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Supermunicipalizzate e pochi investimenti, così sta morendo il capitalismo italiano

Supermunicipalizzate e pochi investimenti, così sta morendo il capitalismo italiano

Federico Fubini – La Repubblica

Cambia il controllo di Frette, il produttore di biancheria di lusso che fornì le lenzuola all’Orient Express e al Titanic, ma la notizia non è che ora apparterrà a un investitore straniero. Era già così. L’antica casa milanese viene infatti ceduta da un fondo di San Francisco a uno di Londra. La notizia è che non c’era un investitore italiano disposto o capace di presentare un’offerta o un progetto industriale migliori.

È già successo negli ultimi anni, in vari settori. Dall’alimentare con Parmalat acquisita dai francesi di Lactalis, alla Ducati passata al gruppo Volkswagen, alle conquiste del gruppo transalpino Lvmh su Bulgari, Loro Piana o la pasticceria Cova, fino alla recente cessione del controllo di Indesit agli americani di Whirlpool. Difficile spiegare ai dipendenti delle società vendute che ciò sia un male, se ora vedono più investimenti, nuove competenze e la conquista di mercati prima irraggiungibili. Per loro la sicurezza del posto in futuro fa premio sul prefisso telefonico dell’azionista di controllo. Per i neolaureati che adesso possono mandare un curriculum nella speranza di una vera chance, ancora di più. Resta giusto un dubbio sull’asimmetria. Il valore delle fusioni e acquisizioni nel mondo quest’anno è già a 1.500 miliardi di dollari e forse il 2014 batterà il record del 2007. Dalla farmaceutica all’energia, da Pfizer e General Electric, tornano le offerte per creare i cosiddetti Mammuth. Ma l’Italia è molto più preda che predatrice. Le sue imprese non sono quasi mai alla testa ma schiacciate in mezzo alle catene di fornitura dei milioni di componenti che generano aerei, auto o gadget elettronici; dunque per lo più vengono acquistate, ma molto di rado acquistano le altre.

Una ricerca di Roland Berger Italia per Repubblica fa capire perché: dal fondo della crisi globale nel 2009 il made in Italy manifatturiero ha sì abbozzato una ripresa ma non riesce a produrre la cassa necessaria a preparare il futuro. Quella che crea basta a fatica a sostenere i debiti del passato. Da quando l’economia italiano crollò del 5% subito dopo il crac di Lehman, gli investimenti industriali in Italia sono addirittura scesi di un altro 9%: difficile restare competitivi così, se non cambia il modo di finanziamento e con questo la struttura stessa delle imprese. I dati della Roland Berger, il gruppo di consulenza, mostrano come questa crisi stia portando con sé la fine del capitalismo all’italiana fondato sulle medie imprese familiari che restano indipendenti e si finanziano in banca. Non un male, se sarà sostituito con un modello più adatto ai tempi. «Ci sono molte medie aziende per le quali nuova finanza è pronta ad arrivare dai fondi esteri o italiani o da grandi investitori istituzionali» dice Andrea Marinoni di Roland Berger Italia. «Ma solo a patto che ci siano fusioni, spacchettamenti di settori e filiere produttive, progetti fra più gruppi. Non più ognuno per sé come in passato».

