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Quando lo Stato ostacola l’impresa

Quando lo Stato ostacola l’impresa

Luca Cellamare – Gazzetta del Mezzogiorno

Pare che in Italia sia impossibile varare misure realmente efficaci per il rilancio della produttività anche utilizzando strumenti diretti alla semplificazione fiscale. I relativi interventi, infatti, si sono tradotti paradossalmente in nuovi adempimenti a carico di contribuenti e professionisti. In relazione alla famigerata delega fiscale, poi, sono stati spesi «fiumi di parole», ma ancora senza costrutto.

Al contrario, a nostro avviso, gli interventi del governo paiono ostacolare la ripresa. È questa l’impressione ad esempio se si considerano le novità introdotte dal decreto Renzi (decreto 66 del 2014) in materia di rivalutazione dei beni aziendali. Come noto, la legge di stabilità 2014 (147 del 2013) ha riproposto la possibilità per le imprese di effettuare una rideterminazione dei valori dei beni di impresa con conseguenti vantaggi sia sul piano fiscale che civilistico. Ad esempio la rivalutazione consente, dal punto di vista fiscale, una deducibilità (differita) di maggiori quote di ammortamento, o la possibilità di prendere in considerazione un maggior valore ai fini del calcolo delle società di comodo. Dal punto di vista civilistico, invece, è consentita una maggiore patrimonializzazione dell’azienda con conseguenti riflessi positivi sia per l’accesso al credito che in termini di affidabilità agli occhi degli stakeholders.

Ebbene, ai fini del perfezionamento della rivalutazione, è richiesto il versamento di una imposta sostitutiva che, come previsto originariamente, poteva essere assolta in «tre rate annuali». Con il decreto Renzi il versamento dell’imposta è stato ridotto all’improvviso ad un’unica rata da effettuarsi entro il prossimo 16 giugno! Salvo sorprese, pertanto, molte imprese già in ginocchio ed in crisi di liquidità adesso dovranno sborsare in unica soluzione quello che avrebbero dovuto pagare in tre anni. Altrimenti dovranno rinunciare ad uno dei pochissimi strumenti ancora a disposizione per recuperare un po’ di ossigeno. Ma oltre al danno la beffa. Per le imprese che hanno già approvato il bilancio, infatti, la questione si complica ulteriormente. Queste devono considerare l’ipotesi di convocare una nuova assemblea per riapprovare un bilancio correttivo. Oppure devono «rischiare» optando per un versamento tardivo della sostitutiva, dato che la norma e la prassi sembrerebbero dare spazio ad una sorta di «ravvedimento operoso».

Al di là di questo recente intervento palesemente diretto a far cassa, a danno però delle numerose società che hanno optato per la rivalutazione, il legislatore nazionale è apparso negli ultimi anni estremamente attivo in materia di tracciabilità del denaro. Gran parte delle risorse erariali, infatti, sono state spese per far fronte alla necessità di mettere a nudo ogni singolo contribuente, monitorandone i rapporti commerciali, i depositi bancari e qualsivoglia altra movimentazione di ricchezza. La ratio avrebbe dovuto essere quella di annientare l’economia sommersa e quindi sconfiggere l’evasione fiscale. Di fatto, però, l’evasione tocca ancora valori estremamente elevati, la burocrazia ha raggiunto livelli esasperati e l’Italia non attrae gli investitori esteri. Al contrario, l’unico risultato «veloce» è sempre quello di «spremere» i soliti noti, al fine di attuare nei loro confronti un’attività di recupero delle imposte conseguenti per lo più non ad una effettiva evasione, ma all’ontologica incertezza del diritto tributario.

Eppure all’attualità l’amministrazione rappresenta una enorme «macchina a raggi X». Un «Big Brother» del ventunesimo secolo che ricorda la celeberrima opera di George Orwell «1984» in cui un’entita a capo di una intera nazione tiene sotto costante controllo la vita dei cittadini. Emblematica è la recente introduzione del Sid, ossia un canale di comunicazione mediante il quale le banche comunicano periodicamente all’anagrafe tributaria i dati relativi ai movimenti finanziari effettuati dai propri clienti e grazie al quale i conti correnti non sono più un segreto per l’Agenzia delle Entrate, che comunque già disponeva di controlli invasivi da attuarsi nel corso delle indagini bancarie. Inoltre è prevista a breve l’entrata a regime di due altre grandi novità all’insegna della tracciabilità e della dematerializzazione del denaro: la fatturazione elettronica per i fornitori della pubblica amministrazione e l’obbligo per commercianti e professionisti di dotarsi dei Pos.

Circa la fatturazione elettronica, tra qualche giorno scatta l’obbligo di documentare le cessioni di beni e le prestazioni di servizi realizzate nei confronti di ministeri, agenzie fiscali ed enti di previdenza, esclusivamente in via telematica. Anche in tal caso gli obblighi maggiori ricadono sui privati che sono tenuti ad aggiornare i propri software con nuovi moduli per l’elaborazione dei documenti e la loro conservazione, sostenendo ovviamente costi aggiuntivi. A tanto si aggiunga che l’invio delle fatture elettroniche può avvenire esclusivamente mediante un Sistema di Interscambio, per cui può essere necessario rivolgersi ad intermediari abilitati. Non si esclude, inoltre, che a breve l’obbligo della fattura elettronica possa diventare cogente anche nei rapporti tra privati e non solo nei confronti dei fornitori della pubblica amministrazione.

