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Mercato delle costruzioni in Italia e in Europa

Mercato delle costruzioni in Italia e in Europa

REPORT

La tassazione sugli immobili in Italia (fonte: Confedilizia) passa nel periodo 2011-2014 dai 9,2 miliardi di euro del gettito ICI ai 28 miliardi del gettito IMU-TASI facendo segnare un aumento del 204% in 4 anni. A risentire maggiormente di questo inasprimento fiscale è il mercato delle costruzioni che fa segnare negli stessi anni un crollo verticale di tutti i suoi indicatori: si tratta di dati così negativi da non poter essere giustificati solamente dalla crisi economica da cui il nostro paese fatica ad uscire. «Ad incidere, con ogni evidenza – osserva il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – ci sono i provvedimenti che i governi che si sono succeduti (Monti, Letta, Renzi) hanno adottato e che hanno finito per trasformare la casa da “bene rifugio” in “bene incubo”. Così, a un prolungato blocco del mercato immobiliare (che solo adesso sembra registrare tenui segnali di risveglio) è corrisposto quello ben più pericoloso dell’intero comparto delle costruzioni che fa segnare performance che ci pongono agli ultimi posti in Europa, molto distanti da quanto accade nelle principali economie mature con cui giornalmente ci confrontiamo».

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Produzione nel settore delle costruzioni
L’indicatore rappresenta l’andamento del valore aggiunto complessivo, depurato dell’inflazione, del settore costruzioni. In buona sostanza misura l’andamento del valore della produzione nel settore e la sua variazione rispetto al 2011. L’Italia fa segnare un arretramento di quasi il 30%: in Europa solo Cipro, Portogallo e Grecia fanno peggio e tutti i nostri principali competitor segnalano dati nettamente più positivi. La Francia arretra solo del 5,1%, il Regno Unito del 3,2% mentre la Germania registra un, seppur lieve, incremento (+0,6%). La performance della Spagna è la migliore tra le grandi economie europee: +18.9%. Desta soprattutto impressione che il dato italiano risulti sei volte peggiore di quello registrato dalla media dei Paesi dell’Europa a 27: -29,3% contro -5%.

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* Elaborazione ImpresaLavoro su dati Eurostat (Production in costruction, quarterly data). Sono stati presi a riferimento il primo trimestre del 2011 e l’ultimo trimestre disponibile, che per quasi la totalità dei Paesi è il secondo del 2014.

Ore lavorate
Crollano conseguentemente anche le ore lavorate, l’indicatore che misura con maggior precisione l’andamento dell’occupazione di questo settore. In Italia nel 2014 si sono lavorate nel settore costruzioni quasi un terzo in meno delle ore rispetto al 2011, con evidenti ripercussioni sull’occupazione e il numero di lavoratori lasciati a casa dalle aziende in crisi. In Europa solo Cipro (-42,60%), Portogallo (-35,30%) e Croazia (-30,90%) hanno registrato un dato peggiore del nostro. Tutti i nostri principali competitor segnalano invece dati nettamente più positivi. La Francia arretra solo del -4,20% mentre le ore lavorate addirittura aumentano in Irlanda (+16,50%), nel Regno Unito (+3,70%), in Spagna (+ 1,40%) e in Germania (+0,90%). In particolare va sottolineato come il dato italiano risulti quasi cinque volte peggiore di quello della media dei Paesi dell’Europa a 27 (-28,90% contro -6,10%).

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* Elaborazione ImpresaLavoro su dati Eurostat (Labour input in construction, quarterly data). Sono stati presi a riferimento il primo trimestre del 2011 e l’ultimo trimestre disponibile, che per quasi la totalità dei Paesi è il secondo del 2014.

Permessi di costruzione
A trainare verso il basso il nostro mercato delle costruzioni c’è certamente l’andamento dei permessi di costruzione richiesti per l’edificazione di nuove residenze civili: il suo numero, rispetto al 2011, si è più che dimezzato facendo registrare un preoccupante -63%. In Europa solo Cipro (-72%), Grecia (-68%) e Portogallo (-66%) hanno registrato un dato peggiore del nostro. Ma in generale è l’intera Europa ad andar male rispetto a questo indicatore, anche se con proporzioni completamente diverse e con una media nei cali di richieste di permessi di costruzione che si assesta al 20% tra i 27 Paesi dell’Unione. Alcune grandi economie riescono comunque, nonostante tutto, a crescere a ritmi sostenuti anche in questo comparto: rispetto al 2011, i permessi di costruzione richiesti crescono in Germania del +19% e nel Regno Unto addirittura del +27%.

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* Elaborazione ImpresaLavoro su dati Eurostat (Building permits, quarterly data). Sono stati presi a riferimento il primo trimestre del 2011 e l’ultimo trimestre disponibile, che per quasi la totalità dei Paesi è il secondo del 2014.

