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Renzi azzera i contributi sulle assunzioni ma la burocrazia potrebbe far fallire tutto

Renzi azzera i contributi sulle assunzioni ma la burocrazia potrebbe far fallire tutto

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

È una proposta non nuova per gli italiani. Negli ultimi anni diverse forze politiche hanno proposto l’azzeramento dei contributi per le nuove assunzioni a tempo indeterminato. La peggiore recessione del secondo dopoguerra abbinata alla deflazione e accompagnata da un cuneo fiscale che scoraggerebbe perfino la voglia di fare impresa dei tedeschi hanno prodotto il record italiano della disoccupazione giovanile: +44,2%. Ovvio che un premier di attacco, quale Matteo Renzi sicuramente è, non poteva restare fermo ai soli annunci. Non sorprende, quindi, la sua decisione di varare nella nuova legge di Stabilità la decontribuzione triennale al 100% sui contratti a tempo indeterminato. Decisione, peraltro, accompagnata dall’eliminazione del costo del lavoro dalla base imponibile Irap. Una scossa vera, dunque, al cuneo fiscale italico che punta al cuore delle aspettative di imprenditori e manager per farle girare verso il quadrante positivo della congiuntura economica.

Oggettivamente si tratta di decisioni sempre promesse dal duo Berlusconi-Tremonti e mai realizzate in tanti anni di governo. Renzi con la nuova legge di Stabilità completa l’opa ostile, iniziata con gli 80 euro e il primo taglio dell’Irap del 10%, sull’elettorato un tempo del Cavaliere e indossa, senza se e senza ma, i panni della socialdemocrazia riformista tedesca. Il pericolo per il premier a questo punto è soltanto uno: quello incarnato dalla burocrazia italiana oggettivamente inadeguata a rendere operative rapidamente le politiche anticicliche adottate dai governi. I ministeri fanno marcire nei cassetti le norme pro sviluppo e pro occupazione e quando, dopo vari anni dalla pubblicazione in G.U. del dl che le conteneva, le rendono operative non servono praticamente più a raggiungere lo scopo per cui erano state varate.

Il caso del Mise e del cosiddetto bonus fiscale per le assunzioni altamente qualificate è esemplare. Introdotto con decreto dal governo Monti nel giugno del 2012 è diventato operativo solo il 15 settembre del 2014 (solo per le assunzioni del 2012 ovviamente; quelle fatte quest’anno saranno incentivate nel 2016!). Chi assume un PhD nel 2012 per avere un credito di imposta nel 2015? In pratica nessuna impresa, come ora certificano i dati della stessa procedura. Dei 25 milioni di euro messi a disposizione dal Mise per il 2012, ben 20.125.982, cioè più dell’80%, sono ancora disponibili dopo un mese dall’avvio del clickday. Trattandosi di assunzioni relative al 2012 possiamo già considerare chiusa la procedura. Morale: quando la burocrazia impiega ben 27 mesi per rendere operativa una norma anticiclica ne uccide la capacità di incidere. La vera nemica del riformismo di Renzi, oggi, è proprio questa pubblica amministrazione da terzo mondo.

Si sa dove tagliare, se si vuole

Si sa dove tagliare, se si vuole

Marco Bertoncini – Italia Oggi

Peccato che il lavoro svolto da Carlo Cottarelli sia destinato a restare in larga misura inattuato. Eppure basterebbe applicare anche soltanto una parte dei suoi suggerimenti, consigli, riflessioni, per ottenerne ampi vantaggi. Citiamo un solo caso, venuto fuori ieri nel corso della seduta della commissione parlamentare di vigilanza sull’anagrafe tributaria: il numero dei Comuni. Il commissario alla revisione della spesa, ormai in limine vitae, ha osservato che 8.000 Comuni sono troppi, che bisognerebbe ridurli (così da consentire fra l’altro un più facile coordinamento), che occorrerebbero «meccanismi premiali» per favorire gli accorpamenti.

Andrebbe osservato che anche venti regioni sono troppe: il Molise potrebbe costituire una provincia non una micro regione a sé, popolosa come un municipio di Roma Capitale. Sono troppe pure le centodieci e oltre province: ovviamente, se ne era annunciata prima la riduzione, poi la soppressione completa, ma finora si è vista solo la soppressione del suffragio popolare. E poi sono troppe le aziende partecipate i consorzi, gli enti intermedi… Basterebbe pensare a quel che succede in questi giorni, in conseguenza dei malanni ambientali: si rimpallano le responsabilità regioni e autorità di bacino (o come si chiamano), consorzi di bonifica e comuni, protezione civile e perfino tribunali amministrativi, senza dimenticare che ci sono perfino le non dissolte province a introitare il loro sempre vivo tributo ambientale, con destinazione ignota ma pagato come addizionale sulla Tari.

