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La finta tassa salutista che fa male al mercato

La finta tassa salutista che fa male al mercato

di Massimo Blasoni – Il Giornale

Il fumo fa male ma ancor più male – all’economia e quindi a noi tutti – fanno i governi che ciclicamente (anche in occasione dell’ultima manovra) ricorrono all’ennesimo aumento delle accise del tabacco nel tentativo di raddrizzare i nostri conti pubblici. Si tratta di una misura ormai quasi pavloviana, che nasconde l’assenza di una vera strategia politica sul fronte del contenimento della spesa pubblica (a quando una vera spending review?) e che tradisce diverse ipocrisie.

La prima è quella di varare un inasprimento della tassazione indiretta per poter poi meglio raccontare che la manovra è stata all’insegna del mancato aumento delle tasse: peccato che il fatto che vengano prelevate in maniera “occulta” non riduce per nulla il loro impatto nelle tasche dei contribuenti. Non solo. Si è deciso di operare un aumento disomogeneo delle accise a seconda del tipo di sigarette e tabacchi posti in vendita (colpendo soprattutto la fascia di mercato più bassa, perché più diffusa): una scelta che produce la distorsione di un mercato già in crisi e la cui filiera (produzione agricola, aziende di prima trasformazione, manifattura, distribuzione e dettaglio), soprattutto per effetto del taglio dei contributi comunitari, ha in questi anni perso un numero rilevante di addetti.

Sulla politica in materia di tabacco registro poi una contraddizione, questa sì insanabile: lo Stato da un lato ha assoluto bisogno dei tabagisti per incassare ogni anno anno una quota rilevante di gettito (9,4 miliardi di euro solo nel 2016), dall’altro sostiene di aumentare le accise con l’obiettivo “salutista” di costringere a smettere di fumare il maggior numero di persone, in ossequio ai reiterati inviti in tal senso formulati dall’Oms. Un approccio “etico”, volto a colpire con le tasse un comportamento ritenuto sbagliato e che un liberale come me non può non criticare. Soprattutto perché alla prova dei fatti si è rivelato l’ennesimo pretesto per tartassare i cittadini. Se infatti la nostra salute sta così a cuore a questo Stato paternalista, perché poi si è subito attivato per frenare la diffusione del nuovo mercato delle sigarette elettroniche? Sono uno strumento tecnologico efficace per ridurre il danno nonché per aiutare a smettere di fumare e l’anno scorso l’autorevole Royal College of Physicians ha stabilito essere meno dannose almeno del 95% rispetto alle sigarette tradizionali.

Sta di fatto che al boom della moda dello “svapo”, esplosa tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013, si è subito reagito – primi tra tutti i Paesi europei – con una tassazione scriteriata che andava a colpire sia le ricariche dei liquidi sia tutti quanti gli accessori (carica batterie, resistenze, addirittura i laccetti per portarle al collo…) e che infatti è stata poi bocciata dalla Corte costituzionale. Ciononostante su questo prodotto resta in vigore una tassa specifica a un tasso punitivo di 0,38 euro per millilitro (pari a 5 euro su un prodotto messo in vendita a 9-10 euro), che va a colpire anche le ricariche prive di nicotina e sulla quale pende tuttora un nuovo pronunciamento della Consulta… Tutto, insomma, pur di nuocere alla salute di un nuovo settore di mercato.

Bolletta energetica: negli ultimi sei anni quella delle famiglie è cresciuta del 22,34%

Bolletta energetica: negli ultimi sei anni quella delle famiglie è cresciuta del 22,34%

Dal 2010 al 2016 le famiglie italiane hanno visto crescere del 22,34% i costi per l’utilizzo dell’energia elettrica a fini domestici: è questo il risultato di una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro, che ha analizzato l’andamento dei prezzi medi dell’energia elettrica per uso domestico fornita in questo periodo di tempo alle famiglie in tutta Europa.

Rispetto a sei anni fa tra i 28 Paesi oggetto del monitoraggio solo in 8 nazioni il prezzo dell’energia domestica è diminuito: Ungheria (-31,63%), Malta (-23,30%), Cipro (-18,85%), Olanda (-9,67%) Repubblica Ceca (-6,70%), Slovacchia (-6,24%), Lussemburgo (-2,22%) e Polonia (-1,43%). In tutti gli altri casi la bolletta elettrica delle famiglie è cresciuta con aumenti anche consistenti: +55,08% in Lettonia, +45,05% in Portogallo, +43,77% in Grecia e +34,48% in Belgio. Tra le grandi economie cresce l’onere per le famiglie anche nel Regno Unito (+33,40%), in Francia (+28,98%), in Spagna (+24,87%), in Germania (+23,54%) e, come detto, Italia (+22,34%).

Nel nostro Paese, quindi, il costo per l’energia elettrica domestica (tasse incluse) è passato da 0,1943 euro per kWh nel 2010 a 0,2377 kWh nel 2016. Stimando nel 2016 un consumo medio annuo per famiglia di 3.199 kWh (fonte: osservatorio facile.it) si ottiene un costo a carico di ogni famiglia per la sola bolletta elettrica di 760,24 euro su base annua. A livello europeo solo in Danimarca, Germania e Belgio l’energia costa di più che nel nostro Paese. Se la stessa famiglia, infatti, si trovasse a vivere in Francia risparmierebbe 217,05 euro su base annua; 155,31 euro se vivesse nel Regno Unito e 45,43 euro se vivesse in Spagna. In Germania, invece, il conto sarebbe più elevato: +190,82 euro.

Si tratta di costi comprensivi di tasse e accise che nel nostro Paese rappresentano il 39,87% del prezzo finale. Un dato superiore alla media sia dell’Area Euro (39,36%) sia dell’Unione Europea a 28 membri (36,07%). L’incidenza delle imposte è più elevata che da noi soltanto in Danimarca (68,65%), Germania (53,41%) e Portogallo (47,28%). Il fisco pesa meno nella bolletta delle famiglie in tutte le altre economie continentali: Francia (35,42%), Grecia (31,75%), Spagna (21,37%) e Regno Unito (19,22%).


