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Euro forte, la svalutazione da sola non basta

Euro forte, la svalutazione da sola non basta

Giorgio Barba Navaretti – Il Sole 24 Ore

L’impatto di un eventuale deprezzamento dell’euro sulla nostra economia sarebbe piuttosto ambiguo. Non migliorerebbe necessariamente il saldo di bilancia commerciale facendo aumentare la quantità dei beni esportati e riducendo quelli importati; né permetterebbe alle nostre imprese di aumentare i margini di profitto e accrescere gli investimenti. In tutti i paesi industrializzati storicamente le esportazioni reagiscono poco a un deprezzamento del tasso di cambio. La ragione è che una svalutazione pone le imprese di fronte alla scelta di aumentare le quantità vendute a parità di prezzo in valuta nazionale o di lasciare i prezzi in valuta estera e le quantità vendute invariate, aumentando i profitti in valuta nazionale per ogni unità venduta.

Il trasferimento della svalutazione in una riduzione dei prezzi in valuta estera è generalmente limitato. Il che significa che le imprese esportatrici hanno abbastanza potere di mercato per aumentare i margini di profitto. Sono imprese medio grandi che fanno leva su una competitività basata su brand, qualità e tecnologie e riescono a tradurre in maggior prezzi e margini di profitto i benefici di una svalutazione.
Il tasso di cambio dollaro/euro è cambiato molto poco tra l’inizio della crisi e oggi. Le imprese italiane sono da anni abituate a esportare con un euro forte e nonostante ciò sono riuscite ad accrescere le proprie vendite estere anche in volumi. È comunque un numero limitato di aziende medio-grandi che è riuscito a posizionare i propri beni in nicchie poco sensibili alle oscillazioni del cambio.

Per quanto l’effetto sulle quantità della svalutazione non fosse rilevante ci sarebbe un effetto positivo sui margini di profitto. Ma l’impatto sarebbe concentrato solo sulle aziende che riescano a sfuggire alla competitività di prezzo e non diffuso a tutto il sistema. Inoltre, la ricaduta della svalutazione sui profitti dipenderebbe anche dalla valuta in cui le imprese acquistano materie prime e componenti. Una svalutazione farebbe aumentare la bolletta energetica per tutti. E la produzione di componenti e semilavorati è oramai molto frammentata tra aree valutarie diverse. I benefici derivanti dai prezzi di vendita potrebbero essere in parte o in tutto compensati da un aumento dei costi di produzione.
In sintesi, una svalutazione significa una perdita di potere di acquisto e un impoverimento relativo nei confronti delle altre aree valutarie. A questo costo certo possono corrispondono benefici incerti che non è semplice quantificare. Sperare dunque che la linfa vitale che manca alla nostra crescita economica possa derivare da una svalutazione dell’euro è fuorviante e ci allontana dai problemi veri del Paese.

L’Italia degli imboscati

L’Italia degli imboscati

Maurizio Belpietro – Libero

La Cgil si è accorta che in Italia non c’è lavoro. Meglio tardi che mai: sono anni che il totale delle persone occupate diminuisce, ma finora la situazione non aveva indotto il principale sindacato a uno studio approfondito del fenomeno. Adesso a colmare la lacuna pare abbia provveduto l’Associazione Bruno Trentin, ovvero l’ufficio studi della confederazione rossa. Elaborando i dati Istat, i ricercatori hanno scoperto che dal 2007 ad oggi il tasso di occupazione è passato dal 51,4 per cento al 48,2, ma ciò che è peggio è che il confronto con l’Europa ci dà sotto e di parecchio alla media dei Paesi della Ue. Sette punti e mezzo percentuali ci separano infatti dal tasso di occupazione dell’Eurozona, della quale fanno parte non solo la Germania o altri Paesi del Nord la cui economia fila come un treno ad alta velocità, ma anche Spagna, Portogallo e Irlanda, posti dove la crisi ha colpito duro e il cui tasso di occupazione risulta comunque superiore al nostro.

Già questo basta e avanza a capire che in Italia c’è qualcosa che non va: se infatti meno di un abitante su due lavora significa che uno su due campa sulle spalle di chi un posto ce l’ha, con tutto ciò che ne consegue. In realtà però la ricerca della Cgil non dice tutta la verità, perché ad approfondire la statistica si scopre che non tiene conto delle persone che ufficialmente un posto di lavoro ce l’hanno ma è come se non l’avessero. Si può infatti considerare regolarmente occupato un lavoratore che sta in cassa integrazione da anni? È possibile continuare a far figurare nei censimenti della pubblica amministrazione quei dipendenti di società municipalizzate o servizi regionali che sono stati chiaramente assunti anche se non servono? Insomma, se si togliessero dal 48 per cento stimato dalla Cgil i posti finti o quelli precari, probabilmente in Europa batteremmo ogni record di disoccupazione.

E però oltre a questo forse è il caso di cominciare a parlare di chi il posto di lavoro ce l’ha ma si guarda bene dal lavorare. In questi giorni ha suscitato scandalo un rapporto interno del Comune di Napoli. A Palazzo San Giacomo hanno radiografato il servizio di vigilanza urbana, scoprendo che su duemila guardie municipali in servizio soltanto 900 lavorano. Gli altri non sono imboscati i ufficio, come spesso capita: sono proprio imboscati, cioè assenti. Chi per malattia, chi in permesso sindacale, chi per assistere un parente, chi per assistere gli affari suoi. Risultato, a dirigere il traffico e multare gli automobilisti indisciplinati rimangono meno della metà di quelli che sono pagati per fare tutto ciò.