Infine, la protesta si fa sempre più serrata in relazione all’obbligo di installazione del Pos a carico di artigiani, commercianti e professionisti che, in base al decreto 179 del 2012, sarebbero tenuti ad accettare pagamenti oltre i 30 euro mediante carte di debito (bancomat). Sebbene l’obiettivo sia quello di consentire la tracciabilità dei pagamenti, le perplessità riguardano in primo luogo la difficile realizzabilità, dato che tutti i consumatori e gli utenti dovrebbero dotarsi di carte di debito. Ancor più avvilenti, però, sono le spese connesse all’operazione: i costi di installazione del Pos, il canone mensile per il terminale e la commissione, in favore della banca, che oscilla tra l’1% e il 3% per ogni transazione commerciale. Quel che e certo è che tale obbligo (tuttavia, in particolare per i professionisti, si tratterebbe soltanto di un onere privo di sanzioni in caso di inosservanza) consentirà al sistema finanziario di realizzare facilmente cifre da capogiro!

I mercati chiusi che bloccano la nostra crescita

I mercati chiusi che bloccano la nostra crescita

Daniele Manca – Corriere Economia

I tempi non sono più quelli nei quali mercati aperti, libero movimento di capitali e merci, garantivano sviluppo e crescita. Anzi, ogni Paese sembra richiudersi in se stesso tentando di trovare al proprio interno – e a spese dei partner – una propria via di difesa dalla crisi. Niente di più sbagliato. Il mercato delle telecomunicazioni ha permesso all’Europa una leadership, poi perduta, grazie a innovazione, concorrenza e massima apertura.

Lo stesso non si può dire dell’energia. Vale per l’Italia come anche per l’intero Vecchio Continente. Scambiare energia tra i vari Paesi dell’Unione è tutt’altro che facile (il gas poi fa caso a parte). Succede così che la produzione in eccesso, soprattutto da fonti rinnovabili che proviene da Paesi come la Spagna, ma anche da tutta la zona scandinava e dalla Norvegia, non possa arrivare in nazioni che ne hanno bisogno. Energia che viene dispersa. Come può essere efficiente un mercato quando il peso della tasse tra Germania e Danimarca e tra il 50% e il 60% del prezzo finale mentre in Gran Bretagna la percentuale scende al 5%?

Il confronto con gli Stati Uniti è drammatico in termini di prezzo dell’elettricità rispetto a quello in Europa. È la conseguenza di scelte che hanno portato ad avviare la ricerca dello shale gas, da noi osteggiato per motivi ambientali. Ma anche di quello che è a tutti gli effetti un mercato unico. Che significa interconnessione delle reti nazionali e convergenza dei prezzi. In tempi di crisi la strada è ancora più difficile. Ma nel dopoguerra la situazione non era certo meno complicata. Eppure, la lungimiranza di capire che andavano superati i confini nazionali, se quello che si cercava era un futuro più prospero, non è mai mancata. Oggi quella consapevolezza dove è finita?

Il paradosso europeo che difende le sue Pmi meno degli Stati Uniti

Il paradosso europeo che difende le sue Pmi meno degli Stati Uniti

Rainer Masera – Affari & Finanza

Il G20 di Brisbane ha rappresentato l’occasione per il Financial Stability Board (FSB) di rendere pubbliche le proposte sulla schema di “risoluzione” delle grandi banche in difficoltà, quelle “troppo grandi per fallire”. Si tratta di un passo fondamentale del processo di riregolazione bancaria dopo la crisi del 2007-09. Il modello è imperniato sul rafforzamento importante della capacità complessiva di assorbimento delle perdite (TLAC) e sulle procedure di risoluzione per le banche globali sistematicamente rilevanti (GSIB). È rivolto a impedire che si ripetano salvataggi di banche con contributi del taxpayer, per il timore di implosione del sistema finanziario e dell’attività economica in caso di fallimento. Per le 30 banche sistemiche (l’unica italiana è Unicredit) si sostituisce al bail-out dei contribuenti il bail-in di azionisti e obbligazionisti. Le regole TLAC in discussione prevedono che circa il 20% del totale attivo ponderato per il rischio dovrà avere come controparte capitale o debito che possa essere convertito in capitale: prime stime indicano che i fabbisogni aggiuntivi per le banche europee sono dell’ordine di 500 miliardi di euro. In realtà, anche altre forme di debito potranno esser attratte da perdite in caso di risoluzione.

La crisi finanziaria ha sottolineato l’esigenza di affiancare alla sorveglianza microprudenziale (rivolta all’esame delle singole banche) quella macroprudenziale (orientata alla salvaguardia della stabilità dell’intero sistema finanziario). Proprio considerazioni macroprudenziali avevano indotto ad accettare dopo il fallimento Lehman il bail-out di molte banche, ma hanno imposto di modificare le regole per prevenire il ripetersi dell’azzardo morale e dell’iniquità di un assetto dove le eventuali grandi perdite delle GSIB erano socializzate, ma i guadagni connessi a eccesso di rischio o addirittura a malversazioni erano comunque privatizzati. La necessità di una simultanea valutazione della supervisione ai livelli micro e macro può essere declinata secondo due chiavi di analisi naturalmente non esaustive. In primo luogo, il modello FSB si impernia sull’esigenza che le banche globali incorporino e internalizzino la salvaguardia della stabilità finanziaria. La loro stessa impronta sistemica richiede coefficienti di capitale e presidi prudenziali che vanno ben al di là delle regole di Basilea. In secondo luogo, si afferma il principio di un modello di sorveglianza non unitario: su questa fondamentale questione si danno risposte diverse al di qua e al di là dell’Atlantico.

Negli Stati Uniti il Dodd Frank Act del 2010 e la normativa di implementazione di Basilea 3 sono improntati al presupposto che le regole di capitale e di sorveglianza devono essere diversificate a seconda delle dimensioni, del modello di business e della complessità delle banche. Una taglia unica di vigilanza sarebbe inappropriata non solo perché trascurerebbe l’impronta sistemica, ma anche perché sarebbe un fattore di distorsione competitivo. Le piccole/medie banche retail (PMB) dovrebbero far fronte a costi (operativi e di personale) di compliance non proporzionali rispetto a regole sempre più numerose, complesse e articolate. Negli Stati Uniti, ad esempio, le PMB non devono corrispondere alle regole sullo stress testing, sui vincoli di liquidità e sui piani di risoluzione.

