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Scontrino fiscale, bonus ai commercianti

Scontrino fiscale, bonus ai commercianti

Antonella Baccaro – Corriere della Sera

Una scatolina grigia, 15 centimetri per 20, collegabile con una connessione Usb al computer e il gioco è fatto. Voi acquistate in contanti o con carta, il commerciante batte il prezzo del prodotto, dalla piccola stampante esce lo scontrino cartaceo. Ma soprattutto, in tempo reale, da quello stesso apparecchio la transazione viene trasmessa per mezzo di un indirizzo e-mail ad un server che la archivia, una sorta di cloud (nuvola, ndr), capace di memorizzare milioni di operazioni. Le prime stampanti di scontrini digitali sono già in commercio, essendo state autorizzate a gennaio scorso. La novità è che il governo, per incentivarne l’uso, potrebbe accollarsene in tutto o in parte il costo, attraverso un meccanismo di detrazione fiscale.

Ma partiamo dal principio, che è la delega fiscale che ha già prodotto un decreto delegato sulla dichiarazione dei redditi precompilata che arriverà a casa di 20 milioni di contribuenti dall’aprile 2015. Ora però il governo ha intenzione di spingersi oltre e integrare quel 730 con un’ulteriore facilitazione: la possibilità di completare la dichiarazione precompilata con alcune spese detraibili. Nasce qui la necessità di introdurre lo scontrino digitale in uno dei prossimi decreti delegati, su cui sta lavorando una squadra di tecnici, coordinata dal viceministro Luigi Casero. In particolare si prevederà che, attraverso l’uso degli scontrini digitali, le spese sostenute per il medico, i farmaci, la palestra dei figli vengano inviate immediatamente al cervellone dell’Agenzia delle Entrate, con il semplice uso della tessera sanitaria, in modo che la dichiarazione che verrà inviata a casa del contribuente, a partire dal 2016, possa già contenere le detrazioni.

Ma cosa ci guadagna la controparte? Minori oneri per la conservazione e la rendicontazione delle scritture contabili: per i più piccoli il governo sta pensando di abolire l’obbligo di tenuta dei registri dei corrispettivi, oltre a concedere una detrazione per l’acquisto delle stampanti digitali. L’operazione però non sarebbe completa se non contemplasse l’attivazione del sistema della fatturazione elettronica anche tra privati (oggi è già in vigore nel rapporto tra lo Stato e i privati). Anche questa è allo studio e dovrebbe essere inserita nel prossimo decreto delegato, insieme con alcuni sistemi di incentivazione per chi adopererà la fatturazione elettronica: minori controlli fiscali, minori obblighi di presentazione di documentazione contabile.

Il quadro si completa con un accordo con il sistema bancario per rendere meno oneroso l’utilizzo di tutti i sistemi di pagamento elettronici, i cosiddetti Pos. L’obiettivo del governo è creare un sistema totalmente tracciabile ma anche sicuro: il server, ad esempio, dovrà soddisfare alcuni requisiti tecnologici di riservatezza. L’operazione è complessa e richiede ancora che alcune autorizzazioni giungano dall’Unione europea ma il governo conta che possa andare completamente a regime entro il 2018. Il risultato dovrebbe essere uno snellimento del sistema fiscale ma anche un forte recupero dell’evasione, in particolare di quella dell’Iva, l’imposta più evasa nel nostro Paese. In attesa che siano pronte le autorizzazioni e le infrastrutture informatiche, il recupero dell’evasione dell’Iva è stato temporaneamente affidato al sistema del reverse charge (inversione contabile,ndr) dal venditore all’acquirente (escluso quello finale).