Può stare in piedi l’economia di un Paese dove uno lavora e l’altro incassa senza lavorare? Può crescere il Pil di una nazionale che avendo più siti archeologici di tutto il mondo messo insieme organizza un concerto, attirando visitatori paganti da ogni dove, ma sul più bello, quando c’è da tirar fuori gli strumenti i violinisti se ne vanno e dicono buonanotte ai suonatori? Eppure questo è ciò che è successo nei giorni scorsi a Caracalla, di fronte a spettatori venuti dall’America per assistere allo spettacolo. Spesso ci lamentiamo delle difficoltà in cui l’Italia si dibatte, registrando anno dopo anno gli insuccessi economici che ci spingono ad avere il minimo della crescita e il massimo delle tasse. Tuttavia, se stiamo in questa situazione, gran parte della colpa la si deve agli italiani. O meglio: a quegli italiani che si imboscano. Perché oltre che un popolo di santi, sognatori e poeti siamo anche un popolo di furbi che appena può se ne approfitta, o per scioperare oppure per non lavorare. In qualche caso evitare di faticare è addirittura diventato un mestiere, ovviamente retribuito a caro prezzo dallo Stato. Non si spiega diversamente l’alto tasso di pensioni di invalidità registrato in alcune zone della Penisola. Possibile che le dieci Province con il più alto numero di invalidi siano tutte concentrate al Sud? Perché a Bolzano gli invalidi superano di poco l’1 per cento della popolazione residente e a Oristano o Nuoro, ma anche a Lecce e Reggio Calabria ci si avvicina al 10 per cento? Difficile pensare che in certe località ci sia stata un’epidemia. Più facile ritenere che lì, come al Comune di Napoli, fra i tanti che marcano visita ci sia un’epidemia di approfittatori. Di gente che ha imparato a godersela a sbafo, alla faccia dell’articolo 18 e di chi davvero ha bisogno di assistenza. Tanto, alla fine c’è sempre qualcuno che paga per tutti.

Agenzia Entrate sotto accusa: i bonus offerti ai funzionari favoriscono l’aggressione fiscale

Agenzia Entrate sotto accusa: i bonus offerti ai funzionari favoriscono l’aggressione fiscale

Federico Fubini – La Repubblica

Umberto Angeloni e Gustavo Ascione non si conoscono, ma da qualche anno le loro vite scorrono in parallelo. All’inizio della crisi entrambi hanno puntato tutto sul made in Italy, hanno esportato e creato (o difeso) dei posti di lavoro. Quando poi credevano di avercela fatta, hanno ricevuto una visita dell’Agenzia delle Entrate e delle contestazioni tali che a entrambi è parso di entrare in una sorta di mondo kafkiano.

È probabile che di casi come i loro si parli oggi, quando il nuovo direttore dell’Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi farà il suo debutto in un’audizione parlamentare. Non sono esempi isolati, a giudicare dalle cifre del ministero dell’Economia. Nei primi tre mesi di quest’anno si sono conclusi con esito favorevole ai contribuenti contenziosi tributari per un valore di 3,6 miliardi di euro: una somma lievemente superiore a quella su cui la vittoria è stata invece dello Stato. L’anno scorso gli imprenditori in Italia hanno presentato 250mila ricorsi contro accuse di evasione, affrontando costi e rischi legali, evidentemente perché ritengono di poter vincere. Almeno una parte di loro fa parte del popolo di mezzo, quello dei produttori schiacciati fra un’evasione endemica che supera i 100 miliardi e gli uffici incaricati dal governo di falcidiarla. Il problema sorge quando il diserbante non colpisce solo i parassiti ma anche le piante più sane e produttive.

Angeloni ha rilevato nel 2007 la Caruso Menswear di Parma, un’azienda di 600 addetti che produce moda da uomo per alcuni dei grandi gruppi globali del lusso. In quattro anni l’ha riportata in utile, ha fatto entrare con il 35% Fosun, il più grande fondo privato cinese, e ha sviluppato un marchio proprio. Fino a quando l’Agenzia delle Entrate ha suonato alla porta questa primavera. I controlli in azienda sono durati due mesi e al termine le accuse si sono concentrate su certi incarichi per la comunicazione affidati nel 2009 a consulenti esterni. Le imprese di moda di solito spendono in promozione fra il 5% e il 10% del fatturato, la Caruso appena l’1%. Ma l’Agenzia delle Entrate nel suo verbale giudica il piano di comunicazione della Caruso «non determinante per la strategia aziendale» e definisce le prestazioni dei consulenti «impersonali e generiche», tale che «potrebbero essere attribuite a qualunque soggetto sia esso esterno o anche interno alla stessa struttura aziendale». Suona come una valutazione di merito sugli spazi commerciali comprati dalla Caruso, ma su questa base è partita una richiesta di versare al fisco circa 100.000 euro in più. Per l’Agenzia delle Entrate, in altri termini, quell’investimento in comunicazione era «non determinante» e quindi fittizio. «Mettere in discussione la strategia dell’azienda per poi rigettarne le spese viola lo spirito della legge, lascia l’impresa vulnerabile all’abuso e distrugge la fiducia fra l’autorità fiscale e il contribuente» ribatte Angeloni, che ne frattempo ha speso già 50mila euro per difendersi.

Ancora più del collega, Gustavo Ascione è rimasto colpito dalla sordità dei funzionari dell’Agenzia quando ha avuto un accertamento nel 2012. Ascione ha fondato nel 2007 la Silk&Beyond, un’azienda casertana di 9 addetti che esporta tessuti da arredamento in Russia e Medio Oriente. Sulla base dei chili di filo ordinati e dei metri di tessuto venduto, gli hanno contestato una produzione in nero e chiesto di pagare oltre 60mila euro. La multa poteva far chiudere l’azienda. «Ho cercato di spiegare che i tessuti hanno pesi e orditi diversi secondo le tipologie e che del filo avanza sempre in fondo ai rocchetti. Ma non mi hanno ascoltato» dice.