«Nel nostro Paese il mercato dell’energia elettrica è stato liberalizzato dal 1 luglio 2007 ma le bollette non sono affatto calate: un paradosso tutto italiano, che purtroppo non verrà sanato con l’approvazione (più volte rinviata) del ddl concorrenza» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Nella parte dedicata alla liberalizzazione del mercato elettrico, è infatti prevista la fine del regime della maggior tutela (per chi ha mantenuto il proprio storico fornitore di energia) e il passaggio obbligatorio al mercato libero entro il luglio 2019. Si tratta in realtà di una spada di Damocle: coloro che entro quella data non avranno provveduto autonomamente al passaggio a un fornitore sul libero mercato si ritroveranno (a loro insaputa) in un basket denominato “servizio di salvaguardia” che già oggi prevede costi maggiori di quelli praticati in regime di maggior tutela. La loro utenza verrà poi riassegnata ad altra azienda a seguito di un’asta con una base di prezzo comunque automaticamente più alta del 20%. Un provvedimento che distorce il mercato e che non potrà che incidere ulteriormente sul bilancio delle famiglie italiane».

Le trappole cinesi della Via della Seta

Le trappole cinesi della Via della Seta

La nuova Via della Seta – o come preferiscono chiamarla i Cinesi OneBelt OneRoad – è la rete di infrastrutture in via di progettazione per meglio collegare il Celeste Impero con l’Europa e incrementarne il commercio. Gli obiettivi sono, o dovrebbero essere, bilaterali poiché gran parte degli Stati dell’Asia centrale hanno pochissimo intercambio e con la Cina e con l’Europa. Quelli che ne sono dotati esportano principalmente materie prime (soprattutto oli minerali) e, dopo una fase in cui hanno investito moltissimo nell’immobiliare, sono in stagnazione. L’obiettivo principale, ove non unico, è quindi l’aumento degli scambi con l’Europa.

Un paper di Jonathan Holsag, della Vrje Universiteit Brussel, pubblicato sul No. 4 di The International Spectator (l’elegante rivista in inglese dell’Istituto Affari Internazionali, un quadrimestrale italiano che ha 52 anni di vita) esamina gli aspetti economici della Via della Seta sulla base di documenti inediti della Celeste Burocrazia cinese. Prima di inneggiare alle nuove opportunità di esportazioni che si aprono alle imprese europee, vale la pena leggerlo con attenzione. Il lavoro, molto documentato, dimostra che per l’Europa la Via è in realtà una grande trappola

Occorre fare una premessa. La Cina fa parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (il codice di regole per l’interscambio internazionale) solamente dal 1991. Numerosi Stati membri dell’OMC non pensavano che avesse i requisiti minimi per entrare, anche e soprattutto perché un commercio internazionale libero e competitivo è poco compatibile con politiche economiche interne stataliste e autarchiche. In questo ultimo quarto di secolo, il settore dei servizi ha avuto un buon grado di liberalizzazione, gli investimenti esteri sono stati autorizzati, le restrizioni sulla distribuzione all’ingrosso e al dettaglio sono state rimosse e parimenti sono stati un poco aperti i mercati dei servizi finanziari, delle banche, delle assicurazioni e delle telecomunicazioni.

Non facciamoci però illusioni. La Cina resta un Paese fortemente mercantilista e ha capacità di celare i protezionismi nel modo più astuto. Dal 2008 a oggi sulla Via della Seta le esportazioni di beni e servizi cinesi verso l’Europa sono aumentate del 250% mentre quelle di Francia, Germania e Italia diminuite rispettivamente del 14%, del 26% e del 9%.

In Italia gli stranieri trovano lavoro più di noi

In Italia gli stranieri trovano lavoro più di noi

La Verità

I cittadini stranieri collocati, sul mercato del lavoro, di più e meglio rispetto agli autoctoni: uno scenario bizzarro, che tuttavia è realtà in una manciata di nazioni europee. L’Italia è una di esse. Secondo una ricerca realizzata dal Centro Studi ImpresaLavoro – su elaborazione dei dati Eurostat 2016 – il tasso di occupazione dei cittadini italiani tra i 15 e i 64 anni (residenti in patria) è del 57,0%, dato che ci appaia alla Croazia e che risulta nettamente inferiore alla media sia dell’Unione a 28 membri (67,1%) sia dell’area Euro (66,1%). In tutto il Vecchio Continente soltanto la Grecia – con il 52% degli occupati – ha un mercato del lavoro meno efficiente del nostro. In questa particolare classifica siamo quindi nettamente superati da tutti i nostri principali competitor: Svizzera (82,5%), Germania (76,5%), Olanda (75,6%), Regno Unito (73,8%), Portogallo (65,3%), Francia (65,2%), Irlanda (64,7%) e Spagna (59,9%).

Se si prende in considerazione la percentuale di occupati tra i lavoratori extra-Ue residenti in Italia, la posizione in classifica del nostro Paese vola invece verso l’alto, dal penultimo al sedicesimo posto: il nostro 57,8% risulta infatti largamente superiore alla media sia dell’Unione a 28 membri (53,7%) sia dell’area Euro (52,5%). Si tratta di un dato in netta controtendenza rispetto a quanto avviene abitualmente negli altri Paesi e soprattutto nelle altre economie avanzate del continente. Oltre all’Italia, solo altri tre Paesi europei hanno tassi di occupazione più bassi tra i propri connazionali rispetto a quelli fatti registrare tra i lavoratori extracomunitari: si tratta di Repubblica Ceca (-3,8 punti percentuali), Slovenia (-0,9) e Grecia (-0,3).