La crisi non è finita, va cambiato il passo

La crisi non è finita, va cambiato il passo

Enrico Cisnetto – Il Messaggero

Stiamo per archiviare il 2014 come il settimo anno di crisi. Se, come sembra, la ca- duta del pil sarà a consuntivo di quattro decimi di punto, dal 2008 – con 19 trimestri su 28 di pil in rosso – avremo perso 10,1 punti di ricchezza nazionale, circa 160 miliardi. Se poi si considera il pil potenziale (che misura non quanto si cresce ma quanto si potrebbe crescere in base alle proprie potenzialità) rispetto alle dinamiche pre-crisi è più basso del 12,6%. Un disa- stro che, Grecia a parte, non è toccato a nessun’altro paese. Pensate che si tratta del periodo più lungo di crisi economica che l’Italia abbia mai avuto, considerato che persino durante la seconda guerra mondiale il periodo di contrazione del pil è durato 4 anni (certo, la perdita di ricchezza è stata 4 volte tanto, ma vorrei vedere…) e altrettanti anni ci sono voluti per tornare ai valori antecedenti al crollo.

Ora si calcola che dovremo arrivare al 2026 per recuperare la ricchezza perduta. E speriamo che siano previsioni giuste, visto che, per esempio, l’anno scorso di questi tempi il Fondo Monetario prevedeva per il 2014 una crescita dello 0,6% (l’errore è di un punto, visto che perdiamo lo 0,4%, e non è poco) e per il 2015 un rincuorante +1,1%, mentre a ottobre ha corretto a +0,8% la stima per l’anno prossimo. Peccato che la più recente valutazione sia quella dell’Ocse che non ci concede niente di più che due decimi di punto di crescita, quattro in meno di quel +0,6% su cui si reggono i conti del governo.

Siamo di fronte ad un cambiamento epocale, che ci costringerà a vivere in modo diverso da quanto è stato fin qui. Non dico peggio, dico diverso. Non potremo trovare più i livelli di consumo di prima – ben al di sopra delle nostre possibilità, come certifica il livello del debito pubblico – gli stili di vita, le dinamiche sociali, i sistemi di welfare, i comportamenti e le abitudini personali e collettive dovranno per forza cambiare. Ci piaccia o meno, sarà così. Con una differenza fondamentale, però, a seconda del nostro grado consapevolezza. Cioè, se capiremo ciò che è avvenuto, sta avvenendo e avverrà e ci organizzeremo per rimodularci di conseguenza – perdendo ogni velleità di voler difendere ciò che non c’è già più o che comunque non potrà più esserci – allora sarà dura lo stesso ma il passaggio risulterà molto, molto meno doloroso. Anche perché spazi per reinventarci ci sono, volendo. Se, al contrario, faticheremo a renderci conto o, peggio, punteremo i piedi per tentare di fermare il corso delle cose, allora il prezzo da pagare sarà davvero alto. Finora, purtroppo, abbiamo battuto la seconda strada. Per colpa di una classe dirigente (non solo politica) che invece di dire la verità al Paese – per ignavia, ma anche per vasta ignoranza – ha raccontato frottole. Ora basta.

Tutelati a ogni costo

Tutelati a ogni costo

Raffaele Marmo – La Nazione

La Pubblica amministrazione italiana è, per essere ancora ottimisti, semi-fallita, ma il sindacato, tutto o quasi, fa finta di non saperlo. E come negli anni Settanta, prima della svolta di Luciano Lama, considera ancora il salario e quelle che un tempo si chiamavano condizioni di lavoro una «variabile indipendente». In questi terribili anni di recessione migliaia di imprese hanno chiuso o sono state costrette a contrarsi, centinaia di migliaia di lavoratori privati hanno perso il lavoro. In giro per l’Europa non solo nella Grecia della troika, ma anche in Spagna, Inghilterra e Irlanda, i dipendenti pubblici in esubero sono stati licenziati o hanno visto decurtate drasticamente le retribuzioni. Questo è il contesto, non un altro.

Ebbene, in questo contesto i dipendenti pubblici italiani sono stati al riparo da tutto, protetti e garantiti magicamente dentro una bolla o, meglio, comodamente accovacciati all’interno dell’ultima ridotta di socialismo sovietico. Nessun licenziamento (ma neanche la vaga minaccia), niente cassa integrazione, nessuna mobilità, che è un concetto astratto mai attuato, buono solo per inutili polemiche. Di tagli di stipendio, manco a parlarne. A meno di non voler considerare taglio il blocco degli aumenti retributivi dovuto a congelamento della contrattazione: un’operazione minimale a impatto pressoché nullo in presenza di un’inflazione prossima allo zero e addirittura in deflazione.