In Europa, viceversa, la Commissione ha adottato (e reiterato nella trasposizione di Basilea 3) l’approccio della taglia unica regolamentare. L’obiettivo sarebbe di evitare l’arbitraggio, ma – come si è indicato – si può argomentare l’opposto. Appare paradossale che il ruolo incisivo delle banche di prossimità per le piccole e medie imprese venga sottolineato e valorizzato negli Stati Uniti e di fatto disconosciuto in Europa. Il business model delle banche regionali ben gestite ha un vantaggio comparato nel finanziamento delle piccole/medie imprese locali, anche se inserite in filiere produttive di più ampio respiro. In particolare, il settore delle micro imprese è in Italia e in Europa quello più rilevante in termini di creazione (e di distruzione) di posti di lavoro, con caratteristiche di forte prociclicità.

I nessi tra piccole e medie banche e piccole e medie imprese sono stretti, con significativi effetti di retroazione che amplificano gli andamenti della congiuntura: sono le microimprese quelle che sperimentano le maggiori difficoltà nel finanziamento esterno, per le caratteristiche intrinsecamente meno trasparenti dei bilanci e per l’inevitabile intreccio con la situazione economico- finanziaria del proprietario/imprenditore. Comunque le piccole imprese devono muovere verso modelli non opachi, con maggior attenzione ai profili di redditività e di patrimonializzazione aziendale.

Occorre tuttavia evitare di “gettare il bimbo con l’acqua sporca”. Il modello unitario di regolazione delle banche adottato in Europa ha inciso negativamente sul flusso di credito alle piccole imprese e sulle economie locali. Come dimostra l’esperienza americana, non si tratta di argomenti di retroguardia, che devono cedere il passo a schemi di finanziamento più efficienti ed evoluti. Il sistema finanziario europeo è troppo bancocentrico e deve evolvere verso assetti in cui l’intermediazione di mercato svolga un ruolo molto più significativo. Anche per le piccole e medie imprese il ruolo del finanziamento bancario deve essere ridotto. Ma il processo deve essere graduale, richiede l’attivazione di idonei modelli di cartolarizzazione dei crediti, per i quali si è impegnata la Bce, non deve implicare oneri rilevanti per le economie locali e per le banche regionali.

Il capitalismo senza idee che vede solo i dividendi

Il capitalismo senza idee che vede solo i dividendi

Federico Fubini – Affari & Finanza

A guardarli così, sembra di vivere in un altro Paese. La scorsa settimana ha portato un’infornata di relazioni trimestrali delle società quotate ma, scorrendo i numeri, non emergono molte tracce dell’Italia che ci circonda. Quest’ultima è la sola economia che non ha mai smesso di contrarsi dalla primavera del 2011: da allora Palazzo Chigi ha cambiato quattro presidenti del Consiglio, Mario Balotelli ha cambiato tre squadre e l’Irlanda è passata dalla richiesta di aiuto alla troika a una crescita che a metà di quest’anno superava quella della Cina. In Italia invece la recessione è rimasta tale, ma si fatica a crederlo quando si guarda ai dati delle ultime trimestrali. La maggioranza delle imprese ha aumentato l’utile netto o almeno il margine lordo, quello prima di contare gli ammortamenti e pagare le tasse. Lo hanno fatto in tutti i settori e con tutte le vocazioni, sia all’export che al debolissimo mercato nazionale, sia con azionisti privati che pubblici.

Le imprese del made in Italy sono riuscite a guadagnare qualcosa di più nelle costruzioni, nei servizi urbani in rete, nella moda e nel lusso, nella meccanica, nell’auto, nell’elettronica. Quest’anno un gruppo pubblico controverso come Finmeccanica aumenterà il margine lordo e la protagonista di una privatizzazione (quasi) mancata come Fincantieri accrescerà l’utile netto. Sta guadagnando di più Acea, malgrado le invadenze della politica, e ci stanno riuscendo gruppi ad azionariato tutto privato come Trevi (elettronica di consumo), Brembo (freni per auto), Cementir, Ferragamo o, per i margini lordi, Autogrill. La lista potrebbe continuare. I manager della corporate Italy sanno come difendere gli azionisti e in questo non ci sarebbe niente di male, anzi: il profitto è il dovere di qualunque impresa che voglia andare avanti. Eppure quando si guarda al futuro viene qualche dubbio sulla qualità di quegli utili. Il made in Italy di Piazza Affari, così come quello che non osa affrontare i listini, sembra sempre più allergico agli investimenti.

Oggi un gruppo che aspira ad avere un posto nella competizione internazionale deve impiegare almeno il 6% dei suoi ricavi in ricerca, nuove tecnologie, presìdi nei mercati in crescita. In Italia non si vede niente del genere. A un sondaggio condotto da General Electric all’inizio di quest’anno i capitani d’impresa italiani dicevano che per il 2014 programmavano di ridurre gli investimenti di un quarto (sono stati di parola), mentre in Francia, Gran Bretagna o Spagna aumentavano. Ci sono molte importanti eccezioni nel panorama del made in Italy. Ma la stessa Ge stima all’Italia spetti il record delle «opportunità perdute», per decine di miliardi l’anno, a causa di impianti vecchi e inefficienti. Le tasse, la burocrazia, la giustizia lenta saranno sì degli ostacoli. Ma nessuno è più urgente da superare come quello di un certo capitalismo senza un’idea in testa, se non quella di acciuffare in qualche modo il prossimo dividendo.