Rassegna Stampa
Il Giornale

False promesse

False promesse

Massimo Blasoni – Metro

Sappiamo bene come la politica viva di immagini e simboli in grado di far breccia nell’opinione pubblica. Chi governa tende però spesso a esagerare, contrabbandando come successi quelle che purtroppo restano soltanto promesse. Prendiamo il caso del pagamento dei debiti arretrati che la pubblica amministrazione ha con migliaia di imprese private: Renzi e Padoan sostengono di aver onorato la loro promessa di estinguerli ma i fatti purtroppo si incaricano di smentirli. I debiti di cui parlano sono quelli maturati entro il 31 dicembre 2013: solo per questi, infatti, è stato possibile per le imprese chiedere la certificazione e la relativa liquidazione di quanto dovuto. E solo a questi debiti ci si riferisce anche quando si monitorano i risultati al 31 ottobre delle altre iniziative del governo sul tema (garanzia pubblica sulla cessione del credito, deroghe al patto di stabilità, compensazione con alcuni debiti fiscali). “ImpresaLavoro”, incrociando il dato della spesa per beni e servizi così come certificata da Eurostat e quello dei tempi medi di pagamento così come monitorati da Intrum Justitia, ha stimato uno stock di debiti per il 2013 pari a 74 miliardi di euro. Alle stesse conclusioni è giunto anche l’Ufficio Studi di Bankitalia. Siccome fino ad oggi i debiti rimborsati sono stati solo 34 miliardi (su uno stanziamento complessivo di 40), possiamo affermare che la promessa del governo, a rigor di matematica, non è stata mantenuta.
Nel frattempo si è accumulato nuovo debito e chiunque può comprendere come il suo stock si possa ridurre soltanto se i nuovi debiti risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Una condizione che non potrà crearsi fino a quando il livello di spesa pubblica e i suoi tempi medi di pagamento non subiranno una drastica diminuzione. I dati Eurostat ci dicono invece che dall’inizio del 2014 a oggi siano già stati consegnati alla Pa italiana beni e servizi per un valore di circa 113,5 miliardi di euro. Contemporaneamente, l’analisi dei flussi di cassa delle amministrazioni tracciabile attraverso il SIOPE non segnala alcuna diminuzione dei tempi medi di pagamento, che restano con ogni probabilità di circa 170 giorni (altro che i 30 giorni imposti sulla carta dall’Europa!). Risultato? Lo stock di debito è rimasto invariato – cioè pari a 73,5 miliardi di euro – e i ritardi di pagamento determinano un costo del capitale a carico delle imprese italiane per oltre 6 miliardi di euro all’anno. Sulla singola fornitura, la loro incidenza è pari al 4,2%, circa 4 volte ciò che costa a un’impresa francese e a circa 7 volte ciò che costa a un’impresa tedesca.
Gli accordi che svelano il nostro “buco”

Gli accordi che svelano il nostro “buco”

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

L’Italia è alle prese con una nuova sfida, ma a Roma e a Milano pare non accorgersene nessuno. Se ne parla in cenacoli come quelli dello Iai, dell’Ispi, della Fondazione Ugo La Malfa, dell’Istituto Bruni Leoni, ma non si è sentita voce istituzionale. Neanche un tweet dal Presidente del Consiglio, Matteo Renzi o dai Ministri preposti (Affari esteri e Sviluppo economico) o da enti sempre sul punto di essere chiusi o riformati, come l’Ice. Proprio a quest’ultimo, la nuova sfida darebbe spunto per una nuova e più forte ragione di vita.

In breve, la globalizzazione che sembrava sgretolarsi dopo la crisi del 2008 è tornata alla grande. Questa è la conclusione a cui giungono Pankaj Ghemawat della Stern School della New York University e Steven Altman della Business School dell’Iese. Hanno compilato il Global Connectedness Index della Dhl sulla base di dati di 140 paesi che rappresentano il 99% del Pil e il 95% della popolazione mondiale. Utilizzano una vasta congerie di indicatori per misurare l’ampiezza e la profondità dell’integrazione internazionale: flussi commerciali, movimenti di capitale, migrazioni, rapidità e diffusione delle informazioni.

Secondo lo studio, dopo un arresto nel 2008-2009, la globalizzazione ha ripreso, più in profondità che in ampiezza. L’eurozona è rimasta un po’ all’angolo (e l’Italia in particolare è tra i fanalini di coda). Soprattutto, dopo una fase della globalizzazione pilotata dal mondo “avanzato” occidentale, adesso le imprese dei grandi paesi occidentali stanno rispondendo stancamente, e con un colpevole ritardo, alla tendenza, con il rischio di trovarsi spiazzate sui mercati più dinamici. Nel 2013, ad esempio, i Paesi in via di sviluppo emergenti hanno rappresentato (con il 36% della popolazione mondiale) il 17% degli utili delle cento maggiori imprese internazionali. L’anno scorso i paesi che hanno “globalizzato” di più (abbattendo barriere) sono quelli dell’America Latina e dei Caraibi. Particolarmente veloce, la globalizzazione delle informazioni, in accelerazione dal 2010.

