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La cessione di Eni-Enel e i paletti antiscalata

La cessione di Eni-Enel e i paletti antiscalata

Andrea Ducci – Corriere della Sera

Vendere, incassare circa 5 miliardi di euro e mantenere la presa pubblica sul controllo delle società di Smto. La cessione di un consistente pacchetto di azioni di Eni (il 4,34%) ed Enel (il 5%) da parte del ministero dell’Economia, al di là dell’immagine di un Paese che fa cassa vendendo un pezzo dei gioielli della corona, non espone le due aziende a rischi di scalate. La privatizzazione a cui sta lavorando il ministero di via XX Settembre prefigura, del resto, la discesa da parte dell’azionista pubblico al di sotto della fatidica soglia del 30% del capitale, ossia la quota azionaria che preclude la possibilità di rastrellamenti ostili e forestieri per conquistarne il controllo. A meno che non sia lanciata una cosiddetta offerta pubblica di acquisto (Opa). Regola che tuttavia non vale per Eni ed Enel, poiché gli statuti delle due società contengono una clausola di garanzia a tutela dell’azionista pubblico. 

Una misura, insomma, che ne blinda il controllo. A prevederla è una legge del 1994, predisposta alla vigilia delle grandi privatizzazioni di Stato. Il dispositivo è semplice e stabilisce che i titolari di quote azionarie esercitano il loro diritto di voto fino al 3% del capitale posseduto. In pratica ogni azione eccedente la soglia del 3% viene «sterilizzata» e non consente di esercitare votazioni in assemblea. Il limite può essere aggirato modificando lo statuto con una delibera assembleare che rappresenti almeno il 75% del capitale Un obiettivo che però resta un miraggio se il ministero dell’Economia mantiene una quota superiore al 25%. 

Un’operazione di privatizzazione in corso prevede che i pacchetti Eni ed Enel in mano allo Stato siano venduti entro l’autunno. E una volta avvenuta la cessione ai fondi istituzionali, vale ricordare che al ministero resterà una quota del 26,24% di Enel e del 25,76% di Eni (detenuto attraverso Cassa Depositi e Prestiti). In queste ore, agli osservatori più critici e alle speculazioni politiche che lamentano l’ennesimo arretramento in asset strategici per il sistema Paese, è stato fatto osservare che per Eni esiste un’ulteriore clausola di salvaguardia degli interessi nazionali. Si tratta dei golden power inseriti al secondo comma dell’articolo 6 dello statuto. In sintesi, grazie a una legge del 2003 al ministero dell’Economia e al ministero dello Sviluppo economico sono riservati alcuni «poteri speciali», a presidio e tutela di Eni. In tutto sono quattro i golden power e permettono allo Stato di opporsi sia all’assunzione di pacchetti rilevanti sia alla formazione di patti o accordi che raccolgano oltre il 3% del capitale. Il terzo potere riservato all’azionista pubblico è il veto a delibere di scioglimento, trasferimento della sede all’estero, fusione e scissione. L’ultimo grimaldello antiscalata è rappresentato dalla nomina di un amministratore senza diritto di voto all’interno del board. 

Gli statuti di Eni ed Enel non hanno finora adottato l’ulteriore facoltà del voto plurimo. Il meccanismo cioè che prevede di maggiorare il diritto di voto, fino a un massimo di due voti, per ciascuna azione detenuta. L’introduzione del voto plurimo, sovvertendo il principio anglosassone del one share one vote, consente a un azionista di valere in sede di votazione più del capitale effettivamente detenuto. In soldoni con il voto plurimo lo Stato potrebbe controllare poco più del 25% dei voti possedendo una quota di capitale del 12,5%. Tradotto significa che potrebbe riservarsi di vendere un’altra bella fetta di Eni, Enel, Finmeccanica, ma pure delle quotande Poste, Enav e Sace senza mollare la presa.

Quattro mosse per una politica industriale

Quattro mosse per una politica industriale

Alessandro Pansa – Corriere della Sera

Il tormentone d’agosto su stime di crescita infinitesime – + 0,10 -0,1 per cento di Prodotto interno lordo? – , in un Paese con un debito pubblico superiore al 130% del reddito nazionale, può andare bene per un tweet, ma non è una cosa seria. A meno che non si voglia ragionare di politica industriale. Ma parlare di industria in Italia è al tempo stesso una necessità e un paradosso. Una necessità, perché la nostra economia trova ancora nella manifattura la sua principale ragion d’essere, non essendo stata in grado di competere sui piani della finanza e dei servizi a elevato valore aggiunto. Un paradosso, perché continuiamo ad inseguire un campionato già perso, invece di prepararci a una competizione completamente nuova. 

La politica industriale è il frutto della collaborazione tra istituzioni e grandi imprese capaci di influenzare standard di produzione e concorrenza internazionale. È sempre stato così. La storia dell’industria ha proceduto per paradigmi tecnologici: la macchina a vapore, il motore a scoppio, l’elettricità, la petrolchimica. E l’Italia, sia pure con qualche affanno, questi paradigmi li ha agganciati tutti. Nel solo 1918 vennero prodotti 6.523 aerei e 14.820 motori; negli Anni 60 l’Olivetti sviluppò e costruì nel Canavese i grandi calcolatori elettronici, i mainframe. L’invenzione del polipropilene – con il premio Nobel a Giulio Natta – fu il prodotto del lavoro della Montecatini. Sarebbe un lungo elenco. 