Un dato che stride con la media sia dell’Unione a 28 membri (+13,4 punti percentuali) sia dell’area Euro (+13,6). In tutto il resto d’Europa la differenza, espressa sempre in punti percentuali, risulta infatti a favore dei cittadini dei Paesi presi in esame: Portogallo (+1,0), Spagna (+6,2), Irlanda (+7,2), Regno Unito (+12,5), Svizzera (+17,8), Francia (+20,9), Germania (+24,8) e Olanda (+26,3).

«Ancora una volta siamo costretti a osservare l’Italia in fondo alla classifica europea che registra il tasso di occupazione dei cittadini di ciascun Paese», commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Si tratta di un dato ormai stabile, che non può non allarmare una grande potenza economico-industriale come la nostra. Mentre nel resto d’Europa la crisi sembra essere in via di superamento, da noi la crescita continua a ristagnare ai livelli di 10 anni fa. Anche per questo non può che sorprendere il fatto che in Italia i residenti extracomunitari trovino lavoro con maggiore facilità dei nostri connazionali. È pur vero che si tratta di un’anomalia dovuta al fatto che i primi sono disponibili a svolgere mansioni che gli italiani ormai riliutano di prendere in considerazione. Questo però non può essere una giustificazione sufficiente: il nostro mercato del lavoro resta ancora troppo rigido».

Resisterà l’euro alla tempesta che viene da Washington?

Resisterà l’euro alla tempesta che viene da Washington?

Così come è stata concepita, la moneta unica europea (l’euro) appare a rischio nonostante il Presidente della Banca centrale europea (Bce) ripeta che la crisi è superata. Sono stati in tanti a dirlo, sulla base dell’esperienza degli ultimi cinquant’anni, quando la si preparava; il vostro chroniqueur aveva all’epoca una rubrica quotidiana sul quotidiano Il Foglio in cui esprimeva perplessità e venne accusato di essere un agente CIA o KGB.  L’elenco potrebbe essere lungo. Alberto Alesina venne licenziato in tronco dal Ministero del Tesoro per avere espresso dubbi in un saggio accademico. In un lavoro con Enrico Spolaore e Romain e Romain Wacziarg, ha infatti anticipato conflitti anche armati sia all’interno dell’area dell’euro sia tra quest’ultima e i suoi vicini. Nouriel Roubini (considerato, a torto o a ragione, come l’economista che ha previsto con più precisione la crisi finanziaria iniziata nel 2007) ha affermato che «l’eurozona è alla vigilia di una vera e propria rottura: anche ove si riuscisse a ridurre il fardello del debito sovrano, non si riuscirebbe a tornare a tassi adeguati di competitività e di crescita; per molti Paesi i costi di restare nell’unione monetaria ne supererebbero di gran lunga i benefici». Conclusioni analoghe arrivano peraltro dalla lontana Asia: Hwe Kwan Chwo della Singapore Management University afferma che, da un lato, le vicende dell’eurozona negli ultimi anni hanno frenato i progetti (peraltro preliminari) di un’”area monetaria” nell’Asean (l’associazione degli Stati del Sud Est asiatico) e, dall’altro, hanno rafforzato il ruolo di transazione e di riserva di alcune monete asiatiche rispetto all’euro, oltre che al dollaro.

Nel mondo accademico Usa l’analisi di Roubini è ampiamente condivisa: importanti esponenti, prima di tutti Martin Feldstein (alla guida del comitato dei consiglieri economici di due Presidenti degli Stati Uniti oltre che per un trentennio del National Bureau of Economic Research, Nber), non hanno creduto che l’unione monetaria europea sarebbe durata a lungo. Più cauti gli ambienti istituzionali ufficiali quali Tesoro e Federal Reserve Board che non celano un certo scetticismo, pur sperando che si riesca a salvare “il soldato euro” in quanto la sua eventuale dissoluzione creerebbe un lungo periodo di caos nei mercati.

La crisi politica e istituzionale apertasi negli Stati Uniti, con la minaccia di empeachment del Presidente, potrebbe scatenare una tempesta a cui l’euro non reggerebbe. Come avvenne all’inizio degli Anni Settanta quando il ‘caso Watergate’ che portò alla dimissioni dell’allora Presidente Nixon travolse il ‘piano Werner’, primo progetto organico di un’unione monetaria europea.

Per questo motivo è utile leggere il lavoro Luciano Andreozzi e Roberto Tamborini, ambedue dell’Università di Trento. Il paper “Why Is Europe Engaged in an Inter-Dependence War, and How Can It Be Stopped?” (Perché l’Europa è in una guerra di interdipendenza e come può essere arrestata?) è il DEM Working Paper N. 2017/26 e dimostra che tra gli Stati Europei è in corso una “guerra di interdipendenza” (come previsto un quarto di secolo da Martin Feldstein e da Alberto Alesina, Enrico Spolaore e Romain Wacziarg). Quello di Andreozzi e Tamborini è un lavoro altamente teorico ma che descrive in modo acuto le tensioni all’interno dell’area dell’euro, tanto all’interno di ciascun Paese membro quanto tra Paesi e istituzione europea.

Per semplificare le detrazioni un manuale di 324 pagine

Per semplificare le detrazioni un manuale di 324 pagine

di Massimo Blasoni – Libero

A volte un singolo dato, in ragione della sua enormità, riesce a farci comprendere un fenomeno più di tante analisi. È il caso di una recente circolare dell’Agenzia delle Entrate (la n.7/E del 4 aprile 2017) che s’incarica di elencare e spiegare il meccanismo delle detrazioni d’imposta ai fini della dichiarazione dei redditi delle persone fisiche relative al 2016. Ebbene, questa guida è lunga ben 324 pagine! Un coacervo di norme, una giungla di prescrizioni, una via Crucis che rimanda a precedenti circolari che davvero sgomenta e che spinge almeno a due riflessioni.

