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Accelerare sul fisco si può, dunque si deve
Redazione Edicola - Argomenti fisco, il sole 24 ore, tasse
Il Sole 24 Ore
La provocazione del presidente della commissione Finanze della Camera, Daniele Capezzone, che suggerisce una riforma fiscale in 100 giorni attraverso 12 mosse, ha il merito di porre l”attenzione sui tempi di attuazione della delega. E il Parlamento ha un’occasione per dimostrare (su un piccolo aspetto procedurale) che accelerare si può. Fra pochi giorni le Camere riceveranno gli schemi di decreto legislativo sulle semplificazioni e sul catasto per dare un parere aggiuntivo dopo quello delle scorse settimane. La delega fiscale prevede, infatti, (e qui sta forse l’errore di impostazione) che questo ulteriore parere venga dato quando non vengano recepite le precedenti indicazioni delle Camere. La conseguenza sarà un ulteriore aggravio nei tempi della procedura. Se è vero, però, che l’attuazione della delega fiscale “serve” al sistema e se è vero che la politica vuole fare in fretta, c’è un’occasione per dimostrarlo: dare i pareri suppletivi (e forse inutili) usando soltanto uno dei dieci giorni previsti dalla legge.
Allarme Bce sui conti italiani
Redazione Edicola - Argomenti alessandro merli, bce, europa, il sole 24 ore, mario draghi
Alessandro Merli – Il Sole 24 Ore
A rischio l’obiettivo del Governo italiano sui conti pubblici per il 2014. Lo scrive la Banca centrale europea nel bollettino mensile diffuso ieri, in un’analisi dei bilanci dei Paesi dell’area euro. Secondo la Bce, il pericolo del mancato raggiungimento del target ufficiale (un deficit pari al 2,6% del prodotto interno lordo) deriva dall’evoluzione dell’economia, che sta andando peggio del previsto. Nel secondo trimestre, l’economia italiana ha accusato una contrazione dello 0,2%. La Bce sollecita quindi il Governo a «rafforzare ulteriormente» la politica di bilancio in modo da assicurare il rispetto del Patto di stabilità, soprattutto per quanto riguarda la riduzione del rapporto debito/Pil. Un’osservazione destinata a provocare una discussione sulla necessità di una manovra correttiva per l’anno in corso.
Il bollettino mensile della Bce nota che nei primi tre mesi dell’anno il deficit italiano ha registrato un miglioramento rispetto allo stesso periodo del 2013 (dall’1,8% del Pil all’1,6), in seguito alla minor spesa pubblica, soprattutto per investimenti, mentre le entrate sono rimaste più o meno costanti. Nel primo semestre, c’è stato un lieve calo (pari allo 0,1% del Pil) delle entrate fiscali, ma questo, osserva la Bce, è da attribuirsi a un diverso calendario dei pagamenti delle imposte rispetto all’anno scorso. Il documento elaborato dagli economisti dell’Eurotower nota che, in base al Patto di stabilità, l’Italia si è impegnata a un aggiustamento strutturale dei conti pubblici (depurato quindi dagli effetti del ciclo economico) pari allo 0,7% sia quest’anno sia il prossimo, ma che le previsioni di primavera della Commissione europea indicano un risultato dello 0,1% in ciascuno dei due anni. Il bollettino ricorda il mancato rispetto da parte dell’Italia del valore di riferimento per la riduzione della spesa pubblica e del rapporto debito/Pil.
Il tema della politica fiscale è stato recentemente al centro del dibattito europeo, con Italia e Francia (che ha appena annunciato che rinvierà la riduzione del deficit al 3% al 2017) che premono per un allentamento dell’austerità e la Germania sul fronte opposto. Sulla questione è intervenuto di recente anche il presidente della Bce, Mario Draghi, sostenendo che, pur nel rispetto delle regole attuali, possono essere utilizzati tutti i margini di flessibilità esistenti e che i Paesi che hanno margini di manovra (un riferimento implicito alla Germania) possono utilizzare la leva di bilancio per stimolare l’economia. Il bollettino mensile dell’Eurotower rileva che nei primi sei mesi del 2014 il bilancio tedesco ha registrato un attivo dello 0,6% del Pil, e che sia questo, sia gli obiettivi del Governo per questo e i prossimi anni, vanno al di là di quanto fissato sia nella legge costituzionale sul “freno” al debito pubblico, sia negli accordi europei. Analoghe pressioni su Berlino, in modo più esplicito di quanto ha fatto Draghi, sono venute in questi giorni dal direttore del Fondo monetario, Christine Lagarde, con una sottolineatura sulla necessità di investimenti in infrastrutture. Sono state però già respinte in modo piuttosto netto dal Governo tedesco, che nel progetto di bilancio presentato al Bundestag questa settimana ha confermato l’obiettivo del pareggio per il 2015 e per gli anni successivi.
