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Se Berlino approva investimenti «con rigore»

Se Berlino approva investimenti «con rigore»

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Esce la Commissione di José Manuel Barroso, entra quella di Jean-Claude Juncker. Due ex primi ministri, due popolari, uno portoghese, l’altro lussemburghese. Il cambio della guardia si celebrerà il 1° novembre. Sarà vera svolta? È il grande interrogativo che pesa sul nuovo quinquennio europeo che va a incominciare e alla vigilia di un nuovo vertice Ue che domani e venerdì a Bruxelles, nel mezzo di una congiuntura sempre più negativa, dovrebbe parlare di crescita e investimenti e invece quasi certamente ripiegherà sui soliti mantra del rigore e delle riforme strutturali, dei patti di stabilità quali veri e unici motori di uno sviluppo sano.

Da anni la chiave di tutte le scelte europee sta a Berlino dove regna Angela Merkel, la cui proverbiale cautela è sempre più condizionata da destra, da Alternativa per la Germania che erode ai fianchi la Cdu-Csu, invece che dai socialisti della Spd, i suoi partner nel governo di grande coalizione. A favorirne una benefica sterzata di sicuro non aiuta l’incomunicabilità crescente con la Francia di François Hollande, che sfida apertamente le regole Ue pur professando al contempo il proposito di rispettarle… con il tempo. Né aiuta l’altrettanto crescente divaricazione del credo e delle ambizioni di popolari e socialisti, i due maggiori partiti europei, alfieri gli uni di un’assertiva politica di risanamento e modernizzazione dei vari sistemi-Paese e gli altri di un grande piano europeo di investimenti capace di rimettere in moto crescita e occupazione, come complemento indispensabile della dottrina dei sacrifici e delle riforme.

La plateale cacofonia programmatica tra i due fronti, che del resto ricalca quella franco-tedesca, alla lunga rischia non solo di far saltare la grande coalizione che oggi governa anche l’Europarlamento ma di mettere alle corde la nuova Commissione Juncker e i suoi margini di mediazione in casa e fuori. Il tutto in un clima di ambiguità fatto apposta per aumentare la confusione sugli obiettivi condivisi e paralizzare una macchina decisionale già molto complessa. Del resto quando, per superare l’esame delle audizioni parlamentari, il socialista francese Pierre Moscovici, nuovo commissario agli Affari economici, invece di difendere, alla luce dei guasti indotti dall’austerità eccessiva, in modo forte e chiaro l’urgenza dello sviluppo nell’interesse collettivo e della tenuta dell’euro, ha preferito dissimulare le sue convinzioni facendo il “tedesco” tutto d’un pezzo, come sperare in un’Europa diversa e migliore?

Nel grande malessere che contrassegna il principio del nuovo quinquennio c’è però anche dell’altro. C’è l’ignavia di Francia e Italia, seconda e terza economia dell’euro: non brillano per coerenza e serietà nel rispetto di regole e impegni europei eppure non esitano a contestarli in nome della causa giusta della crescita, che però diventa inevitabilmente meno giusta alla luce delle rispettive e incontestabili inadempienze. C’è la sfiducia della Germania circa le reali intenzioni dei suoi maggiori partner, tanto profonda da indurla al pareggio di bilancio nel 2015 invece di rilanciare domanda e investimenti: prima di tutto nell’interesse della sua economia che frena in modo sempre più allarmante. E poi nel suo ricorrente auspicio di una politica monetaria della Bce meno sensibile ai problemi del Sud e più favorevole agli interessi tedeschi, per esempio a ritrovare tassi di interesse più remunerativi per il risparmio di una popolazione che invecchia. C’è infine la stanchezza tra i tradizionali alleati di ferro di Berlino, come Austria, Finlandia, Olanda e Belgio, che pur non misconoscendo, al contrario, il valore aggiunto di conti in ordine e riforme, invocano con insistenza una spinta a crescita e occupazione. «La sollecitazione di Bruxelles a raggiungere il pareggio di bilancio nel 2015 è un’opinione interessante che non condividiamo. La frugalità è una cosa buona ma l’austerità non serve per stimolare l’economia» ha dichiarato il cancelliere austriaco Werner Faymann. Insomma il rigore va bene ma non al punto di fermare gli investimenti necessari alla ripresa.

