About

Posts by :

Mancano ancora le politiche attive e i soldi per finanziarle

Mancano ancora le politiche attive e i soldi per finanziarle

Gianni Bocchieri – Libero

Con l’individuazione di criteri di delega tanto ampi, per il giudizio sulla portata riformatrice del Jobs act si è attesa l’emanazione dei primi decreti delegati. La definizione del contratto a tutele crescenti è avvenuta con un provvedimento che non consente di superare tutte le possibili obiezioni. Innanzitutto, non è stata superata la segmentazione del mercato del lavoro, determinandone un’altra: da una parte ci saranno i lavoratori per cui vale il precedente articolo 18 e dall’altra i nuovi assunti con il contratto a tutele crescenti. Inoltre, non è ancora chiaro come la flessibilità in uscita sarà opportunamente bilanciata da un sistema di politiche attive.

Le maggiori perplessità permangono sulla riforma delle forme di sostegno al reddito che dovrà portare al superamento dei vecchi ammortizzatori sociali. Infatti, non è ancora chiaro su quali funzioni e su quali strutture poggeranno le politiche passive nel loro incrocio con quelle attive. I provvedimenti delegati fanno indistintamente riferimento ai Centri per l’impiego e alle agenzie pubbliche o private accreditate, in un contesto organizzativo dopo l’abolizione delle Province.

Ma non era nemmeno necessario aspettare i decreti delegati per confermare il sospetto che manchino le risorse per la riforma del mercato del lavoro. Lo stanziamento previsto dalla legge di stabilità, pari a 2,2 miliardi per il 2015, non è sufficiente a coprire il fabbisogno, né per le politiche passive né per quelle attive. Ora, alla certezza della insufficienza delle risorse attuali, si aggiunge anche l’incertezza per quelle future: per tutte le misure si afferma che la copertura per gli anni successivi al 2015 deve avvenire tramite le risorse stanziate per gli altri provvedimenti attuativi del Jobs act, al momento sconosciute anche allo stesso governo.

Quando tutto l’assetto del Jobs act sarà definito, inclusa la riforma del Titolo V, con l’istituzione dell’Agenzia nazionale, il giudizio potrà essere più compiuto. La speranza è che non sia troppo tardi soprattutto se la nuova organizzazione del mercato del lavoro dovesse farci rimpiangere le vituperate Regioni e le soppresse Province. Ma non ci pare che qualcuno sia riuscito a dare una riposta positiva e convincente alla domanda che sorge spontanea: perché mai lo Stato dovrebbe riuscire a fare ora ciò che non è riuscito a fare fino al 1997, quando si è deciso di delegare i servizi all’impiego a Province e Regioni?

Il fisco italiano nelle banche svizzere

Il fisco italiano nelle banche svizzere

Marco Mobili – Il Sole 24 Ore

Scambio di informazioni su tutte le imposte di qualsiasi natura e denominazione. In nessun caso sarà possibile negare informazioni in possesso di banche, intermediari finanziari o fiduciari. La richiesta di dati e notizie da parte del Fisco potrà riguardare soltanto atti e informazioni bancarie successive alla firma dell’accordo e si potrà concentrare su singoli contribuenti così come su specifici gruppi di soggetti. Ma in quest’ultimo caso solo sulla base si specifici comportamenti “fiscali” e non che li accomunano, ma mai sulla base dei loro dati identificativi. Non solo. Per i lavoratori transfrontalieri stop ai ristorni dalla Svizzera ai comuni italiani, a rimborsare le casse dei sindaci di confine sarà direttamente Roma. Come? Con un cambio di tassazione ancora tutto da scrivere ma che nella sostanza prevederà un prelievo elvetico del 60/70% e uno tutto made in Italy sulla parte restante del reddito del lavoratore.

L’accordo
Sono queste le principali novità dell’accordo fiscale raggiunto ieri tra Italia e Svizzera dopo tre anni di trattative. Un accordo fiscale che certamente per l’Italia rappresenta anche una spinta e una facilitazione all’adesione alla voluntary disclosure da parte di contribuenti italiani che hanno capitali nei 26 Cantoni elvetici. La firma vera e propria dell’accordo tra i ministri delle Finanze arriverà a metà febbraio, comunque sia prima del 2 marzo come prevede la disciplina sul rientro dei capitali e dunque con la possibilità di evitare il raddoppio delle sanzioni e il raddoppio dei termini dell’accertamento (si veda il servizio qui in basso). A presentare ieri alla stampa i contenuti e la struttura dell’accordo è stato Vieri Ceriani, consigliere per le politiche fiscali del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che dopo tre anni di negoziato “benedice” l’accordo definendolo «epocale» e in grado di «fornire strumenti di contrasto dell’evasione fiscale impensabili fino a qualche anno fa».