La questione della politica fiscale, insieme a proposte per il rilancio degli investimenti nell’area euro, verrà discussa alle riunioni dell’Eurogruppo e dell’Ecofin in programma oggi e domani a Milano, sotto presidenza italiana. A Milano la discussione sarà presumibilmente inasprita dall’annuncio di Parigi che il deficit pubblico di quest’anno salirà al 4,4% del Pil, contro un target del 3,8%, e che l’obiettivo del 3%, che avrebbe dovuto esser raggiunto originariamente nel 2015, è spostato al 2017, anche in questo caso a causa di una crescita inferiore al previsto. L’irrigidimento di Berlino nel dibattito europeo sulla politica di bilancio viene giustificato in ambienti governativi anche con la scarsa affidabilità di Francia e Italia sul rispetto degli impegni assunti.
Un’agenzia di rating per le Pmi
Redazione Edicola - Opinioni gian luigi durante, il sole 24 ore, impresa, imprese, pmi
Gian Luigi Durante – Il Sole 24 Ore
Come allentare la stretta che soffoca le imprese italiane? Ci sono due problemi: la domanda è scarsa e mancano anche i finanziamenti. E purtroppo, data la natura pro-ciclica dell’attività bancaria, le due componenti si alimentano a vicenda. Quando la recessione fa aumentare le sofferenze, spinge le banche a tirare in barca i remi dei prestiti. E nelle temperie di questi anni la reticenza degli istituti bancari ad erogare credito è stata aggravata dalla crisi dei debiti sovrani e anche dalle imposizioni – peraltro strutturalmente, se non congiunturalmente, giuste – di Basilea 2 e 3 volte a innalzare i patrimoni bancari.
La concomitanza di tali fattori ha comportato circa 4 trilioni di euro di deleveraging nell’Eurozona; ciononostante le banche registrano ancora attivi pari a 3,1 volte il Pil (2,7 in Italia) e i prestiti deteriorati sui bilanci delle banche italiane sono aumentati al 15,9% (Banca d’Italia). Dopo la forte contrazione dell’offerta di credito coincisa con la crisi dei debiti sovrani, oggi alla radice dei problemi c’è la scarsa domanda – una questione di economia reale e non di economia finanziaria.
Per la prima volta dal 2007 i criteri di offerta dei prestiti sono divenuti lievemente espansivi, mentre la domanda degli stessi è rimasta debole (Bank Lending Survey, Bce). La ‘pro-ciclicità’ delle banche è specialmente penalizzante per le Pmi (98% delle imprese in Italia e in Europa), che hanno meno potere negoziale nel mondo finanziario e sono più esposte ai venti recessivi del mondo reale. Intanto, le politiche monetarie espansive della Bce hanno fallito nel loro intento di far ripartire il flusso di credito banca-impresa – tutto quello che può aiutare la finanza a rendere più fluido il credito per il settore produttivo è benvenuto.
Facilitare l’accesso al mercato dei capitali è imperativo e occorre farlo nelle forme più svariate: cartolarizzazioni dei prestiti, emissioni obbligazionarie pubbliche, o negoziate su base bilaterale con gli investitori. Un mix bilanciato di prestiti bancari e obbligazionari contribuirebbe non solo a rendere più fluido il mercato del credito, ma anche a proteggere il sistema da futuri shock. Mentre per le imprese più grandi, però, esistono procedure di valutazione del merito di credito che facilitano l’allocazione del capitale finanziario, le agenzie di rating non si occupano delle Pmi. Il problema è specialmente serio in Europa, dove il finanziamento dell’impresa è per il 90% affidato alle banche – contro il 45% negli Usa. Una soluzione potrebbe essere quella di promuovere un’agenzia di rating specializzata nel merito di credito delle Pmi.
Vediamo due casi concreti: nel settembre 2012 è stata costituita in India una agenzia di rating per le Pmi (Smera). Si legge nei documenti costitutivi: «Considerando che le banche utilizzano procedure di rating customizzate prima di erogare credito, i richiedenti si trovano ad investire risorse e tempo per trattare con gli istituti di credito. Smera ha adottato un sistema standardizzato, trasparente ed affidabile per elaborare una valutazione sul rischio di credito intrinseco ad una business unit. Inoltre, Smera è supportata da un gran numero di banche pubbliche e private nella regione».