Nel suo testardo rifiuto di una politica espansiva che altro non sia che il meritato premio di sacrifici, cure dimagranti e riforme, la Germania appare autolesionista e sempre più isolata, con il solo conforto di Paesi come Portogallo, Spagna, Irlanda che sono passati e usciti dal calvario della troika e ora pretendono che a nessuno sia risparmiato. Il prossimo giudizio sulle varie leggi di bilancio nazionali appena consegnate a Bruxelles, il modo con cui sarà reso e articolato dirà molto presto se in Europa esiste ancora e fino a che punto lo spazio per venirsi incontro, per arrivare a ragionevoli compromessi. Al momento appare molto stretto. Strappare però la corda tra gli opposti estremismi in campo, rischiare la rottura con la Francia equivarrebbe a un salto nel buio. Il cancelliere Helmut Kohl amava ripetere al presidente francese François Mitterrand: «Per fare una buona politica europea devo prima vincere le elezioni». Angela Merkel ne ha già vinte tre ma ancora non ci riesce. Forse non ha la stoffa né il coraggio dei grandi leader.

L’alto risparmio italiano è ormai solo un’illusione

L’alto risparmio italiano è ormai solo un’illusione

Pietro Reichlin – Il Sole 24 Ore

Si dice spesso che l’Italia può contare su un’alta propensione al risparmio delle famiglie. Si tratterebbe di una garanzia di stabilità finanziaria a fronte di un debito pubblico elevato e di un persistente disavanzo dello Stato. Almeno dal 2000 tale affermazione non è più corrispondente alla realtà. Se nel 1997-98 il tasso di risparmio delle famiglie era ancora intorno al 20% (un primato tra i paesi Ocse), oggi il valore è sceso all’8-9%. Il fenomeno è certamente una conseguenza della recessione: quando il reddito personale cala, si risparmia meno per evitare un calo eccessivo dei consumi. Ma non possiamo escludere un cambiamento strutturale. Già dal 2000, infatti, il saggio di risparmio degli italiani si è allineato ai valori degli altri paesi europei, attestandosi tra il 15 e il 16 per cento del reddito disponibile.

La caduta del risparmio delle famiglie non è solo un problema per quanto riguarda la dinamica della ricchezza finanziaria (sia pure ancora elevata in rapporto al Pil), ma è principalmente un freno alla dinamica degli investimenti. È noto che il nostro paese ha una scarsa capacità di attrarre capitali dall’estero e, quindi, la crescita dello stock di capitale, da cui dipende la produttività e il reddito futuro, è fortemente correlata con il risparmio nazionale. La riduzione del saggio di risparmio delle famiglie ha infatti contribuito notevolmente alla discesa degli investimenti e del risparmio nazionale dal 1997 al 2012, diminuiti di 4,8 punti in rapporto al Pil. Si tratta di uno dei risultati peggiori tra i paesi dell’Ocse.

Eppure, questo calo è circa la metà di quello subito dal saggio di risparmio delle famiglie nello stesso periodo, che è stato di oltre 9 punti percentuali. Dai dati del 2013, si evince che il risparmio complessivo delle famiglie costituisce circa il 6% del Pil e, poiché il risparmio del settore pubblico è quasi nullo (-0,3% del Pil), ciò significa che il risparmio societario è arrivato al 12-13 per cento. La conseguenza è che oggi il risparmio delle famiglie italiane rappresenta non più di un terzo del risparmio nazionale. Questo quadro getta qualche ombra sulla possibilità di uscire dalla crisi con un aumento dei consumi (cioè un’ulteriore caduta del saggio di risparmio familiare) e sull’efficacia di altri stimoli al credito bancario in un’economia in cui la dinamica degli investimenti deriva in misura sempre maggiore dagli utili non distribuiti.

La crescita del risparmio societario, a decorrere dalla crisi del 2008, è un dato comune ai principali paesi industrializzati. Si tratta di una reazione di carattere precauzionale, determinata dalla caduta dei profitti avvenuta nel 2008-2009 e dalla maggiore incertezza, ma anche la conseguenza di un processo di risanamento dei bilanci, cioè dell’uso dei risparmi per ripagare debiti pregressi. Il credito netto delle imprese, cioè la differenza tra risparmio societario e investimenti, è diventato positivo dopo il 2008 in Canada, Germania, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti. In questo modo le imprese sono riuscite a risanare velocemente i propri bilanci recuperando la caduta degli investimenti che si è verificata immediatamente dopo la crisi. In Italia questo processo avviene con maggiore ritardo. Fino al 2012 il credito netto delle imprese è rimasto negativo, con un ulteriore aumento dell’indebitamento ed una caduta più accentuata degli investimenti fino al periodo corrente.