Quattro capitoli
Sono in tutto quattro i capitoli dell’accordo Italia-Svizzera. Oltre allo scambio di informazioni con la modifica della Convenzione contro le doppie imposizioni l’accordo prevede una vera e propria road map che dovrà portare nei prossimi mesi e con steap successivi: alla definizione di una nuova tassazione per i lavoratori transfrontalieri; all’uscita della Svizzera dalle black list; alla definizione di una serie di questioni che riguardano Campione d’Italia, l’enclave italiana in territorio svizzero, dall’indeducibilità dell’Iva elvetica alla circolazione dei beni. Ma andiamo con ordine.

Doppia imposizione
L’accordo raggiunto con Berna modifica da subito il trattato bilaterale esistente contro la doppia imposizione sulla base dell’attuale strandard Ocse. Trattandosi di una modifica legale – ha spiegato Ceriani – dovrà essere sottoposto alla ratifica dei rispettivi Parlamenti. E compatibilmente con le procedure elvetiche questo dovrà accadere tra non meno di 18 mesi.

Passepartout per il Fisco
I due passepartout per gli ispettori del Fisco italiani sono lo scambio di informazioni finanziarie su tutte le imposte, di qualsiasi natura e senza possibilità di vedersi opporre il segreto bancario. E soprattutto il fatto che la richiesta può finalmente partire direttamente dall’agenzia delle Entrate. Armi più efficaci nel contrasto all’evasione – ha sottolineato Ceriani – rispetto non solo alle attuali procedure che vedono il Paese elvetico rispondere soltanto quando si muovono le procure, ma anche rispetto allo stesso scambio automatico di informazioni al quale la Svizzera ha già dichiarato di volersi adeguare sulla base del negoziato in corso con la Ue e comunque a partire dal 2017.

Controlli non retroattivi
Dal momento della firma dell’accordo tra il ministro Padoan e il suo omologo svizzero, Eveline Widmer-Schlumpf, gli ispettori del Fisco avranno, dunque, piena visibilità sui conti in Svizzera dei contribuenti italiani. In ogni caso, però, nel protocollo è espressamente previsto che non ci sarà retroattività per gli accertamenti del Fisco su eventi e circostanze antecedenti la firma dell’accordo e dunque prima della metà del prossimo mese di febbraio. Comunque sia le Entrate avranno la possibilità di chiedere le informazioni sui contribuenti italiani alla Svizzera comunque molti mesi prima rispetto alla ratifica degli accordi che, come detto, non arriverà prima del 2017.

L’uscita dalla black list
Lo scambio di informazioni secondo lo standard Ocse rappresenta, comunque, il primo passo che dovrà portare la Svizzera a uscire dalle cosiddette black list, a partire da quella sulle controllate estere (Cfc) o quella sulla deducibilità dei costi in Paesi “canaglia”. Due temi, questi, che comunque saranno rivisti a tutto campo nella delega fiscale e nel decreto annunciato per febbraio nel capitolo sulla fiscalità internazionale. Allo stesso tempo dopo lo scambio di informazioni i due Paesi potranno condividere nuove indicazioni sulla concorrenza fiscale.

I frontalieri
L’altro tema caldo dell’accordo e che terrà banco nei prossimi mesi è la nuova tassazione dei lavoratori transfrontalieri. L’obiettivo è quello di intervenire a invarianza di carico fiscale e progressivamente adeguarlo su principi di equità: «Non è pensabile che un lavoratore che risiedee e lavora a 20 chilometri dalla Svizzera paghi più imposte di un lavoratore che risiede a venti chilometri, ma che lavora in un Cantone svizzero», ha sottolineato Ceriani. L’idea su cui sarà formalizzato l’accordo resta quella di uno splitting fiscale rivisto e corretto. Dove non sarà più la Svizzera a restituire una quota del prelievo effettuato sui redditi dei lavoratori transfrontalieri ai Comuni di confine. A farlo sarà Roma. In sostanza il datore di lavoro svizzero continuerà a prelevare il 60% a titolo di tasse dai redditi del dipendente residente in Italia, mentre la parte restante sarà tassata direttamente da Roma. Il meccanismo potrebbe prevedere di riconoscere al lavoratore una deduzione dal reddito imponibile pari alla quota prelevata dall’Erario elvetico e dunque tassare solo il restante 40%. Il tutto a due specifiche condizioni: la prima – ha spiegato Ceriani – è che i Comuni dovranno ricevere le stesse somme che incassavano prima dell’accordo dalla tassazione elvetica dei circa 64mila transfrontalieri (si parla di circa 70 milioni); la seconda è che tutto partirà soltanto dopo che la telematica consentirà di semplificare la vita ai contribuenti. Questi saranno obbligati sì a due dichiarazioni dei redditi, una svizzera e una italiana, ma almeno quella targata Roma sarà interamente precompilata.