Le valutazioni di merito di credito che le banche private effettuano sulle imprese loro clienti sono un giacimento immenso da sfruttare e armonizzare. Il secondo esempio concreto è la Credit Benchmark: fondata da due ‘imprenditori seriali’, Mark Faulkner e Donal Smith, ha ottenuto capitali di ventura per iniziare un’attività di raccolta dati nel mercato dell’informazione sul rischio di credito. La società raccoglierà i dati di base dalle analisi del rischio credito in ciascuna banca (una dozzina di banche globali hanno già dato il loro assenso), li aggregherà rendendoli anonimi e potrà così creare ‘giudizi di consenso’ per profili settoriali e per fasce di fatturato.
Un’Agenzia di rating europea per le Pmi, sotto l’egida della Ue e accompagnata da una estensione di forme di garanzia governativa sui relativi prestiti, avrebbe come obiettivo primario quello di migliorare tenuta e struttura dei ‘ponti’ che uniscono le Pmi alle istituzioni finanziarie e ai mercati. L’istituzionalizzazione del rating sbloccherebbe diversi canali di finanziamento ad alto potenziale, come ad esempio le cartolarizzazioni dei prestiti – in grado di sopperire alla mancanza di scala che impedisce alle Pmi di finanziarsi sui mercati dei capitali.
Se assemblati con criteri semplici e trasparenti infatti, i prestiti cartolarizzati delle Pmi potrebbero essere acquistati in parte dalle Banche centrali, come peraltro lasciato recentemente intendere dalla Bce e dalla Bank of England, restituendo nuova linfa al mercato dei prestiti bancari. Le regole che governano questo strumento sono state largamente rivisitate dopo la crisi dei mutui sub-prime negli Stati Uniti, esacerbata dall’effetto amplificatore della cartolarizzazione degli stessi: la necessità di un adeguato reporting su ogni prestito cartolarizzato, così come l’obbligo di mantenere una partecipazione nella stessa operazione da parte dell’istituto emittente, dovrebbero favorirne l’adozione. Inoltre, un sistema di rating delle Pmi consentirebbe la sua diffusione anche alle istituzioni non bancarie, le quali non hanno accesso a un vasto ammontare di dati sul mercato dei prestiti, esclusiva degli istituti bancari.
Certamente, si porrà il problema che segna tutte le agenzie di rating: come finanziare le analisi senza creare conflitti di interessi? Una soluzione può essere quella di far pagare il funzionamento ai vari protagonisti del mercato: dalle banche ai fondi di investimento, con contributi anche dalla Ue e dalle Associazioni di Pmi. Tra i vari traguardi di medio termine sono anche fondamentali la banking e fiscal union, per finire con la capital markets union: obiettivo del neo-eletto Presidente della Commissione Europea Juncker. Un grande lavoro di armonizzazione sarebbe necessario anche sotto il profilo legale, al momento, infatti, il diverso trattamento della base di investitori in un’emissione obbligazionaria nei vari paesi dell’eurozona determina inefficienze nell’allocazione del capitale in eccesso.
L’incubo quotidiano sui conti
Redazione Edicola - Opinioni debito pubblico, gaetano pedullà, la notizia, pil
Gaetano Pedullà – La Notizia
Dacci oggi il nostro incubo quotidiano. In tempi di crisi e di sfiducia nel futuro sembra che lo si faccia apposta a non far passare giorno senza spaventarci con qualche previsione allarmante sulla nostra economia. Centri studi, rapporti di ogni genere, i bollettini periodici di Ocse e Banca centrale si aggiungono al normale flusso dei dati che fotografano i nostri conti. E pur ripetendo spesso sempre le stesse cose, questo fiume di calamità bibliche ci fa sprofondare in una depressione generale. Proprio il contrario di quello che ci serve per ripartire. Ieri così abbiamo appreso che la Bce vede a rischio l’obiettivo del 2,6% nel nostro rapporto tra deficit e Pil. La situazione dei conti pubblici italiani la conoscono tutti e Renzi ha già detto che su questo parametro puntiamo al 3%; meglio di Parigi per capirci. Gli euroburocrati che compilano il bollettino – in genere quindici giorni prima della pubblicazione – fanno però il loro compitino e una stampa acritica e pronta a bersi tutto pur di fare un titolo a sensazione, pubblica. Abbiamo tanti difetti e tanto da fare, soprattutto sulle riforme, ma andando avanti in un certo modo poi non lamentiamoci se andiamo sempre più a fondo.