Le “bacchettate” a Renzi che spiegano la recessione italiana

Le “bacchettate” a Renzi che spiegano la recessione italiana

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Non prendiamoci in giro. Ce lo dice a tutto tondo Joel Slemrod, uno dei maggiori economisti americani (Università del Michigan) che ha scritto un libro sui paesi e i governi che “si prendono in giro da soli”. Non piace a nessuno essere l’ultimo della classe, nonostante dagli antipodi e in abbigliamento extra-sportivo, il Presidente del Consiglio dica sorridendo “ce lo aspettavamo”.

Le stime flash dell’Istat, che verosimilmente verranno corroborate quando martedì 18 novembre verranno pubblicate le analisi dettagliate, affermano, in estrema sintesi, che in un’Europa che sta pur faticosamente uscendo dalla recessione Italia e Cipro sono gli unici paesi ad avere registrato nel terzo trimestre 2014 un andamento recessivo. Il calo è stato “soltanto” dello 0,1% – dello 0,4% tendenziale sul 2013. In effetti, siamo tornati al Pil del 2000, dopo 13 trimestri di recessione consecutiva.

Lo dimostra, a chi se lo aspettava, lo “spread” sociale che sta infiammando le periferie e che per molti aspetti è molto più insidioso di quello finanziario nell’estate-autunno 2011 perché non si cura con un cambio di Governo e lascia ferite durature nel corpo della società. Futile dire: noi siamo arrivati da nove mesi e presto le nostre cure avranno i loro effetti. Ci vorrebbe un umile esame di coscienza su seguenti punti.

Primo: avere dato la priorità a riforme istituzionali (che rallentano sempre il ciclo economico), invece di rispondere al vero e proprio grido di dolore da tutti i settori dell’economia dalle grandi imprese in difficoltà alle piccole spesso in chiusura senza neanche il tempo per l’olio santo, dai giovani alla ricerca di un impiego, dai cinquantenni che perdevano il lavoro, dalle famiglie che non riuscivano a soddisfare le esigenze essenziali.

Secondo: essersi illusi che una flessibilità europea sarebbe stata, se concessa, la chiave di soluzione. Paul Samuelson – di cui spero a Palazzo Chigi si conosca almeno il nome e il Nobel – nella premessa del suo libro più venduto, 30 milioni di copie (Economics: an introductory analysis) pone una battuta del Julius Caesar di Shakespeare: Il futuro non è nelle nostre stelle ma in noi stessi. Tanto più che mentre limitavamo all’investimento le nostre richieste di flessibilità, giungevano a Bruxelles dati scoraggianti che ci auguriamo siano noti anche a Palazzo Chigi. Da un lato, in sette anni di recessione, le imprese (grandi e piccole) hanno tentato di sopravvivere e non hanno, quindi, fatto piani di ammodernamento o di espansione, come dimostrato dall’asta Tltro della Banca centrale europea. Da un altro, le pubbliche amministrazioni (grandi e piccole) non hanno una platea di progetti infrastrutturali: l’apposito fondo per la progettazione del ministero dell’Economia e delle Finanze non ha “clienti” da anni.

Terzo: avere millantato sgravi fiscali (quelli sull’Irap per i nuovi assunti sono in gran misura illusori) mentre la pressione tributaria e contributiva aumentava (anche ragione degli incrementi a imposte indirette, accise e tributi locali). In aggiunta, come ci è stato ricordato al G-20, ci siamo dotati di uno dei sistemi tributari più complicati al mondo, con la gioia di elusori ed evasori (da maglie complesse è più facile scappare che da meccanismi semplici e trasparenti), affidando la tassazione sull’edilizia residenziale a coloro che avevano escogitato quella Dit (Dual Income Tax) di funesta e funerea memoria. Con i risultati sotto gli occhi di tutti.

Quarto: avere aggravato il futuro dei giovani con una tassazione dei fondi pensione e degli accantonamenti previdenziali (quali il Trattamento di fine rapporto) che non ha eguali in nessun Paese al mondo (altra notazione fatta a Brisbane, non da canguri, ma da esperti tributari).

Quinto: avere bloccato i programmi di privatizzazione (che, secondo l’Osservatorio internazionale Cardinal Van Thuân sulla Dottrina Sociale della Chiesa, dovrebbe iniziare da quella della Rai) e di liberalizzazioni iniziati dai Governi precedenti.

Che augurarsi? Che Matteo Renzi abbia avuto il tempo e il modo di andare a un servizio religioso alla Cattedrale di Saint Stephen a Brisbane e chiesto consiglio a uno dei Padri in servizio in una delle Chiese e dei centri culturali più importanti del Bacino del Pacifico.

Bene la stretta fiscale, ma occhio al pressing delle multinazionali

Bene la stretta fiscale, ma occhio al pressing delle multinazionali

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Saremo sempre a giocare a “gatto e topo”, ossia a rincorrere chi ricorre continuamente a nuove astuzie – ci dice Pascal Saint-Amas che dirige il centro per la Politica e l’amministrazione tributaria dell’Ocse –  tuttavia oggi esistono autostrade non viottoli per evitare di pagare tasse e imposte. Il sistema tributario internazionale è obsoleto. Con questa intesa cominciamo a porre le basi per modernizzarlo». Un giudizio, quindi, equilibrato da chi da anni lavora per una migliore trasparenza in materia tributaria e per evitare scappatoie molto facili (come il transfer pricing, ossia la creazione di filiali, oppure di case madri più o meno fittizie, in Paesi a bassa tassazione).