Cambio insostenibile con l’Europa ferma

Cambio insostenibile con l’Europa ferma

Marco Onado – Il Sole 24 Ore

Non sempre i tappi che saltano fanno allegria. L’improvvisa decisione della Banca centrale svizzera di abolire il tetto al cambio con l’euro ha provocato un terremoto sui mercati e suscita pesanti interrogativi sulla capacità della politica monetaria di influire sui livelli dei cambi nelle condizioni odierne dei mercati finanziari.

Vi erano molte ragioni di buon senso alla base della decisione, nell’agosto 2011, di evitare un eccessivo apprezzamento del franco svizzero, da sempre considerato bene-rifugio per eccellenza. Eliminando la probabilità di un guadagno in conto capitale sul cambio a breve e mantenendo bassi i tassi di interesse interni (addirittura introducendo tassi negativi nel dicembre scorso), si sperava di porre un freno a movimenti di capitale considerati – non senza ragione – destabilizzanti. L’eterogenesi dei fini ha portato la Bns ad acquistare grandi quantità di titoli in euro, riducendo le pressioni sul mercato dei titoli pubblici dei Paesi periferici e togliendo quindi le castagne dal fuoco alla Bce il cui quantitative easing era ancora in attesa del via libera.

Ma sia la mancata ripresa europea e soprattutto la crisi russa rendevano sempre più difficile difendere un tasso di cambio insostenibile rispetto ai movimenti potenziali di capitali. Le crisi degli anni Novanta hanno insegnato che nessuna banca centrale può contrastare flussi che assumono sempre dimensioni multiple rispetto alle riserve che essa può mettere in campo. È stato così per i Paesi del Sud-Est asiatico, quando il flusso di capitali si è improvvisamente invertito; è stato così per Messico e Argentina che avevano ancorato la loro moneta al dollaro. E non può che essere così nelle condizioni odierne, visto che la dimensione complessiva dei movimenti a breve è cresciuta enormemente e il mercato dei cambi, secondo gli ultimi dati della Banca dei regolamenti internazionali, attiva ogni giorno scambi per 5mila miliardi di dollari, pari a circa un terzo del Pil mondiale, ovviamente annuale (erano 3,3 nel 2007, cioè prima della crisi). E poiché fra il 5 e il 6 per cento di questa frenetica attività di trading riguarda il franco svizzero, l’impegno della Bns a non sforare il tetto del cambio euro-franco non era più credibile.

La Banca centrale svizzera ha colto i mercati di sorpresa, ma proprio la decisione clamorosa mette a nudo le criticità della strategia di stabilizzazione adottata nel 2011. In primo luogo, perché ha inferto un duro colpo alla credibilità della stessa banca centrale, visto che solo un mese fa essa aveva baldanzosamente dichiarato che il tetto sarebbe stato difeso «con la massima determinazione». Poi, perché ha confermato ex post la strategia di investire sul franco svizzero come bene-rifugio: chi ha investito negli ultimi tre anni mette a segno da ieri guadagni in conto capitale di tutto rispetto. Infine perché sacrifica pesantemente gli interessi dell’economia svizzera ai problemi del cambio. Non a caso, la Borsa ha segnato pesanti perdite, soprattutto per le imprese più orientate all’export: i mercati europei rappresentano infatti metà del commercio estero svizzero. Niente male come bilancio.

La lezione più generale che deriva dai fatti di ieri è che l’economia mondiale e in particolare la finanza non hanno ancora trovato il modo per affrontare gli aspetti macroeconomici della globalizzazione e dei movimenti internazionali di capitali. Alla base dei problemi della Svizzera (prima con l’introduzione del tetto, poi con la sua improvvisa abolizione) sta il potenziale destabilizzante dei movimenti di capitale a breve in un mondo interconnesso, ma con politiche monetarie non coordinate fra loro per effetto degli inevitabili sfasamenti dei cicli.

I global financial imbalances, cioè la polarizzazione del mondo fra Paesi in permanente surplus di parte corrente (Cina e Germania in testa) e quindi esportatori di capitali e Paesi che si trovano nella condizione opposta (Stati Uniti e alcuni Paesi della periferia dell’eurozona) sono stati una delle cause fondamentali della crisi e da allora si sono ridimensionati, ma non in modo decisivo e continuano ad essere il primo alimento di flussi di capitale a breve troppo grandi rispetto alla capacità di contrasto di autorità nazionali. E ovviamente lo sfasamento ciclico amplia i differenziali dei tassi d’interesse e l’intensità dei flussi di capitale.

