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Come Ue comanda

Come Ue comanda

Giuseppe Turani – La Nazione

La fretta e il piglio più deciso con cui Renzi sta affrontando la questione delle riforme ha una sola possibile spiegazione. Fra Bruxelles e Roma, senza che siano stati firmati protocolli o carte, è entrato in funzione quello che potremmo chiamare crono-programma. Il vertice dell’Ue ha spiegato molto chiaramente che, senza riforme, non ci sarà nessuna attenzione speciale per l’Italia. E, inoltre, ha anche fatto capire che non si può tirare tanto per le lunghe. Da qui il crono-programma: mano a mano che le riforme diventano reali da Bruxelles arriverà qualche attenzione (e qualche soldo) in più. Non è come avere la Troika in casa, ma la differenza non è moltissima: lasciano all’Italia la libertà di fare quello che va fatto. Altrimenti: applicazione severa delle norme comunitarie. In questi ultimi tempi gli appelli da Bruxelles sono stati ripetuti e molto chiari. E anche Draghi ne ha fatti almeno tre di appelli, sia pure nei modi felpati e nebbiosi propri dello stile di un banchiere centrale. Le tensioni delle ultime ore nascono proprio da questo: ci sono alcune cose che la Bce e la Ue considerano non più rinviabili. Il primo caso che viene in mente è quello del mercato del lavoro.

Sono mesi che cercano di farci capire che con l’attuale organizzazione del lavoro non si va da nessuna parte. Il professor Giulio Sapelli, che peraltro è critico verso Ue e Bce, da tempo va sostenendo che la nostra legislazione sul lavoro va rasa al suolo e sostituita con qualcosa di più semplice e di più moderno. E il senatore Ichino a questo sta lavorando da anni. Nessuno ci ha dettato i particolari, ma le richieste europee si possono sintetizzare in una semplice frase: più flessibilità in entrata e più flessibilità in uscita. Questo significa che l’articolo 18 ha i giorni contati. E la stessa cosa si può dire di altre norme che ingessano il lavoro.

Di fronte a questo clima cambiato, la Cgil è già insorta e minaccia grandi mobilitazioni di massa, sostiene (non a torto) che la soppressione (totale o parziale) dell’articolo 18 è lo scalpo che l’Italia si appresta a offrire ai falchi europei. Rimane da capire quanto l’attuale organizzazione del lavoro abbia ancora senso in una società immersa nella competizione globale. E anche la resistenza della Cgil non sembra avere molte possibilità di vittoria: le pretese dei falchi, infatti, sono quelle del mondo moderno mentre la Cgil è un po’ ferma agli anni Cinquanta. Ma c’è di più. La vera grana per la Cgil è un’altra.- se l’articolo 18 può già considerarsi defunto, adesso la partita vera riguarderà la contrattazione aziendale e locale. In sostanza, la futura organizzazione del lavoro punterà a rendere meno importanti i contratti nazionali per dare più spazio alla contrattazione in sede locale o aziendale. Si vuole andare verso una maggiore aderenza al mercato. I dipendenti di aziende che vanno bene potranno chiedere salari più alti, quelli di aziende che vanno male dovranno accontentarsi di buste paga più esili. È facile capire come questa linea finisca per rendere più sfumato il ruolo delle grandi confederazioni sindacali nazionali, destinate a perdere di peso e di importanza. Il sindacato non accetterà tutti questi cambiamenti di buon grado. Ci sarà quindi una tensione crescente. Ma nemmeno la Cgil potrà andare contro la storia. Ormai il mondo va in questa direzione: più flessibilità e più spazio alle realtà aziendali. I contratti buoni dal Trentino alla Sicilia stanno per andare in pensione, assieme all’articolo 18.

Jobs Act: tanti annunci, pochi fatti e le imprese congelano le assunzioni

Jobs Act: tanti annunci, pochi fatti e le imprese congelano le assunzioni

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

L’economia vive di aspettative razionali. Robert Lucas nel 1995 ricevette il premio Nobel per aver dimostrato con sofisticati modelli come individui e imprese usino in modo efficiente le informazioni che hanno a disposizione per orientare consumi e investimenti senza commettere errori frequenti. Il governo Renzi nel portare avanti la riforma del mercato del lavoro non appare, invece, eccessivamente preoccupato delle distorsioni che gli annunci ripetuti non seguiti dai fatti possono provocare nel regolare svolgimento di un mercato. Il Jobs Act doveva prendere forma in G.U. dopo un mese, forse due dall’insediamento dell’attuale esecutivo. Ad oggi siamo ancora ai prolegomeni della nuova riforma che nel frattempo è stata data per fatta almeno una ventina di volte tra Tweet e passaggi parlamentari o interviste varie di vari esponenti del governo. Si abolisce l’art. 18 come chiede senza se e senza ma Angelino Alfano. L’art. 18 non si tocca per parte importante del Pd, perché non è al centro del programma. Solo per i neoassunti l’art. 18 sparirà. O ancora diventerà un art. 18 a tutele crescenti con il passare del tempo ma senza obbligo di reintegro per le imprese in caso di licenziamento. Eppoi ancora promesse di bonus fiscali per i neoassunti o di esenzioni Irap per i nuovi posti creati in favore delle aziende.

Passano le settimane e del Jobs Act restano solo gli annunci e le proposte che, in ordine sparso, si candidano a riformare il mercato del lavoro. Risultato? Le imprese hanno smesso di assumere con contratti a tempo indeterminato, restano alla finestra e cercano di capire dove si fermerà il pendolo di questa logorrea riformista. Nel frattempo solo contratti a termine o occasionali vengono conclusi. È la legge delle aspettative razionali applicata alla follia della politica economica italica modellizzata da Lucas tanti anni fa. Razionalmente le imprese, non sapendo cosa succederà nell’immediato futuro, smettono di prendere posizioni contrattuali definitive rispetto al fattore di produzione lavoro. Così agendo, evitano di incorrere in un maggior potenziale costo da minor flessibilità o di perdere potenziali incentivi. Tutto perfettamente razionale, talmente razionale che resta un mistero su come l’esecutivo possa tenere aperto per così tanti mesi un dossier tanto critico come il Jobs Act. Soprattutto perché l’Italia è un paese in deflazione, in recessione da tre anni consecutivi e che vanta una disoccupazione superiore al 12,6%, quindi interessato a inviare ben altri segnali agli investitori potenzialmente capaci di creare nuova occupazione. Morale: crescerà il 52,9% di under 25 già oggi occupati con contratti precari.