Cos’è successo da allora? Semplice: il paradigma tecnologico è cambiato – si è affermato quello della microelettronica e delle telecomunicazioni – , ma il nostro sistema industriale non è stato in grado di catturarlo. Al di là di altre spiegazioni, molte certamente corrette, originano da qui il ritardo e il declino strutturali della manifattura italiana. Ed ecco il paradosso: il ritardo non è, di fatto, colmabile. La politica industriale non può più dare molto in questo senso e non è nemmeno detto che sia sensato sprecare risorse per provarci. La corsa della tecnologia è troppo veloce per chi non si è mosso dall’inizio, e le grandi imprese italiane che (forse) potrebbero ancora farcela sono ormai troppo poche e isolate a livello internazionale. Il tempo è andato, gli asset adeguati pure.

Tutto perduto dunque? Niente affatto. Ma ci vuole il coraggio di fare quattro cose. Non sono molte, ma vanno fatte bene, con convinzione e continuità. La prima. Identificare quali settori potranno contribuire allo sviluppo del Paese (non crescita, ma sviluppo: che è molto di più!) e sostenerli, anche finanziariamente, nei loro processi di modernizzazione ed internazionalizzazione. Serve riconoscere che non tutte le industrie sono meritevoli di essere supportate alla stessa maniera, specie quando le risorse pubbliche sono scarse. Sarà la concorrenza a decidere la loro sorte. La seconda: definire il livello desiderato di competizione per i settori ritenuti cruciali, non lasciando in questi casi tutto il potere al mercato. Perché non sempre più concorrenza significa maggiore competitività e quindi efficienza: specialmente in industrie ad alta intensità di capitale dove contano la dimensione globale e il presidio della domanda interna. La terza: puntare sul paradigma tecnologico di domani, non su quello che domina l’oggi, investendo – e facendo investire le imprese – massicciamente negli enti che sviluppano adesso la tecnologia che sarà industria domani. Ce ne sono tanti e di valore in italia: l’Istituto italiano di tecnologia, i Politecnici, la Normale di Pisa… La quarta: spingere realmente le imprese medie a integrarsi tra loro e a capitalizzarsi, utilizzando le leve fiscali disponibili (c’è l’imbarazzo della scelta!) tanto importante e strutturale è l’obiettivo. Solo con dimensioni accresciute e un solido patrimonio tecnologico le imprese italiane riusciranno a diventare «strumenti attivi» di politica industriale, con obiettivi ambiziosi e raggiungibili.

Bisogna, infine, avere il coraggio di costruire una politica industriale nazionale. Non possiamo attenderci nulla dall’Europa, la struttura delle cui imprese viene organizzata dai «grandi gruppi dei vari Paesi spalleggiati vigorosamente dai propri governi», come metteva in guardia Marcello De Cecco già nel 1988… Loro lo hanno fatto e continuano a farlo ogni giorno. Noi no. Non nascondiamoci in modo ipocrita dietro il concetto – pericolosissimo per l’Italia – della politica industriale europea. Difendiamo ciò che abbiamo, d’accordo, ma smettiamo di inseguire i decimali e prepariamo il futuro: se investiremo su uno sviluppo di medio periodo solido e sostenibile pagheremo il debito con i nostri nonni e i nostri nipoti ci ringrazieranno.

Incentivi aleatori non portano lavoro

Incentivi aleatori non portano lavoro

Il Sole 24 Ore

Incentivi alle assunzioni: mosso dall’emergenza occupazione oppure dalla necessità di rinnovare il sistema produttivo, il legislatore spesso concede aiuti ai datori di lavoro. Peccato che le buone intenzioni spesso si scontrino con le lungaggini e gli ostacoli della burocrazia. Un caso esemplare è quello della legge 83/2012 che ha previsto un credito d’imposta per le assunzioni, in azienda, di personale altamente qualificato. Il regolamento dell’agevolazione, però, è arivato solo qualche settimana fa e solo a settembre, da lunedì 15, con una gara telematica le imprese che hanno assunto nel 2012 potranno sapere se avranno o meno diritto al premio fiscale. Nel frattempo, tanto era la convinzione sulla bontà della scelta, i fondi per gli anni successivi sono stati diminuiti.

Con queste premesse – i ritardi nello stanziamento delle risorse e l’incertezza sulla possibilità di beneficiarne – sembra davvero difficile che un imprenditore possa ragionevolmente pianificare un’assunzione sulla scorta di un incentivo aleatorio.   