Il Fondo monetario internazionale ha documentato in un recente rapporto triennale il problema della fragilità del sistema finanziario internazionale e della trasmissione dei problemi da un Paese all’altro. È sempre il problema che si ponevano i padri fondatori del nuovo ordine monetario di Bretton Woods, che diede origine appunto all’Fmi, oltre che alla Banca mondiale. Come ha affermato Paul Krugman, commentando quel rapporto, si ripropone oggi il problema di assegnare al Fondo un ruolo almeno di sorveglianza e di monitoraggio sugli squilibri macroeconomici di ciascun Paese, che danno origine alla trasmissione di spinte destabilizzanti verso l’esterno. Una funzione di vigilanza preventiva, per così dire, basata solo sulla moral suasion nei confronti dei singoli Paesi. Ma fra l’enunciazione di questo principio, che pure non contrasta con lo statuto del Fondo (alla fine, dice Krugman, il Fondo è nato per fare il pompiere delle crisi e prevenire è meglio che curare) e la sua applicazione c’è un oceano intero di difficoltà politiche. E così le cause profonde della crisi non vengono affrontate e le banche centrali sono costrette ad andare avanti in ordine sparso, correndo tutti i rischi del caso come si è visto ieri a Zurigo.

Old economy

Old economy

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Correggendo un errore si limitano i danni, non si risolvono certo i problemi. Matteo Renzi, facendo apprezzabilmente autocritica, ha più volte ripetuto di voler modificare l’inasprimento fiscale introdotto per le partite Iva con la legge di stabilità e Giuliano Poletti ne ha annunciato, di conseguenza, la riscrittura. Bene, ma non basta. Perché l’errore deriva dal perpetuarsi di vetusti schemi ideologici che a parole si vorrebbero superare. Il legislatore, invece, resta ancorato alla vecchia cultura del Novecento imperniata sulla diarchia imprenditori-dipendenti – figlia della separazione marxista tra capitale e lavoro, tra padroni e sfruttati, che privilegia solo il dipendente a tempo indeterminato – che dipinge i liberi professionisti e chi si è fatto imprenditore di se stesso, nel migliore dei casi come un limone da spremere fiscalmente, e nel peggiore come un popolo di evasori, quando invece la società moderna, che cammina assai più velocemente, ha già costruito nuovi modelli.

Il Jobs Act, per esempio: lungi da me sottovalutare le discontinuità che produce, ma ancora una volta il lavoro autonomo è rimasto fuori dalla porta. E gli 80 euro? Una misura da 10 miliardi a favore di chi ha già un lavoro dipendente, stabile e una retribuzione “media”: l’idealtipo dell’elettore di sinistra, insomma, Anche i 5 miliardi di sgravi Irap per i neo assunti, più che generare nuova occupazione, saranno utilizzati dalle imprese per sostituire chi è in uscita, con effetti benefici limitati al turn-over, Stesso discorso per gli under 35 che hanno una partita Iva: dopo aver constatato che nella legge di stabilità (chissà poi perche non è stata utilizzata la delega fiscale) l’aliquota nel regime agevolato dei minimi è stata triplicata (il 15 per cento, contro il 5 per cento deciso dal governo dei tecnici) e aver scoperto che all’innalzamento da 30 a 40 mila euro della soglia di fatturato per l’applicazione del regime fiscale agevolato per artigiani e commercianti, si contrappone l’abbassamento da 30 a 20 mila per lavoratori della conoscenza (addirittura 15 mila nella prima stesura governativa), e dopo aver amaramente visto che i costi saranno definiti in base a coefficienti presuntivi di redditività e non, come sarebbe logico, sulla base delle spese effettivamente sostenute, c’è il rischio che rimpiangano il vecchio Monti.

Perché, in un sol colpo, l’esecutivo dei quarantenni ha ridotto la platea e triplicato le tasse a trentenni che iniziano un’attività da freelance della conoscenza. Senza contare che, mentre si prova a rivoluzionare il sistema degli ammortizzatori sociali, il welfare pubblico per i lavoratori autonomi rimane un tabù e l’aliquota contributiva Inps è appena salita al 29 per cento (e continuerà a farlo fino ad arrivare al 33 per cento nel 2018), mentre per i dipendenti si ferma al 25 per cento. In sintesi, con misure che riducono i contributi previdenziali e ampliano la soglia di applicazione del regime dei minimi, si è dato sostegno al lavoro autonomo più tradizionale (artigiani e commercianti), ma non si è neppure provato a distinguere dentro il variegato mondo del lavoro autonomo, magari premiando chi è completamente rintracciabile nei pagamenti rispetto a chi evade.

Ora bisogna rimediare. L’idea migliore, che era circolata ma è poi stata accantonata, sarebbe quella di varare un veicolo legislativo ad hoc per le partite Iva, completo e soprattutto stabilizzante rispetto alle aspettative future visto che nell’ultima parte del 2014 tanti freelance, consigliati dai commercialisti, hanno deciso che fosse meglio giocare d’anticipo e aprire subito la partita Iva per poter usufruire del “forfettone” (5 per cento di tassazione fino a 30 mila euro) per sfuggire dai nuovi minimi. Meglio arrivare a un regime fiscale e previdenziale più severo ma garantito nel tempo e senza tetti anagrafici, piuttosto che offrire vantaggi spot che velocemente evaporano. Nello specifico, è evidente che diventa difficile per il governo far fare un passo indietro ad artigiani e commercianti dopo aver assicurato loro la gran parte degli 800 milioni stanziati per gli autonomi, Ma proprio per questo, bisogna arrivare a un provvedimento specifico, dove e più facile articolare il dare e l`avere e dove lo spirito liberalizzatore di Renzi (almeno a parole) può essere maggiormente valorizzato.