L’Agenzia delle Entrate non commenta su questi casi e, di certo, il suo ruolo è stato determinante nell’evitare che l’Italia fosse travolta dalla crisi del debito. Gli incassi da «attività di controllo» in un Paese piagato dall’evasione sono saliti da 2,1 miliardi nel 2004 a 13,1 nel 2013. Alcuni però pensano che offrire bonus ai funzionari dell’Agenzia in base alle somme che riscuotono sia un errore. «Non dovrebbero avere incentivi per fare quello che è il loro dovere e per cui sono pagati comunque» osserva Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione. Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze del centrosinistra, è anche più critico: «Spero che Orlandi, il nuovo direttore, cambi linea rispetto al passato: pagare gli ispettori in base ai risultati può portare ad atteggiamenti molto aggressivi. Si costringono sotto ricatto gli imprenditori a fare adesioni (patteggiamenti sulle multe, ndr) in base a violazioni che in parte non c’erano o non c’erano per niente».

Anche su questo l’Agenzia non commenta e sicuramente è difficile attrarre professionalità di alto livello nella lotta all’evasione senza paghe adeguate. Ma solo per il 2011, ultimo anno reso noto, per i dirigenti di seconda fascia dell’Agenzia la spesa nella parte fissa è stata di 30 milioni di euro e quella dei bonus variabili di 25. I premi sono legati alle somme passate in giudicato e con Ascione non ha funzionato: ha speso 7mila euro in avvocati e moltissimo tempo sottratto alla cura del prodotto e dei mercati, ma una commissione tributaria ha prima sospeso e poi annullato la contestazione contro di lui. Angeloni invece è a un bivio: si ritiene innocente e sa che, se ricorre, dovrà comunque pagare un terzo dell’ammenda in via preliminare, poi scatteranno le stesse multe anche sugli anni dal 2010 al 2013. C’è però una buona notizia. Nel 2010 ha vinto un ricorso per 50mila euro di tasse non dovute. Quattro anni dopo aspetta ancora con fiducia il rimborso.

L’Italia è come l’URSS, solo un collasso potrà trasformarla

L’Italia è come l’URSS, solo un collasso potrà trasformarla

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Il premier si era illuso di poter sistemare il ciclo economico mettendo in tasca agli italiani con redditi medio-bassi 80 euro in più al mese. Ma, quando le aspettative volgono verso la deflazione, non sono gli stimoli di questo tipo, come insegna bene il Giappone, a fare la differenza. Se dopodomani o tra un mese, grazie alla deflazione, potrò comprare a prezzi migliori, allora non spendo oggi ma rinvio la decisione. Matteo Renzi con gli 80 euro ha vinto le elezioni europee ma ha anche, inconsapevolmente, attivato un pericoloso moltiplicatore della deflazione. E adesso con il pil inchiodato in area 0% di crescita e la Bce che non stamperà moneta per venire incontro al problema della deflazione italica, Renzi deve iniziare a occuparsi delle riforme che i mercati e gli investitori si attendono e a breve: mercato del lavoro e art.18; liberalizzazioni delle municipalizzate; abbattimento del cuneo fiscale per rilanciare l’occupazione; una vera e seria spending review; tagliadebito.

Ora l’Italia e i suoi Btp sono ancora una volta nel mirino della speculazione e delle tastiere dei trader internazionali, proprio come nell’estate del 2011. Con due differenze importanti: che stavolta sotto attacco ci sarà solo l’irriformabile Italia e che lo spread non dovrà più schizzare a quota 500 per metterci in ginocchio. Già in area 230/240 scatterà l’allarme rosso che segnalerà i 100 punti base di differenza tra i Bonos di Madrid e i Btp.

Insomma la situazione è molto critica. Soprattutto perché l’Italia dei governi a ripetizione, nessun paese dell’eurozona in crisi ha cambiato quattro governi dal luglio 2011 a oggi come il Belpaese, segnala al resto del mondo che non è riformabile. L’Italia, vista da Londra o da Singapore, appare come un clone dell’Urss. Un sistema pieno zeppo di rendite, più o meno privilegiate, che si sono divorate il bene comune e l’interesse nazionale e che sono più forti, nel loro essere lobby, di qualsiasi tentativo riformista. Le palesi e pubbliche contestazioni dei dipendenti della camera al loro presidente, reo di aver deciso un tetto di 240 mila euro lordi (più i contributi pensionistici dell’8,8%) alla retribuzione, sono l’immagine più plastica della resistenza delle rendite al cambiamento. Un burocrate che ha vinto un concorso e che già guadagna molto di più del governatore della Fed Usa, Janet Yellen, trova ingiustificato che il suo stipendio venga equiparato a quello del presidente della repubblica. Come ai tempi dell’Urss, quando la nomenklatura aveva ogni diritto sulle tasse e i beni altrui. E allora, al pari dell’Urss, solo un collasso sistemico, uno shock esterno definitivo, potrà far arrivare l’Italia nella terra promessa delle riforme. Il percorso poteva essere meno traumatico, ma adesso è bene prepararsi al terremoto.

Una moratoria legislativa per attrarre capitali esteri

Una moratoria legislativa per attrarre capitali esteri

Gianluca Comin – Il Messaggero

L’Italia continua ad essere un Paese attrattivo per gli investimenti esteri. Circa un quinto del prodotto interno lordo viene, infatti, da acquisizioni e fondi internazionali ma ancora poco rispetto a Francia, Spagna e Germania. A tirare il freno a mano alle imprese e istituzioni finanziarie straniere sono quei vincoli che, da sempre, denunciamo e che con fatica il governo Renzi cerca di smantellare: una burocrazia barocca e lenta, una giustizia amministrativa imprevedibile ed una civile interminabile, una legislazione faraonica, l’incertezza dei tempi di autorizzazioni e permessi e una moltiplicazione infinita di poteri di approvazioni e di veto. Ma soprattutto una regolazione incerta e mutevole. Basterebbe infatti che ciascun dirigente pubblico, amministratore centrale o locale con responsabilità o politico in carica provasse, almeno una volta nella vita, a spiegare ad un top manager straniero la complessità del nostro sistema per capire il senso di frustrazione di chi intende avviare una impresa nel nostro Paese.