Fiducia imprese, terzo calo consecutivo

Fiducia imprese, terzo calo consecutivo

Andrea Biondi e Giovanna Mancini – Il Sole 24 Ore

È durata poco l’illusione di essere usciti dalla recessione che da sei anni ormai attanaglia il nostro Paese e che solo nel periodo 2011-2013 ha bruciato 4,1 punti di Pil. Gli ultimi aggiornamenti dei principali indicatori macroeconomici sembrano senza tanti dubbi spegnere l’entusiasmo al quale, fino a poco più di un mese fa, si aggrappavano gli italiani. Tanto è vero che ad agosto l’indice di fiducia delle imprese registrato dall’Istat è sceso a 88,2, contro il 90,8 registrato a luglio. Un pessimismo che riguarda tutti i settori produttivi, ma in particolare il manifatturiero che, dopo tre mesi consecutivi in discesa, ha raggiunto i livelli più bassi da un anno (95,7). E che riflette il calo di fiducia dei consumatori, reso noto l’altroieri, sceso in agosto per il terzo mese consecutivo, da 104,4 a 101,9. Insomma, tutto fuorché una cartina di tornasole di una stagione dell’ottimismo. E infatti, se in tutta Europa l’indice Esi (il «sentiment economico» complessivo) scende a quota 104,6, è l’Italia il Paese più sfiduciato dell’Unione, secondo i dati diffusi dalla Commissione Ue.

Non che manchino gli spiragli di luce, come il dato sulla produzione industriale (+0,9% a giugno su base annua) o quello sulle immatricolazioni di auto (+5,02% su base annua a luglio). Ma mettendo in fila i principali indicatori – e il loro andamento altalenante nei mesi – emerge un quadro ancora troppo fragile e (soprattutto) contraddittorio per parlare di una vera ripresa. A guastare la festa degli ottimisti, ieri sono arrivati i dati relativi alle vendite al dettaglio, che su base annua sono diminuite addirittura del 2,6%, rispedendo sul banco degli imputati il bonus da 80 euro del governo Renzi.

Ma la doccia fredda era arrivata già a inizio estate, con quello 0,2% in meno del Pil registrato dall’Istat nel secondo trimestre dell’anno rispetto al trimestre precedente, e dello 0,3% rispetto all’anno precedente. Un dato non solo inferiore alle attese, ma che ha inoltre costretto analisti e imprese a rileggere tutti gli altri indicatori. Perché se è vero che la produzione industriale a giugno è cresciuta, è anche vero che da novembre dello scorso anno l’andamento di questo indicatore oscilla costantemente tra segno positivo e negativo. E preoccupa il dato sugli ordini dell’industria, riferito a maggio, che rileva un calo del 2,5% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente e che ha colpito in particolare il comparto dei macchinari e attrezzature (-13,6%). Inoltre, rispetto al mese precedente, in maggio gli ordinativi totali sono scesi del 2,1%, registrando il calo più pesante (-4,5%) proprio su quei mercati esteri su cui si fonda la speranza di una ripresa da parte delle imprese italiane.

Anche dal fronte export arrivano del resto segnali contraddittori e perciò non facili da interpretare. Al risveglio dei mercati europei, che da inizio anno avevano contribuito in modo decisivo a trainare le vendite all’estero dei prodotti made in Italy, si era aggiunto a maggio anche il recupero dei mercati extra-Ue, che invece negli ultimi mesi avevano fatto registrare segnali negativi, dovuti soprattutto alle svalutazioni, alla crisi di domanda interna e alle turbolenze geopolitiche.

Purtroppo però il mese di giugno (a cui risalgono gli ultimi dati disponibili) ha provveduto a congelare le speranze delle imprese, con una contrazione dell’export extra-Ue addirittura del 4,3% su base mensile, che si traduce in un -2,8% su base annua. Il quadro complessivo delle esportazioni (dati relativi a maggio) è perciò deludente, con una crescita tendenziale di appena lo 0,2% rispetto a maggio del 2013, sintesi dell’incremento delle vendite verso l’Europa (+2,4%) e della diminuzione di quelle verso l’area extra-Ue (-2,3%). Si aggiunga un mercato del lavoro in piena paralisi, con retribuzioni mai così basse (si veda l’articolo in basso) e un numero di disoccupati oltre quota 3,15 milioni, con una disoccupazione giovanile del 43,7% (+4,3% rispetto a giugno 2013).

La disuguaglianza mina la crescita

La disuguaglianza mina la crescita

Michael Spence – Il Sole 24 Ore

Sono trent’anni o più che il divario nella distribuzione della ricchezza e del reddito è andato aumentando in molti Paesi, ma l’attenzione sul suo andamento a lungo termine è cresciuta dallo scoppio della crisi finanziaria del 2008: con una crescita rallentata, la disuguaglianza sempre più forte si fa sentire maggiormente. La “vecchia” teoria sulla disuguaglianza diceva che la redistribuzione con il sistema fiscale ha indebolito gli incentivi e minato la crescita. Ma il rapporto fra crescita e disuguaglianza è più complesso. Difficile tirare conclusioni considerando i diversi canali di influenza e meccanismi di riscontro.