La conclusione è che le famiglie italiane risparmiano sempre meno, a causa della caduta dei redditi, e le imprese ricorrono con sempre maggiore frequenza alle risorse interne per ristrutturare i bilanci. Poiché i profitti sono deboli, ciò ha conseguenze negative sugli investimenti e ritarda la ripresa economica del paese. Adottare misure per aiutare le imprese a consolidare la propria posizione finanziaria e affrontare le ristrutturazioni produttive potrebbe essere più efficace che puntare ad una ripresa dei consumi.

Troppa confusione sui servizi alla natalità

Troppa confusione sui servizi alla natalità

Il Sole 24 Ore

In attesa del testo definitivo della legge di Stabilità valgono alcune prime considerazioni sul nuovo fondo per la maternità da 500 milioni di euro del Governo Renzi. La prima: lo soglia di 26mila euro Isee (e senza limiti dal quinto figlio) individuata è molto elevata per un paese nel quale ci sono 1,4 milioni di minori in povertà assoluta e per i quali ancora non esiste una misura universale di assistenza. Basti ricordare che l’attuale social card da 40 euro al mese va a beneficiari con un Isee non oltre i 6mila euro. Così si rischia, come avvenuto in passato, di dare soldi a mamme che non ne hanno alcun bisogno. Seconda considerazione: nel resto d’Europa le politiche per il sostegno della natalità si fanno con i servizi sul territorio, non con trasferimenti monetari. Terzo: attualmente esistono già cinque istituti che destinano risorse per 15 miliardi con criteri del tutto scoordinati e che potrebbero essere razionalizzati. Insomma la confusione è ancora tanta, speriamo che nelle prossime ore e durante l’iter parlamentare ci siano i margini per rimediare.

Tasse retroattive, il vizio dei governi

Tasse retroattive, il vizio dei governi

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

Il tempo, per il Fisco, assomiglia a una sorta di variabile indipendente. E il calendario, a pensarci bene, può persino girare al contrario. Dicembre, novembre, ottobre, settembre. Accade spesso, anzi troppo spesso che, per esigenze di bilancio, si decida di spostare all’indietro le lancette dell’orologio. E introdurre così aumenti delle tasse con effetto retroattivo. Un vizio comune a tutti i governi degli ultimi anni e che ha contagiato lo stesso Parlamento. Un giochetto (di prestigio) che consente, in pratica, di concedere sgravi a qualche contribuente, penalizzandone, però, altri. O di tappare, per questa via, improvvise falle nei conti pubblici.

L’ultimo esempio è quello dell’Irap, l’imposta regionale sulle attività produttive. Nella legge di Stabilità è appena stato deciso di alleggerirla per chi farà nuove assunzioni, soprattutto con contratti a tempo indeterminato, con una riduzione dell’aliquota dal 3,9 al 3,5%. Peccato che ci sia l’altro lato della medaglia: per tutti gli altri imprenditori, che non assumeranno, non perché sono cattivi ma perché non possono, l’imposta torna al livello precedente, al 3,9%. Da quando? Non dall’entrata in vigore della legge di Stabilità fissata per gennaio 2015 – dopo, probabilmente un estenuante dibattito parlamentare e la stesura di un maxi emendamento -, ma da gennaio scorso. Sì, da gennaio 2014, con dodici mesi d’anticipo.

Si dirà che anche i vantaggi sono retroattivi, ma in questo caso, come accade con il Codice penale, la norma dovrebbe essere favorevole al reo (in questo caso il cittadino-imprenditore). Retroattivi, ad esempio, sono stati i tagli ad alcune detrazioni fiscali (polizze vita). Come gli aumenti delle addizionali locali del 2011. Retroattivo rischia di essere anche l’incremento dall’11,5% al 20% del prelievo annuo sui rendimenti dei fondi pensione. E, quando non si aumentano le tasse, si cambiano le regole del gioco. A vantaggio dell’Erario, ovviamente. Si calcola che, solo nel biennio 2011 e 2013 siano state approvate imposte retroattive per un valore di circa 5,5 miliardi.