Non sono mancate in questi anni le analisi, i libri bianchi e le riforme. Tuttavia è ancora sorprendente quanto siamo in larga parte inconsapevoli di questo gap che ci distanzia dai principali competitor europei. L’ultimo rapporto è stato presentato qualche giorno fa dall’American Chamber of Commerce in Italy ed ha il titolo alquanto esplicativo di “Il rischio regolatorio in Italia”. Una analisi certo parziale ma significativa perché effettuata su un campione di medie e grandi imprese che operano in Italia in diversi settori industriali, commerciali e dei servizi. Il quadro che emerge non è che la conferma di quanto assistiamo da anni. La regolazione incide profondamente sulla redditività delle imprese. Più di un quarto delle aziende intervistate ritiene, infatti, che oltre la metà del proprio margine operativo, cioè la capacità di fare reddito della propria impresa, dipende dal quadro regolatorio. Per circa un terzo delle aziende questa quota è compresa tra il 20 ed il 50 per cento. La capacità di influenza delle decisioni legislative e regolatorie è addirittura aumentata nel corso degli ultimi anni ed in particolare dall’inizio della Grande Crisi che ha visto una maggiore attitudine dei governi ad intervenire in economia.

Che l’Italia sia un Paese iper-regolato non è nuovo. Un recente rapporto del World Economic Forum poneva l’Italia al 146° posto su 148 economie considerate (davanti solo a Brasile e Venezuela) per peso della regolazione. E sempre secondo Amcham sono le industrie chimiche e farmaceutiche, seguite da quelle dell’energia e dai servizi finanziari quelle che si ritengono operare in un ambiente «altamente regolamentato e con un rischio regolatorio ai diversi livelli amministrativi». Più della metà degli intervistati ritiene infatti che il peso burocratico derivi soprattutto dalle decisioni prese a livello regionale e locale. Gli esempi possono essere molti: leggi che cambiano, anche retroattivamente, le regole del gioco dopo la decisione di investimento (norme sul fotovoltaico, regolazione del farmaco, affitti pubblici, spending review), variazioni alla legislazione fiscale, norme su permessi ed autorizzazioni.

Per i manager stranieri la frustrazione è alta. Spiegare ai loro headquarter dall’altra parte del mondo la particolarità del sistema italiano è spesso impossibile e così il “rischio Paese” diventa la variabile principale nelle scelte di investimento, ancor più della legislazione sul lavoro o il deficit infrastrutturale. Una frustrazione che emerge dalle risposte alla ricerca dell’Amcham quando ben il 54% dei manager intervistati dichiara di «non essere mai riusciti a influenzare la produzione di politiche nel proprio settore di attività», il 16% solo raramente, il 29% qualche volta. Le aziende straniere, ma anche quelle italiane, riscontrano un problema di accesso al policy maker: 7 su 10 dichiarano che è difficile anche solo entrare in contatto con il governo/regolatore. Ma c’è anche un problema di comprensione da parte del decisore pubblico delle istanze poste dalle aziende. Problema di trasparenza del rapporto innanzitutto, come sottolinea ancora il Wef che pone l’Italia al 140° posto su 148 per «trasparenza del processo di produzione delle politiche e del quadro normativo».

Come aggredire il debito pubblico senza i soliti provvedimenti demagogici

Come aggredire il debito pubblico senza i soliti provvedimenti demagogici

Paolo Cirino Pomicino – Il Foglio

Mentre Roma discute Sagunto brucia, scriveva Tito Livio diversi secoli or sono. E mai come ora Sagunto è l’Italia che polarizza energie, tensioni, scontri su temi decisamente importanti come la riforma del Senato e più ancora del titolo V (le competenze delle Regioni, tanto per intenderci) ma certamente meno urgenti della messa a punto di una politica economica che metta al centro la ripresa di una crescita economica assente da quasi 20 anni. Ed invece su quest’ultimo terreno emerge da un lato una sorta di non consapevolezza dello stato drammatico dell’economia del paese e dall’altro per l’ennesima volta si affaccia il tema di una manovra correttiva per avere un deficit di bilancio al di sotto del 3 per cento. Sono venti anni che tutti si interessano del numeratore nel rapporto deficit Pil e mai nessuno del denominatore la cui crescita è il vero strumento per risanare stabilmente la finanza pubblica. Allora è bene chiarire subito come stanno le cose per non aggiungere errori ad errori.

Dopo 5 anni di recessione e uno di stagnazione economica la prima cosa da non fare è tagliare la spesa pubblica perché qualunque taglio manda all’economia reale un nuovo imput recessivo. Altra cosa è, naturalmente, la diversa allocazione delle poste di bilancio per recuperare una diversa efficacia della spesa pubblica il cui taglio può, al contrario, avvenire solo quando la crescita si sia consolidata a livelli almeno del 2 per cento l’anno. Se a nostro giudizio non va fatta, dunque, una manovra correttiva per tagliare la spesa pubblica va rapidamente messa a punto una manovra di finanza straordinaria per aggredire il debito e liberare risorse dall’unico bacino disponibile, quello della spesa per interessi forte di oltre 85 miliardi di euro l’anno. Ciò che sfugge al governo e alla maggioranza, ma in verità anche alle opposizioni, è che se anche riuscissimo a restare al di sotto del 3 per cento cosa cambierebbe per l’economia italiana? Nulla. Alla stessa maniera sarebbe un disastro immaginare per un periodo di poter rilanciare l’economia del debito che può essere una soluzione transitoria ma in un paese che non abbia un debito alto come quello italiano (è il caso di molti paesi europei, a cominciare dalla Francia). Basterebbe guardare gli ultimi 20 anni in cui l’Italia si è avviata in un circuito perverso fatto di bassa crescita e di un debito che aumentava in maniera esponenziale senza che nella società vi fossero tensioni sociali come quella vissuta nella stagione del terrorismo e men che meno livelli inflazionistici allarmanti. È tempo, dunque, di cambiare linea e di immaginare una attenzione esclusiva verso l’aumento della crescita, che ha bisogno di risorse nuove capaci di consentire di ridurre la pressione fiscale e contributiva su famiglie e imprese e di accentuare investimenti pubblici concentrati su obiettivi specifici capaci di trascinare con sé investimenti privati a fronte della ripresa di una domanda interna figlia a sua volta di un aumento dell’occupazione.

