattamento di fine rapporto smette di essere un risparmio forzoso e un reddito differito entra a far parte del reddito attuale, quindi dell’imponibile, e entrandovi porta sia all’aumento delle tasse da pagare che alla perdita del bonus 80 euro, fu accolto con fastidio, ma era così fondato che ora sento i governativi sperticarsi a dire: non sappiamo ancora come si farà, perché dobbiamo ancora discutere i dettagli (alla faccia dei dettagli!) tecnici, ma il Tfr in busta paga non porterà né più tasse né alla perdita del bonus. Bravi, ci siate arrivati: il pericolo esiste. Aggiungo: le soluzioni che avete in mente sono barocchismi impraticabili.

Per ottenere quel risultato, infatti, si dovrebbe avere una busta paga in cui alcune parti del reddito non solo non contribuiscono a comporre l’imponibile (ai fini delle aliquote), ma manco il reddito (ai fini del bonus). Per essere partiti volendo semplificare, direi che non s’ebbe la fortuna di chi buscò ponente per il levante. Leggo che l’aliquota sul Tfr incassabile sarà del 23%, ovvero la più bassa. Non voglio crederci, perché sarebbe disperazione fiscale. L’aliquota che si paga, oggi, è una media di quella subita negli ultimi cinque anni, quindi il 23% è la più bassa. Oggi calcolata su un montante maggiore, perché il Tfr non solo si accumula, ma si rivaluta (l’agevolazione fiscale riguarda la base imponibile, discorso diverso). Cederlo oggi al 23% significa aver la fregola d’incassare subito il meno, non avendo il tempo di aspettare domani il più. Disperazione, appunto.

Girate la frittata, che è meglio. Primo passo: si abolisce il Tfr. Fine della trasmissione: ciascuno si trova i propri guadagni in busta paga e ne fa quello che gli pare, risparmiandone una parte o sbafandosi il tutto. Viva la libertà. Secondo passo: smaltire lo stock di Tfr accumulato, che sono soldi dei lavoratori. Vero, ma utilizzati dal depositario come fossero debiti a lunga scadenza, tali, quindi, che se devono essere restituiti subito provocano il crollo delle casse che li contengono. Come si fa? Mettendo a fuoco i tre problemi che si creano: a. nel pagamento della previdenza integrativa; b. nelle casse dell’Inps; c. nelle casse delle aziende sotto i 50 dipendenti. Il primo problema (che, detto fra parentesi, dimostra quanto la volontarietà in accoppiata con l’obbligatorietà non funzioni, infatti a quella destinazione s’è rivolta una minoranza di lavoratori, a meno che non si facciano le riforme nella speranza che falliscano) si affronta con una norma transitoria che consenta di riversare il capitale, o parte di esso, alle stesse condizioni di rivalutazione (o migliori) nel fondo privato. Quelli sono contratti privati, quindi serve una norma d’accompagnamento. Terzo passo: i buchi nei bilanci, invece, si coprono con garanzia della Cassa depositi e prestiti. Dicono dal governo: dovranno essere le banche a dare i soldi e in tal senso faremo una convenzione. Convenzionino quel che credono, ma le banche non vogliono e non possono dare soldi in compensazione di cassa bruciata. Basta farsi spiegare Basilea. Ridicono: ma la Bce ha messo a disposizione i soldi. No, sono finalizzati agli investimenti, non alle partite di giro per i regali governativi. Senza contare che gli interessi di mercato, pagati alle banche, sono superiori a quelli assicurati dal Tfr (1,5% più il 75% dell’inflazione, che non c’è). Se la Cdp garantisce il buco, invece, ci guadagna, perché pagherebbe il denaro meno di quel che le aziende e l’Inps sono già predisposte a retribuirlo.

Sono pronto a scommettere che alla Cdp storcono la bocca, perché pensano di usare i denari per crescere in potere e partecipazioni azionarie. S’appassionarono al romanzo: “Piccole Iri crescono”. Ergo, se il governo ha la forza di farsi valere, in effetti può assestare un colpo con il Tfr, restituendo ai lavoratori la libertà di consumare o risparmiare; se non ha questa forza, però, la pianti di pasticciare, perché fa la fine del gatto con il gomitolo: ruzza che è una bellezza, finché non rimane prigioniero della matassa. Il tutto ripetendo che bruciare risparmio per consumi, e non per investimenti, è un modo per diventare poveri.