Certo come oggi non può continuare. Non è più sostenibile, per esempio, il peso predatorio delle municipalizzate sul sistema produttivo. La Roland Berger mostra che dal fondo della crisi nel 2009 il settore il cui fatturato è cresciuto di più in Italia, da 44 a 72 miliardi, è quello delle società partecipate dagli enti locali che forniscono servizi come acqua o elettricità. Il loro giro d’affari è esploso nel 63%, pesa dieci volte più del settore auto in Italia e almeno il doppio rispetto a qualunque comparto leader del manifatturiero, dalla meccanica all’alimentare. Vista così, il settore trainante del Paese sembra il parassitismo delle mille piccole Iri di provincia. Un gigante sostenuto dagli aumenti continui delle tariffe, che tuttavia fatica a stare in piedi: malgrado il boom delle rendite estratte dal mondo produttivo, la redditività delle municipalizzate non cresce e i loro investimenti addirittura cadono. Questa tassa impropria sul resto dell’economia a sua volta alimenta, ma non determina da sola, le difficoltà del manifatturiero. Non che tutto vada male, perché un po’ di ripresa c’è stata. Dal punto basso del 2009 al 2012 il fatturato del settore alimentare è salito da 24,6 a 26 miliardi, quello del settore auto (molto più piccolo) da 6,3 a 7,1 miliardi. E cresce la meccanica, con un aumento delle vendite da 24 a quasi 33 miliardi. In calo ulteriore del 17% dopo la frana del 2009 risulta solo il comparto tessile e abbigliamento, che nel 2012 ha fatturato appena un terzo del settore alimentare. Il problema dunque non è la capacità di queste imprese di vendere i loro prodotti nel mondo, ma quella di guadagnare denaro facendolo. Il carico fiscale, il costo dell’energia, la burocrazia e gli interessi sui forti debiti bancari erodono sempre più il margine operativo lordo. Nell’alimentare è caduto del 6%, nel farmaceutico del 10%, nel tessile e abbigliamento del 37%. Meglio solo la meccanica dove sale al 2,7% del fatturato, anche e resta ridotto quasi all’osso. Non stupisce che in praticamente tutti i settori industriali italiani (meno l’abbigliamento) gli investimenti calino in proporzione al fatturato persino rispetto al nadir del 2009. In sostanza le aziende industriali d’Italia, il Paese che si gloria di essere il secondo produttore manifatturiero d’Europa dopo la Germania, non guadagnano abbastanza per preparare il loro futuro. I loro concorrenti esteri investono di più.

Per capirlo la Roland Berger ha esaminato un campione di 590 imprese italiane con un fatturato di più di 200 milioni di euro (di queste, circa due terzi sono manifatturiere). Vengono fuori le differenze con le loro avversarie nel resto d’Europa. Nel made in Italy tra aziende su quattro vedono nelle banche le loro fonti di finanziamento più importanti (in Europa solo la metà), eppure il credito allo sportello è in continuo calo e non dà segnali di inversione. Significa che il mondo produttivo non può più andare avanti come prima e forse è alla vigilia di una svolta. «Le imprese devono aprirsi al capitale da nuove fonti e di conseguenza cambiare la loro struttura di controllo» nota Marinoni. Se possibile, senza continuare a pagare il pedaggio alla municipalizzate.

Rottamatore o tassatore? Il fisco di Renzi tra piani e realtà. Un’indagine

Rottamatore o tassatore? Il fisco di Renzi tra piani e realtà. Un’indagine

Claudio Cerasa – Il Foglio

Tasse e governo Renzi: dov’è la verità? Due giorni fa il presidente del Consiglio, quasi a voler confermare la teoria che i dossier economici costituiscono la prima vera e drammatica preoccupazione del governo, ha lasciato intendere che la prossima, delicata e rischiosissima legge di stabilità verrà presentata circa un mese prima rispetto alla scadenza prevista per il prossimo venti di settembre. Oltre al non scontato tema delle coperture (ci sono 24 miliardi da trovare, e nessuno ha ancora capito dove si troveranno) non c’è dubbio che il cuore anche culturale della politica economica del governo riguarda un tema sul quale Renzi, con la sua squadra di economisti, è stato stuzzicato domenica scorsa dal Corriere della Sera con un duro editoriale del professor Angelo Panebianco. La tesi del Corriere è che il governo non ha la forza e la volontà di mettere in campo una buona politica fiscale capace di rompere i vecchi tabù della sinistra conservatrice. Palazzo Chigi, lo ha scritto domenica su Twitter il consigliere economico di Renzi Yoram Gutgeld, sostiene che le cose siano diverse e che andrebbe spiegato «al grande politologo che gli ottanta euro sono la più grande riduzione di tasse nella storia della Repubblica». Chi ha ragione? Cosa ha fatto il governo Renzi sul fronte fiscale? Cosa c’è da aspettarsi nei prossimi mesi?

I fronti da analizzare sono principalmente due e sono due punti che si trovano entrambi tra i dossier presenti sul tavolo del governo: da un lato le tasse ridotte e dall’altro quelle aumentate. Il presidente del Consiglio sa bene che la rivoluzione degli ottanta euro potrà considerarsi tale, ovvero una rivoluzione, solo a condizione che nella prossima legge di stabilità i dieci miliardi necessari per coprire il bonus previsto per il 2015 non verranno trovati spizzicando qua e là tra una mezza privatizzazione e qualche soldo guadagnato grazie al miglior rendimento ottenuto sui titoli di Stato. Ciò che occorre è, come si dice, una misura strutturale che possa dare continuità al bonus. E l’unica misura possibile e non transitoria è quella che si nasconde all’interno del pacchetto sulla spending review.