Sì, Cottarelli ha ragione: bisognerebbe promuovere gli accorpamenti. Non la semplice nascita di unioni fra comuni, ma la totale dissoluzione di più comuni piccoli in un solo comune maggiore, più esteso e più popoloso. La questione non va ristretta ai cosiddetti oneri per la politica, perché in tal caso il risparmio (pur presente) sarebbe ridotto: va invece inserita in un discorso di semplificazione dei troppi e troppo invadenti e spesso conflittuali enti pubblici, per diminuirne sia il numero sia la prevalenza nella vita civile. Secondo recenti dati dell’Istat, oltre 3.500 Comuni contano meno di 2.000 abitanti ciascuno, più di 2.100 hanno una popolazione fra i due e i cinque mila abitanti, altri 1.100 e passa stanno sotto i 10mila amministrati. Sarebbe fuori luogo chiedere di accorpare, tempo un anno, almeno i quasi 140 enti che hanno meno di 150 abitanti, a livello cioè di un condominio nemmeno troppo popoloso?

La scommessa con Bruxelles e il giro di boa

La scommessa con Bruxelles e il giro di boa

Oscar Giannino – Il Messaggero

La legge di stabilità varata ieri dal governo è una sfida: all’Europa, ai mercati e, in chiave interna, soprattutto alle imprese italiane. È una sfida che in Parlamento non avrà vita facile, come si è visto già dal singolo voto di margine con cui è stata approvata la nota di variazione del Def. Ma per Renzi è la sfida complessiva del suo governo. Vedremo presto se l’Europa – la vecchia commissione Barroso, la nuova Juncker – accetteranno il criterio avanzato da Renzi e Padoan. Quanto ai mercati, è un’incognita vera, come si è visto dalla traumatica giornata di ieri. Per le imprese, al contrario, l’occasione c’e. Ma bisogna stare attenti a non sopravvalutarla.

Il problema con l’Europa è che la sospensione unilaterale adottata dall’Italia della riduzione del deficit per mezzo punto annuo, e di un ulteriore margine di quasi 2 punti di Pil per ridurre il debito pubblico – che continuerà ad aumentare – si fonda su un criterio statistico di identificazione dell’ouput gap, cioè del divario tra andamento reale del Pil e quello potenziale, effetto della perdurante recessione italiana. Il criterio condiviso sin qui tecnicamente in Europa ci metteva al riparo da interventi su un deficit 2014 che sara superiore al 3%, ma non da quelli richiestici nel 2015. Com’è ovvio, il problema non è tecnico, ma politico. La scommessa di Renzi e Padoan è che la Francia sta peggio di noi, visto che noi rinviamo al 2017 l’azzeramento del deficit corretto per il ciclo mentre la Francia fino al 2017 non scende sotto il 3%. Ma il problema resta. Se l’Europa ci farà obiezioni dure non a caso il governo si tiene a disposizione un fondo di riserva quantificato in 3,4 miliardi di euro nella legge di stabilità varata ieri. Ma la scelta forte è di rinviare il ritorno a manovre incisive antideficit al 2016-2018, mentre nel 2015 ben 11 miliardi dei 36 di spesa della manovra sono finanziati in deficit. Se non basterà neanche il fondo di riserva, Renzi e Padoan terranno duro: pronti adire che l’Europa – e naturalmente la Germania, dipende tutto da lei – sbagliano, e l’Italia no. A costo di farne un cavallo di battaglia elettorale, drenando il terreno sotto i piedi degli anti euro, da Grillo alla Lega al resto della destra.

La scommessa sull’Italia è di un ritorno delle imprese ad assumere e a investire. Per questo la manovra è cresciuta nei giorni, e domenica scorsa Renzi ha convinto Padoan della necessità di aggiungere ai poco meno di 10 miliardi necessari a confermare – senza estendere – il bonus 80 euro, anche i 5 miliardi di totale abbattimento della componente Irap che tassa gli occupati (e che le imprese pagano anche quando sono in perdita), e i quasi 2 miliardi necessari per l’azzeramento dei contributi per tre anni ai nuovi assunti a tempo indeterminato. Qui il rischio c’e, insieme alla grande occasione.

L’abbattimento dell’Irap è la misura più saggiamente pro-crescita adottata da anni a questa parte. Aiuta le imprese ad alta densità di occupati, dalle banche alle multiutilities pubbliche ai grandi gruppi, ma non è detto che la ripresa dei margini che consente (per alcuni di un paio di punti percentuali, per altri fino al 4-6%) davvero si traduca subito in investimenti e assunzioni. Come nel caso degli 80 euro ai lavoratori dipendenti (e del Tfr che ora i lavoratori dipendenti privati, non pubblici, potranno ora chiedere in busta, garantito dallo Stato e dall’Inps e anticipato dalle banche), per larga parte ricostituirà margini pesantemente erosi, più che alimentare nuovi consumi. La differenza vera può farla solo un quadro diverso della domanda interna ed estera, ogni entrambe per ragioni diverse differentemente sofferenti. La scelta di reiterare il maxi incentivo alle assunzioni a tempo indeterminato rischia il bis del flop già realizzato col decreto Letta-Giovannini, ma è il prezzo da pagare al fatto che il governo sia di sinistra, e dunque creda di decidere lui al posto delle imprese quali contratti siano preferibili.