Tra gli indicatori di integrazione internazionale, mentre i flussi finanziari sono in ripresa, preoccupa il commercio. Nel lontano autunno 2000, nell’ambito della Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio) si aprì a Doha un negoziato multilaterale che avrebbe dovuto rimuovere le ultime restanti restrizioni agli scambi internazionali, particolarmente nei comparti dell’agricoltura e dei servizi. Sinora il negoziato non ha portato a nulla di concreto. È nel frattempo scaduta “l’autorizzazione” data dal Congresso americano al Presidente di presentarne i risultati per una ratifica in blocco.

C’è stato un pullulare di accordi bilaterali che hanno reso il commercio internazionale un vero e proprio labirinto. Su proposta della Casa Bianca sono iniziati negoziati per due vaste aree di “partnership” economica e commerciale – attraverso l’Atlantico e il Pacifico. Queste due trattative stanno proseguendo. Purtroppo, l’Italia pare schierata con la Francia in materia di “eccezioni culturali” (un termine nobile per indicare meno nobili protezioni dell’audiovisivo), dimenticando che un commercio più libero è la premessa per un mondo più libero. Speriamo che cambi idea e linea.

Anche e sopratutto perché il 13 novembre, gli Stati Uniti e l’India hanno raggiunto, dopo anni di trattative che bloccavano il negoziato multilaterale, un accordo sul commercio agricolo (in particolare sugli stoccaggi delle derrate alimentare) a cui si lavorava sin dal Kennedy Round degli anni Sessanta del secolo scorso. Non è questa la sede per analizzare i dettagli tecnici di un accordo, i cui lineamenti erano già stati posti alla riunione ministeriale Wto in dicembre 2013 a Bali. Secondo stime dell’ufficio del Rappresentante speciale del Presidente Usa per i negoziati commerciali – se sbloccato questo nodo la trattativa multilaterale si riapre -, l’accordo potrebbe portare a 21 milioni di nuovi occupati e aggiungere mille miliardi di dollari al Pil dell’economia mondiale. I Paesi in via di sviluppo dovrebbero fare uno sforzo in investimenti, anche infrastrutturali, per gli stoccaggi.

Occorre a questo punto chiedersi quale è la posizione del Governo italiano in sede di Unione europea (la Commissione europea negozia per tutti in base al Trattato di Roma) e se siamo pronti a rimuovere la nostra pregiudiziale sulla “eccezione culturale”. Si gradisce risposta.

Eppur si muove

Eppur si muove

Davide Giacalone – Libero

Mentre affondiamo nel nostro ombelico il corpaccione europeo si muove. In Germania si agitano forze che hanno compreso il pericolo che corriamo, e financo il guardiano del rigore, il ministro delle finanze Wolfgang Schäuble, rende nota la necessità di cambiare. E di farlo in fretta. Tutto questo avviene mentre è ancora in corso il semestre italiano di presidenza Ue, ma senza che in nulla pesi e si adoperi. Noi siamo impegnati a strillare perché Landini ha detto una scemenza, o a essere compenetrati della visita privata che il presidente della Repubblica ha reso al pontefice. Tutta roba che lascia il tempo che trova.

Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, torna a dire che la ripresa non si vede, o la si studia al microscopio. Inutile sperare nella marea, insomma. Ma aggiunge che la Bce intende intervenire subito per sostenere l’economia e l’inflazione, avendo già ottenuto la drastica riduzione degli spread e il graduale deprezzamento dell’euro. Sono pronti anche a incrementare l’acquisto di titoli. Fin qui un film già conosciuto. La novità consiste nel fatto che Schäuble non scomunica l’operazione, ma fa sapere che è necessario avere al più presto una politica fiscale comune, non potendosi a lungo difendere l’euro nelle condizioni date. Va oltre, chiedendo la modifica dei trattati. È la stessa cosa che reclamiamo da anni, restando, naturalmente, da vedersi il quale direzione. Fino a oggi era stata esclusa, ora la partita si apre. Un passaggio cruciale e promettente. A patto di occuparsene.

I quattro grandi paesi europei sono su posizioni diverse. La Francia è preoccupata perché la nuova cessione di sovranità, a favore dell’Ue, contrasta con i propri fantasmi di grandezza e nazionalismo. La Germania nega che trasferimenti di ricchezza possano essere consentiti senza che ci siano anche travasi di sovranità. La Spagna afferma di avere pagato la crisi, sicché non intende accettare che altri abbiano sconti. Mentre l’Italia si perde in chiacchiere inutili sull’elasticità e nelle beghe interne, facendo finta di non vedere che i numeri della propria legge di stabilità sono campati per aria. Mentre i voti verso la protesta per la protesta crescono, i francesi sono impauriti dalla forma, i tedeschi dai quattrini, gli spagnoli dalle fregature e gli italiani da sé medesimi.

Potremmo avere un ruolo decisivo se solo ci muovessimo per dimostrare d’essere consapevoli che le previsioni di crescita sono campate per aria, che le riforme interne del mercato sono urgentissime e non possono perdersi nella gnagnera dell’articolo 18, che così come si profila non cambia nulla, che la necessità di abbattere il debito non può essere posposta all’alimentazione della spesa corrente (si veda il ragionamento qui svolto a proposito della scandalosa quotazione di Rai Way). Se così agissimo, indirizzandoci verso una cessione di sovranità che non ci costa, perché già compromessa, ma legata alla creazione di debito europeo destinato agli investimenti, se così agissimo faremmo vedere alla Francia il pericolo dell’isolamento, alla Germania quello dell’immobilismo e alla Spagna dimostreremmo che i sacrifici riguardano tutti e rendono. Sarebbe un nuovo e promettente inizio.