Nelle prossime settimane, entro metà agosto, il piano Cottarelli dovrebbe essere presentato nella sua interezza e a quanto risulta al Foglio sono tre i capitoli sui quali il governo ha intenzione di intervenire: le Ferrovie (per le quali solo nel 2014 lo Stato ha stanziato 4 miliardi), le municipalizzate (nel 2012 il Mef ha stimato che le perdite delle partecipate dei Comuni, soprattutto nel settore del trasporto pubblico locale, siano arrivate a raggiungere un miliardo e 200 milioni di euro) e la revisione dei dossier relativi all’acquisto di beni e servizi della pubblica amministrazione (7 miliardi stimati dal Mef). Il governo ha promesso che entro il 2014 metterà mano ai settori (entro dicembre il trasporto ferroviario e l’acquisto di beni e servizi, entro ottobre il trasporto pubblico locale), il sottosegretario alla Pubblica amministrazione Angelo Rughetti ha anticipato che entro luglio (manca poco però) verrà presentato un piano severo per ridisegnare le partecipate locali e non c’è dubbio che non esiste una credibile politica fiscale se questa non viene affiancata da una credibile politica di riduzione delle spese. «Se Renzi – dice una fonte governativa – avrà il coraggio di finanziare gli ottanta euro andando a toccare settori storicamente intoccabili come quelli legati alle municipalizzate la riduzione delle tasse potrà avere una sua consistenza. Viceversa, se così non dovesse andare, gli ottanta euro rischiano di diventare per Renzi quello che l’Imu è stato per Enrico Letta: un pasticcio». E il resto?

Alcune tasse sono state introdotte dal governo Renzi ma dal punto di vista formale (a parte la Tasi, che sostituisce l’Imu, ma che Renzi ha ereditato dal governo Letta, modificandone e peggiorandone alcuni aspetti) quasi tutte le nuove tasse previste sono state ideate per creare un gettito utile a ridurre altre tasse. Il provvedimento più corposo (scattato il primo luglio) è quello relativo all’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie (l’aliquota è passata dal 20 al 26 per cento). Per quanto però sia una tassa discutibile da molti punti di vista (tassare le rendite finanziarie, come si sa, rischia di costringere gli investitori a puntare i propri risparmi solo sui titoli di Stato, togliendo quindi molta liquidità dai mercati) la tassazione delle rendite finanziaria è stata messa in campo per ridurre (di quattro miliardi) un’altra tassa, ovvero l’Irap.

Qualcuno, per esempio il professor Pietro Ichino, sostiene che sarà difficile che siano davvero quattro i miliardi che il governo riuscirà a ottenere dal gettito ricavato da questa tassa (Ichino sostiene che arriveranno a malapena 200 milioni di euro). Ma il principio portato avanti da Palazzo Chigi è sempre quello: non introdurre altre tasse se non per ridurre altre tasse. Andrà davvero così? La promessa è ambiziosa ma il Rottamatore, per non diventare un Tassatore, dovrà essere abile a fare i conti con la dura realtà. E se i dati sulla disoccupazione continueranno a essere preoccupanti (siamo al 12,6 per cento, due punti in più della media europea), il pil non la smetterà di scendere (ad agosto arriveranno i dati del secondo trimestre e a Palazzo Chigi sono convinti che il segno più ancora non ci sarà), la flessibilità non sarà così incisiva come Renzi si aspetta (da seguire il lavoro di Roberto Gualtieri, capo della Commissione economica del Parlamento europeo) il pericolo di dover introdurre qualche ulteriore tassa per tappare i buchi è più di un semplice rischio. Riuscirà Renzi a resistere alla grande tentazione? E soprattutto, in vista della delega fiscale che il Mef intende presentare entro la fine dell’estate, Renzi sarà in grado di dare forma in modo compiuto alla sua idea di rivoluzione del fisco?