I 18 miliardi di meno tasse, a cui il governo tiene molto, dimenticano di sottrarre i 3,6 miliardi di entrate aggiuntive da risparmiatori, previdenza integrativa meno agevolata e fondazioni bancarie, il miliardo previsto dalle slot machine, i 3,8 miliardi contabilizzati ex ante dall’evasione fiscale (a proposito: ma l’impegno di restituire parte del gettito da evasione ai contribuenti invece di usarlo per pagare spesa di Stato, quando lo manteniamo?). Ma dall’altra parte il governo prevede anche 800 milioni di sgravi alle piccole partite Iva, e mezzo miliardo di aumento delle detrazioni alle famiglie, per i carichi familiari numerosi. Ed è un bene.

Su alcune poste rilevanti della cosiddetta spending review – che purtroppo non è quella di Cottarelli – c’e ancora molto da capire. Mentre i 4 miliardi di risparmi dei ministeri sono credibili, e altrettanto i 3 da procedure centralizzate sugli acquisti, i 6 da Regioni, Comuni e Province sommati sono invece tutti da verificare. Sulla riduzione drastica delle partecipate locali e sulla riduzione dei Comuni, promesse quest’estate nella legge di stabilità, al momento sembra non esserci nulla. E il rischio molto forte è di un deficit 2015 non solo fuori linea rispetto agli impegni europei, ma oltre il 3% che il premier tanto invece smentisce.

I mercati sono sopravvalutati, ha detto ieri il ministro Padoan. Sorprendendo molti, perché non tocca a un ministro dirlo. I mercati ieri hanno ricordato a tutti che basterà una sorpresa negativa sugli stress test bancari, una debolezza greca, una sorpresa negativa italiana, perché il rallentamento della crescita tedesco e americano, sommato a quello cinese e brasiliano, alla crisi mediorientale e a quella russo-ucraina, rifacciano innalzare il premio al rischio del debito dei paesi eurodeboli. Non solo l’Italia può ritrovarsi a quota 300 di spread in men che non si dica. Ma, soprattutto, Draghi e la Bce a differenza del 2012 e 2013 hanno oggi le polveri bagnate. Padoan e Renzi queste cose le sanno benissimo, eppure hanno deciso di rischiare forte. Forti del fatto che sono soli in campo, attualmente, nella politica italiana.

Trovare i soldi, nella bufera

Trovare i soldi, nella bufera

Il Foglio

“La differenza tra la finanziaria 2014 e quella 2015 è che ci sono 18 miliardi di tasse in meno. Tutto qui”, ha twittato ieri mattina Matteo Renzi. Il presidente del Consiglio, prima di riunire il governo in serata per approvare la legge di stabilità da inviare a Bruxelles e in Parlamento, non ha nominato nemmeno il predecessore, Enrico Letta, ma il confronto al momento è impietoso. Nell’ottobre 2013, Letta le tasse le ridusse di soli 3,7 miliardi per l’anno successivo, in una manovra di 11,6 miliardi. Renzi punta ad alleggerire il fardello per i contribuenti di 18 miliardi su una manovra di oltre 30 miliardi. Domanda più che legittima: ma come è possibile che Renzi d’un tratto, dopo gli ultimi anni di manovre levigate con un timido cesello, trova invece i soldi per tentare uno stimolo robusto dell’economia? Perdipiù nei giorni in cui le nubi di una nuova tempesta finanziaria si avvicinano minacciose superando di parecchio il proverbiale orizzonte?