La scommessa (sul futuro) del trf in busta paga

La scommessa (sul futuro) del trf in busta paga

Roberto Sommella – Europa

C’è una fiducia molto più importante di quella posta al senato dal governo per la riforma del lavoro: è la sicurezza del futuro che milioni di italiani chiedono dopo anni di crisi.I lavoratori sono davvero pronti a trasformarsi in cicale dopo essere passati alla storia come laboriose formiche, capaci di mettere da parte ancora oggi ben 8.000 miliardi di euro? Sta tutto nella soluzione di questo rebus il senso della mossa dell’esecutivo di Matteo Renzi di mettere in busta paga il Tfr. Una scelta che, previo assenso dei protagonisti, ha il sapore della scommessa.

Come sempre in questi casi, vanno calcolati i costi per le imprese e le famiglie e i benefici per l’economia italiana. Tenendo presente però almeno tre elementi che stanno trasformando la nostra società: l’abbattimento della propensione ai consumi, il calo del Pil che comporta minori pensioni future e di conseguenza maggiori tutele integrative, e il costante aumento dei depositi. Proprio quest’ultimo punto, fotografato di recente, è quello che maggiormente sorprende: il cavallo non solo non beve ma sembra diventato un cammello. Nonostante i tentativi della Bce (che si è detta favorevole all’operazione Tfr in busta paga) i 23 miliardi di euro andati alle banche italiane dall’ultima iniezione di liquidità di Francoforte non si stanno tramutando in maggiori prestiti. Tutt’altro. I nostri concittadini, evidentemente chi può, tengono a mantenersi molto liquidi, in banca o addirittura a casa.

Prova ne è che dal 2007 ad oggi l’ammontare complessivo dei depositi bancari e dei contanti sia aumentato del 9,2% per un totale di 234 miliardi di euro. Una montagna, se paragonata alle cifre che potrebbero essere mobilitate dallo sblocco parziale del Trattamento di fine rapporto, che quest’anno ammonterà in 26,9 miliardi di euro (9,8 parcheggiati presso le imprese, 11,8 nelle casse dell’Inps a titolo pubblico e privato, 5,3 confluiti verso i fondi pensione). Il governo – sempre se le piccole e medie imprese saranno d’accordo, visto che sono quelle che avrebbero più da rimetterci perdendo il capitale costituito dal salario differito dei propri dipendenti – spera in un effetto benefico di circa 100 euro medi in busta paga al mese. E se così non fosse? Qui si tratta della vita delle persone, non solo di utilizzare un bonus come gli 80 euro. Hanno più paura del presente o del futuro? Alcuni dati vanno analizzati con grande attenzione.

A fronte di una crescente incertezza, la tentazione di preferire i risparmi ai consumi è sempre più alta. Per il 2014 il coefficiente di rivalutazione del Tfr si è attestato da gennaio ad agosto all’1,28% per cui sarà poco sopra l’1,5% a dicembre, a causa della deflazione. Con questo rendimento deve quindi confrontarsi chi vuole usare il Tfr per fare un altro tipo d’investimento. C’è qualcosa che può rendere di più, rinunciando alla pensione integrativa o alla liquidazione finale? Dall’inizio del 2001, ha calcolato Milano Finanza, da quando i comparti di previdenza complementare hanno cominciato a prendere piede in Italia, alla fine del 2013 i fondi negoziali hanno offerto un rendimento medio netto del 45%, superando la rivalutazione netta del Tfr mantenuto in azienda, che nello stesso arco temporale è stata pari al 41,1%. Ma nonostante questo le adesioni non sono mai decollate e oggi solo un quarto degli occupati è iscritto a un fondo pensione. Gli aderenti sono pochi, soprattutto tra i giovani e le donne, proprio quelli più bisognosi di un’integrazione e più colpiti da disoccupazione e precarietà. Di una copertura privata ci sarà sempre più bisogno, visto che quella pubblica è destinata a restringersi. E il perché è presto detto.