Gli eurobond, di cui parlammo fin dall’inizio di questa terribile crisi, sono più vicini di quanto si creda e percepisca, ma per agguantarli si deve cambiare la regola e la condotta della convivenza. Noi siamo nella condizione per poterlo dire e promuovere. Il che comporta, però, la fine dell’insulsa stagione delle promesse e delle prebende. Tanto vigore polemico va indirizzato non alla rissosità, ma alla cancellazione delle false sicurezze. Impressiona, invece, che mentre la consapevolezza si fa strada laddove più forti erano le resistenze e le paure qui si supponga di continuare a pestarsi gli attributi nel mortaio. E se il mondo politico mette in scena tutta la propria piccineria, figura non migliore fa la classe dirigente nel suo complesso. Ammesso che esista ancora.

Flop della Garanzia Giovani, governo verso nuove regole

Flop della Garanzia Giovani, governo verso nuove regole

Rita Querzé – Corriere della Sera

Peccato: quello che sembra mancare alla Garanzia giovani è proprio il lavoro. Per un misura che ha l’obiettivo di lenire la piaga della disoccupazione giovanile è davvero il massimo. Dicono in regione Lombardia: «Abbiamo stanziato 52 milioni per il bonus occupazione (sconti e sgravi per chi assume a vario titolo con Garanzia giovani, ndr). Il problema è che il cavallo non beve. Insomma, i posti non ci sono. Se continua così, spostiamo i soldi su altre misure: i tirocini, la formazione, il servizio civile».

Le agevolazioni per le assunzioni dei giovani si fanno concorrenza tra loro. Il bonus Renzi prevede decontribuzione fino a 8.500 euro l’anno per tre anni. Spesso attrae gli imprenditori più della Garanzia. D’altra parte gli “sconti” della Youth guarantee per contratti a termine, a tempo indeterminato, apprendistato non si possono sommare con nessun altra agevolazione. Inoltre i contratti a termine danno diritto agli sgravi della Garanzia soltanto quando durano più di sei mesi. E di questi tempi per le aziende spesso sei mesi sono troppi.

Il problema è ormai chiaro anche al ministero del Lavoro dove mercoledì scorso si è tenuto un incontro con le Regioni. Si parla di cambiare in corsa le regole per l’assegnazione del bonus occupazionale, in sostanza gli sgravi per le aziende che assumono i giovani con la Garanzia. D’altra parte se si continua così semplicemente i soldi non vengono spesi. Su 2.000 contratti a termine di giovani under 29 stipulati in Lombardia da luglio a ottobre, 473 erano più lunghi di sei mesi, quindi meritevoli degli sconti della Youth Guarantee. Ma non è finita. Di questi 473 ragazzi, solo 30 sono hanno garantito gli sgravi alle aziende che li hanno assunti. Tutti gli altri, in base alle regole oggi in vigore, sono considerati facili da piazzare sul mercato del lavoro: per loro (e per le aziende che li ingaggiano) nessuna agevolazione. Altra questione: la Garanzia Giovani è sempre più un vestito d’Arlecchino. In alcuni territori, soprattutto al Nord, la macchina è partita. In altri si sta ancora cercando di accendere il motore. In Sicilia il bando per l’accreditamento delle aziende autorizzate a fornire tirocini con la garanzia è saltato per problemi informatici. Ora si sta cercando di partire con l’aiuto del ministero del Lavoro. Non prima però di avere sistemato la vertenza dei precari addetti agli sportelli. Paradosso nel paradosso.

Un problema a cui non è ancora stata trovata soluzione è quello dei giovani che si sono iscritti alla garanzia in regioni diverse dalla propria, fatti girare come trottole per presentarsi a colloqui che non portano a nulla. Per finire, una cosa buona ci sarebbe. La multiutility Iren sostituirà 400 dipendenti in uscita volontaria con ragazzi assunti tramite la Garanzia. Ma piani del genere restano una rarità. Anche nelle aziende a partecipazione pubblica che dovrebbero dare l’esempio.

I 3,9 miliardi che i migranti danno all’economia italiana

I 3,9 miliardi che i migranti danno all’economia italiana

Gian Antonio Stella – Corriere della Sera

Ha ragione papa Francesco: gli immigrati sono una ricchezza. Lo dicono i numeri. Fatti i conti costi-benefici, spiega un dossier della fondazione Moressa, noi italiani ci guadagniamo 3,9 miliardi l’anno. E la crisi, senza i nuovi arrivati che hanno fondato quasi mezzo milione di aziende, sarebbe ancora più dura. Certo, è facile in questi tempi di pesanti difficoltà titillare i rancori, le paure, le angosce di tanti disoccupati, esodati, sfrattati ormai allo stremo. Soprattutto in certe periferie urbane abbruttite dal degrado e da troppo tempo vergognosamente abbandonate dalle pubbliche istituzioni. Ma può passar l’idea che il problema siano «gli altri»?