Articolo 18, chi vince e chi no

Articolo 18, chi vince e chi no

Giuliano Cazzola – Il Garantista

Diciamoci la verità sul Jobs Act n. 2. Nell’emendamento presentato dal governo in sostituzione dell’art.4, ci si possono riconoscere tutti: da Maurizio Sacconi a Cesare Damiano, passando per Pietro Ichino. La norma di delega emendata è certamente meno generica e più articolata rispetto ai testi precedenti, anche se, a mio avviso, resta inadeguata rispetto a quanto dispone l’articolo 75 della Costituzione. Ma la politica ha le sue esigenze che finiscono sempre per prevalere. E in questo caso occorreva fare in modo che avessero vinto tutti e perso nessuno. Poi si vedrà nel corso dell’iter legislativo e soprattutto al momento della predisposizione degli schemi dei decreti legislativi che dovranno raccogliere i pareri di Commissioni validamente presieduto da due dei protagonisti della mediazione di ieri: Sacconi e Damiano, appunto.

Analizziamo gli aspetti più importanti del nuovo testo. Innanzi tutto, le parole che mancano. Non si parla mai di Statuto dei lavoratori né tanto meno di articolo 18 e di disciplina del licenziamento individuale. Vengono però indicate delle materie che necessariamente richiederanno delle modifiche ad ambedue i santuari della gauche: le norme riguardanti il cosiddetto demansionamento (ovvero la possibilità – ora preclusa – di inquadrare i lavoratori in mansioni inferiori se ciò comporta la salvaguardia del posto di lavoro) e il controllo a distanza, essendo le disposizioni assunte nel 1970 completamente superate dalle nuove tecnologie.

Oddio: non è che i criteri di intervento siano ben definiti, dal momento che essi si limitano a raccomandare al legislatore delegato di tener presenti sia gli interessi dei datori che quelli dei lavoratori. Poi si arriva alla ciliegina sulla torta: «la previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio». Alcune questioni rimangono indefinite. Innanzi tutto, non è detto che dal novero delle tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio sia da escludere la sanzione della reintegra per lasciare il posto soltanto al risarcimento economico. In secondo luogo, noi interpretiamo che i nuovi assunti non coincidano obbligatoriamente con i nuovi occupati, ma che il contratto di nuovo conio si applichi anche a chi cambi lavoro e venga assunto ex novo da un altro datore. Se tali soggetti conservassero, infatti, una sorta di status ad personam (una disciplina del licenziamento “d’annata”), una volta usciti da un impiego stenterebbero a rientrare nel mercato del lavoro per ovvi motivi. Ma avverrà davvero così?

In ogni caso, pare indubbio che dovrà esserci un cambiamento importante: quanto meno la tutela reale – anche se continuerà a essere contemplata e non solo come sanzione del licenziamento nullo o discriminatorio – interverrà a rapporto di lavoro inoltrato (in nome, appunto, della logica della protezione crescente «in relazione all’anzianità di servizio»). Per capire, dunque, come finirà questa vicenda bisogna aspettare.

Nel frattempo però sarebbe consigliabile non cantare anticipatamente vittoria. E fare tesoro della prima riforma Poletti. Il contratto a termine ”liberalizzato” rimane ancora la modalità di assunzione più conveniente. E, a nostro avviso, lo rimarrà anche in seguito. La delega emendata prevede, poi, un giro di vite sui contratti flessibili (non era così nell’emendamento Ichino). Questo è certamente un successo di principio della sinistra. Al centro destra è già capitato – ai tempi della legge Fornero – di sopravvalutare qualche giro di valzer (poi rivelatosi inadeguato) intorno al totem dell’articolo 18 e di non accorgersi che gli stavano sottraendo la cosiddetta flessibilità in entrata.

Al centro le persone

Al centro le persone

Francesco Riccardi – Avvernire

Premessa essenziale: stiamo discutendo di un emendamento alla legge delega di riforma del mercato del lavoro. I giochi politici sono ancora aperti e le indicazioni in parte generiche. Passerà almeno un anno prima di poter ragionare su un testo di legge effettivo, sul quale sviluppare delle valutazioni che non siano impressionistiche. Chiarito questo, se realmente alla fine dell’iter legislativo si sarà messo mano all’intera normativa sul lavoro – compreso il tema delle tutele in caso di licenziamento, con il reintegro sostituito da un indennizzo monetario di valore crescente – ci troveremo di fronte a un cambiamento fondamentale, culturale assai prima che economico.

L’idea alla base dell’emendamento di arrivare a un nuovo Codice unico semplificato del lavoro è infatti anzitutto la presa d’atto che il mondo è cambiato e il sistema economico-produttivo è ormai lontano anni luce da quello ford-taylorista su cui era stato disegnato, quasi 45 anni fa, lo Statuto dei lavoratori. Soprattutto, segna la fine di un’idea, quella che studiosi come Pietro Ichino definiscono la concezione “proprietaria” del lavoro, secondo la quale quando un lavoratore riesce a conquistare un posto, quello in sostanza gli appartiene. A vita. Con la conseguenza che da noi si è sempre difeso non tanto il lavoratore, quanto il legame tra il singolo occupato e quell’impiego. Con il reintegro obbligatorio nel caso di un licenziamento che il giudice ritiene senza giusta causa (spesso solo perché, in quella zona, per il licenziato sarebbe difficile trovarne uno nuovo). Ma non di meno costruendo un sistema di ammortizzatori sociali che ha relegato centinaia di migliaia di lavoratori nel limbo della cassa integrazione per anni, anziché favorirne l’aggiornamento e il ricollocamento in altre aziende. L’intero nostro sistema produttivo – già schiacciato dall’eccessivo carico fiscale e dalla burocrazia – ha risentito di questa rigidità, cercando ogni possibile via di fuga, fosse essa il restare al di sotto della soglia dimensionale dei 15 dipendenti o il ricorrere a contratti senza tutele. Determinando così un graduale degrado del nostro mercato del lavoro, a danno anzitutto dei lavoratori stessi, dei giovani più di tutti.