L’attuale sistema pensionistico si poggia su previsioni statistiche che calcolano l’assegno previdenziale in base anche al coefficiente di rivalutazione del Pil. Se quest’ultimo arranca o addirittura cala, come in questi anni, si avrà una rendita minore. Qualche esempio: lavoratori trentenni, dipendenti ed autonomi, che lasceranno l’attività a 68 anni e 9 mesi, avranno una pensione pari, rispettivamente al 64% e al 46% dell’ultimo stipendio se il Pil crescerà dell’1,5%; percentuale che si ridurrà bruscamente al 53% e al 38% dell’ultima busta paga se il Pil si fermerà al +0,5% (più o meno quanto viene stimato nel 2015). Non solo. Con più soldi in busta scenderanno, per chi li ha, anche le pensioni di scorta fino al 20% in meno se l’operazione durerà tre anni, perché i contributi cesseranno.

La fotografia dell’Italia di oggi è questa: meno crescita, meno consumi, meno pensioni future. La risposta, con un mese di stipendio in più a disposizione, sarà più spese famigliari o più previdenza integrativa? È una scelta, anche patriottica, quella che gli italiani si troverebbero a dover fare se andrà in porto, con tutte le precauzioni e le garanzie bancarie per le Pmi, il progetto Tfr: destinare al proprio benessere e quindi all’Italia una quota del salario, facendo ripartire l’economia, oppure richiudersi ancora di più nel formicaio in attesa di tempi migliori. Questi calcoli, che sembrano complicati, gli italiani sanno farli molto bene. Il governo ha avuto coraggio, bisogna vedere se l’avranno anche i governati.

Si fa presto a dire “Tfr in busta”

Si fa presto a dire “Tfr in busta”

Massimo Calvi – Avvenire

L’anticipo della liquidazione in busta paga, secondo l’ipotesi più generosa allo studio del governo, dovrebbe portare nelle tasche dei lavoratori 100 euro netti in più al mese, se la media sono i redditi da 23mila euro lordi. Una retribuzione più “ricca”, tuttavia, può produrre un effetto poco simpatico per le famiglie con figli, come ha messo in evidenza un dossier di “Repubblica”: il rischio è perdere una parte di detrazioni e poi finire anche in una fascia Isee più alta, e dover dunque pagare rette più care per asili nido, mense scolastiche o tasse universitarie, fino a vanificare il beneficio dell’aumento, quando non a renderlo sconsigliabile.

Non è un problema del Tfr, è una questione antica che si ripropone. In sostanza il combinato tra un fisco modellato sul reddito individuale, che non valuta adeguatamente i carichi familiari, e la struttura delle tariffe dei servizi per i minori legate ai redditi, finisce per generare situazioni paradossali. È come se il sistema “spingesse” i cittadini ad accontentarsi di uno stipendio contenuto, ad avere pochi figli e a non darsi molto da fare per migliorare la propria condizione di lavoro: tanto poi scattano gli aumenti di tasse e tariffe. Un’incoerenza che dovrebbe spingere chi si interroga sulle ragioni della mancata crescita dell’Italia a concentrarsi anche sulle responsabilità del sistema fiscale.

Il vero punto critico resta in ogni caso il deficit strutturale di attenzione alle famiglie, in particolare a quelle numerose, e ai bambini in generale. A tutti i livelli. Il peso delle rette di nidi e mense, con i rincari diffusi, rappresenta oggi una delle voci più importanti nei bilanci delle famiglie. Oltretutto, l’uso improprio dell’indicatore Isee non per agevolare le fasce deboli, ma per “tassare” quelle medie, finisce per penalizzare chi paga già le tasse e contribuisce in modo progressivo al finanziamento dei servizi pubblici. L’anticipo del Tfr nelle buste paga dei lavoratori può forse servire a rilanciare i consumi. Ma è difficile che questo si verifichi – l’esperienza del bonus da 80 euro insegna – in assenza di altri interventi, considerato che ogni misura che non tiene conto dei carichi familiari finisce per configurarsi come una palese ingiustizia.

Tfr, nessuno ha detto quale sarebbe l’aliquota Irpef da applicare

Tfr, nessuno ha detto quale sarebbe l’aliquota Irpef da applicare

Giuseppe Marini – Il Tempo

La ricetta data da più parti per tentare di risanare la nostra economia è stata, come è noto, quella di un alleggerimento della pressione fiscale sulle imprese finalizzata ad agevolare nuove assunzioni e, soprattutto, nuovi investimenti. Il Governo, fedele al principio che i consigli gratuiti non devono essere seguiti, nel mezzo di un acceso (e in buona parte inutile) dibattito sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori tira fuori dal cilindro l’ennesima trovata che è quella di mettere in busta paga tutto o parte del Tfr. E ciò, sembra di capire, per rafforzare il potere di acquisto immediato dei lavoratori.