Un primo indizio si trova proprio nel fosco scenario internazionale. Ieri la Borsa di Atene ha perso 6,32 punti: si teme che la fretta di abbandonare la tutela della Troika (Ue, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale) e l’accelerazione verso possibili elezioni faccia deragliare il percorso di risanamento. Proprio lì dove la crisi dell’euro è deflagrata nel 2010. Contemporaneamente l’attesa per i risultati degli esami della Bce sulle banche europee trascina giù un po’ tutti i listini (Milano ha perso 4,4 punti). Si aggiunga il calo sempre più rapido dei prezzi del petrolio e un qualsiasi dato statunitense peggiore del previsto: la congiuntura economica mondiale rallenta, e per l’Eurozona già a rischio deflazione non è un belvedere. “Un possibile nuovo choc recessivo per l’Italia, associato a un rallentamento europeo e a segnali di un certo tipo che arrivano dalle urne… Qualcuno, anche a Bruxelles, si è allarmato”, dice Sergio De Nardis, economista di Nomisma. Anche così si spiega “il percorso potenzialmente in conflitto con la Commissione” avviato dal governo Renzi che rinvia il pareggio di bilancio strutturale al 2017 e conta (per trovare circa 11 miliardi) sull’aumento del deficit nel 2015 dal 2,2 al 2,9 per cento del pil. Le regole europee per stringere i bulloni della finanza pubblica, tra cui il noto Fiscal compact, furono finalizzate tra 2011 e 2012: allora Bruxelles e i mercati dicevano con una sola voce che il default degli stati era possibile ed era necessario un segnale. Due anni dopo, con un “whatever it takes” di Mario Draghi alle spalle che ha placato lo spread, i vincoli austeri di Bruxelles non sono cambiati, ma Fmi, analisti e agenzie di rating hanno cambiato musica: l’ortodossa Berlino se ne faccia una ragione, la crescita viene prima di tutto. I dati di contesto contano, dunque, poi c’è il quid di spavalderia connaturato al premier rottamatore: “Renzi fin dall’inizio ha insistito sullo ‘sviluppo’ – dice Paolo De Ioanna, economista che ha coperto ruoli di governo e ai vertici della Pa – Ora, per la prima volta rispetto agli ultimi due governi, l’effetto netto della legge di stabilità sarà espansivo e non riduttivo”.

“La forza politica di Renzi è un ingrediente di questa finanziaria di cui non si può non tenere conto”, aggiunge De Nardis. Così, mentre ieri l’Abi (Associazione bancaria italiana) rompeva tutti gli indugi sull’idea del tfr in busta paga, si registra pure un cambiamento di tono della Confindustria che giudica “un sogno” il tris composto da stabilizzazione del bonus di 80 euro, abbattimento dell’Irap per 6,5 miliardi e decontribuzione sui nuovi contratti a tempo indeterminato. Le risorse per fare tutto ciò e pagare le spese indifferibili, oltre che nel deficit (11 miliardi) e nella consueta lotta all’evasione fiscale (3 miliardi), si troveranno in tagli alla spesa per oltre 15 miliardi. Cifra monstre pure questa per i nostri standard, da recuperare tra regioni, enti locali, ministeri e acquisti di beni e servizi della Pa. Se la spending review non basterà, ed è probabile, il governo procederà con tagli lineari. Il Parlamento capirà, dicono spavaldi nell’esecutivo. Altrimenti toccherà far scattare le clausole di salvaguardia (leggi: aumenti di tasse). E sarà proprio così, secondo autorevoli “gufi”, che alla fine si troverà invece una risposta alla domanda di cui sopra: ma com’è possibile che oggi Renzi i soldi li trova, e nemmeno pochi?

Carta vince, carta perde

Carta vince, carta perde

Stefano Feltri – Il Fatto Quotidiano

Evviva, evviva: Matteo Renzi sfascia l’austerità, taglia le tasse di 18 miliardi, regala soldi alle imprese, infila la liquidazione in busta paga ai dipendenti, conferma gli 80 euro, favorisce le assunzioni, c’è perfino qualcosa per le partita Iva. Tutti felici e tutti grati al premier e al Pd: un utile consenso, casomai arrivassero presto le elezioni.

Qualche obiezione però dovrebbe essere lecita. Primo: le coperture sono, come sempre, all’italiana. Oltre 11 miliardi arrivano dall’aumento del deficit: come dire che la copertura non c’è. Ma visto che ormai siamo tutti keynesiani, chiudiamo un occhio. Però ci sono i tagli: non ai tanto odiati “sprechi”, visto che il commissario alla revisione Carlo Cottarelli è stato licenziato e il suo lavoro sepolto negli archivi. No, si taglia (poco) sui ministeri e (molto, 6,2 miliardi) su Regioni ed enti locali: solo chi è in malafede può sostenere che ci sia ancora grasso da asportare. Dopo quattro anni in cui lo Stato centrale ha sottratto oltre 40 miliardi a Regioni e Comuni, ogni ulteriore stretta ridurrà i servizi, visto che le tasse non si possono più alzare senza rivolte di piazza (anche se il ministro Padoan è favorevole a un aggravio delle imposte locali).

L’austerità è ottusa, non c’è dubbio. E va ridiscussa perché non sta funzionando. Ma ancora una volta l’Italia viola i suoi impegni, oggi su debito e domani sul deficit, e non per finanziare investimenti che creino la base della crescita dei prossimi anni, ma per una versione rinforzata della deludente “operazione 80 euro”. Legittimo, ma il crollo delle Borse di ieri sulle voci di elezioni anticipate e di rigetto del rigore in Grecia dimostra quanto fragile è la tregua concessa dallo spread. Spendere in deficit e sbertucciare Bruxelles è facile. La parte difficile è affrontare le sanzioni europee – ormai certe – e l’eventuale furia dei mercati. Oltre a quella dei cittadini, se dovessero scoprire che i regali della politica sono prestiti con tasso di interesse da usura.