Ma non basta. Perché alla protezione totale dei dipendenti ha fatto da pendant un incremento esponenziale dell’inefficienza complessiva della Pa. Tanto che si può ben rilevare come la Pubblica amministrazione sia stata e rimanga uno dei principali fattori di accelerazione del declino o, per converso, di freno alla crescita. Basti pensare che dappertutto il tempo e le procedure sono considerati costi, necessari a volte, ma comunque costi. E, dunque, da comprimere all’indispensabile. Solo negli uffici pubblici italiani tempo e procedure si sono dilatati a dismisura in questi anni. E allora appare quanto mai urgente per il sindacato tornare, a proposito del pubblico impiego, alla lezione di Lama del ’78 sul salario «variabile indipendente»: «Ebbene dobbiamo essere intellettualmente onesti: è stata una sciocchezza, perché in un’economia aperta le variabili sono tutte dipendenti una dall’altra».

Fisco in concorrenza

Fisco in concorrenza

Davide Giacalone – Libero

All’interno dell’Unione europea il fisco è oggetto di concorrenza. Poteva andare bene fino alla fine del secolo scorso, meno avendo in tasca una moneta comune. Il bello della concorrenza è che da qualche parte si paga meno. La concorrenza diventa nociva quando è sleale. Ed è questo che deve essere rimproverato al Lussemburgo, e per esso a chi lo ha lungamente governato e che ora è capo della Commissione europea: Jean Claude Juncker.

Vantaggi fiscali comparati si trovano in molti paesi europei. Mi dispiace che non se ne trovino in Italia. Ne avevamo uno piccolino, relativo al risparmio, e lo abbiamo cancellato. Se vogliamo chiamarli “paradisi fiscali” facciamolo pure, ma ricordiamoci che ce ne sono elementi non solo in Lussemburgo, ma anche in Olanda, Irlanda, Portogallo, Regno Unito, Austria, Malta, Cipro. E non è un elenco completo. Si è indotti a credere che i vantaggi fiscali esistano solo per i ricchi e per le società grosse, ma non è così: il Portogallo offre un vantaggio fiscale (tasse zero) ai pensionati non portoghesi che vanno a vivere colà; nel Regno Unito i fondi accumulati per la pensione, fino ad un tetto, sono totalmente esentasse; in Austria le agevolazioni valgono anche per le piccole aziende che vi traslocano; nelle istituzioni finanziarie che amministrano i vostri fondi pensioni e i vostri risparmi è garantito che ci siano società lussemburghesi, delle quali indirettamente profittate. E così via. Sul lato “ricchi” la Francia non fece a tempo a introdurre una demenziale tassa che già un folto drappello prese residenza in Belgio. Tutti questi paesi sono membri dell’Ue e, naturalmente, concorrono a determinare e popolare le istituzioni dell’Unione. Commissione compresa.

Si devono tenere fermi due concetti: a. lo spazio comune, con libera circolazione di persone, beni e soldi (con prevalenza di valuta unica), comporta una armonizzazione fiscale; b. questo non deve avvenire allineandosi ai peggiori, il paradiso è preferibile all’inferno. Tutto bene, quindi, in capo al Lussemburgo ed a Juncker? No, ma non perché debbano uniformarsi all’inferno, bensì perché lo creano, sotto forma di caos e opacità.

Vediamo perché, senza introdurre complicazioni tecniche. I punti delicati sono due, posto che sui redditi delle persone fisiche si pagano tasse alte (ma è bassa l’Iva): il fatturato interno a un gruppo e gli accordi fiscali preventivi. Immaginiamo un gruppo (ce ne sono centinaia) che ha società italiane e lussemburghesi, siccome in quel Paese si pagano tasse minime, o nulle, sui profitti, scelgono di tenere tutti i costi sui conti italiani e tutti gli utili su quelli lussemburghesi. È una truffa, se riesci a dimostrarlo. Sarebbe folle criminalizzare quelli che hanno società lussemburghesi, ma non è facile dimostrare la falsa fatturazione infragruppo. Specie se le autorità del Granducato non collaborano. E quelle non collaborano perché approfittano di un gettito fiscale altrimenti, per loro, inesistente. Tanto che offrono la possibilità di trattare in anticipo condizioni personalizzate: l’interessato si reca, accompagnato da un buon professionista, presso l’ufficio preposto, espone il tipo di società che vuole trasferire e quanto pensa di volere pagare, quelli considerano e negoziano, raggiungendo un accordo di “tax ruling”. Poi collaborano certo nel metterlo in difficoltà. E questa è concorrenza sleale. Tanto che la Commissione europea ha contestato proprio i vantaggi selettivi, ovvero le regole non scritte ma pattuite, non per tutti ma per alcuni. E chi c’è oggi, a capo della Commissione? Un signore, Juncker, che quel sistema ha lungamente accudito, se proprio non creato.