Come sempre accade, non si dice come ed in quali tempi tale “sconvolgente” innovazione possa essere attuata. Ad esempio, non è stato chiarito quale sarebbe l’aliquota d’imposta che dovrebbe scontare il Tfr pagato in busta paga. Al riguardo, occorre ricordare che la tassazione agevolata del Tfr risponde all’esigenza di evitare che il relativo importo, venendo incassato una tantum pur derivando da un processo produttivo pluriennale, determini un prelievo fiscale ingiustamente gravoso per l’effetto dell’aumento progressivo delle aliquote Irpef. Ma se il Tfr viene incassato in tante soluzioni spalmate nel tempo, tale effetto distorsivo non si realizza in capo al contribuente e sarebbe ragionevole una tassazione ordinaria per chi, liberamente, scegliesse di ricevere il Tfr in busta paga. Inoltre, non si dice come la misura in parola possa essere attuata senza incidere (e in modo devastante) sulla liquidità delle piccole e medie imprese e senza dover fare l’ennesimo “regalo” al Fisco. È vero che le imprese dovrebbero accantonare il Tfr dovuto ai dipendenti e che, pertanto, nessuna incidenza sulla loro liquidità dovrebbe avere il “passaggio” del Tfr nella busta paga dei loro dipendenti.

Ma quanto precede vale solo in teoria ed è invece meno vero o niente affatto vero per quelle imprese, e sono ormai un numero fuori controllo, che proprio per la mancanza di liquidità economica seguono la triste via del fallimento. E la mancanza di liquidità dovrebbe essere, tra l’altro, ben conosciuta dallo Stato essendo in notevole misura imputabile allo Stato che non paga i suoi debiti. È comprensibile, pertanto, come la proposta del Tfr in busta paga abbia raggiunto l’invidiabile risultato di mettere d’accordo Sindacati del lavoratori e Confindustria e contribuire in tal modo alla realizzazione della pace sociale tra lavoratori e imprese. Anche se, una pace siffatta riflette soltanto, come si è tentato di dimostrare, l’inadeguatezza e il carattere improvvisato di certe proposte riformatrici.

Il Tfr è mio e lo gestisco io, o no?

Il Tfr è mio e lo gestisco io, o no?

Il Foglio

A chi fa paura il tfr in busta paga? Non ai lavoratori, naturalmente, trattandosi di soldi loro che, sulla base delle intenzioni renziane, finirebbero in busta paga (non tutti, e peraltro in via facoltativa). Logica vorrebbe, quindi, che anche i sindacati si dicessero favorevoli. E per osmosi anche la sinistra old labour dovrebbe mostrare simpatia per un provvedimento che mette gli assunti in condizione di decidere in libertà se congelare o spendere oppure tesaurizzare a piacimento la quota annuale della così detta liquidazione. Invece no, c’e qualcosa di misteriosamente ostile alla proposta del premier Matteo Renzi, un rigagnolo limaccioso e trasversale nel quale scorre una diffidenza sospetta.

Da Confindustria alla Cgil, dai reduci inconsolabili del governo di Enrico Letta (Francesco Boccia del Pd: “Solo chi in un’azienda non ci è mai entrato può pensare che quella del tfr sia una soluzione”) agli avanzi del sindacalismo post fascista (Renata Polverini di Forza Italia), fino ad alcune molecole del mondo accademico che si pretende liberista (Cesare Pozzi della Luiss, per esempio): è tutto un coro stonato ma potente. Ma per quale ragione? Si può capire che a Giorgio Squinzi e alla sua lobby confìndustriale faccia comodo difendere il capitalismo pigro e paraculo grazie ai risparmi del lavoro dipendente ben sigillati nel proprio retrobottega. Si comprende meno come faccia Susanna Camusso ad assecondare lo stesso punto di vista, quando il suo collega/avversario Maurizio Landini della Fiom la pensa invece all’opposto.

Non si comprendono affatto le ragioni degli altri. Quelli che urlano all’attentato statale contro la vecchiaia dei prossimi pensionati; quelli che assicurano che il governo vuole finanziare la domanda attraverso il risparmio privato, o che Renzi sbloccherà i tfr per taglieggiarli meglio con altre tasse; quelli che fanno l’elogio del Bismarck inventore del Welfare prussiano, coatto e a prova d’infrazioni private. È un modo gentile per disprezzare i lavoratori, come fossero minorenni strabici, cicale pronte a rovinarsi l’ultima stagione della vita, o forse solo potenziali simpatizzanti di un governo sgradito.