Viene quindi da chiedersi quale validità abbia ancora lo Statuto del contribuente, varato nel 2000 e presentato come il provvedimento che avrebbe reso più equilibrato e corretto il rapporto tra il Fisco (lo Stato) e i cittadini. Lo Statuto, articolo 3, stabilisce che «le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo. Relativamente ai tributi periodici le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo d’imposta successivo». Ma questa norma viene spesso bypassata spiegando che si tratta di un’eccezione.

Secondo lo Statuto, le leggi che trattano un argomento diverso da quello tributario non possono intervenire in materia fiscale, se non per la parte di stretta pertinenza. E invece le tasse si moltiplicano proprio là dove non dovrebbero esserci e dove nessuno se le aspetta. Un esempio? Il taglio alla deducibilità dei costi delle auto aziendali introdotto per finanziare la legge Fornero sulla riforma del mercato del lavoro. All’articolo 4 si stabilisce che non si può disporre con decreto-legge l’istituzione di nuovi tributi né prevedere l’applicazione di tributi esistenti ad altre categorie di soggetti. Mentre molte imposte sono state introdotte proprio con decreto legge. Perché? Siamo in emergenza.

E così, di eccezione in eccezione, lo Statuto del contribuente è stato violato innumerevoli volte dal legislatore. Almeno qualche centinaio di volte. E non solo sulla retroattività. Uno statuto con i buchi, insomma. Un provvedimento che fa ancora la sua bella figura nella vetrina del Fisco made in Italy. Ma dagli effetti pratici quasi nulli. La trasformazione da sudditi a cittadini, che doveva avvenire proprio grazie allo Statuto, non è stata ancora completata. E sono già passati 14 anni.

Non solo fondi pensione: colpite dal DDL stabilità anche le polizze vita

Non solo fondi pensione: colpite dal DDL stabilità anche le polizze vita

Federica Pezzatti – Il Sole 24 Ore

Crolla un altro caposaldo delle polizze Vita. Il governo Renzi dal prossimo 1° gennaio, se le misure annunciate saranno confermate, tasserà al 26% anche le plusvalenze delle polizze Vita incassate dagli eredi dell’assicurato che finora erano esentati. Al contrario di quanto è scritto sui contratti, dunque, i beneficiari pagheranno le tasse sui guadagni maturati dalla sottoscrizione del contratto fino al momento della morte dell’assicurato. È bene precisare, per evitare fraintendimenti, che le polizze resteranno comunque esenti da tasse di successione.

Si tratta di una novità, che riguarda ramo I e ramo III, che coglie di sorpresa l’industria assicurativa che giudica il provvedimento come un segnale poco favorevole, tenuto conto che ci sono forme tecniche a “vita intera” finalizza te proprio alla tutela degli eredi. Una nuova tegola che si abbatte sul settore dopo il provvedimento di rialzo della tassazione delle plusvalenze passata dal 20% al 26% dallo scorso luglio (salvo per i guadagni originati dagli investimenti in titoli di Stato e equiparati che saranno tassate al 12,5%) e che ammontano a circa il 60% delle riserve Vita.

La legge di stabilità colpisce dunque duramente un investimento sempre più utilizzato: nei primi otto mesi del 2014 la nuova produzione Vita è aumentata del 43% rispetto allo stesso periodo del 2013, con 72,2 miliardi di euro di raccolta. Non sono stati risparmiati ovviamente i Pip, piani di previdenza assicurativi. In quanto prodotti di previdenza complementare, le plusvalenze da essi originate di anno in anno saranno tassate, stando alle bozze, al 20% (contro l’11,5% valido da luglio) salvo, la componente investita in governativi ed equiparati (aliquota al 12,5%). Come consolazione ai possessori di prodotti Vita, ma solo di ramo I, resta l’esenzione da bollo: le rivalutabili sono le uniche (insieme ai fondi pensione e fondi sanitari) a non pagare il balzello sugli investimenti dello 0,2% annuo e questo vantaggio appare conservato.