Gutgeld succederà a Cottarelli
Redazione Edicola - Argomenti carlo cottarelli, italia oggi, michele arnese, spending review, spesa pubblica, yoram gutgeld
Michele Arnese – Italia Oggi
Chi sarà il successore di Carlo Cottarelli come commissario alla revisione della spesa pubblica? Alla domanda, alcuni renziani rispondono: non abbiamo bisogno di chiamare dall’esterno un Cottarelli o un altro Enrico Bondi, perché il «commissario» lo abbiamo già in casa. E si chiama, dicono, Yoram Gutgeld, nato a Tel Aviv nel ’59, filosofo e matematico di formazione, manager e consulente strategico per imprese e istituzioni. Il «Cottarelli renziano» ha tre caratteristiche che lo rendono agli occhi del premier Matteo Renzi adatto al ruolo di stratega della spesa pubblica, da riformare, da riorganizzare e da tagliare.
Primo: ha una sensibilità politicasuperiore a Cottarelli, che è sulla via del ritorno al Fondo monetario internazionali; infatti Gutgeld dal 2013 è deputato del Pd e membro della Commissione Finanze, oltre che esperto ascoltato da tempo a Palazzo Chigi proprio su questioni sui costi statali. Materia in cui servono decisioni politiche e non più, e non solo, dissertazioni e ipotesi tecniche (visti anche i risultati non entusiasmanti di personalità del calbro diPiero Giardacome ammesso dallo stesso Giarda in un rapporto della Cattolica).
Seconda caratteristica di Gutgeld: è esperto di riorganizzazioni in aziende ed enti, visto che per 24 anni ha lavorato in McKinsey ed è stato tra l’altro consulente di vari governi, come ad esempio quello israeliano per la spesa militare.
Terza caratteristica: Gutgeld, dicono molti renziani, forse per la sua personalità riesce a dialogare in maniera fruttuosa con i vertici del ministero dell’Economia. Capacità che non tutti i renziani, e le renziane, come ad esempio Antonella Manzione capo del Dagl (Dipartimento affari giuridici e legislativi), possono vantare nei confronti delle strutture del dicastero retto da Pier Carlo Padoan.
A Palazzo Chigi si nutre dunque fiducia sul lavoro del deputato-tecnico, che peraltro non inizia da zero. Da tempo, per conto di Renzi, è al lavoro sul bilancio statale. E da mesi, se non da anni, elabora ipotesi e studi su come rendere più produttiva la spesa pubblica anche attraverso i tagli. Nel suo ultimo libro «Più uguali più ricchi» edito lo scorso ottobre da Rizzoli si possono scorgere soluzioni di metodo e di merito. Il metodo Gutgled? Eccolo, in sintesi. Il primo anno si deve studiare, elaborare un piano e condividerlo con le strutture. Un commissario può coordinare, ma il lavoro va fatto dentro i ministeri e richiede il loro coinvolgimento. Il secondo punto è che si devono elaborare piani industriali dettagliati. Il terzo è procedere con leggi a «kilometro 0» (non si va da nessuna parte con leggi delega, alle quali seguono decreti legislativi, ai quali seguono regolamenti attuativi, ecc). Quarto, gli obiettivi devono essere misurabili e trasparenti, con un responsabile preciso. Infine ci vuole meritocrazia.
Facile a dirsi, difficile a farsi. L’obiettivo «politico» per Gutgeld? «Servirebbe», scriveva circa un anno fa, «una riduzione strutturale e sostenibile dei costi per la macchina pubblica di almeno 20-30 miliardi l’anno per consentire una significativa riduzione delle tasse sul lavoro». E per far questo, bisogna evitare tre errori, aggiungeva. Ovvero: no a interventi una tantum ma strutturali, si possono ridurre i costi senza intaccare la qualità e, infine, niente «tagli lineari». Ma forse il lavoro di Gutgeld inizierà facendo uno strappo alla regola.
La burocrazia rallenta i pagamenti alle imprese
Redazione Edicola - Argomenti burocrazia, debiti PA, gian maria de francesco, il giornale, imprese
Gian Maria De Francesco – Il Giornale
Una promessa mantenuta. Alla maniera di Renzi, però. La certificazione telematica dei crediti vantati dalle imprese nei confronti della pubblica amministrazione in modo da accelerarne lo smobilizzo è uno dei pochi impegni rispettati dal presidente del Consiglio. Tuttavia, i risultati dell’iniziativa, finora, sono modesti. Secondo il Tesoro, a fine luglio erano infatti stati saldati 26 miliardi di euro di debiti pregressi al 31 dicembre 2013, mentre gli stanziamenti attuali ammontano a circa 31 miliardi, più o meno la metà di quanto resta ancora da pagare.