Per esempio, Cina e Stati Uniti sono le principali economie mondiali con la crescita più rapida. Entrambe hanno livelli di disuguaglianza del reddito elevati e in aumento. Anche se da questo non si può concludere che crescita e disuguaglianza non siano correlate fra loro o lo siano positivamente, nemmeno dire che la disuguaglianza danneggia la crescita rispecchia propriamente la realtà dei fatti. Inoltre, in termini globali, la diseguaglianza è in diminuzione con la crescita dei Paesi in via di sviluppo, anche se sta aumentando all’interno di molti Paesi sviluppati e in via di sviluppo. Ciò potrebbe sembrare controintuitivo, ma ha una sua logica. L’andamento globale dell’economia mondiale è il processo di convergenza cominciato dopo la Seconda guerra mondiale. Una fetta sostanziale dell’85 per cento della popolazione mondiale che vive nei Paesi in via di sviluppo ha vissuto per la prima volta una vera crescita rapida e sostenuta. Questo andamento globale è più forte di quello che vede aumentare la disuguaglianza interna. 

Tuttavia l’esperienza in un ampio ventaglio di Paesi rivela che livelli di disuguaglianza alti e in aumento, in particolare la disuguaglianza di opportunità, possono di fatto essere molto negativi per la crescita. Una ragione è che la disuguaglianza mina il consenso politico e sociale intorno alle strategie e alle politiche orientate alla crescita. Può portare a paralisi, conflitti e scelte politiche inadeguate. La sistematica esclusione di sottogruppi su qualsiasi base arbitraria (per esempio in base all’etnia, alla razza o alla religione) è particolarmente nociva in questo senso, come dimostra l’evidenza empirica.

La mobilità intergenerazionale è un indicatore chiave dell’uguaglianza di opportunità. La crescente disuguaglianza di reddito non porta necessariamente a una mobilità intergenerazionale ridotta. Se lo fa, dipende molto dall’accessibilità per tutti degli strumenti importanti che sostengono l’uguaglianza di opportunità, principalmente l’istruzione e la sanità. Per dire, se i sistemi di istruzione pubblica cominciano a andare male, all’estremo più alto della scala di reddito vengono sostituiti da un sistema privato, con conseguenze negative sulla mobilità intergenerazionale.

Ci sono altre correlazioni fra disuguaglianza e crescita. Alti livelli di reddito e disuguaglianza del reddito (come in gran parte del Sudamerica e in diverse zone dell’Africa) spesso sfociano in orientamenti iniqui e li consolidano. Anziché cercare di creare modelli di crescita inclusivi, i politici cercano di proteggere la ricchezza e il vantaggio che genera rendite ai ricchi. Ciò ha implicato una minor apertura verso il commercio e i flussi di investimento perché questi ultimi portano a una concorrenza esterna indesiderata. Il che ci fa capire che, in termini di risultati, c’è disuguaglianza e disuguaglianza. La disuguaglianza che si basa sulla ricerca delle rendite e sull’accesso privilegiato alle risorse e alle opportunità del mercato, è estremamente nociva per la coesione e la stabilità sociale – e per le politiche orientate alla crescita. In un ambiente generalmente meritocratico, i redditi da creatività, innovazione o talento straordinario di solito sono visti benevolmente e si pensa abbiano effetti meno dannosi.

Ed è anche per questo che l’attuale campagna “anti-corruzione” della Cina è così importante. Non è tanto la relativa disuguaglianza di reddito della Cina a minacciare la legittimità del Partito comunista cinese e l’efficacia della sua governance, ma le tensioni sociali create dall’accesso privilegiato a mercati e transazioni da parte degli insider. Quanto agli Usa, difficile dire in che misura l’aumento della disuguaglianza degli ultimi trent’anni rifletta il cambiamento tecnologico e la globalizzazione (che entrambi favoriscono chi ha livelli più alti di istruzione e competenze) e in che misura rifletta l’accesso privilegiato al processo di elaborazione delle politiche, è una domanda complessa e ancora senza risposta. Ma questa risposta è importante per due ragioni: 1) le risposte politiche sono diverse 2) lo sono anche gli effetti sulla coesione sociale e la credibilità del contratto sociale.

La crescita rapida aiuta. In un ambiente con una crescita elevata, con redditi in aumento quasi per tutti, la gente accetterà una disuguaglianza crescente fino a un certo punto, soprattutto se ciò avviene in un contesto fondamentalmente meritocratico. Ma in un ambiente a bassa crescita (o peggio, a crescita negativa), una disuguaglianza in rapido aumento significa che molte persone non avranno alcun aumento di reddito o staranno perdendo terreno in termini assoluti oltre che relativi. Le conseguenze di una crescente disuguaglianza del reddito possono indurre i politici in tentazione lungo una china pericolosa: il ricorso all’indebitamento, a volte combinato con una bolla di asset, per sostenere il consumo. Come è probabilmente successo negli anni ’20, prima della Grande Depressione e come si è verificato negli Usa (e in Spagna e nel Regno Unito) nel decennio che ha preceduto la crisi del 2008.