Il dibattito demagogico di questa settimana parla di tagliare le pensioni al di sopra di 3mila o di 5mila euro mensili, quasi che questo taglio consentisse l’aumento dei trattamenti pensionistici bassi. L’unica cosa che produrrebbe una misura demagogica di questo tipo è che gli italiani sarebbero tutti più eguali nella povertà. L’alternativa coraggiosa, invece, è l’aggressione al debito pubblico accompagnata da misure minori e da nuovi strumenti capaci di accelerare la spesa di investimenti pubblici e di quelli privati per far ripartire la crescita. Proposte in questa direzione sono state avanzate da più parti ma è il governo a dover prendere una iniziativa adeguata. Il superamento del bicameralismo paritario è una linea ormai condivisa ma lungo quella direzione vanno garantiti il rapporto eletto-elettore e un equilibrio tra poteri ma quel tema, lo ripetiamo, importante nel medio periodo per un ammodernamento delle istituzioni democratiche, è certamente meno urgente e può tranquillamente coesistere con una nuova politica economica per evitare che l’Italia, come Segunto, bruci nell’angoscia di una povertà crescente mentre discute di un periodo lontano nel quale il paese rischia di arrivarci con implosioni sociali devastanti.

L’altra faccia del precariato che a volte i giovani non vedono

L’altra faccia del precariato che a volte i giovani non vedono

Roger Abravanel – Corriere della Sera

Che in Italia il precariato sia molto aumentato non è una novità per nessuno. È anche cosa nota che in Italia il precariato sia particolarmente ingiusto, perché la normativa sul lavoro ha creato un «apartheid» – secondo la definizione di Pietro Ichino – tra precari «cronici» (partite Iva, contratti a progetto), soprattutto giovani e donne, e lavoratori garantiti come in nessun altro Paese al mondo – lavoratori maschi di età media che lavorano in fabbriche che si stanno chiudendo in tutti i Paesi sviluppati e nel settore pubblico.

Eppure esiste anche un’altra faccia del precariato: per cento persone che perdono il lavoro ce ne sono 98 che il lavoro lo trovano. Come è possibile? Per capirlo basta analizzare le statistiche dei nuovi contratti di lavoro, per esempio quelle del 2012, quando sono state registrate ben 10 milioni di nuove assunzioni. Molte hanno brevissima durata, 3 milioni sono sotto il mese, ma ce ne sono almeno 2 milioni che durano più di un anno, un numero pari a quello dei lavoratori a tempo indeterminato. In media le persone che trovano lavoro ne trovano due all’anno, e quindi i 10 milioni di assunzioni corrispondono a 5 milioni di persone che cambiano due lavori all’anno.

Nei 5 anni di crisi si è perso 1 milione di posti di lavoro, il che equivale a 4.000 ogni settimana. Dato però che ogni settimana 200.000 persone vengono assunte (10 milioni diviso 52 settimane), vuole dire che per cento persone che vedono terminare il proprio contratto ce ne sono 98 che, invece, trovano una occupazione (200.000 su 204.000). Molte di queste saranno diverse dai 100 che hanno perso il lavoro, ed è anche possibile che alcuni tra questi ultimi non lo ritrovino più.

Ovviamente, per le cento persone che si ritrovano senza un’occupazione, questo è un male: i trenta-quarantenni che rimangono disoccupati non possono pianificare la propria vita, e per i cinquantenni si tratta di una vera tragedia. Ma la stessa situazione non è invece così negativa per le 98 persone che trovano lavoro. Molti di loro hanno perso il proprio impiego solo la settimana o il mese prima e rientrano nella categoria dei «precari a vita», vittime dell’«apartheid» cui si faceva riferimento. Ma molti di costoro tornano a cercare un lavoro per la prima volta dai tempi del loro debutto nel mercato del lavoro: e per questi ultimi si tratta di una vera opportunità. In particolare, questa rotazione dovrebbe aprire grandi opportunità ai giovani tra i 18 e 24 anni, che hanno meno bisogno di pianificare il proprio futuro.

E invece questo non avviene, perché i giovani rappresentano solo una piccola parte di quei dieci milioni di assunzioni che avvengono ogni anno: una parte molto inferiore a quella che dovrebbe essere. Questo avviene perché molti giovani non sono preparati e non possiedono quelle «soft skills» che i datori di lavoro ritengono necessarie: capacità di comunicare, risolvere problemi, lavorare in team e una forte etica del lavoro. La scuola italiana non insegna loro queste abilità. Ciò che avviene, quindi, è che alla fine il datore di lavoro si orienti sull’«usato sicuro» e non assuma i giovani.