Primo: piuttosto che sulle detrazioni d’imposta, pannicelli caldi per le tasche del contribuente, perché non ci si decide piuttosto a un drastico taglio delle tasse, magari ricorrendo allo strumento della flat tax? L’attuale regime di tassazione deprime i consumi e soprattutto impedisce agli imprenditori di investire e quindi di assumere: chi gestisce un’azienda resta impigliato in migliaia di leggi che molto spesso sono di difficile interpretazione, tanto che nemmeno gli interpelli danno garanzie. Ne consegue che il nostro livello di crescita rimane ancora inferiore a quello pre-crisi del 2008 (un record tra le grandi economie europee che nessuno ci invidia): con l’attuale ritmo dei “più zero virgola qualcosa” all’anno riusciremo a tornarci solo nel 2026.

Secondo: i dirigenti dello Stato che hanno redatto quella circolare e che più in generale si occupano di semplificazione legislativa fanno parte dello stesso apparato burocratico che a sua volta ha scritto le leggi che si vogliono sfoltire e rendere più chiare. Il risultato è ovviamente quello di confondere ancora di più i cittadini con l’aggiunta di nuovi testi normativi spesso di oscura interpretazione. Alzi la mano, ad esempio, chi è ancora in grado di compilare da solo la dichiarazione dei redditi! Questa chilometrica guida alle detrazioni d’imposta si è poi resa necessaria nell’ambito della cosiddetta “riforma” della dichiarazione precompilata dei redditi, subito ribattezzata “precomplicata”. Così com’è stato congegnato, il nuovo sistema riafferma tra l’altro il rapporto leonino tra Stato e contribuente: l’amministrazione fiscale non risponde infatti degli eventuali errori nell’imputazione dei dati mentre il contribuente che la vuole integrare si espone al rischio di pagare una multa per ogni errore commesso (anche se in buona fede).

In attesa che sia editata una guida alla guida, presumibilmente di 648 pagine, ci auguriamo che siano chiusi tutti gli uffici destinati alla semplificazione. O, in alternativa, la distribuzione presso gli stessi di un vocabolario, di modo che non sfugga agli addetti il significato del verbo “semplificare”.

I nuovi padroni delle banche italiane

I nuovi padroni delle banche italiane

di Gianni Zorzi * e Elisa Qualizza **

Quali effetti ha avuto la lunga crisi dell’economia sugli assetti proprietari delle banche italiane? Un rapporto di ImpresaLavoro ha provato a fare luce sui cambiamenti intervenuti in dieci anni. Sotto il peso dei crediti deteriorati e in un contesto competitivo sempre più difficile, azionisti storici come le fondazioni bancarie hanno in molti casi perso del tutto il controllo degli istituti. Il risiko stenta a ripartire, la mano pubblica è vincolata dalla direttiva sul bail-in e i gruppi stranieri sembrano stare alla finestra, con l’eccezione dei fondi d’investimento che invece hanno progressivamente incrementato le loro esposizioni.

Ai massimi del 2007 i titoli bancari quotavano in Borsa circa 210 miliardi di euro e valevano quasi il 30 per cento del listino milanese: oggi invece non superano i 67,5 miliardi e raggiungono a malapena al 13 per cento dei valori di Borsa. Questa distruzione di valore è dovuta a più cause. A parte gli episodi di mala gestio, bisognerà citare l’aumento dei crediti deteriorati (giunti al 175 per cento del capitale delle banche), l’inasprimento dei requisiti minimi di capitale, i margini di interesse sempre più risicati. La media del campione di 49 gruppi bancari analizzati da ImpresaLavoro mostra inoltre indici di redditività negativi e in costante calo sin dal 2013. Per effetto delle svalutazioni, molti dei principali gruppi bancari hanno chiuso il bilancio 2016 in perdita. Probabilmente senza l’entrata in vigore della direttiva del bail-in ci saremmo ritrovati a commentare il ritorno dello “Stato banchiere”, un ruolo che si pensava abbandonato con le privatizzazioni degli anni ’90, che avevano fatto seguito alla trasformazione delle casse di risparmio e dei monti di pietà in società per azioni con la scissione tra attività bancaria ed enti proprietari, ovverosia le fondazioni. A un quarto di secolo dalla loro istituzione, sono loro ad aver perso la maggiore influenza sul nostro sistema. Ormai il 30 per cento degli 88 enti nati dalla legge Amato del ’90 non ha più alcuna partecipazione nella relativa banca conferitaria, e un altro 10 per cento ha mantenuta una partecipazione limitata o destinata a diluirsi o dissolversi a breve.

Le banche conferitarie di 24 diverse fondazioni fanno ora capo a Intesa Sanpaolo mentre altre 13 si sono fuse in Unicredit; cinque istituti hanno ceduto alle lusinghe della Popolare dell’Emilia Romagna, altri cinque all’odierno Banco Bpm e cinque ancora a Ubi Banca. Fondazione Cariparma ha mantenuto il 13,5 per cento del relativo gruppo, passato in mani francesi dal 2007 e da poco ribattezzato Crédit Agricole. Solo una parte degli enti rimasti nel capitale dei gruppi ha voluto – e potuto – partecipare agli aumenti mantenendo inalterata così la quota di partecipazione: per esempio Compagnia di San Paolo, Fondazione Cariplo e Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, proprietarie complessivamente del 17,4 per cento di Intesa Sanpaolo.