Una variante, come si è visto in Europa, è il ricorso al prestito governativo per colmare il divario della domanda e dell’occupazione creato da una domanda privata interna ed esterna carente. Nella misura in cui quest’ultima è legata ai problemi di produttività e competitività ed esacerbata dalla divisa comune, tale risposta politica è inadeguata. Preoccupazioni simili sono state sollevate a proposito del rapido aumento dei ratio di indebitamento in Cina. Forse l’indebitamento sembra il percorso con meno attrito per affrontare gli effetti della disuguaglianza e della crescita rallentata. Ma ci sono modi migliori e peggiori di far fronte alla crescente disuguaglianza. L’indebitamento è uno dei peggiori. 

Allora cosa fare? Per me le priorità sono molto chiare. Nel breve termine, la priorità fondamentale è il sostegno al reddito per i poveri e i disoccupati che sono le prime vittime delle crisi e degli squilibri e dei problemi strutturali correlati che ci vuole tempo per rimuovere. In secondo luogo, specialmente con la disuguaglianza di reddito in aumento, l’accesso per tutti ai servizi pubblici di alta qualità, in particolare all’istruzione, è fondamentale. L’inclusione sostiene la coesione sociale e politica e dunque quella crescita necessaria per aiutare a mitigare gli effetti di una crescente disuguaglianza. Sono tanti i modi per non sostenere il potenziale di crescita di un’economia, ma il sottoinvestimento, soprattutto nel settore pubblico, è uno dei più efficaci e dei più usati. 

Una politica fiscale espansiva per curare la deflazione

Una politica fiscale espansiva per curare la deflazione

Francesco Saraceno – Il Sole 24 Ore

Non è stato un bel mese d’agosto per l’economia europea. La notizia che ha catalizzato l’attenzione è stata la brusca frenata della Germania. Tra aprile e giugno, nessuna delle tre maggiori economie dell’eurozona è cresciuta. Questa è una cattiva notizia, perché la ripresa sembra già finita (dove è iniziata), e perché dimostra che contare quasi esclusivamente sulle esportazioni espone l’economia agli shock esterni (vedi per la Germania la crisi ucraina).

Ma la notizia peggiore è un’altra. Nel numero di agosto del bollettino mensile della Bce, a pagina 53, si trova un grafico che dovrebbe far passare notti insonni a Mario Draghi e ai leader europei: mostra che il consenso degli analisti sull’inflazione si è fortemente modificato. Un anno fa più del 50% si diceva convinto che nel medio peridodo l’inflazione sarebbe tornata al 2% o oltre, oggi la percentuale è poco più del 35%. Può sembrare che si parli di uno di quei dati esoterici che interessano solo gli addetti ai lavori, ma le aspettative hanno costituito il pilastro della strategia della Bce durante la crisi (soprattutto negli ultimi mesi). La prudenza di Francoforte e la resistenza alle sollecitazioni per una strategia più aggressiva di contrasto alla deflazione, si basavano sull’idea che le aspettative di medio periodo fossero stabili e “ancorate” al 2% di inflazione, obiettivo della banca centrale. Anche di fronte ai nuovi dati la Bce sembra optare per la strategia dello struzzo: a poche pagine di distanza si legge che «le aspettative di inflazione per l’area dell’euro nel medio-lungo periodo continuano a essere saldamente ancorate in linea con l’obiettivo di mantenere il tasso di inflazione inferiore, ma vicino al 2%».

In questi mesi il mantra della Bce è stato che la stabilità delle aspettative rendeva remoto il rischio deflazione, nonostante un tasso di variazione dei prezzi che si avvicinava allo zero. Era l’ultimo bastione che consentiva di sperare in una ripresa della spesa per consumo e investimenti. Se i mercati iniziano a prevedere, anche nel medio periodo, una situazione di deflazione strisciante, è facile stimare che la dinamica futura della spesa privata rimanga anemica: famiglie e imprese tenderanno a rinviare la spesa, attendendosi prezzi più bassi di oggi. È il rischio della deflazione. 

I dati sulle aspettative spingono a credere che non esista più alcun ostacolo tra noi e una stagnazione di tipo giapponese (durata più di un decennio). Non c’è riforma che tenga; è difficile individuare, oggi, una dinamica autonoma che porti l’economia a lasciarsi alle spalle la crisi e se l’economia si trova invischiata in una stagnazione dalla quale non è in grado di uscire da sola non si può che puntare sulla politica economica. I riflettori sono tutti puntati sulla Bce, probabilmente anche per la sua eccessiva prudenza.

Ma anche se la Bce adottasse una politica più aggressiva è dubbio che questo basterebbe a rilanciare la crescita. Il bollettino della Bce riporta anche i risultati dell’ultima inchiesta (giugno 2014) sulle condizioni creditizie nell’Eurozona: il mercato del credito è anemico non solo perché le istituzioni finanziarie esitano a prestare, ma anche perché imprese e famiglie non domandano credito. Anche se il quadro è eterogeneo, e per alcuni paesi i vincoli creditizi possono avere un ruolo nel mantenere la spesa privata anemica (in Italia per esempio), aumentare l’offerta di credito, come dovrebbe fare la Bce in autunno, potrebbe avere meno effetti di quanto non si creda. L’economia europea è ancora invischiata in una trappola della liquidità. Procedendo per esclusione, non rimane che uno strumento da usare: una politica fiscale espansiva, che significa forte aumento della spesa pubblica (soprattutto per gli investimenti) nei paesi che possono permetterselo (la Germania, per cominciare) e una pausa nel consolidamento fiscale dei paesi le cui finanze pubbliche sono meno solide (Italia in primis). La Bce potrebbe e dovrebbe accompagnare queste politiche con l’impegno a non aumentare i tassi fin quando l’inflazione non sarà stabilmente risalita e la crescita non sarà tornata robusta.