Nella litania del “largo ai giovani” e dei “millennials pronti a raccogliere le sfide della globalizzazione” non c’e spazio per provvedimenti che spingono i freelance a diventare imprese artigiane o commerciali. Capisco che delle parole di Acta, l’associazione dei freelance che ha lanciato la campagna “#RenzireWind” – “se il presidente del Consiglio è coerente deve bloccare l’aumento dei contributi per la gestione separata Inps e studiare un regime agevolato” – possa esserci una lettura corporativa. Ma è altrettanto vero che non ci sara mai il “nuovo corso” che blairianamente Renzi auspica se l’unico orizzonte resta quello della “old economy”, lavoratori dipendenti a tempo indeterminato e autonomi “classici”.

Tasse sulle imprese: l’Italia resta la matrigna d’Europa e scivola al 141esimo posto al mondo

Tasse sulle imprese: l’Italia resta la matrigna d’Europa e scivola al 141esimo posto al mondo

NOTA

L’Italia resta la matrigna d’Europa per quanto riguarda le tasse sulle imprese. Lo dimostra un’elaborazione del Centro studi “ImpresaLavoro” sui nuovi dati riferiti al 2014 contenuti nel rapporto Doing Business 2015. Nel rank generale che misura la facilità per le imprese del sistema fiscale l’Italia si classifica ultima a livello continentale e 141esima nel mondo, riuscendo a fare addirittura peggio dell’anno scorso quando si classificò 137esima. Un risultato determinato da un mix micidiale composto da pressione fiscale elevata, sistema fiscale complesso, tempi lunghi anche per pagare quanto dovuto allo Stato. Tra i Paesi dell’Europa a 28 la palma di miglior sistema fiscale va all’Irlanda, seguita dalla Danimarca e dal Regno Unito. Dietro, ma comunque meglio dell’Italia, tutte le tradizionali economie dell’area euro: l’Olanda è sesta, la Germania 18esima, la Spagna 20esima e la Francia 25esima.
tabella 1
In termini di Total Tax Rate sulle imprese l’Italia fa leggermente meglio dello scorso anno e passa da un prelievo complessivo del 65,8% ad uno del 65,4%. Una cifra comunque inferiore alla sola Francia (66,6%) e che distanzia di molto tutti i principali partner europei. Anche volendo tralasciare sistemi di particolare favore verso le imprese come quello croato (Total Tax Rate al 18,8%) e Irlanda (25,9%), non si può fare a meno di notare come, tranne la Francia di cui si è detto, nessuno dei nostri partner tradizionali a livello comunitario sconti una pressione fiscale cosi asfissiante: la Germania si ferma a 16,6 punti percentuali di Total Taxe Rate in meno (48,8%) e anche Grecia (49,9%), Portogallo (42,4%) e Spagna (58,2%) fanno meglio di noi. Per tacere di una grande economia matura come quella del Regno Unito che riesce comunque a garantire alle sue imprese un prelievo statale complessivo del 33,7%.
tabella 2
Al prelievo elevato, nel nostro Paese, si associa anche un sistema burocratico particolarmente complicato. Tra IRES, IRAP, tasse sugli immobili, versamenti IVA e contributi sociali in Italia un imprenditore medio effettua in un anno 15 versamenti al fisco, 6 in più di un suo collega tedesco, 7 in più di un inglese, di uno spagnolo o di un francese e 9 in più di uno svedese. Anche per essere in regola con il fisco le nostre aziende sono costrette ad occupare una parte consistente del loro tempo: con 269 ore l’anno impiegate per adempimenti fiscali, l’Italia è sesta in Europa e prima tra le grandi economie. Un’azienda tedesca ha bisogno di “sole” 218 ore all’anno (51 in meno) e fa comunque peggio di Spagna (167 ore, 102 in meno dell’Italia) e Francia (137 ore, 132 in meno). Particolare la situazione del Regno Unito: a un sistema fiscale già leggero in termini quantitativi si accompagna un sistema di pagamento molto semplice. Gli imprenditori inglesi effettuano in un anno una media di 8 versamenti al fisco, occupando “solo” 110 ore del loro tempo, meno della metà di un imprenditore italiano.

tabella 3

 

tabella 4

 