Nello stesso gruppo hanno invece ceduto quote la Fondazione Cr Firenze, ora al 2 per cento, e Fondazione Carisbo, obbligata a ridurre la partecipazione in base al protocollo d’intesa con il Ministero dell’Economia del 2015. Dopo il recente maxi-aumento di Unicredit, le fondazioni di Crt e Cariverona sono scese all’1,8 per cento, e assieme agli altri enti pesano ormai in totale non più del 5 per cento (a fronte del 12 del 2008): ben più rilevanti i pacchetti in mano agli istituzionali battenti bandiera straniera. In controtendenza risulterebbero solo la Fondazione Cr Cuneo e la Fondazione Banca del Monte di Lombardia, salite di recente all’11 per cento di UBI Banca, superando così di poco le quote accumulate da fondi esteri come Blackrock e Silchester. Si sono diluite nel tempo Fondazione Mps (dal 58 per cento di dieci anni fa ora è scesa allo 0,1) e le tre che detengono quote di Carige (ormai tutte insieme non pesano più del 6). Più in generale sono rimaste solo otto le fondazioni che detengono una quota maggioritaria nella banca conferitaria: l’ultima a uscire da questo perimetro ormai molto ristretto è stata Saluzzo, che ha ceduto l’anno scorso a Bper il controllo della banca locale, mentre altre con ogni probabilità la seguiranno a breve.

Sono sette le fondazioni “azzerate” nel 2015 (assieme a moltissimi piccoli risparmiatori azionisti e obbligazionisti junior) a fronte dei processi di risoluzione di Banca Marche, CariChieti e CariFerrara, il primo delle quali ha travolto da solo cinque enti (Loreto, Macerata, Pesaro e Jesi che è stata azzerata pure sulle subordinate, oltre Fano che aveva accumulato una posizione in anni recenti). La parte buona di quegli istituti, assieme a quella di Banca Etruria, è transitata sotto il controllo temporaneo del Fondo di risoluzione e ha trovato acquirenti (Bper e Ubi) solo a inizio 2017 al prezzo simbolico di un euro cadauna. Fondazione Tercas nel 2014 ha perso il controllo dell’ex Cassa di Teramo, poi passata alla Popolare di Bari. Quattro fondazioni sono finite nel vortice delle ex Popolari venete, le cui azioni hanno perso del tutto il loro valore a fronte degli aumenti di capitale del 2016 da Atlante che, dopo essere intervenuto in seguito al fallito tentativo di quotazione dei due istituti, ora rischia già di perderne il controllo. Infatti le ex popolari venete al pari del Monte dei Paschi hanno richiesto l’intervento dello Stato attraverso lo strumento della ricapitalizzazione precauzionale.

Il Parlamento ha da tempo dato il via libera a questi interventi, ancora in attesa del placet europeo, fino a un importo di 20 miliardi di euro. Il settore sembra non esaurire la sua sete di capitale, ed è possibile che nuove piccole grandi rivoluzioni segnino il destino di molti istituti. A breve, per esempio, sarà la volta di Rimini e San Miniato, che assieme alle tre fondazioni che ora guidano CariCesena, attendono di conoscere l’entità degli aumenti di capitale necessari. I grandi gruppi stranieri sono stati sinora alla finestra. Probabilmente scoraggiati dall’ipotesi di consolidare impieghi carichi di crediti dubbi, titoli del nostro debito pubblico e prestiti concentrati su un’economia che ancora mostra bassi livelli di crescita, non hanno fatto acquisizioni significative.

Oltre a Caripanna di cui si è detto, Bnl è interamente partecipata da Bnp Paribas già da oltre dieci anni, mentre Deutsche Bank mantiene la sua ormai storica presenza in Italia e Crediop, travolta nella risoluzione della controllante franco-belga Dexia che l’aveva acquistata nel ’99, da anni è ufficialmente in vendita ma senza trovare acquirenti. Altri gruppi come Barclays hanno deciso di lasciare l’Italia, addirittura accettando di pagare CheBanca! (la divisione retail di Mediobanca) per rilevarne l’anno scorso la rete di sportelli.

Molto diversa la distribuzione dell’azionariato in Borsa. Unicredit è posseduto per oltre il 42 per cento da investitori istituzionali, e un altro 15 e mezzo da investitori non identificati, con meno del 29 per cento in mano al retail. Il pacchetto azionario più importante, pari al 5 per cento, è in mano agli arabi di Aahar, seguito a ruota dal fondo russo di Pamplona; la Central Bank ot’ Libya è invece scesa al di sotto del 3 per cento. In generale chi ha incrementato in misura pressoché costante le quote sono alcuni giganti dell’asset management, a partire da quelli statunitensi. Capital group detiene oltre il 4 per cento di Unicredit e quasi l’1 di Intesa, mentre Blackrock l’opposto. Vanguard ha quasi il 2 per cento di tutte le principali banche quotate, mentre ugualmente diversificati risultano Invesco, Franklin resources, Templeton. Harris è al 3,2 di intesa Sanpaolo, mentre Dimensional fund detiene quote rilevanti in Bper, Banco Bpm, Sondrio e Credito valtellinese per una quota che varia tra il 2,5 e il 4,2 per cento.

Rilevante l’interesse della Banca centrale della Norvegia (Norges Bank) che detiene tra il 2 e il 3 per cento di tutte le nostre quotate. Di recente l’a.d. Di Banco Bpm Giuseppe Castagna ha annunciato che i fondi detengono oltre il 70 per cento del gruppo e che sarà necessario «costruire con loro un rapporto duraturo». Oltre che negli assetti proprietari, i quali appaiono tuttora in evoluzione, ci si attendono dunque cambiamenti importanti anche nei rapporti con gli azionisti e nella governance. È un dramma per il sistema? Ripensando alle cronache di tante gestioni cadute in disgrazia, forse no.

* docente di finanza dell’impresa e dei mercati

** ricercatrice Centro Studi ImpresaLavoro

E I “PICCOLI” PAGANO IL CONTO

di Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro

I nostri istituti di credito hanno perso nell’ultimo decennio una quota rilevante del loro valore. Mentre in Paesi più sicuri e più attrattivi per i capitali affluivano ingentissime risorse che si trasformavano anche in impieghi per le banche volti non solo agli investimenti in debito sovrano, ma anche per famiglie e imprese. Risorse importanti posto che da noi la concessione del credito si è andata largamente restringendo negli ultimi anni. La profonda crisi di diversi istituti bancari è stata poi la conseguenza dell’azione opaca di un management disinvolto e non all’altezza, anche perché spesso scelto per l’appartenenza a un partito. A pagarne il conto sono stati migliaia di piccoli investitori, non di rado imprenditori locali, del tutto inconsapevoli dei rischi che stavano correndo.