In tutti i paesi dell’Ue ci sono interessati a lasciare le cose come stanno. In tutti ci sono società che, ove cacciate dal Lussemburgo, non tornerebbero in patria, ma si cercherebbero casa in altri paradisi fiscali. Ciò, però, non può consentire un trucco per ottenere il Paese con il più alto reddito pro capite e il più basso debito pubblico. È difficile non che guidi gli altri, ma che anche solo ci conviva. Questo è il gigantesco problema. Preesisteva alla presidenza Juncker e non è limitato al solo Lussemburgo. Qui lo scriviamo da anni, sia con riferimento a quel Paese (si pensi alla scalata di Telecom Italia) che ad altri (avvertimmo all’epoca del default delle banche cipriote). È divenuto lampante. Bene, ma sempre a patto che si vada verso la diffusione del paradiso, non verso la socializzazione dell’inferno.

Abolizione dello scontrino, ennesimo annuncio di un fisco che complica invece di semplificare

Abolizione dello scontrino, ennesimo annuncio di un fisco che complica invece di semplificare

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

La direttrice dell’agenzia delle Entrate Rossella Orlandi ha annunciato che presto sarà abolito lo scontrino fiscale. I commercianti esulteranno. Le imprese che producono le macchinette per emettere gli scontrini, un po’ meno. I professionisti delle note spese, sulle prime, saranno sconcertati. E molti cittadini che pagano le tasse fino all’ultimo centesimo resteranno invece rabbiosamente interdetti, sospettando che si voglia far sparire l’unico strumento che costringe artigiani e negozianti a compiere il proprio dovere con il Fisco. Niente di tutto questo, ovvio: ci assicurano che è soltanto semplificazione. Dalla carta alla tracciabilità elettronica. Il premier Matteo Renzi non aveva forse promesso di portare l’Italia fuori dal medioevo digitale?

Benissimo, allora.Se non fosse che quando il Fisco parla di cambiare le regole, o peggio ancora accenna a qualche semplificazione, vengono i brividi. Non c’è ministro delle Finanze che da quarant’anni a questa parte non abbia annunciato una riforma fiscale. Con il solo risultato di accrescere gli adempimenti, aumentare la burocrazia e far salire dunque i costi per le imprese e i cittadini e per lo Stato. Quante volte sono cambiate le regole fiscali non lo sa nemmeno chi si accanisce a inondarci di norme e circolari. Corre quindi l’obbligo di ricordare i numeri contenuti in uno studio della Confartigianato, secondo cui nei 2292 giorni intercorsi fra il 29 aprile 2008 e l’8 agosto 2014, periodo durante il quale anche il nome dell’attuale direttrice delle Entrate compariva negli organigrammi dei vertici degli apparati fiscali, sono stati emanati 46 provvedimenti contenenti 691 norme di natura tributaria. Della quali ben 418 hanno complicato la vita a cittadini e aziende, contro le 96 che l’hanno semplificata e le 177 che non hanno avuto particolari effetti burocratici. Negli ultimi sei anni e mezzo il Fisco ha sfornato una complicazione alla settimana: lo sa Rossella Orlandi?