Manovra nel solco del New Deal, l’asso è il Tfr

Manovra nel solco del New Deal, l’asso è il Tfr

Stefano Patriarca – Europa

Una politica economica anticiclica e affronti il nodo del lavoro deve aumentare la domanda aggregata (consumi e investimenti) e contestualmente agire sulle condizioni dell’offerta che sia il mercato del credito, del lavoro, della concorrenza, delle condizioni di contesto. Agire solo sull’offerta sarebbe inutile, se per le imprese non cambiano le aspettative e la domanda, se non ha sete “il cavallo non beve” per quanta acqua gli metti davanti. Ma se le aspettative si invertono le condizioni dell’offerta diventano decisive. Per questo non esiste l’alternativa “prima la crescita e poi la regolazione” o viceversa, è una discussione come quella sull’uovo e la gallina. La più grande operazione anticiclica fatta, il New Deal di Roosevelt fu un grande mix di interventi sull’offerta e sulla domanda (e per questo anche Keynes ebbe da ridire).

La legge di stabilità e gli altri provvedimenti del governo muovono passi in quella direzione. Per la prima volta da molti anni si utilizza lo strumento del finanziamento in deficit. La legge di stabilità sceglie di operare tagli sulla spesa pubblica (certo inferiori al previsto ma senza toccare sanità e pensioni, e senza aggravare la situazione occupazionale), tagli ai quali corrisponde un’equivalente operazione di riduzione di tassazione per imprese e famiglie, più ulteriori interventi di detassazione finanziati in deficit, tra i quali il rilevante finanziamento degli ammortizzatori sociali. Un’operazione che a vincoli europei immutati è una sorta di cubo di Rubik, ma sicuramente positivamente innovativa. Ci si deve interrogare piuttosto sul livello di efficacia dell’intervento in termini di input anticiclico. È noto infatti che gli effetti moltiplicativi sull’economia dei una riduzione di tassazione, sono molto più lievi e lenti rispetto ad interventi diretti di domanda aggiuntiva fatti tramite investimenti o consumi.

È proprio per rendere efficace l’intervento che la manovra ha calato una sorta di asso: il Tfr in busta paga. Si tratta di una sorta di quattordicesima che tutti i lavoratori possono liberamente decidere di avere ora, riducendo il risparmio futuro. Da tempo ho sostenuto che tale operazione fosse importante e necessaria. L’impatto sul reddito di una famiglia può essere del 7%, su tutti i consumi tra l’1 e il 2%, sul Pil tra lo 0,8 e 1,5% (in relazione a quale sarà l’adesione dei lavoratori).

Se le condizioni concrete di attuazione saranno coerenti con le enunciazioni (condizioni che ho sottolineato più volte come essenziali), l’operazione ipotizzata dal governo non graverà sulle imprese (perché l’anticipazione sarà a carico delle banche), non costituirà un aumento fiscale per i lavoratori perché la tassazione sarà separata (come quella che il lavoratore avrebbe alla fine del rapporto di lavoro) per le banche (remunerate con il conveniente tasso di capitalizzazione del Tfr indicizzato all’inflazione) è una forma di impiego risk free, più redditizia dell’impiego in titoli pubblici e utile anche alla stabilizzazione finanziaria degli impieghi.

Finalmente si intacca un vero tabù della nostra società: il fatto che la crescita dipenda sostanzialmente da quanto si risparmia e che il benessere futuro possa essere solo a scapito del benessere di oggi. Siamo un paese che risparmia più di ogni altro in case, che ha una ricchezza pensionistica futura (anche con il sistema contributivo) comparabile e spesso superiore a quella degli altri paesi europei, che ha quote di ricchezza finanziaria superiori alla media europea, che può permettersi di investire all’estero 35 miliardi del Tfr che le imprese italiane hanno versato, che destina a risparmio quasi il 45% del monte retribuzioni. E questo spesso in nome di una falsa valutazione sulle future pensioni pubbliche che avranno una tasso di sostituzione più basso dell’attuale (eccessivamente alto), ma adeguato. Nessun sistema al mondo può garantire pensioni floride con un disastroso mercato del lavoro e senza crescita. La garanzia del reddito futuro non è solo in quanto si risparmia, ma in quanto si cresce, in quanto sarà qualitativamente alto e non barbarico il mercato del lavoro, in quanta occupazione aggiuntiva vi sarà per i giovani.