Dopo la casa, il tfr: Renzi ora stritola le imprese

Dopo la casa, il tfr: Renzi ora stritola le imprese

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Qualsiasi intervento sul Tfr sarà volontario e a costo zero per le imprese. Parola del governo. Alla vigilia dell’incontro con i sindacati ai quali il premier Matteo Renzi vuol far digerire il Jobs Act mettendo sul tavolo come compensazione l’anticipo delle liquidazioni sugli stipendi, si moltiplicano i messaggi rassicuranti soprattutto alle imprese che rischiano di più da questa operazione. Così prima il ministro dell’Interno Alfano e poi il viceministro all’Economia, Enrico Morando, hanno ribadito che se l’intervento andrà in porto, verrà «fatto in modo che per la liquidità delle imprese risulti neutrale e per i lavoratori non aumenti il prelievo Irpef. E comunque sarà volontario». Tra le opzioni sul tavolo anche quella di dare una compensazione alle imprese attraverso i nuovi prestiti della Bce alle banche.

Ma al di là delle rassicurazioni, resta il sospetto che il governo voglia acquisire al fisco maggiori risorse per finanziare gli 80 euro e renderli stabili. L’esperienza della Tasi che non avrebbe dovuto portare maggior onere fiscale rispetto alla vecchia Imu e che invece si è tradotta nell’ennesima batosta, è un precedente che induce a guardare con sospetto alle promesse del governo. Dai calcoli dei Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro emerge che mettere nelle buste paga il Tfr significa per i lavoratori un maggior reddito pari a circa 40 euro al mese (in caso di Tfr erogato al 50%), circa 62 euro al mese (in caso di Tfr erogato al 75%) e circa 82 euro al mese (in caso di Tfr erogato al 100%). Il Tfr maturato ogni anno è circa 21,451 miliardi di euro. Non c’è solo il problema di privare le aziende di liquidità ma anche di asciugare la fonte principale della previdenza integrativa a cui ogni anno vengono destinati 6 miliardi del Tfr. Il dibattito si è scatenato. «La soluzione dell’anticipo del Tfr a costo zero per le aziende, paventata dal governo, è tutta da verificare» afferma il deputato di Forza Italia Luca Squeri. Per Stefania Prestigiacomo sempre di FI, «darebbe solo un colpo di grazia al Paese». Michele Perini, presidente della Fiera di Milano, lancia l’allarme: «Sarebbe un guaio grandissimo per le finanze imprenditoriali che utilizzano quella liquidità anche per far funzionare il sistema». E lancia l’alternativa: «Si può semmai discutere di Tfr futuro ma con un accesso al credito al 2,75%».

La retribuzione e la carica (doppia) del fisco

La retribuzione e la carica (doppia) del fisco

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

L’anticipo del Tfr in busta paga potrebbe valere un incasso annuo per lo Stato che va da 1,7 a 5,6 miliardi a seconda del tasso di adesione dei lavoratori alla proposta lanciata dal premier Matteo Renzi. I calcoli sono stati fatti dall’economista Stefano Patriarca per il sito la voce.info. Nell’ipotesi di un’adesione media, il gettito si posizionerebbe intorno ai 3 miliardi.

L’ipotesi è che il Tfr, anche se aggiunto in busta paga, venga tassato separatamente, non si sommi, quindi, agli stipendi ai fini delle trattenute mensili, e con l’applicazione di un’aliquota del 23%, la minima prevista ai fini Irpef. Si tratterebbe, ovviamente, di un anticipo di tassazione perché lo Stato incasserebbe oggi quello che, mantenendo l’istituto della liquidazione, incamererebbe tra 20 o 30 anni. Attualmente sul Tfr si paga anche un’imposta dell’11% sui rendimenti annui. Sulla sorte di questo prelievo non si hanno notizie. I progetti del governo non sono stati svelati completamente, ma guardando queste cifre viene il sospetto che l’obiettivo non sia solo quello di rilanciare i consumi. Certo, questo è l’obiettivo più importante. Ma con l’effetto non secondario di garantire all’Erario un tesoretto non indifferente. Se poi mettiamo in conto l’Iva sui maggiori consumi, il gettito si arrotonderebbe di un altro miliardo, forse di più.