Rassegna Stampa
Italia Oggi
La mafia vale 150 miliardi di Pil

La mafia vale 150 miliardi di Pil

Filippo Caleri – Il Tempo

Un flusso di denaro lascia costantemente l’Italia per cercare il paradiso. Fiscale chiaramente. Soldi che sfuggono alla tassazione italiana e dunque ricchezza che lascia il Paese depauperandolo di risorse. Un fenomeno tutt’altro che marginale e che sembra crescere a vista d’occhio almeno secondo Banca d’Italia che ieri ha spiegato che «a parità di altre condizioni, i flussi indirizzati verso i cosiddetti paradisi fiscali sono di circa il 36 per cento più elevati di quelli verso gli altri Paesi esteri». Ad affermarlo il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, in audizione presso la Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie, citando quanto emerge dallo studio sui bonifici verso i Paesi a rischio, frutto della collaborazione tra la Uif e il Dipartimento Economia e Statistica della Banca d’Italia. La collaborazione è stata avviata di recente e, sottolinea Visco, «la disponibilità di informazioni, la loro condivisione, sono il presupposto per interventi sempre più efficaci». Secondo il governatore, «permane l’esigenza di ampliare le fonti informative della Uif che, in contrasto con gli standard internazionali, non ha, in particolare, accesso alle informazioni investigative». Soldi che scappano e che sono il frutto anche dell’economia illegale, «probabilmente, il macigno più grave che pesa sullo sviluppo dell’economia italiana» secondo Visco. «Le stime sulla quantità di moneta in circolazione – ha detto il capo dell’istituto centrale – suggeriscono che l’economia illegale in Italia nel quadriennio 2005-2008 potrebbe pesare per oltre il 10% del Pil». Vuol dire una perdita di ricchezza che si aggira intorno a 150 miliardi. Le stime, però, non convergono.

L’Istat, parlando di economia «illegale» (stupefacenti, prostituzione, alcol e tabacchi di contrabbando) ha posto il suo valore nel 2011 allo 0,9% del Pil. Quindi meno di 15 miliardi: esattamente lo stesso valore che ha utilizzato per rivalutare il Pil dell’Italia in base alle indicazioni provenienti da Bruxelles. Transcrime (che considera droga, armi, tabacco, contraffazione, gioco e frodi fiscali) parla di un valore di questi mercati da 110 miliardi in Europa, 16 in Italia. Al di là del peso in sé, che sfugge «alle maglie del Fisco e dei processi economici normali», la presenza di una invasiva economia criminale ha anche un forte potere deterrente verso gli investimenti esteri. Visco stima che «se le istituzioni italiane fossero state qualitativamente simili a quelle dell’area dell’euro, tra il 2006 e il 2012 i flussi di investimento esteri in Italia sarebbero risultati superiori del 15% – quasi 16 miliardi – agli investimenti diretti effettivamente attratti nel periodo».

Una manina pericolosa

Una manina pericolosa

Alessandro Pace – La Repubblica

Dunque, per ammissione dello stesso Matteo Renzi, era sua la manina che ha infilato di soppiatto il testo dell’art. 19bis nella delega fiscale. Che Renzi abbia operato da solo o si sia avvalso della complicità di altre persone, ha poca importanza. È invece grave che l’ammissione di Renzi sia avvenuta dopo che si era consentito che si facessero i nomi del ministro Padoan, del viceministro Casero, della dottoressa Menzione ed altri.

Ed è grave che Renzi si sia macchiato dello stesso reato commesso da Berlusconi nel 2001, come ho ricordato su queste pagine l’8 gennaio. Pur ricoprendo entrambi la massima carica politica del nostro ordinamento costituzionale, essi hanno usato un sotterfugio perché una loro volizione ‘individuale’ assume le sembianze di una disposizione legislativa approvata con tutti i crismi: una volizione individuale che nel 2011 consisteva nel ritardare di 5 o 6 anni il pagamento del debito della Fininvest alla Cir; e che nel 2014 sarebbe sostanziata in un favore fatto da Renzi a Berlusconi per mantenerne l’appoggio alle discutibilissime riforme in atto. In paesi come il Regno Unito o la Germania, per assai meno già sarebbero state chieste le dimissioni del premier Cameron o della cancelliera Merkel. E non ho il minimo dubbio che negli Stati Uniti sarebbe stato chiesto l’impeachment del Presidente Obama.

Che questa vicenda non possa né debba concludersi soltanto con delle battute di spirito discende, sotto il profilo strettamente giuridico, dal fatto che Renzi ha rischiato di commettere un delitto punito con la detenzione da tre a dieci anni; e discende, sotto il profilo istituzionale, da due diverse ‘coloriture’ del sotterfugio. O lo stesso Renzi si rendeva conto della gravità del fatto e voleva tentare che l’aiutino a B. venisse conosciuto il più tardi possibile oppure Renzi considera da sempre i suoi e le sue ministre degli yesmen e delle yeswomen, che comunque appoggerebbero a scatola chiusa tutte le sue iniziative. Né si dica, come ha detto il Ministro Boschi in risposta al senatore Mucchetti, che tutto ciò che accade nel Consiglio dei ministri sarebbe coperto da segreto.