Quando la crisi provoca una disoccupazione rilevante specie per i giovani, anticipare un po’ di ricchezza futura dei meno giovani per finanziare consumi, redditi e posti di lavoro è un segnale importante, perché mentre si predica loro di non vivere da cicale, si eviterà di ritrovarsi con un mondo di giovani formiche morte, alle quali anche se affamate sarebbe vietato di mangiare un po’ di quel cibo che stanno portando all’ammasso per le generazioni precedenti.

Tfr: anticipo in busta paga fino al 2018, ma le tasse sono più pesanti

Tfr: anticipo in busta paga fino al 2018, ma le tasse sono più pesanti

Antonella Baccaro – Corriere della Sera

Un’operazione a costo zero per le imprese. Da appena 100 milioni per lo Stato. Ma molto costosa per i lavoratori. Il provvedimento sull’anticipo del Tfr (trattamento di fine rapporto) in busta-paga, vistato dalla Ragioneria, entra in extremis nella legge di Stabilità varata ieri sera dal consiglio dei Ministri. Verranno rispettate le due condizioni annunciate dal governo: volontarietà della scelta di incassare anzitempo il Tfr da parte del lavoratore e nessun deficit di liquidità per le imprese, soprattutto quelle medio-piccole. Ma chi sceglierà di avere il Tfr in busta paga subirà su queste somme la tassazione secondo l’aliquota marginale. È questa, secondo le indiscrezioni, l’ipotesi sulla quale è orientato il governo. L’operazione Tfr in busta paga, quindi, non sarebbe conveniente, soprattutto per i redditi medio-alti.

Il testo definitivo non è stato distribuito ieri in conferenza stampa. Il meccanismo prevede che le banche che anticiperanno alle imprese le risorse per pagare il Tfr in busta-paga avranno la stessa remunerazione che oggi viene garantita al Tfr in azienda (1,5% più lo 0,75% del tasso d’inflazione). Il provvedimento dovrebbe avere un arco temporale che terminerebbe nel 2018 (data che coincide con la scadenza delle Tltro, l’operazione di rifinanziamento mirata a lungo termine della Bce).

Il dipendente privato (per quello pubblico la norma non vale) potrà fare richiesta di ottenere il Tfr in busta-paga mensilmente anziché alla fine del periodo lavorativo.Visto che l’accantonamento del Tfr corrisponde a circa una mensilità all’anno, per un lavoratore che incassi 1.400 euro netti significa ottenere in busta-paga più di 100 euro al mese per 13 mensilità. L’impresa per cui lavora dovrà farsi certificare dall’Inps il diritto alla prestazione. Tale certificazione verrà trasmessa alla banca che deciderà se erogare il finanziamento. Al termine del periodo lavorativo del dipendente, sarà l’azienda a dover restituire i soldi alla banca finanziatrice. Se non lo farà, la banca per recuperare le spettanze dovrà rivolgersi al fondo di garanzia dell’Inps. La novità sta nella controgaranzia dello Stato, pari a 100 milioni per il 2015. Tale controgaranzia consente alle banche di non trovarsi in difficoltà con le regole di Basilea perché evita loro di farsi carico di un fardello patrimoniale per i finanziamenti legati al Tfr in busta paga. Il provvedimento, previo decreto attuativo e successivo protocollo tra ministeri competenti e Abi, dovrebbe essere operativo a metà 2015 con effetto retroattivo dall’inizio dell’anno.

Ci sono due aspetti ancora da chiarire. Il primo attiene appunto alla cifra che lo Stato potrebbe incassare per la tassazione della parte del Tfr che entra in busta-paga e che una stima quantifica minimo in un miliardo e mezzo e massimo in 4 miliardi. L’altro aspetto riguarda il fondo Inps che raccoglie i versamenti effettuati dalle imprese sopra i 50 dipendenti, importi che con la nuova normativa potrebbe perdere. La manovra conterrebbe anche un altro aumento secco del prelievo, quello dell’aliquota sui rendimenti dei fondi pensione dall’11,5% al 20%.

Irap, la piccola impresa risparmierà oltre 10mila euro in un anno

Irap, la piccola impresa risparmierà oltre 10mila euro in un anno

Fabio Savelli – Corriere della Sera

Il risparmio per il conto economico sarebbe di circa 720 euro per dipendente. Ipotizzando che l’azienda ne abbia quindici (la gran parte delle piccole imprese italiane è al di sotto della fatidica soglia fissata dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori), questo significa un minor peso fiscale di 10.762,50 euro all’anno, presumendo che si tratti di una realtà da 1,3 milioni di euro di fatturato e con un costo di produzione di poco inferiore, di circa 1,1 milioni di euro.