Con il Tfr in busta paga i lavoratori vedrebbero aumentare il loro reddito e il loro potere d’acquisto, anticiperebbero ora le imposte sul Tfr, e lo Stato incasserebbe dai 3 ai 6/7 miliardi. Niente male. Senza contare che la rivalutazione potrebbe essere a rischio. Più consumi, incassando più tasse. Un piccolo miracolo all’italiana. Sarebbe importante chiarire da subito quale potrebbe essere il trattamento fiscale perché l’operazione non sembri finalizzata soprattutto ad aumentare le entrate. I sindacati chiedono che l’anticipo del Tfr sia a tassazione zero, difficile crederlo. Altrettanto importante è chiarire come andare incontro alle esigenze finanziarie delle piccole imprese. Le banche, questa volta, risponderanno presente?

Fuori tempo massimo per interventi sulle liquidazioni

Fuori tempo massimo per interventi sulle liquidazioni

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

L’idea dimettere in busta paga una parte o l’intera quota del Tfr è spuntata come un fungo settembrino nel bel mezzo del dibattito sull’articolo 18 e nell’attesa di capire come la legge di stabilità riuscirà a rendere strutturale il taglio Irpef da 80 euro per 11 milioni di lavoratori. Diciamolo subito, non è il migliore dei contesti. Come spesso accade, la nostra politica procede per tentativi, aggiunge temi, provocazioni, accavalla proposte quando sembra non arrivare mai la svolta promessa sulla “vera riforma” in cantiere.

Il governo ha presentato lo scorso aprile in Senato un ddl delega di riforma del mercato del lavoro e sei mesi dopo ancora non sappiamo immaginare se entro l’autunno avremo quel testo in Gazzetta. Lì non si parla di rinnovamento della struttura dei contratti e di Tfr, si parla di sperimentazione sul salario minimo, di razionalizzazione delle forme contrattuali ma non di quel che c’è in busta, oggetto tipicamente affidato alla negoziazione tra le parti sociali. Aggiungere ora il tema del Tfr quando l’attesa è, appunto, su ben altro, appare incongruo. Soprattutto se il ragionamento che si fa sulla cancellazione della vecchia liquidazione non è legato a un rilancio della previdenza integrativa.

Si immagina invece di dare il Tfr ai lavoratori per rafforzarne il potere d’acquisto. Ecco, se è questo il piano è un piano sbagliato c pericoloso. Per le aziende, che stanno vivendo una delle peggiori crisi di liquidità dal Dopoguerra. E per gli stessi lavoratori, cui si affiderebbe improvvisamente un plus monetario stipendiale senza averli, appunto, informati bene di che cosa si tratta. Il Governo porti a casa il Jobs act senza ulteriori perdite di tempo e si dedichi di buona lena ai decreti delegati. Solo dopo si può parlare di Tfr in busta, senza ansie e improvvisazioni. Anche perché il superamento di quel residuo archeologico di epoca fascista poteva esser fatto vent’anni fa, quando siamo passati al sistema contributivo per il calcolo delle pensioni. Oggi siamo fuori tempo massimo e in piena recessione con deflazione, dunque non c’è fretta.

Le mani dei sindacati sul Tfr

Le mani dei sindacati sul Tfr

Sandro Iacometti – Libero

Un flusso annuo di 4,2 miliardi che va ad alimentare una massa di risorse gestite che si aggira sugli 85 miliardi di euro. È questo, sostanzialmente, il Tfr che interessa ai sindacati. E pure alla Confindustria. Quello per cui entrambi sono saliti senza esitazioni sulle barricate, accanto ad artigiani e piccoli imprenditori, per difendere la liquidazione dei lavoratori dal progetto di Matteo Renzi di metterne una parte subito in busta paga.