Lo strumento telematico dovrebbe, in teoria, consentire di velocizzare la procedura. Ma, purtroppo, siamo in Italia e la velocità è un concetto relativo. Ecco perché, all’8 settembre, risultavano presentate istanze di certificazione per soli 6 miliardi, dei quali solo 3 sono stati realmente certificati. Non si può parlare di flop perché l’iniziativa è partita il 21 luglio e i termini, inizialmente fissati al 31 agosto, sono stati prorogati al 31 ottobre. Se si prendessero sempre per oro colato le parole del premier («Tutti i debiti saranno pagati entro il 21 settembre, giorno di San Matteo»), non si potrebbe fare a meno di evidenziare la scarsa incisività del provvedimento.
Sulla carta, è tutto molto facile. Alle imprese (dalle persone fisiche alle società di capitali) basta registrarsi sul sito certificazionecrediti.mef.gov.it e aprire un account come si fa per la posta elettronica o per un social network. Poi si passa all’inserimento delle fatture che può essere manuale (digitando i dati delle singole ricevute) oppure telematico (sia tramite file precompilati sia con le fatture elettroniche per le società che già le utilizzano). Le amministrazioni hanno 30 giorni di tempo per dare una risposta e riconoscere che il credito sia certo ed esigibile. Una volta ottenuta la risposta, le imprese hanno dinanzi a sé due strade: aspettare il pagamento oppure recarsi presso una banca per ottenere una cessione pro soluto a tassi agevolati (1 ,9% fino a 50mila euro, 1,6% oltre i 50mila). Grazie a un accordo che coinvolge Tesoro, Cassa depositi e Associazione bancaria italiana, gli istituti scontano le fatture (per 100mila euro ne riconoscono 98.400) rivalendosi poi sulla Pa.
Perché si sono registrate solo 56mila richieste? Un po’ per la pausa estiva. Un po’ perché la burocrazia la fa da padrona anche qui. Le amministrazioni, infatti, tendono a prendersi un po’ più dei 30 giorni loro concessi e non sempre rispondono positivamente (va ricordato che non si possono certificare crediti classificabili come spese in conto capitale). E anche se le imprese possono chiedere la nomina di un commissario ad acta, non sempre tutti vogliono o possono infilarsi nei meandri del contenzioso. In secondo luogo, nonostante questi crediti siano garantiti dallo Stato con gli stanziamenti e tramite Cdp, le banche tendono a valutare molto minuziosamente ogni pratica di sconto fatture. Ecco perché Confindustria ha chiesto al governo di «monitorare il meccanismo di cessione al sistema finanziario e di stanziare nuove risorse per lo smaltimento integrale dei debiti». Idem Confcooperative: «Meglio il 98,4% che nulla», dice il presidente Maurizio Gardini, consapevole che «la pesante situazione iniziale» porta necessariamente rallentamenti. Il vero problema ora sono i debiti del 2014: la normativa europea (limite di 60 giorni) non viene ancora rispettata. L’ultima ciambella di salvataggio può essere rappresentata dalla prossima pubblicazione del decreto per la compensazione delle cartelle esattoriali con i crediti verso la Pa. Le aziende lo aspettano da 4 mesi, ma forse questa è la volta buona…
La burocrazia costa alle imprese 30 miliardi l’anno
Redazione Edicola - Argomenti burocrazia, Corriere della Sera, imprese, luigi offeddu
Luigi Offeddu – Corriere della Sera
Qui non ci sono grandi misteri: se in Finlandia il 5% delle imprese ha difficoltà nell’ottenere il credito delle banche, se in Germania la percentuale sale al 10%, e se in Italia raddoppia e più toccando il 25%, chi avrà più difficoltà a stare sul mercato? Oppure: se un piccolo o medio imprenditore impegna 269 ore in un anno a mettere insieme la sua cartella delle tasse, a verificarla, e poi a pagarla, sarà o più o meno competitivo di uno che di ore ne impiega la metà, o un terzo? Domanda oziosa. E risposta scontata. Una delle tante risposte, raccolte dagli esperti della Commissione Europea, che spiegano il crollo della produttività italiana: è italiano, infatti, il primo imprenditore preso in esame, e le tasse divorano il 65,8% dei suoi profitti totali; ben più del 41,3% certificato in media per gli altri Paesi europei, dall’organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo.