Non c’è massacro contro i nostri nonni emigrati, da Tandil in Argentina a Kalgoorlie in Australia, da Aigues Mortes in Francia a Tallulah negli Stati Uniti, che non sia nato dallo scoppio di odio dei «padroni di casa» contro gli italiani che «rubavano il lavoro». Basti ricordare il linciaggio di New Orleans del 15 marzo 1891, dove tra i più assatanati nella caccia ai nostri nonni c’erano migliaia di neri, rimpiazzati nei campi di cotone da immigrati siciliani, campani, lucani. Eppure quei nostri nonni contribuirono ad arricchire le loro nuove patrie («la patria è là dove si prospera», dice Aristofane) proprio come ricorda Francesco: «I Paesi che accolgono traggono vantaggi dall’impiego di immigrati per le necessità della produzione e del benessere nazionale». Creano anche un mucchio di problemi? Sì. Portano a volte malattie che da noi erano ormai sconfitte? Sì. Affollano le nostre carceri soprattutto per alcuni tipi di reati? Sì. Vanno ad arroccarsi in fortini etnici facendo esplodere vere e proprie guerre di quartiere? Sì. E questi problemi vanno presi di petto. Con fermezza. C’è dell’altro, però . E non possiamo ignorarlo.

Due rapporti della Fondazione Leone Moressa e Andrea Stuppini,collaboratore de «lavoce.info», spiegano che non solo le imprese create da immigrati sono 497 mila (l’8,2% del totale: a dispetto della crisi) per un valore aggiunto di 85 miliardi di euro, ma che nei calcoli dare-avere chi ci guadagna siamo anche noi. Nel 2012 i contribuenti nati all’estero sono stati poco più di 3,5 milioni e «hanno dichiarato redditi per 44,7 miliardi di euro (mediamente 12.930 euro a persona) su un totale di 800 miliardi di euro, incidendo per il 5,6% sull’intera ricchezza prodotta». L’imposta netta versata «ammonta in media a 2.099 euro, per un totale complessivo pari a 4,9 miliardi». Con disparità enorme: 4.918 euro pro capite di Irpef pagata nel 2013 in provincia di Milano, 1.499 in quella di Ragusa.

A questa voce, però, ne vanno aggiunte altre. Ad esempio l’Iva: «Una recente indagine della Banca d’Italia ha evidenziato come la propensione al consumo delle famiglie straniere (ovvero il rapporto tra consumo e reddito) sia pari al 105,8%: vale a dire che le famiglie straniere tendono a non risparmiare nulla, anzi ad indebitarsi o ad attingere a vecchi risparmi. Ipotizzando che il reddito delle famiglie straniere sia speso in consumi soggetti ad Iva per il 90% (escludendo rimesse, affitti, mutui e altre voci non soggette a Iva), il valore complessivo dell’imposta indiretta sui consumi arriva a 1,4 miliardi di euro». Più il gettito dalle imposte sui carburanti (840 milioni circa), i soldi per lotto e lotterie (210 milioni) e rinnovi dei permessi di soggiorno (1.741.501 nel 2012 per 340 milioni) e così via: «Sommando le diverse voci, si ottiene un gettito fiscale di 7,6 miliardi». Poi c’è il contributo previdenziale: «Considerando che secondo l’ultimo dato ufficiale Inps (2009) i contributi versati dagli stranieri rappresentano il 4,2% del totale, si può stimare un gettito contributivo di 8,9 miliardi». Cosicché «sommando gettito fiscale e contributivo, le entrate riconducibili alla presenza straniera raggiungono i 16,6 miliardi».

Ma se questo è quanto danno, quanto ricevono poi gli immigrati? «Considerando che dopo le pensioni la sanità è la voce di gran lunga più importante e che all’interno di questa circa l’80% della spesa è assorbita dalle persone ultrasessantacinquenni», risponde lo studio, l’impatto dei nati all’estero (nettamente più giovani e meno acciaccati degli italiani) è decisamente minore sul peso sia delle pensioni sia della sanità, dai ricoveri all’uso di farmaci. Certo, è maggiore nella scuola «dove l’incidenza degli alunni con cittadinanza non italiana ha raggiunto l’8,4%», ma qui «la parte preponderante della spesa è fissa». E i costi per la giustizia? «Una stima dei costi si aggira su 1,75 miliardi di euro annui». E le altre spese? Contate tutte, rispondono Stuppini e la Fondazione. Anche quelle per i Centri di Identificazione ed Espulsione: «Per il 2012 il costo complessivo si può calcolare in 170 milioni».