Debiti con le imprese, pagati 32,5 miliardi. «Il grosso degli arretrati è degli Enti Locali»

Debiti con le imprese, pagati 32,5 miliardi. «Il grosso degli arretrati è degli Enti Locali»

Francesco Di Frischia – Corriere della Sera

Per saldare ivecchi debiti della pubblica amministrazione il governo ha già erogato 40,1 miliardi tra ministeri, organi nazionali dello Stato e enti locali. Ai creditori, però, fino al 30 ottobre scorso sono stati effettivamente pagati 32,5 miliardi. Un aggiornamento viene dal ministero dell’Economia, dopo la promessa fatta dal premier Matteo Renzi: in Parlamento e in tv, a «Porta a Porta», il presidente del Consiglio aveva detto che sarebbero stati saldati i debiti arretrati «entro il 21 settembre», giorno del suo onomastico. Pena una passeggiata di 23 chilometri per l’ex sindaco da Firenze al santuario di Monte Senario. A prescindere da come è finita la scommessa con Bruno Vespa (Renzi sostiene di non aver perso), il meccanismo pianificato dall’esecutivo si basava sull’accordo tra governo, banche e Cassa depositi e prestiti (che faceva da garante): un imprenditore doveva solo registrarsi sul sito del ministero dell’Economia e, dopo avere ottenuto la certificazione del proprio credito, poteva andare in una banca o in una finanziaria a riscuotere (il costo dell’operazione di cessione del credito era dell’1,6% e per gli importi inferiori ai 50mila euro saliva all’1,9%). Molti imprenditori, però, si sono visti voltare le spalle da finanziarie e istituti di credito perché l’accordo non prevedeva alcun obbligo.

Comunque «il governo ha provveduto a mettere a disposizione degli enti debitori oltre 56 miliardi per smaltire il debito patologico», precisa il Tesoro. Di questi, quelli effettivamente assegnati agli enti sono 40 miliardi, ma quelli effettivamente erogati non superano appunto i 32,491 miliardi. Le amministrazioni centrali dello Stato sono responsabili di una quota del «debito patologico stimata nel 5-10% – aggiungono dal ministero -.La gran parte del debito è responsabilità di Regioni, Province, Comuni», Asl, enti e società delle autonomie locali. Insomma, dice l’Economia, la responsabilità dei mancati pagamenti è di Regioni ed enti locali.

Ieri il ministro Pier Carlo Padoan era a Bruxelles per la riunione dell’Ecofin, dove ha parlato anche del problema del budget Ue. La commissione ha chiesto finanziamenti aggiuntivi al Regno Unito e all’Italia. «È un argomento difficile, ma oggi (ieri ndr) non c’è stato alcun negoziato sulle quote che i Paesi devono pagare all’Europa. In questa fase è troppo presto per dire che cosa faremo». Secondo le cifre della Commissione, sono circa 340 i milioni che l’Italia deve versare per il ricalcolo di fine anno, 2,1 miliardi il Regno Unito. Per quanto riguarda la legge di Stabilità, Padoan ribadisce che finora «nessun Paese ha ricevuto bocciature». Nel frattempo prosegue il cammino della manovra alla Camera: sono stati presentati 3.707 emendamenti (oltre un migliaio solo dal Pd), compreso quello con il quale l’esecutivo ha modificato il testo dopo le richieste dell’Ue. Martedì è prevista la verifica di ammissibilità ma un numero così alto di emendamenti è molto probabile che spingerà il governo a chiedere la fiducia.

Le donne sono meno pagate anche quando decidono loro

Le donne sono meno pagate anche quando decidono loro

Rita Querzè – Corriere della Sera

Le donne guadagnano meno degli uomini anche quando possono scegliersi lo stipendio. Lo dicono gli accademici di due università inglesi e una belga. Ieri ne dava conto il Financial Times. Tradendo una certa sorpresa. Ma siamo sicuri che ci sia da stupirsi? Partiamo dalla ricerca. In tutto 159 imprese sociali monitorate. Risultato: le donne al vertice remunerano se stesse il 23% in meno dei «colleghi» maschi. Un divario in linea con quanto registrato in Inghilterra nel settore profit. In Italia quel 23% diventa una percentuale (per fortuna) più bassa: da noi il pay gap tra uomini e donne si ferma al 6,7%. Da una parte le italiane che lavorano appartengono più spesso a categorie professionali medio alte, dove la consapevolezza del proprio valore è maggiore. Dall’altra i salariali dei contratti di categoria fanno da argine alle sperequazioni.