Ogni anno, dopo l’estate, la Commissione presenta un paio di rapporti sulla competitività dei vari Paesi Ue. Quest’anno li ha illustrati Ferdinando Nelli Feroci, il commissario italiano all’industria e imprenditoria, e da quei numeri è emerso come i segni di una ripresa, per quanto fragile, continuino a manifestarsi qua e là. Ma dietro, ci sono le ombre della recessione. Dal 2007 al 2012 l’industria tedesca ha creato 50mila posti in più, mentre la Francia ne ha perso 350mila e l’Italia circa 550 mila. La nostra potenza manifatturiera è scesa in media del 15% rispetto alla situazione di prima della crisi ,anzi il declino è arrivato al 20% in almeno 14 settori su 22: una slavina. La produzione automobilistica ha battuto anche le peggiori previsioni: meno 40%. Ma del resto, il panorama è ugualmente nero in tutta l’Europa: 3,5 milioni i posti di lavoro persi in tutto nel manifatturiero. E per tornare all’Italia, chi ha provato ad affrontare la crisi chiedendo aiuto là dov’era più logico chiederlo, cioè negli istituti di credito, ha picchiato il naso sul tronco di una quercia: in media, per i nuovi prestiti, sempre secondo i dati della Commissione Europea, i tassi italiani si aggirerebbero intorno al 3,6%, circa 150 punti in più di quanto venga chiesto agli sportelli delle banche tedesche e francesi.
Per quanto riguarda le «pagelle» compilate sull’efficienza dei governi, la Finlandia è salita da una quota indicativa 1,9 (nel 2008) a quota 2,3 (2013); l’Italia da 0,2 a 0,4, ma a tutt’oggi prevale soltanto sulla Grecia, la Bulgaria, la Romania. In compenso, pesano le formalità burocratiche imposte dallo Stato alle piccole e medie imprese: 30,9 miliardi in un anno. Nelle tabelle di Bruxelles, con i dati forniti dal governo italiano, vi sono anche squarci consolanti, come quelli che calcolano in pochi giorni il tempo necessario per avviare un’azienda; ma sono dati «benauguranti», cioè proiettati sulle raffiche di riforme appena fatte o annunciate, e in attesa della verifica del tempo.
Promesse finite, il tempo scade
Redazione Edicola - Opinioni alberto alesina, bce, Corriere della Sera, europa, francesco giavazzi, Matteo Renzi
Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera
Matteo Renzi ha avuto una buona intuizione convocando un Consiglio europeo dedicato alla crescita nella prima settimana di ottobre, alla vigilia della presentazione delle leggi di Stabilità da parte dei Paesi della Ue. In questo modo quelle leggi verranno valutate dalla Commissione europea – che deve esprimere un giudizio su ciascuna di esse – alla luce delle indicazioni che emergeranno in quella riunione. Il bollettino mensile della Banca centrale europea (Bce), diffuso ieri, sottolinea che in Italia la mancata crescita potrebbe essere, quest’anno, peggiore del previsto. Abbiamo più volte suggerito – non solo noi in realtà, ad esempio anche Guido Tabellini su Il Sole 24Ore – che per far riprendere lo sviluppo nei Paesi dell’euro sarebbe necessario un taglio delle imposte coordinato fra tutte le nazioni e finanziato tramite acquisti di titoli di Stato da parte della Bce. Programmi di investimenti pubblici – come i 300 miliardi di spese in infrastrutture proposti dal nuovo presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker – possono aiutare nel medio periodo ma, dati i tempi necessari per avviare questi progetti, servono a poco nell’immediato. Per far ripartire in tempi brevi la domanda c’è un solo modo: ridurre permanentemente la pressione fiscale.
È però difficile che nel Consiglio di ottobre si trovi un accordo per una politica coordinata di riduzione delle imposte. La Bce, dal canto suo, nelle scorse settimane ha fatto tutto ciò che poteva senza violare il suo statuto e senza perdere la fiducia dei Paesi del Nord. Il risultato di quelle misure è stato un significativo deprezzamento dell’euro sul dollaro (da oltre 1,39 in primavera a meno di 1,29 oggi) che aiuterà le esportazioni. È difficile aspettarsi di più dalla politica monetaria. Ora tocca ai governi agire. Con il medesimo senso di urgenza che ha guidato le decisioni della Bce. Ma se non si troverà un accordo per un’azione coordinata, ciascun Paese dovrà agire da solo.