Legge di stabilirà

Legge di stabilirà

Davide Giacalone – Libero

Più che una legge di stabilità si avvia a essere una legge di stabilirà. Nel senso che si modella e adatta con il passare delle ore. Il tempo passato dall’annunciazione alla presentazione è servito anche per far tesoro dello sgomento suscitato nel sentir dire alcune cose. Per esempio: la decontribuzione annunciata, sulle assunzioni a tempo determinato, era di 6200 euro, ma trattavasi di un errore, perché già ci sono aziende che avrebbero diritto a una decontribuzione superiore, sicché nel testo che sarà presentato in Parlamento (dove ancora neanche c’è) quel limite sarà alzato a 8060. Vedremo cosa combineranno con il Tfr, i cui errori sono stati qui illustrati per tempo.

Originale la teoria illustrata da Yoram Gutgeld, consigliere economico di Matteo Renzi: se le norme esistenti si dimostrassero più convenienti di quelle che stiamo preparando, il contribuente potrà attenersi a quelle che preferisce. Lui si riferisce alle agevolazioni per le partite Iva, ma, certo, ha tutta l’aria d’essere un bislacco principio generale: noi ideiamo agevolazioni, che annunciamo a raffica, ma se, eventualmente, la legge preesistente fosse migliore di quella da noi magnificata, niente paura, potrete continuare a usarla. In espansione, se non altro, c’è la fantasia.

Direi che dalla scuola alla giustizia la nouvelle vague governativa s’è l’asciata un po’ prendere la mano dall’ebrezza della consultazione popolare: noi annunciamo una cosa, stilando un menù che non comporta scelte, e voi siete liberi ciascuno di dire la propria. Tanto nessuno sta a sentire. In campo fiscale sembra ci sia un salto di qualità: mettiamo in parallelo un paio di sistemi e voi scegliete quello in cui vivere. La legge di stabilirà. Intanto, per non rendere noiosa la vita, continua la serrata campagna degli annunci. Immagino che al Quirinale si siano domandati: ma se ci hanno appena consegnato il testo della legge di stabilità, perché l’idea degli 80 euro alle mamme non c’è e sono andati a illustrarla in un salotto televisivo? Non so cosa si siano risposti. Di certo, un tempo erano più arcigni e meno comprensivi.

Una cosa buona, comunque. O no? No, non lo è. È una roba demagogica e controproducente. Lasciando da parte la fissazione per il numero 80, che non si capisce per quale logica quantifica i regali governativi, è bene rendersi conto che questa perversione laurina comporta una concezione della società come fossimo tutti minorenni, pronti a gioire per le mance temporanee. In una società maggiorenne le famiglie hanno bisogno dei servizi che le affianchino nella gestione dei bambini, a cominciare dagli asili nido. In una società maggiorenne la fiducia nel futuro discende dalla crescita economica, quindi dalla ragionevole certezza che lavorando si possa giovarsene. Mentre è tipico di una società minorenne il supporre che si possa dare e prendere senza che questo sia legato al produrre. Certo che 80 euro, al mese, tornano utili quando si affrontano le spese per un bambino, e certo che prendere gli applausi è cosa piuttosto semplice, annunciandoli, ma il bambino sopravvive ai tre anni e se non ci sono asili a sufficienza si perde partecipazione al lavoro degli adulti. Poi supera i sei anni, e se nelle scuole trova gli stabilizzati anziani avrà un’istruzione carente. E se lo mandiamo in scuole analogiche, con testi stampati e senza digitalizzazione non solo gli rubiamo capacità, ma rubiamo soldi alle loro famiglie, come capita anche quest’anno. Poi supera i diciotto, e se si trova in università chiuse alla concorrenza e autoreferenziali nell’assegnazione delle cattedre diventerà un analfabeta laureato. Ci sono toghe che non compitano nell’italico idioma. A quel punto che gli diamo, il contributo per disadattamento al lavoro e al mondo?

Quando i soldi sono troppi può capitare di contrarre i vizi dell’agio e dell’improduttività. Ma ora i soldi sono pochi e spenderli fuori dal rilancio di istruzione e produzione è un delitto. Salvo prendere applausi, per la legge che solo poi stabilirà

Il Fus resiste (o no?)

Il Fus resiste (o no?)