Il nuovo Codice semplificato che dovrebbe essere emanato ha dunque l’ambizione di disegnare un sistema di regole generali e flessibili meglio rispondenti al nuovo scenario globale. Ma deve portare con sé anche un altro cambiamento: porre davvero al centro la persona, il nuovo soggetto intorno al quale costruire tutele reali e universali, politiche attive, in grado di rendere il lavoratore più forte sul mercato, maggiormente capace di reagire ai mutamenti di scenario, più “padrone” del proprio destino che non mero dipendente. Per farlo occorre che la delega porti a compimento davvero tutto ciò che promette in termini normativi, ma soprattutto di più efficaci ammortizzatori sociali e servizi per l’impiego. Su questo – il mezzo disastro della Garanzia giovani purtroppo lo dimostra – siamo all’anno zero.

Nessuno si illuda, però: il superamento delle rigidità del passato, articolo 18 compreso, rappresenta solo la precondizione di un cambiamento necessario più profondo. Il lavoro del futuro sarà sempre meno somigliante a quello dipendente delle fabbriche manifatturiere che abbiamo conosciuto finora e sempre più simile all’interagire di soggetti diversi, in luoghi differenti, di volta in volta impegnati per un progetto da realizzare (un prodotto che magari sarà sfornato da una stampante 3D senza bisogno di essere “assemblato” da operai o un servizio offerto in Rete). Se non si assume finalmente una diversa idea di fare impresa, di cooperazione tra i soggetti coinvolti, di interazione con la società esterna, di partecipazione, allora, non avremo dato che una risposta per l’ennesima volta parziale a un mutamento, quello del lavoro e dell’economia, oggettivamente epocale.

P.S. È fondamentale che nel dibattito politico e sociale sulla riforma non si ripetano i tragici errori del passato. Tutte le posizioni sono legittime e hanno diritto di venire rappresentate. Ma nessuno si azzardi a indicare l’una o l’altra persona come “nemico del popolo” o “traditore dei lavoratori”. Il prezzo di sangue pagato da studiosi come Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona e Marco Biagi all’impegno per il cambiamento del nostro Paese, è già stato troppo alto, insopportabilmente alto.

Il «bazooka» di Draghi deve essere utilizzato anche per le infrastrutture

Il «bazooka» di Draghi deve essere utilizzato anche per le infrastrutture

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Oggi la Banca centrale europea lancerà la prima asta di quello che è stato chiamato il bazooka di Mario Draghi: i T-ltro ( Targeted Long Term Refinancing Operations). È un acronimo difficile da pronunciare ma che, se lo strumento funziona, dovremo imparare a memorizzare. Lo strumento, infatti, rappresenta una vera svolta nella politica della Bce: è un modo originale (e sino ad ora mai provato in nessun Paese) per fare sì che la liquidità creata dall’istituto di emissione non finisca, come spesso avvenuto in passato, in una ‘trappola’ e non venga tesorizzata dalle banche per ‘ripulire’ i loro portafogli. La liquidità è, invece, targeted, ‘mirata’ al rifinanziamento di operazioni (investimenti) a lungo termine.
Le aspettative sono grandi in tutta Europa. E non solo. Se lo strumento darà i risultati attesi potrebbe essere replicato in Paesi (ad esempio il Giappone) che hanno sofferto e soffrono di trappole della liquidità. L’asta ha un plafond di 400 miliardi di euro, ma non è detto che si giunga ad utilizzarlo interamente. Le stime parlano di una capacità di ‘assorbimento’ per l’insieme dell’eurozona di 270 di euro (di cui 115-120 alla prima asta ed il resto alla seconda programmata per dicembre). La spiegazione è che dal 2008, inizio della recessione, ad oggi le imprese hanno tentato di fare funzionare (e fruttare) la dotazione di capitale fisso a loro disposizione e non hanno programmato investimenti a lungo termine.
Guardiamo con maggiore attenzione quelle che possiamo chiamare ‘le cose di casa nostra’. Secondo stime della Bce, 75 dei 400 miliardi sarebbero la ‘quota’ potenziale dell’Italia. Pier Carlo Padoan, ministro del Tesoro, ha detto di aspettarsi una richiesta da 37 miliardi da parte delle banche. Altre stime indicano cifre appena inferiori. Occorre chiedersi se le associazioni di categoria (in primo luogo la Confindustria) ed il Ministero per lo sviluppo economico hanno nei loro cassetti ‘progetti pronti’ che il sistema bancario non ha finanziato e potrebbero decollare grazie al T-ltro, quali sono le tipologie, quali i costi ed i finanziamenti necessari. Sarebbe nell’interesse di tutti avere questi dati. In primo luogo, del Presidente del Consiglio. Non per curiosità. Ma per un’esigenza molto pratica. Ove l’Italia mancasse di progetti pronti nei comparti T-ltro, non sarebbe il caso di chiedere alla Bce di ampliare la platea alle infrastrutture, molte delle quali rimaste al palo (anche se cantierabili ) pure dopo lo Sblocca Italia? Auspichiamo di avere presto risposte e se del caso un’azione politica spedita. Non è tempo di piagnistei, come amava ripetere il sindaco di Firenze Piero Bargellini.
Il “Decreto Renzi” sul lavoro