L’interesse vitale delle Pmi è chiaro e solare. Dei 22-23 miliardi che compongono la torta complessiva annua del Tfr circa 11 miliardi restano in azienda. Liquidità preziosa, che la mossa del governo potrebbe dimezzare da un giorno all’altro. Ma i sindacati, sempre così attenti al rilancio del potere d’acquisto dei lavoratori, perché si scaldano tanto? E perché sbraita anche Confindustria, la cui maggioranza delle aziende rappresentate (sopra i 50 dipendenti) già versa il Tfr al fondo di tesoreria istituito presso l’Inps (per un totale annuo di 6 miliardi)? La chiave di volta per comprendere tanta attenzione si chiama previdenza complementare. Di quei 22-23 miliardi di Tfr che ogni anno maturano i lavoratori italiani, infatti, 5,2 miliardi finiscono in pancia ai fondi pensione. Di questi, secondo gli ultimi dati della Covip, circa 800 milioni vanno ai fondi aperti e ai Pip (piani individuali pensionistici) gestiti solitamente da professionisti del settore (sgr, banche, assicurazioni), 2,7 miliardi vanno invece ai fondi chiusi o negoziali e altri 1,5 ai fondi preesistenti (nati prima della riforma del 1993).

Le ultime due categorie di fondi, che ogni anno incamerano 4,2 miliardi dei nostri Tfr, hanno una caratteristica comune: sono gestiti per legge in forma paritetica da rappresentanti dei lavoratori e delle aziende. In altre parole, Confindustria e sindacati si spartiscono le poltrone nel cda. Gli incarichi sono solitamente retribuiti in maniera modesta, ma le somme amministrate sono spaventose. La riforma del 2007, che ha fatto schizzare le adesioni introducendo l’automatismo del conferimento del Tfr al fondo di categoria, non ha prodotto i risultati allora sperati dal governo, ma ha comunque fatto raddoppiare gli iscritti, con un colpo di acceleratore proprio dei fondi negoziali, che rappresentano il fortino della triplice sindacale. Metà di quelli preesistenti, infatti, appartiene al mondo della finanza, dove tengono banco le sigle autonome, mentre buona parte dell’altra metà è rappresentata da fondi dedicati ai quadri e ai dirigenti. Alla fine del 2013, secondo i dati Covip, gli iscritti complessivi ai fondi pensioni ammontano a 6,2 milioni. Di questi circa 2 milioni aderiscono ai fondi negoziali e 655mila a quelli preesistenti. I flussi annui di risorse (comprese quelle volontarie extra Tfr) hanno prodotto gruzzoli non indifferenti. I negoziali hanno in pancia 34,5 miliardi, i preesistenti (più vecchi) circa 50 miliardi. A gestire gli investimenti di queste risorse non ci sono manager esperti di finanza, ma vecchie volpi del sindacato che spesso collezionano più di un incarico.

Uno dei fondi negoziali più grande è quello dei metalmeccanici Cometa: masse amministrate 8,1 miliardi. Ebbene nel cda siedono Roberto Toigo, segretario nazionale Uilm e Francesco Sampietro, sempre della Uil. Giancarlo Zanoletti e Roberto Schiattarella, della FimCisl. Il sindacato autonomo Fismic ha invece nominato il broker assicurativo Luca Mangano, mentre la Cgil ha piazzato alla vicepresidenza il professor Felice Roberto Pizzuti, vicinissimo alla Fiom nonché candidato alle europee per Tsipras. Stessa solfa per Fonchim, altro colosso con 4,2 miliardi di risorse gestite. Anche qui la vicepresidenza è Cgil, con Roberto Arioli della Filctem. Poi ci sono Paolo Bicicchi e Mariano Ceccarelli della Femca Cisl, Salvatore Martinelli e Massimiliano Spadari ancora della Filctem, Eliseo Fiorin, segretario nazionale Ugl tessili e Fabio Ortolani, segretario confederale Uil.

L’incoscienza di fare cassa mettendo a rischio le pensioni future

L’incoscienza di fare cassa mettendo a rischio le pensioni future

Giuliano Cazzola – Il Garantista

A quanto pare non si farà l’operazione per trasferire il trattamento di fine rapporto (Tfr) in busta paga. allo scopo di incentivare i consumi rimasti “in sonno” anche dopo l’erogazione del bonus di 80 euro. Non è la prima volta che qualcuno si alza al mattino e si vanta di aver inventato l’acqua calda, salvo poi arretrare una volta verificate le controindicazioni che una misura si fatta comporterebbe.