In ogni caso, prosegue il dossier, «si è considerata la spesa pubblica utilizzando il metodo dei costi standard, stimando la spesa pubblica complessiva per l’immigrazione in 12,6 miliardi di euro, pari all’1,57% della spesa pubblica nazionale. Ripartendo il volume di spesa per la popolazione straniera nel 2012 (4,39 milioni), si ottiene un valore pro capite di 2.870 euro». Risultato: confrontando entrate e uscite, «emerge come il saldo finale sia in attivo di 3,9 miliardi». Per capirci: quasi quanto il peso dell’Imu sulla prima casa. Poi, per carità, restano tutti i problemi, i disagi e le emergenze che abbiamo detto. Che vanno affrontati, quando serve, anche con estrema durezza. Ma si può sostenere, davanti a questi dati, che mantenere l’estensione della social card ai cittadini nati all’estero ma col permesso di soggiorno è «un’istigazione al razzismo»?

Per non dire dell’apporto dei «nuovi italiani» su altri fronti. Dice uno studio dell’Istituto Ricerca Sociale che ci sono in Italia 830 mila badanti, quasi tutte straniere, che accudiscono circa un milione di non autosufficienti. Il quadruplo dei ricoverati nelle strutture pubbliche. Se dovesse occuparsene lo Stato, ciao: un posto letto, dall’acquisto del terreno alla costruzione della struttura, dai mobili alle lenzuola, costa 150 mila euro. Per un milione di degenti dovremmo scucire 150 miliardi. E poi assumere (otto persone ogni dieci posti letto) 800 mila addetti per una spesa complessiva annuale (26mila euro l’uno) di quasi 21 miliardi l’anno. Più spese varie. Con un investimento complessivo nei primi cinque anni di oltre 250 miliardi.

Mignatte

Mignatte

Davide Giacalone – Libero

Aboliamo gli scontrini, puntiamo sulla tracciabilità usando i pagamenti elettronici, e l’Agenzia delle entrate non sarà più vissuta come un avvoltoio. Parole di Matteo Renzi. Già, peccato che è proprio lo Stato a non accettare i pagamenti elettronici. Peccato che anziché spiegarlo ai cittadini il capo del governo dovrebbe spiegarlo alla pubblica amministrazione. E peccato che anche questo rischia di essere un modo per ciucciare via soldi dalle tasche dei privati. Non saprei dire degli avvoltoi, ma la sensazione delle mignatte è forte.

Partiamo dall’osservazione del mercato europeo: i pagamenti in contante sono regolati in modo diverso e il nostro è il solo Paese in cui è considerato illecito pagare in moneta mille euro. In Germania non ci sono limiti all’uso del contante. Il fatto che sia anche l’economia che va meglio non necessariamente suggerisce un rapporto di causa-effetto, ma lascia che sia fondato il sospetto. Me ne sono occupato altre volte e non ci torno, ma giusto per premettere che oltre a perdermi il bello del paradiso fiscale mi scoccia subire il peggio dell’inferno monetario.

Posto ciò, non c’è dubbio: se tutti i pagamenti fossero elettronici e tracciati non ci sarebbero margini per l’evasione fiscale. Che bello. Ma fino a un certo punto, perché ci sono pagamenti di cui legittimamente non intendo lasciare traccia. Ma facciamo finta che sia superabile il problema della privacy. C’è un dettaglio, che forse al presidente del Consiglio sfugge: nel mentre si costringono tutti i privati a dotarsi del pos, ovvero del terminale per incassare pagamenti da carte di credito, di debito e prepagate, lo Stato non li accetta. Ieri sono stato all’ufficio postale, per pagare una cartella Equitalia, e non hanno accettato la mia carta di credito. Che si fa? Direi che si costringono le Poste, che sono una società dello Stato, ad accettare anche quel circuito (legittimo, pubblicizzato, serio e globale). Finché le Poste si permetteranno di non accettare la carta di credito, essendo le Poste dello Stato, il loro proprietario non ha la legittimità morale per imporre ad altri alcunché.

Ma non è finita. Se un negoziante mi chiede di pagare un obolo in più, una volta visto che intendo pagare con la carta di credito, egli commette un illecito passibile di denuncia. Ed è giusto che sia così. Salvo il fatto che è esattamente quanto succede con Equitalia, dato che se vuoi pagare on line con la carta di credito ti chiede un euro in più. Equitalia, per chi si fosse distratto, è dello Stato. Allora: perché un negoziante deve accettare di subire il costo della transazione e lo Stato no? Direi che, anche qui, manca la legittimità morale per far lezioncine su come sarebbe giusto, bello e sano pagare.

Ancora non ho finito. Provate a pagare sigarette, sigari o tabacco con la carte di credito. Nella quasi totalità dei casi vi diranno che non è possibile. Ma non è che i tabaccai siano perfidi o accidiosi, è che il margine a loro riconosciuto è così basso che, a seconda dei diversi circuiti delle carte di credito, sono praticamente equivalenti e in qualche caso inferiori al costo della transazione. Meglio non dimenticare, anche in questo caso, che i tabaccai sono sì dei privati (micro)imprenditori, ma concessionari dello Stato, che vendono (tra le altre cose) prodotti di cui lo Stato ha il monopolio. E’ lo Stato a dettare le condizioni che rendono inutilizzabile la carta di credito.