I ragazzi e le ragazze italiani che possiedono queste competenze perché hanno avuto la fortuna di studiare in una buona scuola e/o università, hanno lavorato durante gli studi e si sono presentati non troppo tardi sul mercato del lavoro, hanno invece molte possibilità: ma anche loro devono rivedere l’approccio alla ricerca di una occupazione. Devono soprattutto dimenticare lo Stato e le sue agenzie del lavoro – che non funzionano -, oltre alle raccomandazioni di parenti e degli amici. Come sempre, dove lo Stato non funziona subentrano il mercato e l’innovazione. Le agenzie interinali come Adecco e Manpower si sono trasformate in questi anni in veri e propri protagonisti del mercato del lavoro, con un ruolo ben più ampio di quello, più tradizionale, di assumere i lavoratori di cui l’azienda non vuole farsi carico direttamente per risparmiare i contributi e mantenere la flessibilità di licenziarli. Sono dei gestori della vita professionale di un lavoratore capace, che, se si dimostra serio e con le giuste competenze , alla fine, con il loro aiuto, può rimediare un lavoro, anche a tempo indeterminato. Queste agenzie sono infatti diventate dei veri esperti della selezione del personale, perché hanno dei professionisti molto capaci a capire quelle soft skills che per le aziende oggi sono più importanti delle competenze professionali e che non si possono leggere in un curriculum. Eppure molti giovani italiani ancora oggi le considerano solo come agenzie «interinali».

C’è, inoltre, Internet che aiuta a rendere enormemente più trasparente il mercato del lavoro. Per esempio, gli italiani stanno scoprendo i social network non solo per la vita personale, ma anche per quella professionale. Ben 7 milioni hanno messo il proprio curriculum su LinkedIn, una piattaforma digitale che permette a un datore di lavoro di «pescare» un lavoratore navigando nelle rete alla ricerca delle caratteristiche giuste e chiedendo referenze a chi lo conosce. Grazie alla tecnologia, LinkedIn «distruggerà» il mondo delle raccomandazioni all’italiana.

Eppure, di questi 7 milioni i giovani sono una minoranza. Più in generale non sfruttano a sufficienza la Rete, anche se dovrebbero essere avvantaggiati. Preferiscono «usare Facebook per mostrare i propri muscoli o le proprie curve, piuttosto che LinkedIn per trovare un lavoro», dice il responsabile delle risorse umane di una grande azienda italiana. Il precariato è drammatico per molti lavoratori. Ma presenta anche un’ altra faccia che dovrebbe favorire i giovani. Eppure questo non avviene, essenzialmente per colpa del nostro sistema educativo che non li prepara al mondo del lavoro.

Per non fare i conti

Per non fare i conti

Davide Giacalone – Libero

C’è il buon affare del Senato e il cattivo affare dei conti. Il governo spera di usare il primo per affrontare o scansare il secondo. La canoa italiana ha imboccato il ramo delle rapide, senza sapere se e quando ci sono le cascate. C’è chi s’inebria con un futuristico elogio della schiuma e della velocità, chi coglie l’occasione per sbracciarsi e mettersi in mostra, e chi, all’opposto, approfitta della distrazione per nascondere il vuoto d’idee. Tutto in un delirio tatticistico e politicista, senza che ci si curi di quel che viene dopo lo spumeggiare.
Il Senato è un buon affare. Per molti, se non per tutti. Matteo Renzi può far la parte del condottiero che non s’arresta. Gli oppositori più chiassosi possono far la parte dei combattenti senza paura. Finiscono sommersi quelli che vorrebbero correggere un testo mediocre e squilibrato, scompare la voce delle persone serie, a sinistra (con molto dolore) e a destra (con troppa sottomissione). Ma l’impressione è che poco importi, ai duellanti.
Se la campagna del Senato va a buon fine, il governo la utilizzerà per dire: abbiamo cominciato a cambiare l’Italia, adesso non rompeteci troppo l’anima sui conti. Se si dovesse impantanare in guerra di trincea, la utilizzerà per dire: c’impediscono di cambiare l’Italia, meglio tornare alle urne. Nel primo caso ci sarà il tempo per cambiare la legge elettorale, magari usando anche il dialogo con i pentastellati. Nel secondo si accetterà di votare (sempre che il Colle copra l’operazione con lo stesso partecipe trasposto con cui copre i ludi senatoriali) con un sistema meno certo nel risultato, puntando a gruppi parlamentari più direttamente e personalmente controllabili. In ambedue i casi l’obiettivo è quello di non far precedere il voto da un assestamento dei conti, che non gioverebbe alla credibilità e popolarità di Renzi. Questo il panorama tattico. Ma poi c’è la sostanza, coriacea assai.
Intanto perché il cambiamento del Senato non si tradurrà in una più veloce a corriva attività legislativa, se non passando prima per le urne. Ciò per l’inaggirabile motivo che anche in caso di cambiamento costituzionale non è che il Senato sparisca all’istante, ma occorre che sia sciolto quello presente. Poi perché ignorare l’aggiustamento dei conti ci porterà ad avere un debito ancora più alto, quindi a veder crescere la massa tumorale che ci soffoca. La tanto reclamata e declamata elasticità non giova minimamente né all’economia reale né al tenore di vita dei cittadini, aiuta i governi a non prendere atto dei propri insuccessi. Vale per tutti, non solo per l’Italia. Noi, però, siamo i più esposti, proprio perché intestatari del debito più potenzialmente esplosivo.
Varrà la pena di tornare, su questo punto. Che è decisivo, perché deve essere cancellata l’illusione che sia il rigore ad avere provocato la recessione, semmai sono il debito e la spesa pubblica improduttiva ad avere prodotto prima il rallentamento della crescita e poi il precipitare nella decrescita, per, infine, approdare alla stagnazione. Pensare di curare il male con lo stesso male non è una specie di omeopatia politica, è un errore pericolosissimo. Serve a far credere all’opinione pubblica che ci danneggiano i vincoli esterni, non le dilapidazioni interne. Si può anche riuscire in un simile gioco di prestigio, aiutati dagli schiamazzi del loggione qualunquista, ma il teatro crolla prima della fine dello spettacolo.
Sobbalziamo fra i flutti e ci divertiamo fra i gorghi, convinti che non possono lasciarci precipitare senza per questo rompere il convoglio europeo. Attendiamo che ci tirino una cima e ci fermino, facendo finta di non sapere che già in tal senso si è spesa la Banca centrale europea. Ma a nessuno viene in mente di raccontare la verità, nessuno se ne prende l’onere, perché nessuno ha credibilità sufficiente o voglia di rallentare la (presunta) corsa verso il successo. Si crede che la partita rilevante sia quella interna alla canoa. Magari si potrà gridare “vittoria” quando sotto non ci sarà più il fiume, ma il vuoto. Non c’è nulla d’ineluttabile, in questo. Non è una sorte segnata, perché avremmo ancora le forze per invertire la rotta. Solo che chi è in grado di remare tende a sbarcare, chi avverte viene deriso, e l’unico spettacolo che va in onda è quello della campagna senatoriale. In queste condizioni il meglio che possa accadere (per chi governa) è che con i problemi veri si facciano i conti dopo e non prima delle elezioni. Cambia, molto, per chi vuol comandare. Non cambia nulla, per tutti gli altri, se non per il tempo perso.