Il “Decreto Renzi” sul lavoro

Pietro Ichino – Il Foglio

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 nacque per reazione a una delusione cocente della sinistra politica e sindacale italiana: quella per la clamorosa inefficacia della riforma dei licenziamenti del 1966, contenuta nella cosiddetta “legge della giusta causa”, sulla quale il centro-sinistra aveva puntato molte delle sue carte e il mondo politico si era profondamente diviso. Con lo Statuto dei lavoratori si era quindi inteso far compiere un salto di qualità decisivo – questa volta sì! – alla protezione della stabilità del posto di lavoro, sostituendo la sanzione meramente risarcitoria con la sanzione reintegratoria. Si passava così da una regola che, alla luce delle elaborazioni successive di teoria generale, poteva classificarsi tra le liability rules (se ledi l’interesse del creditore lo devi risarcire secondo un criterio predeterminato) a una regola sostanzialmente classificabile tra le property rules (se ledi il diritto del lavoratore, questi deve essere reintegrato nella posizione originaria garantita dall’ordinamento, salvo che egli stesso liberamente decida di rinunciarvi). Ed effettivamente l’intendimento era quello di dar vita, almeno nelle imprese al di sopra della fatidica soglia dei 15 dipendenti, a un regime di sostanziale job property. Salvi eventi eccezionali e patologici, una volta costituito il rapporto di lavoro il suo titolare non doveva più trovarsi a fare i conti con il mercato del lavoro.

Le conseguenze positive di questa opzione sono immediatamente evidenti: la sicurezza economica costituisce un bene della vita molto importante; e il poter fare affidamento sulla continuità nel tempo del reddito da lavoro consente al lavoratore di spenderlo meglio. Anche se la “polizza assicurativa” per mezzo della quale il lavoratore stesso acquista questa sicurezza comporta il pagamento di un premio assicurativo niente affatto irrilevante: per valutarne l’entità basta confrontare il costo per l’utilizzatore di un’ora di lavoro di un idraulico o di un elettricista autonomo (60-80 euro) e il costo di un’ora della stessa prestazione resa in forma di lavoro subordinato (30-40 euro). La sicurezza derivante dal regime di job property si paga, e in misura salata, con un premio assicurativo.

I costi micro e macro

Col passare del tempo si sono determinate anche altre conseguenze non desiderabili dell’opzione per la protezione forte della stabilità del rapporto di lavoro. La prima e più vistosa è consistita, a partire dalla fine degli anni ’70, in una utilizzazione sempre più diffusa da parte degli imprenditori, nella fascia del lavoro professionalmente più debole, del contratto di collaborazione coordinata e continuativa come strumento per costituire un rapporto di lavoro sostanzialmente dipendente non soltanto a un costo notevolmente più basso, ma anche sfuggendo alle numerose rigidità del rapporto di lavoro subordinato ordinario, e in particolare alla limitazione della facoltà di recesso. Donde il progressivo delinearsi di quel dualismo che avrebbe poi connotato in modo particolarmente intenso il mercato del lavoro italiano nei decenni successivi.

Un’altra conseguenza della protezione forte della stabilità – meno vistosa, ma non per questo meno rilevante – è consistita nell’innescarsi di una “spirale della rigidità”, un alimentarsi reciproco tra la vischiosità del mercato del lavoro, la sua “pericolosità” per chi perde il posto a seguito di un licenziamento, la severità dei giudici nel valutare la giustificazione del licenziamento, lo stigma negativo connesso con l’essere licenziati: motivo a sua volta di una ostilità maggiore del sistema nei confronti del licenziamento e ulteriore incremento della vischiosità del mercato del lavoro, e quindi ancora della severità dei giudici nel settore del tessuto produttivo al quale l’articolo 18 si applica.

Un effetto dannoso di questo gioco sistemico si osserva particolarmente nella pratica – invalsa per la soluzione delle crisi occupazionali aziendali – di disporre prioritariamente la collocazione in Cassa integrazione degli ultracinquantenni, per accompagnarli – attraverso qualche anno di simulazione della prosecuzione del rapporto di lavoro – a una pensione di anzianità ottenibile per lo più intorno ai 57-58 anni di età: un’età nella quale l’aspettativa media di vita supera largamente i venti anni. L’idea sottostante a questa pratica è che la “lesione” del “diritto fondamentale” alla stabilità del posto di lavoro possa essere “risarcita” soltanto con la collocazione in Cassa integrazione in funzione di un pensionamento precoce, sulla base di una rinuncia a priori alla possibilità di ricollocazione del lavoratore, nonostante che nel mercato del lavoro italiano circa un nuovo contratto di lavoro regolare ogni sei venga stipulato con un ultracinquantenne.

Va infine menzionato un effetto negativo del regime di job property tanto importante quanto poco immediatamente evidente: il peggioramento dell’allocazione delle risorse umane nel tessuto produttivo, conseguente al fatto che il lavoratore tende a stabilizzarsi nel primo posto dove ottiene un contratto a tempo indeterminato, rinunciando – per la maggiore vischiosità del mercato e per evitare il passaggio attraverso un periodo di minore stabilità – a cercare l’inserimento in un’azienda dove le sue capacità siano meglio valorizzate.

Il “premio assicurativo” pagato dai lavoratori italiani per la maggiore sicurezza acquistata con l’articolo 18 (oltre che con la politica previdenziale molto generosa degli anni ’70, ’80 e ’90), combinato con la peggiore allocazione delle risorse e minore produttività che ne sono conseguite, contribuisce a spiegare il livello nettamente più basso delle retribuzioni lorde italiane rispetto a quelle degli altri maggiori paesi europei che si registra lungo tutto l’arco dell’ultimo trentennio, nonostante la sempre maggiore mobilità dei capitali, dei piani industriali e delle persone in seno all’Ue.