Il «cuneo finanziario» che pesa sull’impresa

Il «cuneo finanziario» che pesa sull’impresa

Marco Onado – Il Sole 24 Ore

Cullati dall’abbondante liquidità, i mercati finanziari internazionali continuano ad essere improntati all’ottimismo e assorbono (anche considerando il calo di ieri sulle Borse europee) le cattive notizie che vengono dai venti di guerra sullo scenario internazionale o da un quadro macroeconomico ancora deludente, soprattutto in Europa. Lunedì l’indice S&P500 ha superato quota 2000, mentre in Europa i tassi dei titoli pubblici si mantengono sui minimi degli ultimi tre anni. Ma questi segnali positivi non devono far dimenticare i molti punti critici che riguardano la finanza delle imprese, soprattutto italiane.

La crisi ha messo a nudo e anzi aggravato i tradizionali punti deboli della struttura finanziaria del nostro mondo produttivo e quindi rischia di mantenere, o addirittura aumentare, il ritardo delle nostre imprese rispetto ad altri Paesi, creando un vero e proprio “cuneo finanziario” che si aggiunge a quello fiscale, già di per sé preoccupante. Guardando ad esempio ai dati della Bce sul costo medio dell’indebitamento delle imprese, si osserva che a luglio le imprese italiane pagavano per il breve termine un tasso superiore a quelle di Francia, Germania e Spagna compreso fra 1,68 e 0,31. Il differenziale per i tassi a lungo termine risulta inferiore, ma siccome il nostro è il Paese in cui è più diffusa l’indicizzazione ad un tasso a breve per i prestiti a medio termine (e anche questo è un problema), il primo spread è quello che conta.

La ricerca economica sugli effetti della crisi sulla finanza delle imprese europee è ormai vasta e ha raggiunto risultati che si possono considerare non controversi. Uno di questi, ribadito nel numero di luglio del Bollettino della Bce è che le nostre piccole e medie imprese, cioè i due terzi del mondo produttivo, rispetto a prima della crisi hanno visto aumentare sia il differenziale rispetto ai tassi delle grandi imprese del Paese (per l’Italia questo spread, fatto pari a 100 il 2006, è circa 150) sia i tassi per i nuovi prestiti alle piccole e medie imprese. Mentre in Germania e Francia questi tassi sono oggi inferiori di circa 1,5 punti rispetto al 2006, l’Italia registra un incremento di quasi mezzo punto.

L’articolo della Bce ci avverte che ci sono motivazioni fondate: un’analisi econometrica dimostra che esiste una correlazione molto stretta fra i punti critici della finanza d’impresa e gli ostacoli ad ottenere credito. Le imprese con alto grado di indebitamento, con alto livello di oneri finanziari e bassi profitti sono quelle penalizzate. E ancora una volta è l’Italia (insieme alla Spagna) che risulta svantaggiata rispetto a Germania e Francia. Basta questo per capire quanto sarebbe sterile, prima ancora che ingiusto, prendersela solo con le banche che negano credito e/o lo fanno pagare troppo caro. Intendiamoci: il credit crunch è stato causato anche da fattori di offerta, cioè da comportamenti riconducibili alle banche. Anche qui esiste ormai un’ampia evidenza, in gran parte merito di ricerche della Banca d’Italia, che dimostra che le banche più deboli, in termini di patrimonio e/o di struttura della raccolta sono quelle che hanno stretto in modo più deciso e indiscriminato i cordoni della borsa. E se si potesse mettere fra questi fattori di debolezza anche i prestiti “di sistema” nazionale o locale, i risultati sarebbero ancora più robusti.

L’azione di vigilanza della Banca d’Italia, ora in collaborazione con la Bce, sta gradatamente risolvendo i problemi delle banche e con la ormai imminente pubblicazione dei dati sulla qualità dell’attivo di bilancio e sulla robustezza patrimoniale in condizioni di stress, le condizioni dovrebbero decisamente migliorare, soprattutto per le banche italiane. Rimane però il problema di mettere finalmente mano ai problemi di fondo della finanza delle imprese. Le tanto attese operazioni della Bce condizionate alla concessione di nuovi prestiti rischiano di essere frenate proprio dalla (comprensibile) riluttanza delle banche a concedere prestiti ad imprese finanziariamente fragili, magari privilegiando investimenti delle imprese di carattere finanziario, meno aleatori ma privi praticamente di effetti dal punto di vista produttivo. Lo stesso vale per le annunciate operazioni di securitisation a favore di piccole e medie imprese che dovrebbero essere utilizzate per accedere alle capaci tasche della Bce, risolvendo i problemi di liquidità delle banche. Un’iniziativa di grande rilievo, ma per la quale imprese finanziariamente fragili rischiano di trovare la porta sbarrata.