La simulazione – condotta dal gruppo di studio torinese Eutekne, che analizza quotidianamente i cambiamenti normativi in materia di fisco – parte dal presupposto della deducibilità integrale ai fini Irap del costo dei lavoratori dipendenti, misura inserita dal governo nel disegno di legge di Stabilità. Allo stato attuale – senza cioè l’intervento sulla componente costo del lavoro dell’imposta regionale per le attività produttive – l’azienda campione paga all’erario oltre 16mila euro all’anno, presumendo che l’ammontare complessivo del costo del lavoro (stipendi, contributi, tasse) sia stimabile attorno ai 600 mila euro all’anno (di cui 180 mila di contributi previdenziali e assistenziali e 420 mila di pura retribuzione). La somma interamente deducibile sarebbe pari a 292 mila euro, immaginando un’aliquota fissata al 3,5% (aliquota disciplinata dalle regioni in maniera non uniforme e in una forbice che può arrivare fino al 4,9%).

Rilevano i commercialisti Giancarlo Allione e Luca Fornero, autori del dossier, che la misura dell’esecutivo sanerebbe l’attuale squilibrio tra un’azienda che produce in Italia e un’altra che ha delocalizzato all’estero, dove non esiste l’Irap. Ecco perché gli esperti di Eutekne definiscono l’imposta un «mostro giuridico», perché finora ha incentivato le aziende a portare lavoro oltre-confine e perché l’assegno recapitato all’erario è proporzionale al numero di dipendenti e di collaboratori.

In filigrana si può affermare che la deducibilità integrale Irap per i lavoratori avvantaggerà le grandi imprese, perché sono quelle che hanno un maggior numero di dipendenti. Di più: il calcolo va tarato su base regionale anche perché – oltre alla differente aliquota applicata – è diverso anche il peso delle deduzioni. Perché nelle regioni meridionali il risparmio d’imposta sarà minore per la fiscalità di vantaggio delle aree più svantaggiate. Da quest’anno la deduzione forfettaria per chi lavora a tempo indeterminato in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia risulta già pari a 15 mila euro (dai 9.200 del 2013), mentre nelle altre regioni è esattamente la metà: 7.500 euro. Così la misura finirà per avvantaggiare soprattutto le imprese del Nord che potranno usufruire di un maggiore sconto fiscale. Al netto di una minore deducibilità del tributo regionale ai fini Ires e Irpef. Restano comunque le altre due voci dell’Irap: quelle sui profitti e sugli interessi passivi. Altri due balzelli difficilmente comprensibili per chi produce all’estero e vuole venire da noi.

Ciò che i numeri non dicono

Ciò che i numeri non dicono

Enrico Marro – Corriere della Sera

Lasciamo in secondo piano il braccio di ferro con Bruxelles. Per certi versi ridicolo, ruotando sull’ipotesi di un aggiustamento dei conti pubblici italiani dello zero virgola, che costerebbe un paio di miliardi, su un bilancio che conta 835 miliardi di spese e 786 miliardi di entrate. Concentriamoci invece sulle due misure chiave della prima manovra del governo Renzi: 1) 5 miliardi di taglio dell’Irap, con un risparmio medio per le aziende di circa 700 euro all’anno su ogni dipendente; 2) 1,9 miliardi per azzerare i contributi sulle nuove assunzioni a tempo indeterminato. Due misure che si sommano alla conferma degli 80 euro per dieci milioni di dipendenti, con positivi aggiustamenti a favore delle famiglie numerose e delle partite Iva a basso reddito. Complessivamente, la riduzione del cuneo fiscale è apprezzabile, a vantaggio delle imprese e delle retribuzioni nette. Inoltre, il contratto a tutele crescenti, previsto nel Jobs act, non solo costerà meno delle altre forme contrattuali, ma non avrà il vincolo del vecchio articolo 18 sui licenziamenti.

Questo insieme di misure va nella direzione giusta. Ma non basterà a rilanciare la crescita, se non saranno soddisfatte due condizioni: 1) il rilancio degli investimenti, a partire da un completo e miglior uso dei fondi strutturali europei (44 miliardi nel 2014-20); 2) la credibilità dell’Italia sulla capacità di onorare l’enorme debito pubblico e, gradualmente, di ridurlo. Su questi due punti la politica del governo non ha fatto un salto di qualità.

Il taglio della spesa scaricato per 7 miliardi su Regioni, Comuni e Province rischia di tramutarsi nell’ennesimo aumento delle imposte locali. Privatizzazioni e dismissioni immobiliari restano al palo. Quanto agli investimenti pubblici, sono previsti dallo stesso governo in calo. Il debito pubblico salirà anche nel 2015: al 133,4% del Prodotto interno lordo, dal 131,6% del 2014. Oppure dal 127,8% di quest’anno al 129,7% del prossimo, togliendo i 60,3 miliardi che finora l’Italia ha tirato fuori per finanziare i fondi europei salva Stati, di cui hanno beneficiato Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Cipro.