Le prime autorevoli voci critiche

Fin dagli anni ’80 si sono registrate due voci di giuslavoristi autorevolissimi, e non qualificabili come schierati in difesa degli interessi degli imprenditori, a sostegno dell’opportunità di un intervento riduttivo sull’articolo 18: mi riferisco al progetto di legge n. 1537 presentato da Gino Giugni al Senato nel 1985 (che prevedeva l’innalzamento della soglia dimensionale per l’applicazione della norma a 80 dipendenti) e alla relazione di Luigi Mengoni approvata dall’assemblea del Cnel nel 1985 (dove si esprime un giudizio nettamente negativo sull’esperienza quindicennale della sanzione reintegratoria e si propone la limitazione del suo campo di applicazione ai licenziamenti nulli). Ma al passaggio tra gli anni ’80 e i ’90 fu il timore di un successo del referendum promosso dalla sinistra estrema per l’estensione dell’articolo 18 anche alle imprese con meno di 15 dipendenti a indurre il governo a promuovere un nuovo intervento legislativo su questa materia: la legge n. 108 del 1990, che poco dopo Giugni definirà “un piccolo mostro”, e che realizza in modo modesto l’obiettivo di tutelare i lavoratori delle piccole imprese, ma tutto sommato aumenta la disparità di tutela tra questi e “gli altri”, rafforzando il regime di job property nelle imprese medio-grandi assai più di quanto veniva rafforzato il regime di tutela obbligatoria nelle piccole.

A mettere i piedi nel piatto furono poi, nel 1999, i Radicali, con la promozione del referendum per l’abrogazione dell’articolo 18 e di quello per l’abrogazione della disciplina limitativa del contratto a termine: bocciato quest`ultimo dalla Corte costituzionale, ma ammesso il primo con una importante sentenza che sancì la piena compatibilità con la Costituzione di una disciplina dei licenziamenti che prevedesse soltanto la sanzione risarcitoria e non quella reintegratoria per il licenziamento ritenuto dal giudice ingiustificato. Fallito nella primavera del 2000, per mancato raggiungimento del quorum, il referendum radicale (nel quale, comunque, contro l’abrogazione si registrarono quattro quinti dei voti espressi), nei due anni successivi l’iniziativa per una timida e marginalissima modifica non del contenuto dell’articolo 18, ma soltanto del suo campo di applicazione, venne presa dal secondo governo Berlusconi, con l’appoggio della Confindustria guidata da Antonio D’Amato e la disponibilità della Cisl di Savino Pezzotta e della Uil di Luigi Angeletti. Il tentativo si infranse contro il muro opposto dalla Cgil guidata da Sergio Cofferati.

Nella prima parte della XVI legislatura (2008-2010) esso venne rinnovato dal terzo governo Berlusconi in una forma nuova: come tentativo mirato non a scalfire direttamente il dettato dell’articolo 18, ma – per cosi dire – a svuotarlo dal di dentro, ampliando gli spazi della contrattazione collettiva per la definizione del giustificato motivo e per la devoluzione delle controversie a un arbitro, o riducendo la possibilità per il giudice di sindacare le scelte imprenditoriali sottostanti al licenziamento. Nel “Collegato Lavoro 2010” (legge 4 novembre 2010 n. 183) il tentativo sul piano legislativo è riuscito soltanto per la prima parte, essendo stata bloccata dal Quirinale la disposizione in materia di arbitrato; ma nei primi tre anni di applicazione della legge anche le disposizioni volte a limitare il sindacato del giudice sulle scelte di gestione aziendale si sono rivelate, sul piano pratico, di scarsa efficacia.

Il fatto è che qualsiasi tentativo di riforma mirato ad affrontare la questione soltanto sul versante della disciplina dei licenziamenti è destinato a scontrarsi con una fortissima resistenza da parte non soltanto del movimento sindacale, ma anche dell’opinione pubblica in generale. Se chiediamo all’uomo della strada di valutare le conseguenze di una maggiore libertà di recesso degli imprenditori, nel contesto attuale di marcata vischiosità del mercato del lavoro italiano, egli vedrà soltanto la pericolosità della riforma per il lavoratore che si trovi a dover frequentare un mercato siffatto. Le chance di qualsiasi progetto di riforma della materia dipendono dalla sua capacità di compensare credibilmente la minore stabilità del rapporto di lavoro con una maggiore sicurezza economica e professionale del lavoratore nel mercato.

Si ispira a questa idea, che si riassume nella parola d’ordine della flexsecurity, il progetto del Codice semplificato del lavoro, la cui prima edizione risale al 2009, con i disegni di legge Ichino S-1872 e S-1873 sottoscritti da una metà circa dei senatori del gruppo Pd della XVI legislatura. Qui viene ripresa l’idea, già contenuta nella relazione di Luigi Mengoni del 1985, di limitare drasticamente la sanzione reintegratoria al caso del licenziamento nullo per illiceità dei motivi; la novità consiste invece – oltre che nell’idea della riscrittura semplificata dell’intera legislazione sul lavoro di fonte nazionale – nella proposta di applicare per il licenziamento disciplina- re e per quello economico un “filtro automatico” costituito essenzialmente da un costo aziendale del recesso, finalizzato alla maggiore possibile sicurezza del lavoratore nel passaggio al nuovo posto di lavoro: indennità di licenziamento proporzionata all’anzianità di servizio, e dal terzo anno in poi trattamento complementare di disoccupazione di durata proporzionale all’anzianità stessa, come oggetto di un “contratto di ricollocazione” comprendente anche un servizio di assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione svolto da un’agenzia specializzata e finanziato con un voucher regionale.