Chi scrive ha sempre nutrito seri dubbi su proposte di tale natura, anche se i loro sostenitori presentavano, in via di principio, argomenti non privi di senso. È vero, il Tfr è un istituto vigente solo nel nostro Paese al punto che, nei consessi europei e internazionali, i rappresentanti italiani stentano a spiegarne la funzione ai propri interlocutori. Così, il relativo ammontare nei monitoraggi della spesa sociale finisce per essere conteggiato o in quella pensionistica oppure alla voce disoccupazione. Inoltre, c’è sempre il rischio di essere paternalisti e di voler insegnare ai lavoratori che cosa è più conveniente, anche nell’utilizzare le risorse loro spettanti. Il diritto del lavoro, infatti, è sovraccaricato di inderogabili e indisponibili per il dipendente che ne è titolare, come se fosse un minus habens, perennemente sottoposto ad un tutore, sia esso il legislatore, il giudice o il sindacato. Certo – si dirà – il prestatore d’opera è capace di intendere e di volere e di scegliere ciò che è meglio per lui e la sua famiglia. È il caso, però, di orientare le politiche retributive e del lavoro verso obiettivi prioritari e non abbandonarsi ad una visione moderna del lavoratore-buon selvaggio traviato dagli ordinamenti politici e sociali.

Se, per esempio, tutti gli Stati hanno ritenuto loro dovere, in una certa fase dell’evoluzione storica, di predisporre strumenti di welfare pubblici ed obbligatori (pesanti o leggeri che siano), rifiutando l’idea del «ecco le risorse, arrangiati!», una ragione dovrà pur esserci: il lavoratore non è libero di rinunciare a uno zoccolo di diritti che l’ordinamento gli riconosce per qualificarsi come “Stato sociale”, una definizione in cui l’aggettivo diventa un modo di essere del sostantivo. Io credo, allora, che il Tfr sia una risorsa troppo importante per l’autofinanziamento delle imprese e per le esigenze dei lavoratori per essere gettato nella mischia della vita quotidiana, nell’intento disperato di raschiare il fondo del barile. Il Tfr è la principale fonte di finanziamento della previdenza privata, che ha una funzione strategica nel garantire una maggiore adeguatezza per i trattamenti pensionistici. Inoltre sono consentite significative anticipazioni degli accantonamenti (anche di quelli detenuti nelle posizioni individuali dei fondi pensione) allo scopo di affrontare spese cruciali nella vita, come le cure sanitarie o l’acquisto di un’abitazione. Poi, davvero, le somme del trattamento di fine rapporto, finite a incrementare le buste paga, sarebbero indirizzate ai consumi? Il fatto che la liquidità e i depositi bancari degli italiani siano aumentati di 234 miliardi avrà pure un significato. Insomma, se vogliamo parlar chiaro, mettere il Tfr in busta paga sarebbe stato come usare banconote da 100 euro al posto della carta igienica.

Vi è un altro aspetto da considerare: gli accantonamenti annui del Tfr hanno già una loro destinazione. Rimanendo soltanto nell’ambito del settore privato (nel pubblico impiego la normativa è più complicata, poi a pagare dovrebbero essere le amministrazioni, quindi aumenterebbe la spesa pubblica. che ha già tanti problemi di suo) le quote sono così ripartite: 5,5 miliardi alle forme di previdenza complementare; 6 miliardi al Fondo Tesoro gestito dall’Inps (corrispondenti alla parte che i lavoratori, occupati nelle aziende con 50 e più dipendenti, non utilizzano come finanziamento della previdenza complementare e che i datori devono versare nel Fondo suddetto); tra gli 11 e i 14 miliardi (a seconda delle valutazioni) detenuti nelle aziende fino a 49 dipendenti in conseguenza dell’opzione dei lavoratori di restare nel regime del Tfr. Queste ingenti risorse sono scritte a bilancio e costituiscono un’importante forma di autofinanziamento. Sembrava evidente che il governo del “Sòla” intendesse mettere le mani, prioritariamente, su quest’ultimo malloppo. In primo luogo perché è l’unica quota che non abbia una specifica destinazione, come le altre citate. Del resto, quale altra funzione avrebbe avuto l’idea di un patto con l’Abi per destinare alle Pmi – come compensazione – gli stanziamenti derivanti dalla Bce, se non che fosse proprio quello il settore da colpire con il nuovo intervento? Ma come si fa a chiedere a un’impresa di inserire nella busta paga dei lavoratori che lo chiedono, la metà del flusso della liquidazione, per poi passare in banca a riscuotere, come se essa dovesse erogare credito a prescindere dalle garanzie fornite, diventando così, nei fatti, lo sportello erogatore del Tfr altrui?