Che cosa può fare il governo italiano per farci uscire da una recessione che sembra non finire mai? Il presidente del Consiglio ha spiegato che le riforme vanno fatte bene, senza fretta. Ha detto che saranno necessari mille giorni per rilanciare l’Italia. Ha ragione, ma solo in parte. È vero che alcune riforme, come quella del sistema fiscale, della giustizia e della pubblica amministrazione, richiedono tempo. Ma su altre scelte che il governo è chiamato a fare, Renzi non ha né mille, né cento giorni: ha tre settimane, da oggi al Consiglio di ottobre. Non ci si può illudere che senza interventi concreti miracolosamente si riavvii la crescita.
Al Consiglio europeo – a maggior ragione avendolo convocato lui – Renzi deve arrivare avendo fatto tre cose. Primo, una riduzione aggressiva delle imposte: da un lato aumentando e rendendo permanenti gli 80 euro di maggio, ed estendendo la platea di cittadini che ne beneficiano; dall’altro, riducendo le tasse sul lavoro. Un complessivo taglio della pressione fiscale pari a circa 30 miliardi. Secondo, tagli di spesa per la medesima cifra, alcuni da attuare contestualmente alla riduzione delle tasse (10 miliardi), il resto nei 2-3 anni a seguire. Nell’arco di un triennio la riduzione del carico fiscale sarà così interamente finanziata. Ridurre da subito le spese di 10 miliardi non è impossibile: si può iniziare dalle proposte del commissario Carlo Cottarelli. È un piano che porterebbe il nostro deficit oltre la soglia del 3% per un triennio. Non saremmo soli. Francia e Spagna sono già oltre quel limite: sopra il 4 la Francia, 5 la Spagna. Ma se facessimo solo questo, sfondando il limite del 3% senza fare altro, non solo saremmo soggetti alle sanzioni di Bruxelles, rischieremmo di allarmare i mercati e far ripartire lo spread. È necessario un terzo passo che dimostri come la flessibilità che chiediamo non è un modo, l’ennesimo, per evitare di fare riforme da troppo tempo già rinviate.
Il capitolo da affrontare è il mercato del lavoro, perché è una delle riforme più importanti, ma anche perché è sostanzialmente pronta e serve solo la volontà politica di andare avanti. Il via libera del Parlamento alla legge-delega sul lavoro (verrà votata in commissione al Senato la settimana prossima) deve però accompagnarsi, entro l’inizio di ottobre, al varo di alcuni decreti che, disegnando le nuove norme, in primis quelle che introdurranno il «contratto unico a tutele crescenti», spieghino in che modo il governo intenda attuare la delega.
Una simile strategia – riforme accompagnate da un temporaneo periodo di maggior flessibilità – ha un precedente illustre. Nel 2003, quando era la Germania «il malato d’Europa», il cancelliere tedesco Gerhard Schröder introdusse importanti riforme nel mercato del lavoro (le celebri norme Hartz) e allo stesso tempo chiese di poter superare per qualche anno il limite del 3% nel rapporto deficit-Pil. Fu l’inizio della riscossa tedesca. Il presidente del Consiglio e il governo devono avere ben chiaro che a preoccupare cittadini, imprese e investitori è oggi soprattutto la mancata crescita, che è il motivo per cui il nostro rapporto debito-Pil continua a salire. Gli operatori internazionali detengono circa un terzo del nostro debito pubblico. Per continuare a farlo si aspettano un segnale forte sullo sviluppo. E loro, come il Paese, se lo aspettano subito.
Rottamare Cernobbio
Redazione Edicola - Opinioni cernobbio, enrico cisnetto, il foglio
Enrico Cisnetto – Il Foglio
C’è una relazione, e quale, tra il benservito di Marchionne a Montezemolo e quello di Del Vecchio a Guerra, con l’ostentato distacco di Renzi dai cosiddetti “poteri forti”, manifestato platealmente attraverso la scelta di non calcare le scene di Cernobbio, e dalle organizzazioni di rappresentanza degli interessi, sindacati e Confindustria in testa? Direttamente no. La vicenda Ferrari è un regolamento di conti personali, in sospeso da molto tempo. Quello che si è svolto in casa Luxottica appartiene a un fenomeno in atto da qualche tempo nel capitalismo italiano e che potremmo definire la rivincita dei padroni sui manager, i primi stanchi di non comandare più come un tempo e i secondi rei di aver esagerato, nell’esercizio del potere aziendale, nell’esposizione mediatica e nel darsi gli emolumenti. Mentre quella di Renzi è una scelta politica con finalità di comunicazione punto e basta. Insomma, si tratta di episodi non solo slegati tra loro, ma pure di bassa cucina, privi di una cornice strategica in cui collocarli.