Si arriva cosi alla legislatura in corso, all’inizio della quale i due disegni di legge contenenti il progetto del Codice semplificato vengono ripresentati (rispettivamente come ddl. n. 986 e n. 1006/2013), questa volta ottenendo maggiore attenzione da parte del governo: nel documento Destinazione Italia del settembre 2013, dedicato alla maggiore attrattività del paese per gli investitori stranieri, viene espressamente indicato l’impegno per l’emanazione in tempi rapidi di un testo unico semplificato delle norme sul contratto di lavoro. Lo stesso impegno verrà poi ribadito nel documento Impegno Italia 2014, del 12 febbraio 2014, nella fase finale dell’esperienza del governo guidato da Enrico Letta. Un mese dopo l’impegno per il Codice semplificato è ribadito dal nuovo presidente del Consiglio Matteo Renzi nelle slide con le quali, il 12 marzo, egli presenta alla stampa il programma del suo nuovo governo: è questa la ripresa del primo dei sei punti nei quali lo stesso Renzi aveva sintetizzato il proprio progetto di Jobs Act l’8 gennaio precedente. Sennonché il disegno di legge n. 1464, presentato nell’aprile 2014, contenente la proposta di cinque deleghe legislative in materia di lavoro, non sembra corrispondere agli intendimenti originariamente espressi dal neo segretario del Pd.

Nell’articolo 4 del disegno di legge n. 1464 l’idea del Codice semplificato viene sostituita da quella della “semplificazione dei contratti di lavoro”, intesa come sfrondamento tipologico degli stessi. Riaffiora qui la ormai decennale polemica della sinistra politica e sindacale contro la pretesa “proliferazione dei tipi di contratto di lavoro” che si sarebbe prodotta in Italia per effetto della legge Biagi (dlgs. n. 276/2003), polemica non smorzata dall’osservazione secondo cui quella dei 48 tipi di contratto di lavoro che sarebbero oggi previsti dall’ordinamento italiano è soltanto una leggenda metropolitana. La legge Biagi, in realtà, non ha introdotto nel nostro ordinamento alcun nuovo tipo di contratto di lavoro precario che non esistesse già in precedenza, essendosi essa limitata a rinominarne alcuni disciplinandoli in modo più restrittivo rispetto all’ordinamento previgente.

Il cammino accidentato verso il Jobs Act

Subito dopo la conferenza stampa del capo del governo del 12 marzo viene emanato il decreto Poletti (dl. 20 marzo 2014 n. 34), che interviene sul contratto a termine sostanzialmente liberalizzandolo entro il primo triennio del rapporto di lavoro, ma con il limite massimo del 20 per cento riferito all’organico aziendale a tempo indeterminato, e riduce alcune rigidità della disciplina previgente dell’apprendistato. Quando, leggermente depotenziato ad opera della commissione Lavoro della Camera, il decreto arriva al Senato, l’autore di queste note presenta in commissione un emendamento mirato a riequilibrare i vincoli tra tempo indeterminato e determinato, anticipando la riforma organica delineata nel ddl n.1006/2013, con l’introduzione per il primo triennio di un costo di separazione identico nel caso di scadenza del termine senza proroga, o rinnovo, o conversione in contratto a tempo indeterminato, e per il caso di licenziamento non giustificato da grave mancanza del lavoratore, con esclusione in questo caso della sanzione reintegratoria. Su questo emendamento si manifestano consensi convergenti da parte sia di numerosi senatori del Pd – non soltanto dell’area renziana, ma anche, sorprendentemente, dell’ala sinistra del gruppo, che percepisce il rischio di una dilatazione ulteriore dell’area del lavoro a termine rispetto a quello a tempo indeterminato – sia dei senatori del Nuovo Centrodestra e di Forza Italia. Il 5 maggio, nel corso di una tesa riunione di maggioranza con la partecipazione del ministro del Lavoro in rappresentanza del governo, viene raggiunto un accordo: ritiro dell’emendamento in cambio dell’inserimento nell’articolo 1, comma 1 del decreto di una “premessa” contenente il preannuncio della “adozione di un testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro, con la previsione sperimentale del contratto di lavoro a tempo indeterminato a protezione crescente, e salva l’articolazione attuale delle tipologie dei contratti di lavoro”. La formulazione di questa premessa è attentamente studiata al fine di chiarire che la legge-delega in gestazione al Senato darà mandato al governo di emanare un Codice semplificato nel quale il contratto a tempo indeterminato sarà disciplinato secondo il modello delle protezioni crescenti. Che questa nuova disciplina debba innestarsi sul contratto a tempo indeterminato ordinario, e non su di un tipo contrattuale nuovo e diverso (il “contratto di inserimento”) è chiarito con le parole “salva l’articolazione attuale delle tipologie dei contratti di lavoro”.

Archiviata la pratica del decreto Poletti con la sua approvazione in terza lettura alla Camera, premessa compresa, la commissione Lavoro del Senato riprende il suo lavoro sul disegno di legge-delega n. 1464, destinato a diventare la parte più rilevante della riforma che va sotto il nome di Jobs Act. Del contenuto originario dell’articolo 4 – assai poco incisivo, e per almeno un aspetto anche contraddittorio – si è detto sopra; i primi due articoli del disegno di legge governativo sono invece dedicati rispettivamente al completamento della riforma degli ammortizzatori sociali e dei servizi per l’impiego avviata con la legge Fornero 2012, e si pongono sostanzialmen- te in continuità rispetto ad essa.