Marco Valerio Lo Prete – Il Foglio

Ammesso pure che per le regioni non ci sia la possibilità di “scontare” risorse dai fondi aggiuntivi per la sanità concordati con l’esecutivo, alcuni governatori adesso si mostrano pronti in linea di principio ad accogliere la sfida di Renzi. Il presidente della Toscana, Enrico Rossi, ieri ha annunciato per esempio l’intenzione di “riorganizzare il servizio in tre aziende sanitarie ospedaliere universitarie al posto delle attuali 16. Tuttavia – e questa per certo sarà la seconda linea di difesa rispetto all’esecutivo – anche le riorganizzazioni più drastiche richiedono tempo per generare risparmi. Linea cui si potrebbero opporre alcuni dati pubblicati dalla Corte dei Conti, non esattamente un bastione di turbocapitalisti prevenuti con la Pubblica amministrazione: dal 2003 al 2008, cioè alla vigilia dell’inizio della crisi, la spesa regionale è cresciuta dell’53 per cento all’anno, con una frenata soltanto a partire dal 2009. Poi ci sono vicende patologiche che arrivano ai giorni nostri, e che contraddicono la retorica di chi agita lo spauracchio degli ospedali da chiudere: la stessa Corte dei Conti infatti, nella sua Relazione sulla gestione finanziaria delle regioni, osserva che “spesso i bilanci regionali si giovano delle risorse destinate alla sanità per far fronte ad esigenze di liquidità in altri settori”.

Non a caso alcune regioni tentano timidamente di differenziare la propria posizione rispetto a quella del “Fronte unico spendaccíone”: “Il fronte unico si forma per contrastare la palese irragionevolezza della proposta – dice al Foglio Massimo Garavaglia, assessore all’Economia della Lombardia, già deputato e senatore della Lega nord – Dopodiché al governo, che nella legge di stabilità propone di suddividere i 4 miliardi di tagli in base a popolazione e pil delle diverse regioni, chiediamo piuttosto di applicare i “costi standard”. Garavaglia fa un esempio, diverso da quello più noto della siringa che ha un costo diverso da Asl a Asl: “In Lombardia la spesa pro capite per il personale e di 19,8 euro. Quella della Basilicata è di 97,1 euro. Ridurre la spesa in modo ragionevole vorrebbe dire per esempio portare tutti e due a 18 euro, così da accrescere i risparmi. E non invece concedere con la stessa legge di stabilità 40 milioni di euro, o 1.200 euro pro capite alla sanità del Molise solo perché alla vigilia di un voto locale”. L’esecutivo della regione Lombardia, inoltre, è certo di avere “la giurisprudenza” dalla propria parte: già nel 2013, conclude infatti Garavaglia, la Corte costituzionale si è espressa contro i tagli lineari alle regioni. Procedere con la legge di stabilità di oggi vorrebbe dire dunque andare incontro a un’altra bocciatura, facendo automaticamente mancare le coperture per le misure dell”esecutivo Renzi.

Lo strano caso del pensionato che non ha mai lavorato

Lo strano caso del pensionato che non ha mai lavorato

Nicola Pinna – La Stampa

La claustrofobia, almeno per un minatore, dovrebbe la essere causa principale di «non idoneità al servizio». E Carlo Cani, in fondo, lo sapeva bene, ancor prima di essere assunto alla Carbosulcis. Ma lui il terrore di vivere rinchiuso in una galleria semibuia, a centinaia di metri sotto terra, l’ha sfruttato per anni. A suo favore. Ha accumulato giorni e giorni di malattia e così non si è mai presentato al lavoro. Con la complicità del certificato medico, e sfruttando lunghi periodi di cassa integrazione, ha raggiunto un obiettivo doppio: trascorrere pochissimi giorni in miniera e maturare ugualmente il diritto alla pensione. Raggiunto il traguardo, si dedica a tempo pieno al jazz e racconta la verità: «Mi inventavo di tutto: amnesie, dolori, emorroidi, camminavo sbandando come fossi ubriaco. Mi capitava di urtare la parete con un pollice e lavorare con un dito gonfio ovviamente era impossibile. Altre volte mi finiva la polvere in un occhio. E poi il collo, mesi passati con il collare per tenere a bada una maledettissima cervicale. Ma la verità è che non ce la facevo, la miniera non era roba per me».