Edilizia: nel periodo 2010-2016 Italia agli ultimi posti in Europa per andamento di produzione, ore lavorate e permessi di costruzione

Edilizia: nel periodo 2010-2016 Italia agli ultimi posti in Europa per andamento di produzione, ore lavorate e permessi di costruzione

L’andamento del mercato delle costruzioni tra il 2010 e il 2016 ha registrato un crollo verticale dell’Italia di tutti i suoi indicatori: produzione, ore lavorate e permessi di costruzione. Il nostro Paese si colloca così agli ultimi posti delle rispettive classifiche tra tutti i Paesi dell’Unione europea a 28, in quanto ad arretramento nel periodo temporale considerato. È quanto risulta da una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro realizzata su elaborazione di dati Eurostat.

Produzione nel settore delle costruzioni

L’indicatore misura le variazioni complessive nel volume di output del settore costruzioni, depurate dall’inflazione. In buona sostanza misura l’andamento del volume della produzione nel settore e la sua variazione dal 2010 al 2016. L’Italia fa segnare un arretramento del 32,2%: in Europa solo Slovenia (-45%), Cipro (-47%), Portogallo (-47,1%) e Grecia (-47,6%) fanno peggio mentre tutti i nostri principali competitor registrano viceversa dati nettamente più positivi. Se la Francia e la Spagna arretrano rispettivamente del 12,9% e del 3,2%, altri Paesi registrano invece un andamento fortemente positivo: Germania (+7,6%), Regno Unito (+11,3%) e Irlanda (+25,1%). Desta soprattutto impressione che il dato italiano registri un andamento 8 volte peggiore di quello registrato dalla media dei Paesi dell’Unione europea a 28: -32,2% contro -3,9%.

Ore lavorate

Crollano simultaneamente anche le ore lavorate, uno degli indicatori che misura con maggior precisione l’andamento dell’occupazione di questo settore. Sempre rispetto al 2010, in Italia nel 2016 si sono lavorate nel settore costruzioni quasi un terzo in meno delle ore (-28,6%), con evidenti ripercussioni sull’occupazione e sul numero di lavoratori lasciati a casa dalle aziende in crisi. In Europa solo Cipro (-41,0%) e Portogallo (-44,1%) registrano un dato peggiore del nostro. Tutti i nostri principali competitor segnalano invece dati nettamente più positivi. Arretrano anche la Grecia (-17,4%) e la Francia (-9.6%) ma in misura decisamente più contenuta della nostra. Le ore lavorate aumentano invece in Gran Bretagna (+11,2%), in Germania (+11,8%) e soprattutto in Irlanda (+32,6%). In particolare va sottolineato come il dato italiano nel periodo di riferimento risulti quasi 17 volte peggiore di quello della media dei Paesi dell’Unione europea a 28 (-28,6% contro -1,7%).

Permessi di costruzione

A trainare verso il basso il nostro mercato delle costruzioni c’è certamente anche l’andamento dei permessi di costruzione concessi per l’edificazione di nuove residenze civili: il loro numero, rispetto al 2010, si è più che dimezzato facendo registrare un preoccupante -65,7%. Questo è un importante indicatore del ciclo economico poiché fornisce alcune informazioni sul carico di lavoro nell’industria edile nel prossimo futuro. In Europa solo Cipro (-74,5%) e Grecia (-86,2%) registrano un dato peggiore del nostro. Se in generale la media dei Paesi dell’Unione europea a 28 risulta stabile (-0,1%), diversi nostri competitor assistono a una flessione del dato: Francia (-4,8%), Irlanda (-11,4%), Portogallo (-52,9%) e Spagna (-53,4%). Va infine osservato come una crescita a ritmi molto sostenuti sia invece riuscita al Regno Unito (31,2%) e soprattutto alla Germania (+80,6%). Anche in questo caso desta allarme la straordinaria sproporzione del dato italiano con la media dei Paesi dell’Unione europea a 28 (-65,7% contro -0,1%).

«I dati evidenziati dalla nostra ricerca son a tal punto negativi da non poter essere giustificati solamente dalla crisi economica ormai sistemica in cui si dibatte il nostro Paese» osserva Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «A incidere vi sono i provvedimenti adottati via via dagli ultimi governi (Monti, Letta, Renzi), che hanno finito per trasformare la casa da “bene rifugio” in “bene incubo”. A un prolungato blocco del mercato immobiliare (che solo adesso sembra registrare tenui segnali di risveglio) è così corrisposto quello ben più pericoloso dell’intero comparto delle costruzioni, che da sempre costituisce uno dei maggiori traini dell’intera economia. Le nostre performance sono da ultimi della classe: un dato che davvero non può non allarmare».

Le conseguenze economiche della Brexit

Le conseguenze economiche della Brexit

Il negoziato per la Brexit è solo ai prolegomeni ma già le polemiche infuriano. Più sotto il profilo politiche che sotto quello economico. A metà aprile, sono state esaminate in un convegno alla State University (SUNY) of New York a Buffalo. Del convegno si stanno mettendo on line i paper. Particolarmente, interessante il lavoro introduttivo di Winston W. Chang, intitolato per l’appunto Brexit and its Economic Consequences.

Il procedimento formale della Brexit è già iniziato – afferma lo studio – ma c’è molta incertezza sugli impatti della uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea (UE) in termini del futuro economico, politico e sociale del Paese. Il lavoro tratta degli impatti economici. Dopo un breve sunto delle caratteristiche dei trattati europei come materiale sulla cui base esaminare gli argomenti principali dei due campi, il leave ed il remain, lo studio pone l’accento sul fatto che in ultima istanza gli esiti dipendono dalle specifiche delle conclusioni del risultato. Ogni divorzio comunque costa.