Nei labirinti del 5 per mille si perde anche la Corte dei Conti

Nei labirinti del 5 per mille si perde anche la Corte dei Conti

Valentina Melis – Il Sole 24 Ore

Il cinque per mille ha portato in dote al mondo del non profit tre miliardi e mezzo di euro, dal 2006 a oggi. Sulla destinazione dei fondi, però, la Corte dei conti adesso vuole vederci chiaro. I beneficiari, ormai, sono quasi 50mila, dagli enti di ricerca alle associazioni sportive dilettantistiche, e si contendono le firme degli italiani sulla dichiarazione dei redditi a colpi di pubblicità, newsletter e altre iniziative.

Ma le scelte dei contribuenti sono veramente “libere”, come prevedono le regole? Perché non tutti gli enti rendono pubblica la gestione degli incassi? E non sarebbe forse il caso di selezionare in maniera più rigorosa i potenziali beneficiari? Se lo chiedono anche i magistrati contabili, che hanno preso carta e penna e hanno scritto a sette ministeri, alle Entrate, al Coni, agli Ordini dei commercialisti e dei consulenti del lavoro e alla Consulta dei Caf, per chiedere quali iniziative metteranno in campo per una maggiore trasparenza.

La Corte dei conti dice che sì, semplificare le farraginose procedure del cinque per mille sarebbe opportuno, ma anche imporre alle organizzazioni l’obbligo di pubblicare i bilanci, usando «schemi chiari, trasparenti e di facile comprensione». E qui sta il primo nodo. Accanto a grandi organizzazioni, come l’Airc, Emergency, l’Associazione italiana contro le leucemie (solo per citarne alcune), che sul proprio sito spiegano come hanno speso i soldi assegnati dai contribuenti, ce ne sono altre, anche nelle prime posizioni della classifica, che non pubblicano un numero.

In effetti, mettere in rete il rendiconto non è obbligatorio: il documento deve essere mandato ai ministeri che erogano il contributo solo dagli enti che incassano più di 20mila euro. Ma questo passaggio rischia di essere solo formale, senza alcuna informazione chiara per i contribuenti che hanno premiato un’organizzazione con la propria firma.
La scelta, poi, dovrebbe essere libera, ma secondo la Corte dei conti non sempre lo è. Nella sua lettera ai ministeri, la Corte sottolinea che «risulterebbe assai utile un’attività di audit dell’agenzia delle Entrate sul comportamento degli intermediari, allo scopo di individuare eventuali scorrettezze».

La Corte evidenzia inoltre il «potenziale conflitto di interesse con gli optanti» da parte di quelle realtà che gestiscono direttamente una rete di Caf (come le Acli e il Movimento cristiano dei lavoratori) o di quelle associazioni «che possono fruire dei Caf dei sindacati di cui sono emanazione». E qui i magistrati contabili citano gli esempi della Cgil (Auser e Federconsumatori) e della Cisl (Adiconsum e Iscos). Alcuni di questi soggetti si piazzano da sempre in ottime posizioni della classifica per fondi ricevuti, ma questo ovviamente non dimostra niente di illecito: piuttosto, è la prova che le regole attuali tendono a favorire i soggetti più grandi (per numero di uffici, risorse da investire in pubblicità e così via).

Ma ci sono altri casi che balzano agli occhi. La Federazione nazionale agricoltura, in una comunicazione ufficiale inviata dal segretario generale Cosimo Nesci ai dirigenti del sindacato, ai responsabili del patronato Epas – presieduto dal figlio Denis Nesci – e ai responsabili dei centri di raccolta Caf Italia Srl (legati alla stessa Fna), garantisce che riconoscerà un euro in più di rimborso per ciascun modello 730 «riportante l’adesione volontaria del contribuente del 5 per mille a favore della Assipromos». Quest’ultima è un’associazione di promozione sociale che ha come unica fonte di finanziamento il cinque per mille, ed è nata nel 2007, l’anno successivo all’introduzione del contributo. L’Assipromos ha visto crescere continuamente i fondi assegnati dai contribuenti, passando da 154mila euro del 2007 a 1,5 milioni del 2012.

Tra le migliaia di organizzazioni del “volontariato” presenti negli elenchi, si piazza al quindicesimo posto. In tutto, contando anche la tranche 2012 (non ancora versata, ma attribuita dall’agenzia delle Entrate), l’Assipromos ha ottenuto 4,4 milioni. Ma come è stato speso questo robusto finanziamento? Sul sito dell’associazione, alla pagina «iniziative», ci sono solo due progetti: il bando «Crea il tuo futuro», uno stage di sei mesi per 50 ragazzi presso la stessa associazione (con un rimborso spese di 400 euro al mese), che si è concluso pochi giorni fa, e un corso di italiano per stranieri.