Ribadisco: il caso è troppo grave perché passi sotto silenzio, come appunto sta succedendo. È quindi doveroso che se ne discuta in Parlamento spontaneamente ad iniziativa dello stesso Renzi. oppure a seguito di una delle varie forme di sindacato ispettivo. Altrimenti, dopo il precedente di Berlusconi del 2011 e quello di Renzi del 2014, diverrebbe prassi che il premier, nonostante le sue prerogative ufficiali, possa portare avanti sue proprie iniziative legislative senza l’approvazione del Consiglio e per giunta di soppiatto. Il che costituirebbe un’ inammissibile sbrego per la nostra democrazia, le cui legale, per la formazione delle decisioni legislative, sono il dibattito e la trasparenza, come ha giustamente ricordato Nadia Urbinati su queste pagine lo scorso 11 gennaio, a proposito di questa stessa vicenda.

Produzione in fuga

Produzione in fuga

Bruno Villois – La Nazione

In fatto di record, il governo Renzi è secondo a pochi. Quello della disoccupazione femminile gli appartiene, con le oltre 140 mila nuove senza lavoro, e più in generale solo il governo Monti ha saputo fare peggio, con i suoi oltre 500mila disoccupati, contro i 200mila di Renzi e i 160mila di Letta. I numeri parlano da soli ma l’aggravarsi della disoccupazione è dovuto ad alcuni fattori che, purtroppo, rischiano di peggiorare, anche se ci fosse una ripresa. Tra questi spicca lo spostamento di molti siti produttivi dall’Italia verso Paesi che offrono molte facilitazioni agli insediamenti e con burocrazia e pressione fiscale nettamente migliori delle nostre.

Il sistema produttivo italiano di grandi e a volte medie dimensioni, per migliorare le performance ha puntato ad espandersi nel mondo, sia per conquistare nuovi mercati, sia per ottenere migliori condizioni generali. Soltanto chi ha come scenario il mondo può crescere e ottenere soddisfazione dagli investimenti, è quindi naturale che il calo dei siti produttivi persista e con esso diminuisca l’occupazione. Ci sono però comparti, come le costruzioni o l’agroalimentare di alta qualità, il design e l’arredo o ancora l’automotive di alta gamma e la componentistica di alta precisione, per i quali produrre in Italia è o indispensabile, come l’edilizia, o rafforzante, per la qualità della materia prima o la manodopera altamente specializzata che solo da noi esistono. Purtroppo il Governo non sta puntando su una politica industriale mirata a sostenere il sistema industriale e soprattutto i comparti produttivi che possono fare la differenza, sia in termini di occupazione qualificata, che di redditività e quindi di pagamento di tasse e contributi.

Il settore chimico-farmaceutico è forse quello che ha saputo, meglio di ogni altro, tenere alto il valore dell’italianità, pur espandendosi molto all’estero e nonostante sia stato sovente vessato da norme sfavorevoli, ha mantenuto saldamente entro confine siti produttivi e ricerca. Menarini, Chiesi, Italfarmaco e Recordati sono modelli vincenti sotto ogni aspetto, che per essere clonati in altri settori necessitano di ben altro tipo di politica industriale governativa. È fondamentale puntare sulle imprese e stimolarle a rimanere entro confine, ulteriori delocalizzazioni aggraverebbero pesantemente la disoccupazione.

Un documento che divide le anime di Francoforte

Un documento che divide le anime di Francoforte

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Il documento dell’Avvocato Generale della Corte di Giustizia europea che verrà probabilmente recepito tale e quale dal massimo organico giurisprudenziale Ue è quello che si potrebbe chiamare, in senso colloquiale, “pilatesco”. Lavandosi le mani dal nocciolo del problema, mira a fare contenti sia coloro che vogliono una Bce più attiva (in politiche di ripresa) sia da coloro che invece la considerano il garante supremo della stabilità monetaria. In breve, ad un ricorso alla Corte suprema tedesca fatto da un gruppo nutrito di economisti e giuristi tedeschi secondo cui le Outright monetary transactions (Omt) proposte dal presidente Bce nel giugno 2012 avrebbero trasgredito vari trattati e la Carta fondamentale della Repubblica Federale, il massimo tribunale della Germania ha risposto chiedendo il parere della Corte Ue. È un parere – si badi – non vincolante, ma è altamente probabile che la Corte Tedesca vi si atterrà. Se non altro per non restare con il cerino acceso in quel di Karslruhe (dove i giudici rosso togati hanno sede).