L’accordo, raggiunto poco più di un mese fa in seno all’Ocse e ora sostenuto dal G20, prevede essenzialmente scambi di informazione e una più stretta collaborazione tra le autorità tributarie a tutti i livelli (da quello della formulazione delle politiche a quello della loro applicazione). È un passo importante perché per lustri si è tentato di giungere ad una formulazione che accontentasse i maggiori Stati della comunità internazionale. Lo stesso Segretario Generale dell’Ocse, Angel Gurrìa, afferma che «siamo solo a metà del cammino », anche perché, come documentato da una recente inchiesta sul New York Times, tutte la maggiori multinazionali (iniziando da quelle dell’economia digitale, come Google, Facebook, Astrazeneca) e le principali banche e assicurazioni hanno accentuato la campagna di pressioni sui governi e sui Parlamenti (che hanno il compito di tradurre l’accordo in leggi e regolamenti nazionali) per introdurre “misure di flessibilità”, ove non proprio per spalancare le finestre e consentire di continuare ad operare con le abitudini che hanno fatto la loro fortuna (riducendo il peso tributario sui loro conti).

«Non vedremo cambiamenti radicali nell’immediato», afferma Judith Freedman che dirige il centro di tassazione sulle imprese dell’Università di Oxford, aggiungendo che «senza questo passo non si sarebbe neanche potuto pensare a un percorso verso una maggiore equità e trasparenza tributaria internazionale». I governi che, in questi ultimi anni, si sono succeduti alla guida dell’Italia, sono sempre stati tra i sostenitori più coerenti dell’accordo. Tuttavia, uno dei maggiori specialisti in materia, Joel Slemrod, sorride nel dire che «si sono presi spesso in giro di soli» poiché i suoi studi sull’economia dell’evasione concludono che quanto più un sistema tributario è complicato e sempre in cambiamento tanto più è facile eludere ed evadere.

Idea folle per l’economia italiana

Idea folle per l’economia italiana

Jim O’Neill – Il Sole 24 Ore

Ho trascorso buona parte dei miei 35 anni di analista economico e finanziario a lambiccarmi il cervello sull’Italia. Studiarne l’economia è stato il primo incarico del mio lavoro. In verità, l’Italia è stato il primo Paese straniero nel quale mi sia recato. Adesso sono tornato da una vacanza in Puglia e Basilicata. Nei decenni, la domanda che mi si è affacciata spontanea è rimasta pressoché invariata: come è possibile che un Paese così meraviglioso abbia così tante difficoltà ad avere successo?

Per tutto questo tempo, l’Italia ha messo in campo un governo debole contro un settore privato straordinariamente adattabile e una competenza speciale nella produzione manifatturiera su piccola scala. Essendo per natura ottimista, in generale ho creduto che questi punti di forza prima o poi potessero avere la meglio e l’Italia potesse prosperare. Prima dell’unione economica e monetaria europea, però, l’Italia aveva un tipo di flessibilità di cui ora è priva: una moneta che poteva svalutare in caso di necessità. Quelle periodiche iniezioni di maggiore competitività furono di aiuto alla Fiat e agli altri grandi esportatori, ma anche alle aziende più piccole.

Il resto d’Europa nutriva sentimenti contrastanti in relazione a questa celerità nel recuperare competitività con la svalutazione, ovviamente a loro spese. Quando si iniziò a parlare di istituire tassi fissi di cambio in Europa e ad avviarsi verso una valuta unica, tra gli altri partner – soprattutto Germania e Francia – le opinioni furono discordanti in merito a cosa sarebbe stato più nel loro interesse. Molti conservatori tedeschi, compresi alcuni alla Bundesbank, diffidarono dell’impegno italiano nei confronti di una bassa inflazione, che loro avrebbero voluto incoronare obiettivo monetario più importante d’Europa.

Lasciare l’Italia fuori dall’euro avrebbe significato rendere attaccabile la loro stessa competitività dalle occasionali svalutazioni della lira. Alla fine, fu presa la decisione di ammettere l’Italia. Le regolamentazioni fiscali adottate in quella medesima circostanza – compresa la promessa di mantenere il deficit di bilancio sotto il 3% del Pil – possono essere considerate come un tentativo per costringere l’Italia a comportarsi come si deve. Più volte mi sono chiesto se per caso da alcuni non fossero considerate un mezzo per rendere impossibile all’Italia entrare a far parte dell’euro.

In ogni caso, l’Italia si è trovata doppiamente vincolata, senza una valuta da regolare a suo piacimento e con uno spazio di manovra fiscale fortemente limitato. I risultati non sono stati positivi. Paradossalmente, tra il 2007 e il 2014 l’Italia ha ottenuto risultati migliori della maggior parte degli altri Paesi nel tenere sotto controllo il proprio deficit ciclicamente corretto. Nonostante ciò, però, il suo rapporto di indebitamento rispetto al Pil è aumentato tantissimo. La causa è da ricercarsi nella costante mancanza di crescita nel Pil nominale, a sua volta dovuta almeno in parte a una moneta sopravvalutata e a rigide restrizioni di bilancio.

L’Italia è la terza economia più grande della zona euro e il terzo Paese per numero di abitanti. Tenuto conto di ciò, dell’entità del suo indebitamento e di ogni altra cosa di cui siamo venuti a conoscenza sulle priorità dell’Europa durante la fase di creazione dell’euro e da allora in poi, ho sempre creduto che, in definitiva, la Germania avrebbe fatto quanto era necessario per difendere l’Italia da quel tipo di dissesto finanziario che ha travolto la Grecia nel 2010. Ormai, però, sto cominciando ad avere i miei dubbi.

Per impedire che il suo indebitamento si aggravi ancora di più, l’Italia ha bisogno di una crescita nel Pil nominale. Certo, ha bisogno anche di riformare la propria economia, di aumentare la produttività, di dare un forte impulso alla forza lavoro affinché questa si impegni in maniera duratura. Ma finché resterà membro del sistema euro, non avrà l’aiuto derivante da una svalutazione valutaria programmata. Ciò significa che ha bisogno dell’aiuto della Germania, e non soltanto per mezzo di una maggiore flessibilità fiscale, che è essenziale, ma anche tramite un aumento dell’inflazione nell’area euro per tornare all’obiettivo della Banca centrale europea di una soglia «inferiore, ma vicina, al 2 per cento». Sarà quasi impossibile per l’area euro riuscirci, a meno che la Germania non riveda lei stessa al rialzo l’inflazione per i prezzi al consumo, portandoli a quel tasso o più in alto.