Ma il punto è: quando si rilevano differenze retributive tra i generi è corretto parlare di discriminazione? Non sarà che le donne scelgono settori e posizioni meno remunerate? Il fenomeno è stato studiato. «Il punto è che il differenziale retributivo uomo-donna permane quando si paragonano lavoratrici e lavoratori nello stesso settore, con la stessa anzianità e pari titoli di studio – fa notare Luisa Rosti, economista dell’università di Pavia -. L’80% del pay gap tra i generi non ha una spiegazione razionale». È quello che gli statistici chiamano appunto «residuo non spiegato». La discriminazione sta proprio lì dentro. Su un punto l’indagine può essere utile. Ricorda che chi discrimina di solito lo fa in modo inconsapevole. Tanto che le donne spesso hanno un nemico inaspettato da cui guardarsi. Se stesse.

Un fisco senza ideologie

Un fisco senza ideologie

Stefano Lepri – La Stampa

Solo l’emotività con cui in Italia si parla di tasse pub far apparire questa come una svolta epocale, o come una mossa politica con chissà quali sottintesi. Sarebbe più utile ragionare su dove passi il confine tra inutili vessazioni burocratiche e ineliminabili doveri civili. La mentalità nazionale è purtroppo incline a confondere. Abituati a subire vari comportamenti illegali altrui, ci inalberiamo quando veniamo richiamati noi a rispettare le norme. A una diffusa inosservanza i poteri pubblici talvolta reagiscono imponendo obblighi severissimi con il retropensiero che almeno forse ne sarà rispettata la metà. Ma non aver chiaro quando occorra davvero rispettare le leggi e quando no è un tremendo fattore di inefficienza.

Come ha detto ieri il governatore della Banca d’Italia, le varie forme di illegalità, ovvero criminalità organizzata, corruzione e evasione fiscale, portano ad usare male le risorse di cui disponiamo, rendono difficile la collaborazione tra i cittadini; insomma frenano la crescita. Le tasse sono al centro del dibattito politico, ed è giusto, dato che ne paghiamo tante (30% del prodotto lordo è la cifra esatta, più 13-14% di contributi sociali che finanziano le pensioni). Ma occorre anche constatare che nei vent’anni da cui «meno tasse» è diventato slogan elettorale vincente, il carico tributario è aumentato.

In passato lo scontro è avvenuto per linee di categoria (partite Iva contro lavoratori dipendenti) o tra schemi ideologici. L’attuale governo sta ben attento a non ripetere questo copione. Prende anche atto dell’esperienza: passati tentativi di incidere sull’evasione fiscale con strumenti repressivi hanno ottenuto successi di gettito ma sembrano esser costati molti voti. Alcune promesse, come la semplificazione, e la stessa abolizione dello scontrino, non sono pert) affatto nuove. Occorre guardare se novità vere appaiono nei provvedimenti.

Nella manovra di bilancio figurano ora ben 4,26 miliardi di euro da recupero dell’evasione fiscale. È una cifra enorme, che sulle prime è stata giudicata donchisciottesca. In realtà il governo si affida per la gran parte a una norma concreta e sensata, far versare l’Iva da chi compra e non da chi vende, se a comprare sono lo Stato oppure la grande distribuzione commerciale. Un recupero di gettito evaso (dai fornitori dello Stato oppure dai grossisti) è certo pur se nulla garantisce che arriverà a quella somma. Molto popolare dovrebbe risultare il nuovo regime agevolato per i contribuenti minimi Iva. Forse un milione di persone potranno scegliere di pagare una imposta forfettaria del 15% con adempimenti assai ridotti. Si tratta di una scommessa sul civismo, dall’esito difficile da prevedere, poiché alcuni che piccoli non sono potrebbero tentare di fingersi tali.