L’Avvocato generale Pedro Cruz Villalon afferma che la Bce deve avere «ampia discrezionalità» in materia di politica della moneta. In questo contesto, le operazioni Omt (di cui peraltro non è stato ancora approvato il regolamento) possono essere contemplate purché siano uno strumento di politica monetaria e non aiuto finanziario a uno Stato membro. In effetti, nelle intenzioni del direttivo, la Bce con lo «scudo» dovrebbe poter acquistare obbligazioni di Stati in difficoltà (ad esempio, titoli del debito italiano per ridurne il fardello) sulla base di un programma economico concordato con le autorità Ue. Il documento Villalon chiede che le circostanze per tale intervento eccezionale vengono precisate meglio perché il programma definito venga attuato. In effetti, il parere suggerisce di dare il nulla osta alle Omt, ma con vincoli tali che ne rendono ardua l’applicazione agli Stati che potrebbero trarne maggior beneficio.

Il documento sta suscitando un acceso dibattito in attesa del Consiglio Bce del 22 gennaio, che dovrebbe varare forme di Quantitative Easing QE tramite l’acquisto di obbligazioni degli Stati membri. In effetti, a seconda di come viene interpretato il documento, si porrebbe un “tetto” più o meno alto agli interventi, si favorirebbero o meno le obbligazioni giudicate (dalle agenzie di rating) di maggior qualità, si condividerebbe in vari modi in rischio tra le Banche centrali nazionali e si deciderebbe in che misura la Bce debba essere considerata «creditore privilegiato» (nei cui confronti non si possono effettuare ristrutturazioni del debito) come Fmi e Banca mondiale. Invece di contribuire ad un accordo, il documento sta rendendo più accesa la lotta tra le varie anime che albergano nella Bce.

Garanzia Giovani, un flop

Garanzia Giovani, un flop

Simona D’Alessio – Italia Oggi

Il ministero del welfare certifica il «flop» della Garanzia giovani: a fronte di «366 mila registrati» al programma d’inserimento al lavoro e formazione (con una dotazione di oltre 1,5 miliardi di euro), infatti, «il 39% è stato preso in carico da centri per l’impiego e strutture private accreditate», ma «non possiamo dirci soddisfatti». Ecco, perciò, spiegata la partenza della cosiddetta «fase 2» del piano, per stimolare scuole e imprese, affinché le misure per strappare dall’inattività gli under 29 vengano efficacemente realizzate. È lo stesso titolare del dicastero di via Veneto, Giuliano Poletti, a dare il polso della situazione del programma di matrice europea, la cui gestione e affidata alle regioni, iniziato ufficialmente il 1° maggio scorso, rispondendo ieri, nell’Aula di Montecitorio, a una interrogazione di Emanuele Prataviera (Lega Nord) sui costi dell’intervento nato con l’obiettivo di assicurare un posto di lavoro, un contratto di apprendistato, un tirocinio, o un iter di apprendimento ai ragazzi non ancora trentenni «entro quattro mesi dall’entrata in disoccupazione, o dalla fine di un percorso di istruzione».

L’autocritica per il mancato successo della Garanzia giovani, a meno di una settimana dalla diffusione delle cifre impietose sui senza impiego da parte dell’Istat (a novembre 2014 il tasso nella fascia 15-24 anni balza al 43,9%, in rialzo di 0,6 punti percentuali su ottobre, ndr) è preceduta da una puntualizzazione: l’Italia è il secondo paese dopo la Francia che in Europa ha visto approvare il suo programma. Tuttavia, otto mesi dopo l’avvio della possibilità di registrarsi sul sito nazionale (www.garanzia-giovani.gov.it) o sui portali regionali, ad oggi hanno aderito in «366mila, e 128mila sono stati presi in carico dai centri per l’impiego e dai privati accreditati», pari al 39%.

E quanto alla spesa, prosegue Poletti, «prevedendo l’intervento superi i 500 mila giovani, il costo medio» per ciascuna delle persone raggiunte dovrebbe aggirarsi «intorno ai 3 mila euro», mentre nella campagna pubblicitaria nelle sale cinematografiche sono stati investiti «145 mila euro». A fronte di ciò, «non diciamo che la montagna ha partorito un costoso topolino, ma neanche che siamo soddisfatti», osserva, puntando i riflettori sulle modifiche in corso d’opera, giacché «il governo, il ministero e le regioni hanno avviato quella che è stata definita una “fase 2” del progetto», che si augura «attraverso l’attivazione di rapporti con scuole, sistemi d’impresa e meccanismi di comunicazione con i giovani» possa «migliorare le performance» della Garanzia giovani.

Restyling in vista anche per il nuovo regime dei minimi; il ministro, confermando quanto annunciato giorni fa dallo stesso premier Matteo Renzi, dichiara che l’esecutivo prende atto che gli interventi nella legge di Stabilità «possono incidere», come il- lustrato nell’interrogazione di Tiziana Ciprini (M5s), «negativamente su alcune categorie di lavoratori autonomi, giovani professionisti e free-lance». E si prepara ad adottare «rapidamente un testo correttivo».