In altre parole, bisogna evitare di guardare a Francoforte per risolvere problemi che sono di carattere esclusivamente nazionale. Ammesso che il paese dei balocchi esista, non si trova certo in Germania. È vero che in Italia molte iniziative sono state varate e rafforzate nel corso del tempo dagli ultimi governi: dalle garanzie pubbliche agli strumenti alternativi di finanziamento per piccole e medie imprese. Ma il ritardo da colmare è troppo grande per ritenere che questi passi, pur nella giusta direzione, siano sufficienti a portare l’Italia ad avvicinare gli altri grandi paesi e in particolare la Francia che su questo terreno si è sempre mossa con notevole lungimiranza. Diversamente da altre, questa è una riforma che impegna non solo il governo, ma le parti interessate, cioè banche e imprese. E’ ormai tempo che entrambe capiscano che la competitività internazionale, prima ancora che la ripresa economica, richiede menu finanziari ben più sofisticati del solo credito a breve di cui entrambe si sono finora nutrite.

Quando il caos fiscale non aiuta i consumi

Quando il caos fiscale non aiuta i consumi

Mauro Meazza – Il Sole 24 Ore

Nel dubbio (fiscale) non spendere: l’accostamento tra incertezze tributarie e flessione dei consumi potrà sembrare azzardato, eppure mai come in questi anni di crisi il Fisco è diventato via via più indecifrabile. Proviamo a fare qualche esempio, limitandoci alla tassazione locale su prime e seconde case. Sappiamo dire, oggi, quanto pagheremo di Tasi? E sappiamo quando pagheremo, se a ottobre oppure a dicembre? E quanto ci chiederanno di Tari? E riusciamo a capire, infine, se la nuova Iuc, l’imposta cosiddetta “unica” comunale, sarà più o meno costosa della (incredibilmente) compianta Ici?

A tutte queste domande, per tutti o per molti di noi, la risposta è sempre no. E sono incognite da centinaia e centinaia di euro, incarognite per di più da regole continuamente in manutenzione. Tanto per confondervi le idee: più di quattromila Comuni (oltre la metà del totale) devono ancora decidere le percentuali di prelievo della nuova tassa sui servizi indivisibili, quella che colpisce anche le prime case (si veda «Il Sole 24 Ore» di lunedì scorso); per la tassa sui rifiuti, quella che ora si chiama Tari, l’importo totale del 2014 si conoscerà a fine settembre; e il conto totale per proprietari di case e inquilini lo scopriremo a dicembre quando finalmente avremo chiare le aliquote e le (eventuali) detrazioni.

Già, le detrazioni. Altra parola gravida di incertezze, questa volta in ambito statale e non più locale: le esigenze di bilancio potrebbero infatti imporre la riduzione degli sconti Irpef (ossia, una buona parte delle cosiddette tax expenditures). E una norma già minacciosamente vigente dà al Governo il potere di intervenire se i tagli alla spesa pubblica improduttiva non fossero sufficienti. Per dirla fuori dal fiscalese: il sollievo oggi concesso dall’Irpef per voci di uso comune, come i farmaci o i mutui casa, potrebbe ridursi dall’attuale 19% a un “19 meno X per cento” (non è un refuso, semplicemente non si conosce la nuova percentuale), per un impatto complessivo fino a 3 miliardi. Se succederà, sarà l’anno prossimo ma intanto, nel dubbio, meglio mettere da parte.

Anche perché a questo quadro potremmo aggiungere le chiacchiere estive su ulteriori contributi di solidarietà a carico delle pensioni o persino la revisione del prelievo sui tabacchi, annunciata per il nuovo anno. E dovremmo poi considerare – se dalle possibili uscite vogliamo passare alle entrate – gli stipendi che crescono al rallentatore (a luglio, come riferiamo qui accanto, l’Istat segnala un 1,1%, il valore più basso dal 1982) o magari gli anni di mancati adeguamenti al costo della vita per i pensionati. Ma vogliamo risparmiare anche noi, almeno sulla pazienza dei lettori: serve già parecchio tempo per stimare quanto mettere da parte per i prossimi debiti tributari. E, se non bastasse un commercialista, potremmo sempre chiedere a un astrologo.

Tante idee ma confuse

Tante idee ma confuse

Stefano Lepri – La Stampa

Di nuovo importanti scelte annunciate sembravano decadere a «linee guida» per poi scomparire del tutto nel Consiglio dei ministri di oggi. E allora è bene cercare un significato di insieme di ciò che ribolle dentro il governo di Matteo Renzi, tra promesse e retromarce, azzardi e smentite. Dei contrasti non c’è da stupirsi, dato che per fare riforme vere occorre scontentare molti interessi; ma la confusione di idee è grande. La salutare intenzione di rompere tabù annosi si intreccia con ipotesi di stravecchie misure conformi a vecchi modelli politici. Nessun «cambio di verso» ci sarebbe ad esempio nell’assumere senza concorso decine di migliaia di precari della scuola.