Spinta al limite

Spinta al limite

Francesco Riccardi – Avvenire

Questa volta per valutare meglio il quadro occorre partire dalla cornice, dal contesto in cui la legge di stabilità è stata varata ieri a tarda sera. Una giornata di “tempesta perfetta” sui mercati finanziari, con il crollo delle Borse mondiali, Italia compresa, sui timori di nuove difficoltà della Grecia e del suo sistema bancario. Con lo spread sui titoli di Stato che è tornato a rialzare la testa dopo mesi di calo. Un mercoledì non da leoni, ma da gamberi, con l’Istat che conferma l’andamento negativo del Pil nel terzo trimestre, sceso al valore più basso dall’inizio del 2000. Insomma, se gli altri Paesi hanno da tempo superato il punto di caduta della crisi (pur se nuove nubi si addensano sulla Germania, e non solo) noi siamo stati rispediti nel Novecento e diventa sempre più difficile riproiettarci nel XXI secolo. Un ritorno al futuro condizionato anche e soprattutto dai vincoli posti dall’Unione Europea, dai quali non si può prescindere, ma che devono poter essere interpretati anche con saggia flessibilità.

Mentre nelle città italiane si cerca ancora di “asciugare” lacrime e ferite delle alluvioni – concreta e lancinante metafora di un Paese che non può non fare il necessario per mettersi in sicurezza e risollevarsi – il Consiglio dei ministri ha approvato ieri una manovra lievitata da 30 a 36 miliardi (con 18 miliardi di riduzione delle imposte) che sta in questa cornice, deve starci per forza per poter passare da un lato il vaglio dei rigidi controllori di Bruxelles e dall’altro per evitare di alimentare nuove speculazioni finanziarie contro l’Italia. Una manovra da “rallista” potremmo definirla, in cui si è obbligati a giocare di freno sulla spesa pubblica e di acceleratore sui tagli fiscali, per tenere a bada il deficit sotto il 3% e, contemporaneamente, dare la necessaria spinta a un sistema economico sempre più imballato. Un percorso a filo del burrone, tra le curve di una congiuntura sempre più difficile e la prostrazione di imprese, lavoratori e famiglie dopo 7 anni di “carestia”.

Bene perciò la spinta sull’acceleratore dello sviluppo rappresentato dal consistente taglio dell’Irap, che ha fortemente penalizzato le imprese negli ultimi anni e dagli sgravi per le partite Iva. Bene pure la cancellazione dei contributi, senza pregiudicare la posizione previdenziale dei lavoratori, per chi assume personale a tempo indeterminato. Qualsiasi misura oggi riduca il costo del lavoro è utile e “benedetta”, anche se in questo caso occorre rendere strutturale lo sconto, ridurre il cuneo fiscale e contributivo sull’intera durata di un rapporto di lavoro stabile, se davvero si vuol mantenere fede a quanto promesso nel Jobs act (e cioè che il contratto a tempo indeterminato deve essere la forma di lavoro privilegiata e più conveniente).

Positiva è anche la conferma degli 80 euro per i redditi medio-bassi. E, sebbene il beneficio non sia stato allargato a incapienti e famiglie numerose (come chiesto molte volte su queste colonne) va registrato l’impegno da 500 milioni di euro promessi a favore della famiglia. Ci piace considerarli come un positivo “anticipo” – il saldo lo attendiamo con la delega fiscale – per ristabilire quel minimo di equità a cui hanno diritto i nuclei con figli e che non può essere ulteriormente procrastinato. Sospeso il giudizio sull’operazione “Tfr in busta”: occorrerà valutare quanti lavoratori sceglieranno di riceverlo subito e in che misura ciò spingerà effettivamente i consumi.

Dove invece il quadro della manovra appare tratteggiato in maniera più incerta, in attesa di leggere i testi definitivi, è la parte relativa ai tagli di spesa pubblica: 15 miliardi più o meno equamente divisi tra Ministeri, Regioni, beni e servizi della Pubblica amministrazione, Comuni e Province. C’è il rischio infatti che ciò si traduca non in maggiore efficienza della spesa pubblica, ma semplicemente nella riduzione di prestazioni sanitarie e di servizi a livello locale, proprio mentre la tassazione in questi ambiti va aumentando e pesando sempre più sui cittadini onesti. Così come alto è il rischio che la Commissione europea chieda maggiori sforzi e non si accontenti di una riduzione strutturale del deficit di appena lo 0,1% o di coperture, come quelle previste dalla lotta all’evasione, che potrebbero risultare aleatorie.

Per tentare di far ripartire il Paese, pur restando all’interno delle ferree regole europee, occorreva puntare su tre fattori decisivi: le imprese e il lavoro; le famiglie e le persone in condizione di povertà. Il primo obiettivo sembra centrato in pieno, il secondo solo parzialmente, sul terzo manca qualsiasi iniziativa. Probabilmente, nelle condizioni date, “fare di più” era impossibile. Ma “fare meglio” è un impegno che non finisce stanotte.