Conosco già la risposta a questi rilievi: usa il Bancomat. No, scusate: uso quello che mi pare. Se si vogliono promuovere i pagamenti elettronici non si può farlo né a spese dei cittadini né stabilendo per decreto signorile a quale circuito devo portare i miei quattrini. Se la carta di credito è lecita chi opera per conto dello Stato deve avere l’obbligo di accettarla. In caso contrario, almeno, la si smetta di dire cose senza senso e prive della benché minima esperienza di vita vissuta.

Crisi italiana: quelle divergenze tra Bce e Bankitalia

Crisi italiana: quelle divergenze tra Bce e Bankitalia

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Su cosa verte la differenza di punti di vista tra Italia ed Unione Europa sulle circostanze eccezionali del Fiscal Compact che consentirebbero una deviazione dalle regole sull’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni (ossia il deficit), oltre al rinvio del pareggio di bilancio? Il nodo del problema è quello che in lessico economico viene chiamato l’output gap (letteralmente ‘divario produttivo’), ossia il differenziale tra Pil potenziale e Pil effettivo. Prima della crisi, nel 2008, la Commissione Europea, il Fondo monetario, e l’Ocse stimavano attorno all’1,3% la crescita potenziale del Prodotto interno lordo dell’Italia. Per avere un paragone, i ‘piani triennali’ dell’inizio degli Anni Ottanta la ponevano sul 22,5%, spiegando che è quello che già allora ci si poteva aspettare da un Paese con una popolazione anziana, un apparato produttivo non modernizzato eccetto che in certe nicchie specifiche, ed un’amministrazione pubblica tutt’altro che efficiente. Le stime econometriche che giungevano ad un potenziale di crescita dell’1,3% tenevano conto dell’evoluzione avvenuta negli ultimi trent’anni (non positiva né sotto l’aspetto demografico né sotto quello dell’apparato produttivo), nonché dal peso del debito che incide comunque sulla crescita.

Nel 2010 il servizio studi della Banca d’Italia ha pubblicato uno studio che esaminava il periodo 1999-2005 (ossia gli anni che hanno preceduto la crisi) e poneva l’output gap del nostro paese tra lo 0,5% e lo 0,7% del Pil. Se la crescita potenziale è lo 1,3%, quella effettiva si poneva quindi attorno tra lo 0,8% e lo 0,6%. Mentre di recente, l’Ocse ha stimato l’output gap dell’Italia a -5 punti percentuali del Pil. Una chiara giustificazione di ‘circostanze eccezionali’.

La Banca centrale europea ha reso pubblico sul suo sito da meno di una settimana uno studio firmato da un gruppo di economisti. Non sono stati pubblicati lavori della Commissione Europea, ma si intende che le stime di Bruxelles coincidono con quelle di Francoforte. Il lavoro analizza gli effetti della crisi economica sui tassi di crescita potenziali, utilizzando una vasta gamma di modelli econometrici, e confronta l’eurozona con gli Stati Uniti ed il Giappone. Per l’Italia il Prodotto interno lordo potenziale sarebbe attorno al livello zero per l’anno 2013, proprio in quanto non sono state fatte le riforme sulle strutture dell’economia (essenzialmente miglioramento delle infrastrutture e delle reti, liberalizzazioni in tutti i settori, dalle professioni, alle banche ed assicurazioni, ai servizi pubblici locali, ai taxi, e via discorrendo) e in campo di privatizzazioni siamo riusciti a portare a casa solo quella dell’ente degli ufficiali in congedo. Quindi, non si possono invocare circostanze eccezionali. Non siamo, però, condannati alla ‘crescita zero’. A pagina 118 di quello studio, infatti, si dice chiaramente che tutto dipende dalle riforme strutturali, e cioè quelle sulla struttura economica del sistema nazionale, che non coincidono – lo ricordiamo – con quelle istituzionali. A questo punto Palazzo Chigi e Via Venti Settembre farebbero bene a mostrare le loro carte.

Guerra aperta agli immobili: 20 miliardi di tasse in 4 anni – Il Giornale

Guerra aperta agli immobili: 20 miliardi di tasse in 4 anni – Il Giornale

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

L’aggressione sulla casa ha due volti, entrambi mostruosi. Quello più noto è rappresentato dai 20 miliardi di tasse in più che gli italiani sono stati costretti a pagare negli ultimi quattro anni a causa dell’accanimento dei governi Monti, Letta e Renzi sulla proprietà immobiliare. A colpi di Imu, Tasi e Ici si è passati dai 9 miliardi di prelievo del 2010 ai 28 miliardi stimati da Confedilizia per quest’anno.

Il volto nascosto di questo raptus autopunitivo lo svela il Centro Studi ImpresaLavoro: il mercato italiano delle costruzioni sta segnando performance che collocano l’Italia agli ultimi posti in Europa. È chiaro che, in questo modo, si frustrano molte possibilità di agganciare la ripresa ove mai si presentasse. Ecco perché il presidente di Forza Italia, Silvio Berlusconi, ancora ieri è ritornato sull’argomento. «La casa è colpita da tasse che tre governi non eletti dai cittadini hanno moltiplicato per tre», ha detto nel corso dell’intervento a La telefonata su Canale 5. «La casa per Forza Italia è sempre stata qualcosa di sacro: è un pilastro su cui ogni famiglia ha il diritto di costruire la sicurezza del suo futuro», ha aggiunto ricordando che «tagliare le tasse sulla casa non solo è possibile, ma è doveroso». Un segnale di battaglia in vista del No Tax Day azzurro del prossimo fine settimana che sarà incentrato su questo tema.