Mentre attraversavo l’Italia, in questa mia recente vacanza, ho immaginato un tipo diverso di rigidità tedesca. Che accadrebbe se si applicasse il criterio della «tolleranza zero» nei confronti di un’inflazione che cada sotto l’obbiettivo voluto? Forse, i cittadini tedeschi dovrebbero pagare una tassa extra per ogni anno che il loro Paese fa registrare un’inflazione «inferiore, ma non vicina, al 2 per cento», con una sanzione amministrativa crescente in rapporto alla differenza? I soldi così raccolti potrebbero essere distribuiti ai Paesi che hanno un deficit fiscale ciclicamente corretto inferiore al 3 per cento e inferiore rispetto al trend della crescita del Pil. Anzi, a ben pensarci, l’Italia non potrebbe obbligare i turisti tedeschi a pagare una tassa?

Lo so. Sarebbe folle. Ma sarebbe veramente molto più folle rispetto al fatto di continuare a insistere sull’arbitraria regola del vincolo tra economia e deficit, senza revisioni per il ciclo economico, o al fatto di lasciar cadere la domanda così in basso che l’Europa non riesce a raggiungere il suo obbiettivo di inflazione mancandolo di molto, e in modo tale da condannare l’Italia e altri paesi a una recessione senza fine? Direi che, quanto a follie, stanno quasi alla pari.

«Troppi oneri»: il Tfr in busta non convince

«Troppi oneri»: il Tfr in busta non convince

Luigi Grassia – La Stampa

Continuano ad arrivare stime sulla propensione dei lavoratori italiani a incassare subito il Tfr maturato nel 2015 anziché aspettare la fine del rapporto d’impiego, nonostante lo svantaggio fiscale per chi sceglie la prima soluzione. Un’indagine della Confcommercio e della società Format Research rivela che i dipendenti che vogliono prendere i soldi al più presto sono una quota abbastanza piccola, solo il 18,1%. Peraltro questo già basta a preoccupare le aziende sul piano finanziario. Il campione riguarda i dipendenti delle imprese fino a 49 addetti; sono quelle per cui la scelta farà la differenza, infatti fino a ora trattenevano tutte le somme accantonate per il Trattamento di fine rapporto e le usavano come liquidità propria – mentre le aziende da 50 dipendenti in su versano i fondi all’Inps, quindi per loro niente cambia con una diversa destinazione del Tfr.

L’indagine si occupa in via preliminare di un problema di informazione e rivela che il 91,9% dei lavoratori dipendenti sa della possibilità di ricevere in busta paga il Tfr che maturerà nel 2015. Quanto alle intenzioni, il 18,1% dice di voler approfittare di questa opportunità, il 18% è indeciso e ben il 63,9% dei lavoratori dice di non volerlo assolutamente fare. Ma queste sono cifre medie, che vanno scomposte. L’intenzione di anticipare l’incasso del Tfr è più forte della media fra i lavoratori di sesso maschile, fra i giovani fino a 34 anni, fra i dipendenti delle imprese del Nord-Ovest, fra i «single», fra coloro che vivono ancora con la famiglia di origine, e fra chi è operaio o comunque svolge mansioni a carattere esecutivo. Come saranno usate le somme che i lavoratori incasseranno in anticipo? Il 60% di chi vuole subito il Tfr lo utilizzerà per maggiori consumi o per spese di cui ha necessità urgente, mentre l’altro 40% dice che ritirerà il denaro extra per risparmiarlo. Se ne deduce che un certo effetto di espansione dei consumi, come spera il governo, dovrebbe esserci. Naturalmente lo scotto è che peggioreranno le prospettive previdenziali.

Le imprese italiane con un numero di addetti fino a 49 sono circa un milione e mezzo. Una parte di queste nel 2015 dovrà versare un extra a una parte dei dipendenti e questo peggiorerà la condizione finanziaria media delle aziende, che sono già provate da anni di crisi economica e da una domanda interna ferma. Difficile valutare l’impatto positivo dei maggiori consumi, ma è certo che l’eventuale beneficio andrà a tutte le imprese, anche a quelle sopra i 50 addetti, mentre l’aggravio finanziario sarà solo per le più piccole. Dall’indagine risulta che a trovarsi più in difficoltà per le nuove regole sul Tfr saranno le aziende con un numero di dipendenti compreso fra 20 e 49, quelle che operano nel ramo industriale (anziché nel terziario) e quelle collocare nelle regioni del Nord Ovest e del Nord Est. Fra le imprese dell’industria (cioè manifattura e costruzioni) il 34,3% (circa 170 mila) subirà richieste di anticipo del Tfr in busta paga da parte di alcuni dipendenti. La quota sarà invece più bassa, attorno al 10%, fra le aziende del terziario (cioe commercio, turismo e servizi) e questo corrisponderà ad altre 110 mila imprese coinvolte, in totale 280 mila.