Dai rendiconti inviati al ministero del Lavoro, risulta che l’Assipromos ha acquistato un immobile a Roma, in via Falcognana, per 1.350.000 euro, con l’obiettivo di creare una «casa di riposo a prevalente accoglienza alberghiera». Obiettivo però non raggiunto, perché, secondo il Comune di Roma, l’immobile non è adatto a questo utilizzo. L’Assipromos ha dunque sottoscritto un preliminare d’acquisto per un altro immobile, sempre a Roma, in via Omboni, con lo scopo di creare una piscina per persone disabili e uno studio medico riservato a pazienti che si trovino in disagio economico. «Vorrei sottolineare – precisa la presidente di Assipromos Maria Mamone (subentrata nel ruolo a settembre 2013 allo stesso Cosimo Nesci) – che neanche un euro è stato utilizzato per versare un’indennità al presidente o ai consiglieri dell’associazione, e che tutti i fondi del cinque per mille sono impiegati per progetti sociali».

Passando all’elenco degli enti di ricerca scientifica, non mancano altre sorprese. L’Università telematica «Pegaso» di Napoli si piazza all’undicesimo posto, sorpassando tutti gli atenei pubblici e privati d’Italia, escluso il Politecnico di Milano. Per il 2012, grazie alla scelta di 224mila contribuenti, la Pegaso incasserà 421.895 euro, il 380% in più rispetto all’anno prima, quando il contributo era stato di 108.435 euro. Qual è il segreto di un simile balzo in avanti?
Un aiuto potrebbe essere arrivato da decine di convenzioni sottoscritte dall’Università Pegaso con Ordini professionali e con i sindacati sul territorio, anche se – precisa il direttore generale dell’ateneo online Elio Pariota – queste convenzioni nulla hanno a che vedere con il cinque per mille, ma solo con la formazione».
Nella sua lettera, la Corte dei conti cita esplicitamente un altro esempio: l’intesa tra il centro di ricerca Biogem di Ariano Irpino e l’Ordine dei dottori commercialisti di Avellino. Il presidente di Biogem, Ortensio Zecchino, ha dichiarato (come riporta la stessa Corte): «Ci rivolgiamo ai commercialisti perché hanno una grande forza di orientamento». Con buona pace della libertà di scelta.

Sull’evasione il fisco dà i numeri

Sull’evasione il fisco dà i numeri

Nicola Porro – Il Giornale

Questa settimana, per una volta, lo stanco rito delle interrogazioni parlamentari ci ha regalato un po’ di ciccia. Un onorevole parlamentare ha fatto la seguente domanda: sentiamo parlare molto di lotta all’evasione, ci volete far sapere quanta roba è stata ufficialmente scovata dai vostri uffici? O, meglio, ci dite l’ammontare dei crediti fiscali che il governo vanta nei confronti dei suoi 60 milioni di cittadini? La risposta secca è stata: una montagna. La bellezza di 475 miliardi di euro. Se, per magia, questo debito fiscale fosse pagato dai contribuenti in questo istante, avremo risolto i nostri problemi finanziari con l’Europa, il debito pubblico scenderebbe infatti sotto il 100 per cento del Pil. Può mai essere? Ma certo che no. Il Fisco con noi bara. Il che non sarebbe una novità. Ma quel grande e gigantesco numero ci dice per quale motivo le statistiche sull’evasione (o presunta tale) si debbono prendere con la medesima attenzione con cui si cucinano i polli di Trilussa.

Intanto una prima considerazione sulla follia italiana. Quando si tratta di fare le leggi siamo dei duri e prevediamo sanzioni pazzesche. Tanto sulla carta il gioco è semplice. Poi quando ci si scontra con la realtà arrivano i guai. Su 475 miliardi che dovremmo al fisco, la bellezza di 250 miliardi (cioè più della metà dell’intero importo) è fatto da sanzioni e interessi. Bravi legislatori, fate i duri, tanto poi non vi paga nessuno. Ma andiamo avanti. Un euro di credito fiscale vantato dallo Stato ogni quattro è riferito a società o imprese che sono fallite. Dunque si tratta di carta straccia. Insomma, la montagna ha partorito il topolino.

Ricapitolando, gran parte del debito è fatto da sanzioni e non da imposta evasa e poi un quarto dello stesso è riferito a società fallite che, con ogni probabilità, non solo non pagheranno il fisco ma non hanno pagato manco i loro fornitori e dipendenti. La montagna dovrebbe così scendere a circa 180 miliardi di imposte potenzialmente evase e i cui mancati pagamenti si sono accumulati negli ultimi anni. Anche questa cifra è una balla. Succede, infatti, che dalle nostre parti si paghi prima del processo o meglio prima della sentenza definitiva. Quando vi pizzicano con qualche problema fiscale o conciliate subito, come direbbe il vigile alla Sordi, o sono comunque dolori. Ricorrendo in commissione tributaria viene comunque iscritto a ruolo un terzo del presunto debito fiscale ed entra così in questa mostruosa contabilità. Se si dovesse poi perdere in primo grado (c’è sempre la non remota possibilità che si vinca in appello) l’iscrizione a ruolo sale a due terzi.

Sì lo so è estate, i siete persi, vorreste stare in vacanza. Ma il punto è fondamentale poiché la comunicazione ha la sua importanza. Si dice che gli italiani hanno evaso centinaia di miliardi di euro. Poi si scopre che circa il 50 per cento di queste mirabolanti cifre sono sanzioni. Ci si scorda infine l’attitudine prevaricatrice del Fisco che tende a incassare e presumervi evasori fiscali anche prima di un giusto processo. Et voilà, il gioco è fatto. La morale di questa storia è la solita. Quando il Fisco parla, dà i numeri.