I principali argomenti sul tavolo della trattativa riguardano il commercio di beni e servizi, l’agricoltura e la pesca, la regolamentazione finanziaria e l’immigrazione. Il paper delinea differenti scenari di nuovi possibili regimi commerciali, ciascuno dei quali avrebbe diversi impatti sull’economia britannica. Dato che ciascuna delle due parti ha le proprie carte da giocare, il lavoro esamina le varie strategie possibili di Gran Bretagna ed UE. Chang utilizza la teoria dei giochi ed esamina uno cooperativo che tenga conto anche di altri aspetti come la sicurezza reciproca, la difesa, l’ambiente e i guadagni e le perdite potenziali in caso la Gran Bretagna stipuli altri accordi commerciali con Stati che non fanno parte dell’UE.

Occorre aggiungere al paper che tanto la posizione della Gran Bretagna quanto quella dell’Unione europea nell’ambito dell’Omc sono quanto meno anomale e ambigue. La Commissione europea ha in base al Trattato di Roma, le cui ambizioni si limitavano alla creazione di un mercato comune, il compito di negoziare i trattati commerciali internazionali dato che all’epoca per l’Europa dei Sei tali trattati riguardavano essenzialmente la tariffa doganale comune, e i pertinenti contingenti nonché la politica agricola comune (le cui linee principali vennero definite nel 1963). In effetti, si tratta di un espediente per facilitare il lavoro commerciale internazionale. Non è un compito, però, che la Commissione europea (Ce) possa esercitare in autonomia ma solo sulla base di direttive specifiche degli Stati membri (oggi ancora 28, se si considera anche la Gran Bretagna). La Ce ha però sempre esercitato questo diritto come grimaldello per essere considerata come uno Stato (o un super Stato) al pari degli altri Stati membri dell’Omc. Tale privilegio le è stato sinora negato: è ultimo firmatario del Trattato istitutivo dell’Omc, non ha diritto di voto, non paga i contributi all’organizzazione.

Ci sono già frizioni tra la Ce (che il 3 maggio ha chiesto formalmente al Consiglio europeo  dell’Ue l’autorizzazione a negoziare in nome e per conto dell’intera Unione) e gli Stati membri dell’Ue, su come condurre la trattativa, ad esempio sulla lingua. Da quando la Gran Bretagna è entrata nell’Ue nel 1973, l’inglese ha di fatto soppiantato il francese come lingua di lavoro dell’eurocrazia e anche dei negoziati commerciali. Nelle trattativa intra-Ue i diplomatici britannici si sono dimostrati abilissimi e molto preparati. Per quanto riguarda la Brexit, il capo negoziatore è Michel Barnier che agirà per conto e sotto il controllo dei 27 Paesi che restano e che hanno approvato il mandato di negoziato. Barnier non fa parte della Ce: è stato personalmente designato da Juncker con il consenso dei 27 ma si avvarrà dell’indispensabile sostegno tecnico dei servizi della Ce. È solo un caso che l’attuale presidente della Ce non sia inglese: se lo fosse, il corto circuito Ue-Brexit sarebbe stato visibile anche per i non addetti ai lavori.

Quanto ci costano i ritardi della Giustizia

Quanto ci costano i ritardi della Giustizia

Quanto costano i ritardi della giustizia in Italia? Quanto incide l’inefficienza giudiziaria sull’economia reale del Bel Paese? Una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro ha tentato di quantificare l’impatto negativo della lunghezza dei processi e dell’arretrato di cause pendenti su variabili chiave come l’attrattività degli investimenti esteri, la nascita e lo sviluppo delle imprese italiane, la disoccupazione e i volumi del credito bancario.
Il punto di partenza dell’analisi è la posizione piuttosto arretrata dell’Italia nelle varie classifiche internazionali che considerano le variabili chiave utili a misurare sotto vari punti di vista l’efficacia della macchina giudiziaria. Un rapido confronto tra Paesi è possibile, ad esempio, grazie alla base dati armonizzata Cepej-Stat, messa a disposizione dalla Commissione per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa; risultati analoghi, tuttavia, trovano conferma nei dati Doing Business incrociati con le statistiche di Eurostat.
In particolare gli ultimi dati, benché riferiti al 2014, permettono di inquadrare il problema nella sua gravità. Prendendo in considerazione le sole cause civili e di diritto commerciale, all’ultima rilevazione rimanevano in attesa di giudizio, in Italia, oltre 2 milioni e 758 mila processi: un record assoluto per tutti i Paesi dell’Europa allargata, in grado di mettere in secondo piano il milione e mezzo di cause pendenti in Francia e le 750 mila scarse della Germania. Il dato assoluto è riferito ai soli processi di primo grado, ed è fortunatamente in calo rispetto agli anni precedenti. Sta di fatto che a fine anno rimangono pendenti, in termini relativi, 45 processi ogni mille abitanti in Italia contro i 24 della Francia, i 18 della Spagna e i soli 9 della Germania.

Il peso dell’arretrato si riflette anche nella minore capacità del nostro Paese, nonostante gli sforzi, di far diminuire l’indicatore della durata media dei processi: per noi fluttua attorno all’anno e mezzo a prescindere dal periodo di rilevazione. In termini comparati, i 532 giorni medi necessari per le sentenze di primo grado sono sostanzialmente il doppio rispetto alla media europea e hanno pochi eguali se si pensa che con la sola eccezione di alcuni Paesi dell’Est e di Malta tutti gli ordinamenti se la cavano con durate (ampiamente) inferiori all’anno. Analisi più estese, che tengono in considerazione anche il secondo e terzo grado di giudizio (dati non sempre confrontabili tra Paesi, stanti le diversità esistenti tra i vari ordinamenti giuridici), mostrerebbero numeri ancor più impietosi: da noi servono quasi tre anni, in media, per gli appelli e altri tre e mezzo per i giudizi in cassazione.