Un milione di abusivi, così il fisco perde 12 miliardi l’anno

Un milione di abusivi, così il fisco perde 12 miliardi l’anno

Paolo Baroni – La Stampa

Ci sono parrucchieri ed estetiste, spesso ex dipendenti licenziati, che continuano ad esercitare a casa loro o direttamente a casa dei clienti, tassisti completamente abusivi o che magari «sforano» in comuni limitrofi a quelli per cui hanno la licenza, idraulici ed elettricisti che tirano giù la serranda ma che poi continuano come se nulla fosse a prestare i loro servizi, e ancora trasportatori per conto terzi senza la necessaria abilitazione. Per non dire poi di imbianchini e muratori. C’è gente che fa il doppio lavoro e ci sono anche tanti cassintegrati che in questo modo cercano di arrotondare. Complice la crisi l’esercito degli abusivi cresce anno dopo anno. Oggi sono un milione, o quasi, calcola l’ufficio studi di Confartigianato. O meglio sono 881mila, ma visto in media lavorano molte più ore dei regolari «valgono» come 1 milione e 34mila persone, o «unità di lavoro equivalenti a tempo pieno» (ula) per usare il termine dei tecnici. Il tasso di irregolarità, tra i lavoratori autonomi, tocca così il 13,8%. Ovvero, un occupato su 7 è in nero. Se poi si allarga lo sguardo al totale dell’economia il conto degli irregolari, calcolando anche i 2.204.000 lavoratori dipendenti a loro volta «in nero», sale a quota 3 milioni e 85 mila, con un tasso complessivo di irregolarità del 12,4%.

Concorrenza sleale
Questo esercito di abusivi non solo «fa concorrenza sleale alle imprese regolari – è scritto nel rapporto di Confartigianato, che ha elaborato i dati contenuti nei conti nazionali pubblicati dall’Istat a settembre, e che La Stampa pubblica in esclusiva – ma determina una rilevante evasione fiscale». Usando come reddito la media rilevata dagli studi di settore, Confartigianato stima che la presenza di una fetta così ampia di lavoro irregolare determini un’evasione fiscale e contributiva da parte dei soli lavoratori autonomi pari a 11,78 miliardi: 3,8 miliardi di Iva, 2,8 di Irpef, 604 milioni di Irap e 4,54 miliardi di contributi sociali. Tanto per fare un paragone: l’importo evaso dagli abusivi, in media 14.209 euro a testa all’anno, rappresenta lo 0,7 del Pil ed equivale alla spesa sanitaria di Veneto e Marche messe insieme.

Chi è più esposto
Ovviamente le imprese artigiane regolari sono tra le più esposte alla concorrenza sleale del sommerso: circa i due terzi del settore (923.559 imprese, 1.750.427 di addetti) sono a rischio. In cima alla lista “altri servizi alla persona” con un tasso di esposizione del 24,5%, servizi di alloggio e ristorazione (22,1%) e le attività di trasporto e magazzinaggio (19,5%) che in tutto assommano 333.748 imprese e 650.743 addetti. Particolarmente esposti anche parrucchieri ed estetiste, settore che conta 126.790 imprese e 229.300 addetti. In valori assoluti tra le regioni più «colpite» ci sono Lombardia (con 172.688 imprese, pari 18,7% del totale dell’artigianato più esposto), Emilia-Romagna (10,2), Veneto (9,6) e Piemonte (9,5). Commenta il presidente nazionale di Confartigianato, Giorgio Merletti: «Smettiamo di tollerare l’abusivismo e le attività irregolari come se fossero un male necessario. Il fenomeno del sommerso è un’emergenza nazionale, una grave minaccia per il Paese e per il sistema produttivo, soprattutto per artigiani e piccole imprese. Noi piccoli imprenditori siamo le prime vittime della concorrenza sleale di chi opera senza rispettare le leggi, sottraendo gettito alle casse dello Stato e minacciando la sicurezza dei consumatori».

Il record in Campania
In termini assoluti la metà degli occupati irregolari totali si concentra in cinque regioni: l’11,6% in Campania con 357.400 unità, il 10,7% in Sicilia (329.400), il 10,1% in Lombardia (312.600), il 9,4% in Lazio (290.900) e l’8,2% in Puglia con 253.400 unità. In Calabria un terzo (35,3%) degli occupati è irregolare, in Molise, Sardegna, Basilicata e Sicilia viaggiano sul 25%, Campania e Puglia sono attorno al 20. Il tasso di irregolarità più basso è pari al 5,9% e si rileva nella Valle d’Aosta. Un terzo (34,2%) degli occupati irregolari, pari ad oltre un milione (1.054.600 unità), si concentra nelle sette prime province: Roma (222.500 unità), Napoli (200.900), Milano (157.300), Torino (126.700), Bari (106.500), Palermo (87.900), Cosenza (78.500) e Salerno (74.300). Ma a livello provinciale i picchi si toccano a Crotone con il 40,1%, a Vibo Valentia (39,3%) e Catanzaro (37,8%).

Come rimediare a tutto ciò? «Non servono interventi spot e dichiarazioni di buone intenzioni – spiega Merletti -. Il fenomeno del sommerso va combattuto senza ipocrisie e in modo strutturale, intervenendo sulle cause che lo favoriscono, vale a dire tutto ciò che ostacola l’attività delle imprese che lavorano alla luce del sole, a cominciare dal carico fiscale e contributivo troppo elevato e dall’eccesso di burocrazia».

 

Finiamola con l’alibi dell’Europa

Finiamola con l’alibi dell’Europa

Luca Ricolfi – La Stampa

Uno degli episodi che più mi aveva colpito, nella campagna elettorale per le elezioni del 2013, era stata una trasmissione di «Porta a Porta» nella quale Renato Brunetta e Stefano Fassina, ossia due esponenti di parti politiche opposte (Forza Italia e Pd), si erano trovati perfettamente d’accordo su un punto: l’allentamento dei vincoli europei. Il che, tradotto in soldoni, significava e significa: lasciateci fare più deficit, se no l’economia non riparte. Ora constato, tutti i santi giorni, che la stessa idea, ovvero che il patto di stabilità sia «stupido», è condivisa quasi universalmente: lo dice Renzi, lo ripetono i politici di governo e opposizione, lo pensano i sindacati, lo scrivono i giornali. E la teoria che sta alle spalle di questo giudizio è sempre quella: se l’economia europea non si è ancora ripresa è per la debolezza della domanda interna, e il rigore sui conti pubblici, nella misura in cui deprime la domanda, non fa che aggravare la malattia. Il che, tradotto in termini politici, significa: se l’economia non riparte la colpa è della Merkel e dei burocrati europei, che con la loro ottusa ostinazione sul rispetto delle regole bloccano la ripresa.