L’analisi del Centro Studi ImpresaLavoro, però, offre uno spaccato della propensione «suicida» del nostro Paese nei confronti dei competitor europei. L’aumento della tassazione, infatti, ha bloccato il settore e, dal 2011 a oggi, si è perso il 30% del valore della produzione. In Europa solo Cipro, Portogallo e Grecia hanno registrato andamenti peggiori di quello italiano e non è un caso che si tratti di Paesi profondamente segnati dalla crisi del debito sovrano. Se si guarda alle aree più sviluppate del Vecchio Continente, si osserva come la Francia, nello stesso periodo, abbia registrato un arretramento del 5,1%, il Regno Unito del 3,2%, mentre la Germania ha visto un lieve incremento (+0,6%). La performance della Spagna è la migliore tra le grandi economie europee: +18,9 per cento. L’Italia è ampiamente al di sotto della media dei 27 Paesi dell’Unione Europea poiché il -29,3% cumulato si confronta con una media del -5 per cento. Insomma, non solo si sono massacrati i contribuenti, ma si è resa l’intera nazione più debole.

Crollano, di conseguenza, anche le ore lavorate, l’indicatore che misura con maggior precisione l’andamento dell’occupazione di questo settore. In Italia nel 2014 si sono lavorate nel settore costruzioni un terzo delle ore in meno rispetto al 2011 (-28,9%). La Francia ha perso solo il 4,2%, mentre gli incrementi hanno interessato Regno Unito (+3,7%), Spagna (+1,4%) e Germania (+0,9%). Un effetto della perdita dei due terzi di permessi di costruzione (-63% nel triennio) a causa della recessione autoindotta nel comparto. Dunque, non bisogna con evidenti ripercussioni sull’occupazione e il numero di lavoratori lasciati a casa dalle aziende in crisi. «I governi Monti, Letta e Renzi hanno trasformato la casa da “bene rifugio” in “bene incubo”», commenta il presidente di ImpresaLavoro, Massimo Blasoni. I numeri non fanno che confermarlo.

Alluvionati e tassati

Alluvionati e tassati

Il Foglio

Chirurgici come cecchini ieri Libero e Panorama hanno assestato un colpo ferale all’idea governativa di creare un sistema assicurativo universale contro le calamità naturali: pagherete altre tasse. Ai vertici dell’esecutivo, in realtà. non c’è chiarezza sul da farsi. Le dichiarazioni del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio – “si ragiona sull’ipotesi di un”assicurazione obbligatoria” – sono da leggere come voce dal sen fuggita che le truppe renziane a Palazzo Chigi si sono affrettate a smentire: “Non c’è alcuna ipotesi, siamo contrari a nuove tasse, non ci sarà un`altra Imu”, riporta il sito formiche.net. La proverbiale pezza più grande del buco: pronunciare la parola “tasse” in questo ambito e un boomerang, per di più fuorviante.

Un’assicurazione universale obbligatoria o semi-obbligatoria – se ne discute da vent’anni – non comporta necessariamente un aumento della pressione fiscale. Dipende dal criterio, ma in linea di principio si tratta di spalmare il rischio catastrofale sulla totalità dei cittadini col risultato di abbassare il costo medio della polizza per tutti (e magari renderlo deducibile dalla dichiarazione dei redditi). Sono oltre l’80 per cento i Comuni a rischio e, secondo l’Associazione delle imprese assicuratrici (Ania), assicurare un’abitazione di 90-100 mq costerebbe in media 100 euro l’anno.

Ovvio ci sono obiezioni (perché chi abita in Brianza dovrebbe pagare chi dorme sotto il Vesuvio?), controindicazioni (chi garantisce che i premi non aumenteranno senza controllo?) e perplessità (è comprensibile la diffidenza verso le assicurazioni nel paese meno assicurato d’Europa dove il costante rincaro dell’obbligatoria Rc Auto è odioso e odiato). Tuttavia sarebbe un sistema basato sulla mutualità sperimentato in ventuno paesi industrializzati: pagare tutti per pagare meno e soprattutto ricostruire in fretta. E poi la riscossione del premio è certa e puntuale. Se vogliamo parlare di tasse e calamità allora guardiamo ai balzelli delle accise sulla benzina. Aumentate sempre ma senza criterio all’indomani dei terremoti: soldi dei cittadini “motorizzati” che non hanno sistemato né L’Aquila né l’Irpinia. “Se finora la politica non s’è mossa – dice al Foglio Antonio Coviello, esperto di assicurazioni del Cnr – forse è perché sul fiume di soldi pubblici elargiti per le calamità non c’è controllo e fa comodo a molti. Il problema è che i soldi sono finiti”.