Nelle bozze del provvedimento «Sblocca Italia» oggi all’esame compaiono insieme interessanti novità ed erogazioni di tipo clientelare. Un modo diverso di governare non può certo emergere già bell’e formato. Il guaio è che il fronte tra vecchio e nuovo molto spesso non si capisce dove passi, e nemmeno tra chi. In parte si tratta ancora di inesperienza, da parte dei giovani oggi arrivati al potere con Renzi. Ma più passa il tempo, più si parlerà di carente abilità nel progettare.

Ad esempio l’importantissima questione delle partecipate degli enti locali è arrivata alla ribalta solo grazie all’impegno del commissario alla revisione della spesa Carlo Cottarelli. Si trova lì un nodo cruciale dei veri «costi della politica». Ma occorre saper distinguere. Un gran numero di società in annosa perdita, o con scopi poco attinenti al settore pubblico, può essere chiusa senza complimenti. Invece i trasporti locali, da dove viene gran parte delle perdite, devono essere riformati costringendo gli amministratori a tagliare gli sprechi. C’è una Autorità per i trasporti che ha cominciato a funzionare, esistono esempi in altri Paesi; una razionalizzazione su base regionale sarebbe utile seppur non sufficiente. Occorre però che i ministri si facciano carico di elaborare proposte.

Un altro esempio sono le privatizzazioni. È salutare che si sia rivelata un bluff la privatizzazione delle Poste, azienda dove il confine tra le aree di servizio pubblico e quelle di mercato rimane alquanto oscuro. È interessante che si discuta di ridurre la quota dello Stato in Eni ed Enel oltre limiti che finora venivano considerati invalicabili: ma si chiarisca anche a quale scopo.

L’Eni, di gran lunga la componente più valida dell’industria di Stato, negli anni ha funzionato come importante strumento per approvvigionarci di petrolio. Oggi la sensazione – diffusa tra i Paesi amici ed alleati – che condizioni un po’ troppo la politica estera italiana è solo il riflesso politico della crescente difficoltà economica di fare scelte energetiche indipendenti su scala solo nazionale. Prima di decidere che fare dell’Eni, occorre avere un’idea di quali scelte in materia di energia farà l’Europa nel suo insieme; Vladimir Putin ce ne impone l’urgenza. Una ipotesi possibile è che invece di muoversi in ordine sparso le imprese di Stato esistenti in vari Paesi dell’Unione possano trovare strategie comuni, forse persino unirsi.

Perché i progetti ancora latitano? Il rischio sta nella via breve di un ritorno al primato della politica: ovvero che i nuovi arrivati al potere con Renzi si limitino a proporre la novità di se stessi, magari inventando nemici di comodo per sfruttare a proprio vantaggio l’insofferenza contro tutte le élites. Non può funzionare. Trovare consenso al dettaglio, con favori all’una o all’altra categoria (pensionandi o supplenti o altri ancora), è oggi disastrosamente dispendioso. Solo mostrando una visione di insieme si può consolidare il consenso dei cittadini in quanto cittadini.

Il cono di Renzi che gli inglesi si sognano

Il cono di Renzi che gli inglesi si sognano

Gaetano Pedullà – La Notizia

Che simpaticoni i colleghi del settimanale inglese The Economist. Nell’ultima copertina hanno messo un Matteo Renzi col gelato in mano accanto a un Hollande (inspiegabilmente cresciuto di statura) e alla Merkel su una banconota dell’euro a forma di barchetta che affonda. Alle loro spalle un Mario Draghi che cerca di tenere tutti a galla raccogliendo l’acqua col cucchiaino. Da Londra, che ancora non ringrazia abbastanza i suoi leader politici per essersi tenuti stretta la sterlina, è fin troppo facile fare ironia su questa Europa di cartone. Un’unione burocratica di Paesi divisi su tutto con una sola cosa in comune: la moneta. Inevitabile che affondi. Si capisce poco, invece, cosa c’entra il nostro premier col gelato in mano, così come l’ha immaginato il suo amico (o forse ex?) Diego Della Valle in una battuta dai più già dimenticata. Che bellezza la libertà di critica e di fare ironia (su questo giornale ne facciamo uso a vagonate) e lungi l’intenzione di essere bacchettoni. Ma prima Berlusconi perché era Berlusconi, adesso Renzi non si capisce bene perché, ogni volta è l’Italia e non i singoli primi ministri che vengono messi alla berlina. E si fa anche bene perché oggi i giornali nemici del governo si getteranno sull’osso per dimostrare che il nostro premier ha perso credibilità in Europa, mentre quelli più vicini a Palazzo Chigi minimizzeranno la cosa o sosterranno che questa è l’eredità di anni di cattiva politica. Mancherà la capacità di sostenere insieme che noi siamo l’Italia e gelati buoni come i nostri a Londra se li sognano. Ci pensassero prima di prenderci in giro.