In prospettiva, una più ampia registrazione elettronica di dati potrebbe sollevare da incombenze scomode. Ma non illudiamoci che il progresso sia ben accetto a tutti. Lo scontrino appunto scomparirà quando i registratori di cassa trasmetteranno immediatamente i ricavi al fisco: siamo sicuri che per ostacolare questa innovazione non si troveranno mille scuse? Matteo Renzi sembra ambire a una riforma fiscale non intimidatoria, che non colpevolizzi nessuno come evasore potenziale. Però su alcuni punti sarà inevitabile incontrare resistenze, e vincerle, se si vuole fare sul serio. Una prova importante sarà l’obbligo a un maggior uso di carte di credito e bancomat, che dà trasparenza e allinea agli altri Paesi avanzati.

Deficit, dubbi della Ue sulle promesse italiane

Deficit, dubbi della Ue sulle promesse italiane

Roberto Petrini – La Repubblica

«Tutto normale, contatti di routine», dice Pier Carlo Padoan in occasione dell’Eurogruppo. Mentre Renzi continua ad incrociare le spade con Juncker. Ma in realtà la questione che è emersa negli ultimi giorni sui conti pubblici italiani rischia di trasformarsi in una ennesima grana e acuire la tensioni tra Roma e Bruxelles. Le ultime valutazioni di autunno della Commissione, pubblicate martedì scorso, se guardate con attenzione, fanno emergere che il rafforzamento dell’ultima ora di 4,5 miliardi varato da Padoan il 27 ottobre in risposta ai rilievi dell’allora commissario agli Affari monetari Katainen, non è servito a molto. Il mega-assegno, pari allo 0,3 per cento del Pil, firmato dal nostro ministro dell’Economia, è stato considerato praticamente «a vuoto».

Come si ricorderà infatti il contrasto tra Roma e Bruxelles verteva sull’intervento sul deficit strutturale: l’Italia si era presentata con una correzione dello 0,1 per cento (1,5 miliardi) ma la Commissione voleva almeno lo 0,5 (circa 7,5 miliardi). Alla fine Renzi e Padoan dovettero cedere a Bruxelles chiudendo con un intervento dello 0,3 del Pil, i famosi 4,5 miliardi fatti con stretta all’evasione, fondi europei e rinuncia alla riduzione delle tasse. L’emendamento alla “Stabilità” è stato formalizzato ieri.

La «correzione», secondo le previsioni italiane, avrebbe dovuto ridurre il deficit-Pil strutturale, quello che conta ai fini del raggiungimento del pareggio di bilancio dopo la firma del Fiscal Compact: dallo 0,9 per cento contestato da Bruxelles si sarebbe scesi allo 0,6 per cento come cifrato dalla «Relazione di variazione alla nota di aggiornamento al Def» del 28 ottobre. L’intervento avrebbe avuto effetto anche sulla variabile tradizionale di Maastricht: dal 2,9 previsto in settembre al 2,6 post-rafforzamento stimato dal governo. Invece, con un certo stupore emerso tra i palazzi del governo, le previsioni della Commissione hanno ritenuto che l’intervento da 4,5 miliardi abbia avuto effetto sulla riduzione del deficit-Maastricht anche se la discesa viene cifrata al 2,7 (non al 2,6 come sperava il governo). Ma non ha avuto effetto sul deficit strutturale che dallo 0,9 proposto a settembre dall’Italia scenderà per Bruxelles solo dello 0,1 per cento del Pil attestandosi nel 2015 allo 0,8 (e non allo 0,6 come contava Roma).

Questa valutazione si abbatte sulla variabile cruciale che dobbiamo portare a zero nel 2017, dopo aver chiesto il rinvio di due anni del pareggio di bilancio, e anche il giudizio sulla legge di Stabilità potrebbe risentirne: segnali di strada in salita per Italia e Francia sono giunti ieri dal presidente dell’Eurogruppo Dijsselbloem che ha annunciato lo slittamento del verdetto a fine mese. Perché lo sforzo sul «3 per cento di Maastricht» non transita sul deficit «al netto della congiuntura del Fiscal compact»? Il tema è stato posto dal Tesoro italiano da settimane: è stato sollevato dal Cer, oggetto di osservazioni dell’Upb e di un articolo della voce.inf a firma Cottarelli (Fmi) e Giammusso (Tesoro). Il problema è di modelli economici: la Commissione pensa che l’Italia non abbia le potenzialità per crescere più di tanto e dunque, visto che il deficit viene depurato dalla mancata crescita rispetto a quella possibile, lo «sconto» si riduce. L’Italia invece la vede in modo diametralmente opposto.