In realtà un sottile filo rosso che li lega c’è. Si tratta, infatti, di convergenti segnali del disfacimento del vecchio sistema paese, quell’insieme di ruoli, uomini, prassi, relazioni e abitudini, che hanno costituito l’intelaiatura su cui in Italia si è retta l’organizzazione della politica, dell’economia e della stessa società. Quando si dice che si è “chiusa un’epoca” parlando dei tanti anni in cui Montezemolo è stato a vario titolo un protagonista della galassia Fiat, in realtà si indica la “fine di un mondo” in un’accezione ben più larga del perimetro, pur significativo, dell’impero Agnelli. Qualcuno, addirittura, dice che è la “fine del mondo”: chi in chiave pessimistico-nostalgica, chi al contrario in chiave positiva, aggiungendoci un “finalmente”. In tutti i casi, si tratta di segnali inequivocabili del fatto che nulla sarà più come prima.
Chi legge da tempo le mie considerazioni, ora starà probabilmente pensando che sto per produrmi in un veemente j’accuse sul declino italiano, magari accompagnato da un bel “ve l’avevo detto”. Spiace deludere (forse anche me stesso), ma non è così. Sia chiaro: l’ltalia non solo è in pieno e prolungato declino, ma è entrata in una pericolosa fase di decadenza. Quella che con un ottimo articolo Fausto Bertinotti ha descritto ieri sul Garantista. Solo che io aggiungo: del vecchio sistema, ormai consunto, abbiamo comunque bisogno di liberarci. Non ha torto Renzi quando dice che la classe dirigente del paese ha la responsabilità di averlo portato al disastro, e che prima ce ne liberiamo e prima possiamo tentare di invertire la rotta. Sbaglia a delinirla “quella della Prima Repubblica”, e tanto più sbaglierebbe se intendesse riferirsi al più longevo di quella generazione, ancora in attività. La colpa è principalmente, se non unicamente, di quelli che hanno popolato i vent’anni della Seconda Repubblica, che sono appunto stati gli anni del progressivo e crescente declino. Nella politica come nell’economia, e nella vita civile c culturale. Ma al netto di questo errore, il fatto che Renzi abbia messo in moto la macchina della rottamazione è cosa buona e giusta.
Non è andato a Cernobbio? Ha fatto bene due volte: primo perché è un segnale che va nella direzione del cambiamento, e secondo perché da quel consesso non è mai uscito uno straccio d’idea utile al paese. Il problema, semmai, è un altro, per Renzi come per il capitalismo made in Italy: avere in testa come ricostruire. Non basta buttarsi alle spalle passato e presente, bisogna avere idea di come costruire il futuro. Altrimenti rimangono solo le macerie.
Per esempio: se, giusto o sbagliato che sia, i salotti (o tinelli) buoni, patti di sindacato e i tanti altri strumenti del cosiddetto capitalismo relazionale sono superati e desueti, è inutile accanirsi a difendere quel che ne rimane o versare lacrime di rimpianto auspicando che tornino; serve, invece, prenderne atto e però, nello stesso tempo, rendersi conto che un sistema industriale complesso non può essere semplicemente la somma delle imprese esistenti ma ha bisogno di fare sistema. Sarà un sistema diverso da quello del passato – ormai ridotto a un pollaio di galli spennacchiati che si beccano – ma pur sempre sistema il capitalismo deve fare.
Lo stesso discorso vale per la politica e le istituzioni, come ho scritto in questo spazio venerdì scorso: bene la parte destruens se contemporaneamente c’è quella construens, altrimenti resti sepolto sotto i detriti. Renzi fa bene a non andare a Cernobbio, ma non può cavarsela facendo visita a una fabbrica. Quello è populismo. Deve, invece, auspicare che la nuova classe dirigente di cui c’è bisogno – e quando dico “nuova” non mi riferisco solo all’anagrafe – costruisca delle Cernobbio capaci di far circolare idee, produrre progetti, selezionare persone. C’è bisogno di riprogettare tutto: il sistema politico e istituzionale, le imprese e le loro relazioni, la rappresentanza degli interessi, le dinamiche della vita sociale, la mentalità collettiva. Una sfida immane. Che non può ridursi a un regolamento di conti, per quanto sia necessario e opportuno regolarli.