In tempi di disoccupazione record la confessione del sessantenne di Santadi ha scatenato subito polemiche violente. Terrorizzato, ora non risponde più al telefono. Ma sui social è bersagliato di insulti, soprattutto dai giovani che un lavoro lo sognano da anni e che la pensione rischiano di non riscuoterla mai. Per chiedere di non fermare l’attività estrattiva, i minatori di Nuaxi Figus hanno organizzato cortei, occupazioni e proteste di ogni genere. In gruppo, nel 2012, si sono persino asserragliati a quattrocento metri di profondità, mentre il loro ex collega di Santadi (piccolo paese della provincia Carbonia-Iglesias) ha giocato d’anticipo. Ha sfruttato lo “scivolo” del prepensionamento e ha dimenticato per sempre la polvere di carbone sugli occhi. Tra malattie di ogni genere, riabilitazioni, riposi accumulati e ammortizzatori sociali Carlo Cani ha maturato 35 anni di servizio, 26 dei quali proprio negli organici della Carbosulcis. Tutto regolare, certificato dell’Inps, che dal 2006 gli versa regolarmente l’assegno mensile. «Ho maturato l’anzianità necessaria ma praticamente non ho lavorato mai – racconta – Là sotto stavo troppo male. Sin dall’inizio, io e il carbone non abbiamo legato».

Quando l’hanno assunto in miniera Carlo Cani non ha fatto salti di gioia. Il primo della lista dell’ufficio di collocamento ha rinunciato, mentre lui ha accettato subito. E dai primi giorni ha iniziato a studiare la strategia per faticare il meno possibile. «Era il 1980 e al mio paese, Santadi, spettava un’assunzione in Carbosulcis. Quando mi hanno contattato non ero entusiasta, ma l’orgoglio di famiglia mi ha spinto ad accettare. Mio padre Luigi, che ha 95 anni, era minatore alla vecchia Carbosarda. Minatore vero, come quelli dei suoi tempi». Fatto il corso di avviamento, Carlo Cani ha iniziato a fare i conti con il nemico numero uno: la galleria. «All’inizio sembrava un gioco: il casco, l’attrezzatura, tutto era divertente. Il brutto è venuto dopo. In mezzo, anche qualche momento drammatico: un collega di 28 anni schiacciato da un masso lo prese tra la testa e il collo. Lo tirammo fuori che era già morto. Io ci ho sempre riso su perché sono un minatore per caso, ma quel momento mi è rimasto stampato nella mente. La mia è stata una storia strana ma laggiù, sotto terra, c’è gente che si è spaccata la schiena per anni e anni, gente che il salario se l’è guadagnato col sudore. Io li rispetto ma sono diverso sono un minatore-jazz».

Speso 1 miliardo per tenere le miniere aperte

Speso 1 miliardo per tenere le miniere aperte

Libero

Servirebbe uno storico, più che un contabile, per mettere in colonna i costi per mantenere in vita le miniere sarde. Dal 1971 ad oggi (anzi fino al 2027, data in cui è prevista la messa in sicurezza e la bonifica delle 7 miniere sarde), si stima (per difetto) che gli italiani abbiano sborsato oltre 1 miliardo di euro. Chi ci prova a fare di conto – considerando anche un cambio di valuta, dalle lire all’euro – stima che siano stati spesi 930 miliardi di lire dal 1971 al 1996 (l’anno in cui la Regione Sardegna si è accollata gestione e debiti delle 7 miniere sarde del Sulcis). Poi però – ma è sempre una stima per difetto – per le miniere finite sotto il controllo pubblico, sono stati spesi almeno altri 600 milioni di euro.

“Spannometricamente” si può tranquillamente ipotizzare che le miniere sarde – che dovranno definitivamente chiudere entro il dicembre 2018 – siano costate ad oggi circa 1,1 miliardi di euro. E senza tener conto che negli ultimi anni sono stati assunti altri addetti (soprattutto ingegneri). Nei prossimi 4 anni andranno in pensione (probabilmente con lo scivolo per i “lavori usuranti”), circa 470 dipendenti. Resterebbero da ricollocare un centinaio di addetti che probabilmente verranno accompagnati alla pensione con sussidi e interventi reiterati anno dopo anno. Costa denaro pubblico mantenerle aperte ma ancora di più chiuderle. Altri quattrini arrivano anche per riconvertirle ad attrazione turistica. Lo scorso agosto, sempre la Regione Sardegna ha stanziato un discreto malloppo (Assessorato all’Industria), per il recupero «di aree interessate da attività estrattive». Il bando è scaduto il 4 agosto: stanziamento massimo 250mila euro a Comune. Scusate se è poco…