Nella fase di esame del disegno di legge in commissione al Senato, in sede referente, tra giugno e luglio 2014, si manifesta la convergenza di una parte consistente dei senatori di maggioranza (una parte del gruppo Pd e tutti gli altri, tra i quali il presidente della commissione e relatore sul provvedimento Maurizio Sacconi) su di una visione precisa del passaggio dal vecchio regime di job property a un nuovo regime di flexsecurity, articolata in tre capitoli fra loro strettamente interconnessi: Codice semplificato e contratto a protezione crescente, nuovo assetto degli ammortizzatori sociali, nuovo assetto dei servizi per l’impiego. L’idea è innanzitutto di ricondurre la Cassa integrazione alla sua funzione originaria, facendone cessare l’utilizzazione sostanzialmente sostitutiva del trattamento di disoccupazione, e al tempo stesso rafforzando ed estendendo il trattamento universale di disoccupazione sia nella sua componente previdenziale (finanziata con la contribuzione a carico delle imprese), sia nella sua componente assistenziale (reddito minimo di inserimento, a carico della fiscalità generale): è la materia dell’articolo 1 del disegno di legge. Il perfezionamento della sicurezza economica e professionale nel mercato per chi perde il posto viene affidato a un riassetto dei servizi per l’impiego centrato sull’integrazione fra servizio pubblico e agenzie private accreditate, retribuite mediante un voucher regionale a risultato ottenuto: è la materia dell’articolo 2 del disegno di legge. Lo strumento giuridico essenziale di questa integrazione pubblico-privato, secondo la visione che matura in seno alla commissione, è costituito dal “contratto di ricollocazione”, la cui sperimentazione è gia prevista in una disposizione della legge di stabilità 2014 (1. 27 dicembre 2013 n. 147, art. 1, c. 215), anche se l’emanazione del relativo regolamento attuativo è in grave ritardo.

Fin qui la visione della riforma organica e condivisa da tutti i senatori Pd in commissione. Dove invece una parte maggioritaria di essi manifesta un atteggiamento di riluttanza, se non proprio di rifiuto, è sul capitolo del Codice semplificato, ovvero della delega al governo per una riscrittura radicale della disciplina del rapporto di lavoro all’insegna del recupero dell’universalità di applicazione, della chiarezza e semplicità del testo legislativo, e della coniugazione della flessibilità delle strutture produttive con la sicurezza del lavoratore nel mercato Qui nella fase di discussione del disegno di legge-delega si registra un passo indietro rispetto all’accordo raggiunto in sede di esame in seconda lettura del decreto Poletti, concretatosi nella ormai famosa “premessa” inserita nel decreto stesso. Durante la pausa d’agosto sulla stampa si riaprono le ostilità in tema di articolo 18, a seguito di ripetuti proclami di Alfano nei quali è difficile non sentire il sapore un po’ stucchevole della riproposizione della vecchia discussione male impostata. La posta in gioco è ora molto più ampia e complessa rispetto alla pura e semplice modifica della norma sulla facoltà di recesso del datore di lavoro: se si vuole voltar pagina rispetto al regime di job property occorre sostituire tutte le tessere del mosaico.

Economisti: troppi errori, poche soluzioni (ma molte idee)

Economisti: troppi errori, poche soluzioni (ma molte idee)

Stefano Feltri – Il Fatto Quotidiano

Davvero bisogna proclamare la “disfatta degli economisti”, come suggerisce il Nobel Paul Krugman nell’articolo ripreso ieri da Repubblica? Parlare male della categoria è facile: non hanno previsto la grande crisi, hanno sbagliato le ricette e sono prigionieri di ideologie liberiste fallimentari. Krugman descrive la categoria cui appartiene come prigioniera di una “repressione neoclassica” che impedisce a idee eterodosse di germogliare in teste formattate dal dogma del libero mercato. Ma è una caricatura, le cose sono più complesse.

Primo: nessuno aveva capito tutto, ma molti avevano capito tanto. La crisi dei mutui subprime era stata pronosticata in tutti i dettagli da Raghuram Raian nel 2005, in una presentazione a Jackson Hole davanti a banchieri centrali e finanzieri. Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart, poi derisi per aver sbagliato i conti sull’impatto delle misure di austerìtà, avevano spiegato che le crisi finanziarie, in particolare quelle che riguardano il debito sovrano, lasciano tracce più profonde di altri tipi di recessione come quelle dovute a choc energetici. Lo speculatore-filantropo George Soros ripete da tempo che il problema dell’Europa è la Germania e che non si può gestire la periferia dell’euro com’è stato fatto. Le idee, insomma, a cercarle, c’erano. Il problema semmai è che la politica ha scelto di applicare quelle sbagliate.

Il vero disastro lo hanno fatto gli economisti quantitativi, i previsori, quelli che cercano di tradurre in cifre il futuro. Il Fondo monetario e l’Ocse hanno sbagliato moltissimo e si so- no scusati, ma tutte – proprio tutte – le previsioni sulla crescita e la ripresa si sono rivelate sballate. Due giorni fa l’Ocse ha detto che l’Italia nel 2014 sarà in recessione con un Pil a -0,4 per cento, soltanto a giugno stimavano +0,5. È cambiato il mondo o avevano sbagliato i calcoli perché sono sbagliati i modelli di previsione? In sette anni di crisi gli economisti “previsori” hanno perso ogni credibilità. O sono gran pasticcioni, oppure i loro modelli si reggono su ipotesi sbagliate. Per esempio che debba arrivare una ripresa o che la crescita seguirà dinamiche diverse da quelle passate. Larry Summers ha aperto il dibattito sulla “stagnazione secolare” (senza nuove bolle speculative che sostituiscano quella del debito sovrano e dei mutui non si riparte), Jeremy Rifkin suggerisce che il Pil continuerà a scendere perché molte attività umane ormai hanno un costo marginale zero e sono scambiate gratuitamente o quasi (da Whatsapp a Wikipedia al car sharing). Le cose non stanno come dice Krugman: gli economisti non sono stati sconfitti, stanno cercando di capire come è cambiato il mondo che devono spiegare. Chissà se ci riusciranno in tempo utile.