Una bomba a orologeria di cui la Ue non ha bisogno

Una bomba a orologeria di cui la Ue non ha bisogno

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Una vicenda che, soprattutto, potrebbe scatenare l’ennesima crisi in un’Europa che finora si è già ampiamente dimostrata incapace di risolvere quelle, troppe, che ha e si trascina dietro irrisolte da troppo tempo. Per questo ieri a Bruxelles si sono messi all’opera gli artificieri. Nel corso dell’Ecofin i ministri finanziari hanno moltiplicato i segnali mirati a trasformare un potenziale gioco al massacro di Juncker non nella sua difesa incondizionata ma in una sorta di salvataggio programmato. O almeno questo sembra.

Nessun ministro, nemmeno il presidente di turno Piercarlo Padoan, in una riunione chiamata tra l’altro a discutere di tassazione delle società europee e di come evitare in futuro evasione, frodi ed elusione, ha ritenuto di attaccare il neo-presidente della Commissione Ue. Al contrario. Il francese Pierre Moscovici, oggi responsabile a Bruxelles del Fisco oltre che delle Politiche economiche e finanziarie europee, ha annunciato prossime proposte per l’armonizzazione della normativa Ue «in pieno accordo con il presidente Juncker». E ha ricordato che della questione si discuterà settimana prossima anche al vertice del G-20 a Brisbane.

Parallelamente il tedesco Wolfgang Schauble ha annunciato investimenti per 10 miliardi a sostegno della crescita: un’implicita apertura di credito al piano Ue da 300 miliardi in tre anni proposto da Juncker in luglio e in arrivo in dicembre sul tavolo dei 28 capi di Governo dell’Unione. Fino a ieri era stato proprio Schauble il grande oppositore dell’iniziativa, nella convinzione che solo rigore e riforme siano i mattoni di una crescita sana e duratura. Naturalmente è il rallentamento dell’economia in Germania a consigliargli la correzione di rotta. Però in questo momento l’annuncio rappresenta un assist indiretto al presidente della Commissione in difficoltà.

Nemmeno il presidente dell’Europarlamento, il socialista Martin Schulz, noto castigamatti di evasione, corruzione e economie nere nell’Unione, ha del resto mobilitato l’artiglieria pesante. Tutt’altro. Allora scampato pericolo? Troppo presto per dirlo. Però sembra accertato che, in un momento di profonda crisi economica e politica dell’Europa, i suoi Governi tutto desiderino fuorché aprire un nuovo fronte tellurico. D’altra parte i regimi fiscali compiacenti per le società oggi non solo sono legali ma non sono affatto appannaggio esclusivo del Lussemburgo. Anche Irlanda e Olanda sono nel mirino della stessa inchiesta europea, che si limita ad appurare l’esistenza o meno di aiuti di Stato distorsivi della concorrenza.

Nemmeno Gran Bretagna e Belgio, Malta e Cipro risultano senza peccato. Per questo, a meno che emergano nuovi elementi al momento ignoti, la “criminalizzazione” solitaria di Juncker potrebbe rivelarsi una scelta-boomerang per molti. Meglio allora affrontare la vicenda guardando al futuro invece che al passato e al presente, puntando sull’armonizzazione della fiscalità in Europa. L’impresa finora è stata impossibile, perché ogni decisione in questo caso va presa a 28 e all’unanimità. Ma i tempi cambiano, i bilanci nazionali piangono, i capitali fuggono e i cittadini non possono oltre un certo limite sostenere con le loro tasse il peso dell’«ottimizzazione» fiscale per le imprese. Comunque finirà, la Commissione Juncker che si voleva un interlocutore forte dei Governi, l’antitesi di quella guidata da Josè Barroso, un ponte verso cittadini europei sempre più scettici e incattiviti verso le politiche Ue, rischia però di perdere la sua scommessa ancora prima di aver avuto il tempo di lanciarla.