Prendendo in considerazione le ricadute squisitamente economiche dell’inefficienza giudiziaria, diversi studi scientifici hanno tentato di catturare in termini numerici la relazione esistente con alcune variabili fondamentali. I risultati sono di assoluto interesse e colgono nel segno rispetto a diversi annosi problemi che presenta la nostra economia.

A migliorare con la rapidità dei giudizi e la riduzione degli arretrati sono ad esempio i tempi di pagamento tra imprese, con tutti i relativi effetti in termini di maggiore liquidità in circolazione, minor numero di insolvenze e minore disoccupazione. Anche i tempi e i costi di recupero dei crediti sono direttamente collegati all’efficacia della giustizia e ciò dovrebbe far riflettere sul problema della valorizzazione e dello smaltimento della montagna di crediti deteriorati accumulati dalle nostre banche. Uno studio basato su un campione di Paesi mostra inoltre che l’efficienza del sistema giudiziario migliora i tassi di imprenditorialità e di innovazione nelle imprese: tutte virtù sulle quali, nuovamente, il nostro Paese arranca.

ImpresaLavoro ha provato a quantificare ulteriori aspetti, partendo inizialmente dal punto di vista di un investitore internazionale. Com’è evidente e assodato in finanza, nell’economia globale l’attenzione dei capitali si rivolge ai Paesi in cui è migliore il rapporto tra redditività attesa e livello di rischio. Se non supportata da solide prospettive di crescita, la possibilità di creare valore per le imprese passa certamente da una riduzione degli elementi di incertezza: quelli di tipo giudiziario pesano, eccome, e sono in grado di frenare in modo netto il flusso di investimenti nei Paesi meno efficienti come il nostro.

Se ci riferiamo al caso italiano, la media degli ultimi tre anni evidenzia investimenti netti annui provenienti dall’estero per un magro 0,72 per cento del PIL. Com’è noto, il dato non si riferisce solo alle acquisizioni di nostre imprese da parte di soggetti stranieri, ma all’effettiva apertura di nuovi centri, filiali e strutture in genere da parte dei non residenti: si tratta dunque di nuovi investimenti privati provenienti da investitori internazionali, il cui livello, molto inferiore alla media UE, mostra la scarsa attrattività del nostro Paese. Ebbene, secondo i numeri di un recente studio pubblicato dalla Commissione Europea, la riduzione delle cause pendenti per numero di abitanti è collegata all’incremento di questo tipo di investimenti: per il nostro Paese, portarle al livello della media europea potrebbe di per sé generare afflussi extra dall’estero per un valore tra lo 0,66 e lo 0,86 del Pil (in sostanza tra i 10,8 e i 14,1 miliardi annui: il doppio dell’attuale).

Ma non è l’unica via che contribuirebbe sicuramente a una più sana e robusta crescita del nostro Paese. Ridurre di un quarto i tempi dei tribunali in Italia potrebbe infatti di per sé aumentare il tasso di natalità delle imprese e cioè incrementare il ritmo di nascita di nuove iniziative imprenditoriali di circa 143mila unità all’anno: una volta e mezza il tasso attuale. Lo shock positivo sarebbe ancora più evidente nel caso i tempi si dimezzassero, portandosi dunque alla media europea: la stima in questo caso varia tra le 192 mila e le 240 mila nuove imprese all’anno in più rispetto ai ritmi correnti.
Se si potesse raddoppiare la velocità dei tribunali potremmo attenderci anche una crescita della dimensione delle nostre imprese, per circa l’8,5% in media, come stimato in un raffinato tema di discussione pubblicato da Banca d’Italia. È condiviso inoltre che un sistema giudiziario meno tempestivo fornisce minori incentivi agli investimenti e all’assunzione di nuovo personale, decisioni sulle quali l’incertezza può solo fungere da deterrente. Il dato, peraltro, non è poco rilevante per un Paese come il nostro in cui il 70 per cento del valore aggiunto è prodotto da piccole e medie imprese.

Ma non è finita qui, perché anche dal punto di vista della disponibilità di credito le conclusioni sono altrettanto importanti. Diversi studi hanno esaminato il legame tra tempi della giustizia, costo dei finanziamenti e loro disponibilità presso il canale bancario: secondo le relazioni più significative, raggiungere il livello medio UE nei tribunali potrebbe aprire l’opportunità di nuovi prestiti alle imprese per ben 29,3 miliardi di euro, pari a un aumento del 3,7 per cento rispetto allo stock attuale, in un settore che da anni continua a registrare segni negativi.

E infine, come se non bastasse, anche il mercato del lavoro ne potrebbe beneficiare direttamente. Si pensi che un’analisi di ImpresaLavoro basata sugli ultimi dati del Ministero della Giustizia suddivisi per distretti giudiziari ha individuato in ben 5,7 punti il potenziale di disoccupazione riducibile nel nostro Paese, con riferimento alle aree più disagiate. La stima è del resto coerente, oltre che con tutte le altre variabili economiche sin qui evidenziate, anche con quanto rilevato in un report del Fondo Monetario Internazionale, il quale confermerebbe un incremento di diversi punti della probabilità di impiego in seguito a un tale efficientamento della macchina giudiziaria. Altri studi hanno evidenziato i benefici che si avrebbero, oltretutto, in termini di riallocazione più efficiente e rapida delle risorse umane, di produttività e di maggiore intensità di capitale nelle nostre aziende.

A fronte di tutti questi dati, almeno due elementi emergono al di là di ogni altra considerazione. Il primo è indiscutibile: l’inefficienza giudiziaria agisce come un freno allo sviluppo della nostra economia. Il secondo è più difficilmente quantificabile, ma altrettanto rilevante: ridurre il peso di questa inefficienza potrebbe finalmente liberare un volume importante di potenzialità ancora inespresse.