Avvisati i gufi e tutto lo zoo

Avvisati i gufi e tutto lo zoo

Gaetano Pedullà – La Notizia

La situazione è grave ma non seria. Renzi come Flaiano, ieri ci ha detto che si va avanti come se niente fosse. All’orizzonte dei suoi mille giorni c’è ogni bengodi di riforme: dal lavoro alla giustizia, dalla pubblica amministrazione alla scuola. Come fare tutto questo però resta un mistero perché al premier sta sfuggendo di mano il suo partito e, con Forza Italia ormai divisa in correnti contrapposte, pure Berlusconi non può più garantirgli quell’aiuto sottobanco con cui ha retto finora. Il discorso del premier è diventato così un avviso ai naviganti, soprattutto tra quei parlamentari che hanno a cuore più di tutto la loro poltrona. Se si inceppano le riforme si torna alle urne, ha detto il premier, evocando il voto come mai aveva fatto prima. Dopodiché Renzi è andato al Pd e ha azzerato la segreteria, sostituendola praticamente tutta con nomi nuovi. È chiaro quindi che nessuno sta sull’ultima spiaggia quanto il premier, costretto ad avvisare i partiti e blindarsi dentro il suo. Su questa ultima spiaggia però Renzi sa di non essere solo. C’è tutta l’Italia e c’è il bisogno vero di provare a cambiarlo questo Paese. Senza perdere più tempo. I gufi e tutto lo zoo sono avvisati.  

Salvò un’azienda dal crac, la burocrazia lo punisce

Salvò un’azienda dal crac, la burocrazia lo punisce

Fausto Carioti – Libero

L’aula di Montecitorio, dove ieri Matteo Renzi ha promesso «una politica economica espansiva che rialimenti la fiducia tra imprese e cittadini», vista da qui è davvero dall’altra parte della Luna. Siamo a Noventa di Piave, in provincia di Venezia. Una settantina di dipendenti diretti e altrettanti nell’indotto, fatturato che dopo un periodo diflìcile è cresciuto sino a quota 20 milioni, commesse importanti all’estero, un curriculum che vanta edifici come il ponte di Calatrava, il Lingotto di Torino firmato da Renzo Piano e l’hotel Vela a Barcellona: i numeri per andare avanti ci sono, ma dinanzi un lucernario non a norma di legge valgono poco. La Simco Tecnocovering rischia di finire nel lungo elenco delle vittime dell’ottusità della burocrazia.

L’impresa progetta e applica quelle facciate di vetro e metallo diventate, grazie agli archistar, il simbolo della modernità. Il gruppo cui apparteneva, la Lorenzon Techmec System, si era trovato sul baratro quattro anni fa. Ma aveva commesse e contatti sparsi per il mondo e un know how di tutto rispetto. Così l’azienda di Noventa fu acquistata dalla Simco Tecnocovering, consociata del gruppo che fa capo al friulano Marco Simeon. Da allora ha lavorato per costruire le facciate del ministero della Difesa francese a Parigi, della torre di Telecom Maroc a Rabat, della nuova sede del Credit Agricole a Nantes e del palazzo Trebel a Bruxelles, destinato al Parlamento europeo, e in molti altri cantieri. Insomma, il lavoro non manca e i tempi brutti sembrano alle spalle.

Se non fosse per quel lucernario, di cui ha scritto ieri il Corriere del Veneto, e tutto quello che esso rappresenta. Tre anni fa Simeon aveva acquistato la sede dell’azienda dal tribunale. Decide di cambiare la distribuzione degli spazi e presenta un progetto in sanatoria. Tutto bene, tranne il torrino in alluminio e vetro che sporge di quattro metri. Si scopre che il massimo previsto dal progetto originario è ottanta centimetri. È un abuso ereditato dalla vecchia proprietà, ma alla burocrazia non interessa. Siccome il permesso di costruire dura tre anni, Simeon chiede tempo per trovare una soluzione. La risposta è un’ordinanza del Comune datata 24 aprile, in cui si obbliga alla demolizione del lucernario entro 90 giorni. Copia dell’ordinanza è inviata alla procura e «comunicata agli uffici competenti per l’eventuale cessazione delle forniture e dei servizi pubblici». Così ora l’azienda rischia di trovarsi senza acqua né elettricità e con un procedimento penale in più.

«Non manderò mai a casa i miei dipendenti», assicura Simeon parlando con Libero. «Smonterò il torrino, perché sono costretto a farlo dalla burocrazia, e andrò avanti con la mia attività». Ma questa storia è una metafora: se la racconta, spiega, e solo perché è un esempio di ciò che accade a tante altre imprese. «Stiamo parlando di una società che ha salvato il personale di quella che era fallita, ne ha acquistato i beni, è andata in giro per il mondo a vendere il suo prodotto nonostante i problemi creati dalla burocrazia, ha portato i quattrini fatti all’estero in Italia, li ha riversati sul territorio, e qui trovo chi mi intima di smontare un torrino che ho comprato dal tribunale».

Simeon comincia a capire chi va via. «I grossi gruppi come Fiat hanno iniziato a mettere le loro società fuori da questo sistema, ma sono in tanti che ci stanno pensando. Io in questo momento non ho intenzione di farlo, ma se dal punto vista fiscale e burocratico si va avanti così una simile scelta diventerà inevitabile per la sopravvivenza del nostro sistema imprenditoriale».

Orari dei negozi, l’Antitrust boccia le chiusure estive

Orari dei negozi, l’Antitrust boccia le chiusure estive

Corriere della Sera

L’autorità Antitrust ha bocciato con un’apposita segnalazione la proposta di legge Senaldi, elaborata nella commissione Attività produttive di Montecitorio, per ri-regolamentare l’apertura festiva dei negozi affidando maggiori poteri agli enti locali. Secondo il garante «la proposta viola la concorrenza» perché pone limiti all’esercizio di attività economiche «in evidente contrasto con le esigenze di liberalizzazione di cui è espressione l’articolo 31 del decreto Salva Italia» emanato a suo tempo dal governo Monti. Per di più il parere elaborato dall’Antitrust sottolinea il contrasto della proposta Senaldi con la normativa della Ue in quanto reintroduce significativi limiti concorrenziali «aboliti dal legislatore nazionale» proprio in attuazione del diritto comunitario.