Questa visione del problema italiano (ed europeo) è indubbiamente suggestiva, se non altro perché alcuni pezzi del ragionamento che la sorregge stanno perfettamente in piedi. Difficile negare i sacrifici degli ultimi 7 anni. Difficile pensare che ci possa essere ripresa se non ripartono consumi e investimenti. Difficile non vedere la lentezza, e spesso l’ottusità, della macchina europea (a proposito: si è votato a maggio, e ancora non abbiamo un governo europeo nel pieno dei suoi poteri). Difficile non cogliere il feticismo di certe regole, come quella che si affida a un algoritmo matematico-statistico controverso (quello del calcolo dell’output gap) per stabilire quanti miliardi di deficit può fare un Paese. E tuttavia…

Tuttavia, detto e riconosciuto tutto questo, mi sembra che un simile modo di mettere le cose non faccia completamente i conti né con la logica, né con la realtà. Non fa i conti con la logica, perché il fatto che gli ultimi anni siano stati (peraltro non sempre e non ovunque) anni di rigore non implica che lasciando correre i conti pubblici le cose sarebbero andate meglio. Forse sarebbero andate ancora peggio, perché alcuni Stati sarebbero falliti e le loro economie non avrebbero più avuto accesso al credito. Ma non fa neppure i conti con la realtà, perché l’idea che l’Europa, o la zona euro, siano in stagnazione o addirittura in recessione è una mezza verità. Se prendiamo i tassi di crescita del Pil per abitante nel 2014-2015 (in parte noti, in parte frutto di stime), quel che colpisce non è il basso tasso di crescita europeo ma, semmai, la grandissima eterogeneità dei tassi di crescita dei vari Paesi. Soffermiamoci sulla zona euro, la grande imputata. E’ vero, c’è un Paese in recessione (Cipro), e ce ne sono quattro, fra cui Italia e Francia, che sono in stagnazione (crescita prossima a zero). Ma tutti gli altri, e sono ben 14 su 19, crescono a un tasso medio del 2% (con punte del 4%), un ritmo che non è da economia in crisi, e meno che mai da economia in recessione. E fra i Paesi che crescono di più, ossia fra il 2 e il 4%, ci sono tutti i cosiddetti PIGS tranne noi: Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna.

Se questo dicono i dati, i termini del problema si spostano un pochino. Forse anziché arrabbiarci perché Bruxelles non ci lascia esagerare con il deficit pubblico, faremmo meglio a chiederci come fanno tanti Paesi dell’eurozona a crescere nonostante l’Europa, nonostante l’euro, nonostante l’ottusità dei burocrati. Non voglio azzardare la risposta, che presumibilmente è diversa da Paese a Paese, ma vorrei che almeno si riflettesse: dare la colpa all’Europa è troppo comodo, e sa tanto di alibi. Che l’Europa sia un disastro mi pare una tesi plausibile, ma che al disastro europeo si debba e si possa aggiungere il disastro di governi nazionali incapaci di «cambiare verso» nel loro Paese mi pare un lusso che non ci si può più permettere.

Quanto all’Europa, sono convinto anch’io che abbia un ruolo negativo. E tuttavia oserei, anche qui, avanzare un dubbio. Siamo sicuri che il massimo difetto dell’Europa sia la rigidità nella sorveglianza sui conti pubblici degli Stati nazionali? Io ne suggerirei almeno un altro, secondo me altrettanto se non più dannoso: l’ingerenza selettiva, per non dire masochistica, nelle politiche nazionali. Più precisamente: la tendenza ad essere rigida là dove un atteggiamento più flessibile farebbe meno danni, e ad essere flessibile là dove una maggiore rigidità sarebbe benefica.

Faccio due esempi, giusto per dare un’idea di quel che ho in mente. Prima della crisi l’economia irlandese cresceva più di qualsiasi altra economia avanzata (salvo quella dell’Estonia). La bassa tassazione sulle imprese è stata un fattore fondamentale della crescita irlandese, così come l’ostinazione del governo irlandese nel mantenere bassa tale tassazione anche durante la crisi è stato un fattore cruciale per l’uscita dell’Irlanda dalla crisi (la crescita irlandese è ora fra il 3 e il 4%). Ebbene, le autorità europee, anziché invitare gli altri Paesi a studiare il caso irlandese, hanno spesso esercitato pressioni sull’Irlanda per convincerla ad alzare l’aliquota del 12,5%, in passato per il timore di un mancato ripianamento dei conti pubblici, più recentemente per timore della concorrenza fiscale di un Paese capace di attirare gli investimenti stranieri. Qui una minore ingerenza sarebbe probabilmente benefica.

Ma c’è anche il caso opposto, in cui si rinuncia a un’ingerenza che farebbe bene al Paese che la subisce. Diverse direttive europee, più o meno recenti, impongono agli Stati nazionali cose ragionevolissime: ad esempio di pagare le imprese tempestivamente, di fare leggi comprensibili (senza indecifrabili rimandi a parole, commi ed articoli di altre leggi), di non tenere i detenuti in condizioni disumane, a partire dall’inaccettabile affollamento delle celle. Ebbene l’Italia ha violato sistematicamente tutte queste regole, e continua a farlo serenamente anche ora. Ma qui l’Europa balbetta, e al massimo ci commina qualche multa. Come mai?