Sulla delega fiscale il governo non è ottimista perché le rivoluzioni non si possono fare in cento giorni e forse i mille giorni sono un’ipotesi più realistica. Ma nell’attesa di capire quale direzione prederà il governo (che oltre alla tassazione sulle rendite finanziarie qualche altra tassa l’ha messa, vedi l’aumento del costo per il rilascio del passaporto, anche se il governo ha eliminato il bollo, vedi l’aumento di un euro a partire dal primo ottobre sui pacchetti di sigarette, vedi l’aumento delle tasse, su spinta della Siae, fino al 500 per cento, sull’acquisto di dispositivi dotati di memoria digitale) nelle ultime ore al Mef è maturata un’idea ambiziosa che merita di essere esplicitata. E la nuova sfida del governo riguarda una promessa da 32 miliardi fatta da Renzi al mondo degli industriali. Promessa che suona così: se mi consentiranno di andare avanti, di governare e fare i tagli alla spesa pubblica che intendo fare, tagli che dovrebbero essere equivalenti a 17 miliardi nel 2015 e 32 miliardi nel 2016, mi impegno a investire due punti di pil per portare il cuneo fiscale al livello dei grandi paesi europei.

Al momento, dunque, è esagerato dire che il governo non ha agito sul fisco (tecnicamente gli 80 euro sono configurati come un credito di imposta, e dunque sono formalmente una spesa, ma di fatto, per le persone che ne hanno beneficiato, rappresenta una riduzione dell’Irpef). Così come è esagerato dire che il governo sta facendo quello che nessuno ha fatto mai nella storia del paese (occorre vedere se le coperture diventeranno strutturali, se il governo riuscirà a mettere in piedi un sistema fiscale capace di attrarre nuovi investitori, e Renzi riuscirà a mettere in campo un sistema di norme fatto non per allontanare ma per attrarre persone fisiche ad alto reddito). Tutto può succedere ma solo una osa Renzi non potrà permettersi: dire che sul fisco non ha potuto fare quello che desiderava perché qualcuno gliel’ha impedito. La maggioranza c’è. La volontà pure. E in fondo, mai come in questo caso, l’unico nemico di Renzi si chiama proprio Matteo.

Giro di vite su Regioni, Comuni e stipendi

Giro di vite su Regioni, Comuni e stipendi

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

La prudenza. La necessità di non incattivire i rapporti con le Regioni mentre si ammorbidisce il Titolo V della Costituzione. O la voglia di non farsi altri nemici. Di ragioni per giustificare che il rapporto sui costi della politica sia in un cassetto anziché sul web come vorrebbe Carlo Cottarelli, ce n’è un migliaio: magari plausibili. Ma non accettabili. Non sono ragioni accettabili da un governo che ci ha promesso trasparenza assoluta e annunciato guerra agli sprechi. Anche perché se quella roba non diventa di pubblico dominio è come se non fosse mai esistita.

Ma cosa c’è in quel documento pronto da quattro mesi e ancora misteriosamente ignoto, come ha denunciato ieri con irritazione su questo giornale da Riccardo Puglisi, uno del gruppo di lavoro coordinato da Massimo Bordignon che l’ha curato? Per esempio, il fatto che il problema principale, come molti del resto ormai sostengono, è rappresentato dalle Regioni. Da qui la proposta di allineare il costo degli apparati politici regionali a parametri standard. Il che non significa soltanto gli stipendi degli eletti, ma anche il loro numero e quello del personale che gli ruota intorno, con tutte le spese relative. Garantirebbe un risparmio di almeno 300 milioni l’anno, e sarebbe un’operazione di puro buonsenso. Portata alle conseguenze più radicali potrebbe anche modificare la geografia politica. Un esempio? Secondo il rapporto la Regione Molise non avrebbe ragione di esistere. Ancora: chi ricopre un incarico pubblico ed elettivo non può avere uno stipendio e una pensione o un vitalizio, o magari addirittura due, come non raramente capita. Il tutto accompagnato anche da un articolato di legge bell’e pronto messo a punto con la collaborazione del predecessore del commissario alla spending review Cottarelli, Piero Giarda.

Il gruppo di lavoro incaricato di mettere a nudo gli aspetti più delicati (e scabrosi) di un sistema impazzito segnala circostanze incresciose nelle quali sono state rifiutate loro le informazioni. Il che tuttavia non ha impedito di scoprire come in molti casi norme moralizzatrici quali quelle del decreto Monti del 2012 sono state aggirate con autentiche furbate che hanno limitato la riduzione dei consiglieri prevista dalla legge, fatto rientrare dalla finestra spese uscite dalla porta, vanificato l’innalzamento dell’età pensionabile. Un fatto, quest’ultimo, clamoroso: Monti aveva previsto che dal 2012 in poi nessun consigliere regionale avrebbe più intascato il vitalizio prima di 66 anni, e ancora oggi alla Regione Lazio è invece possibile incassarlo a 50 grazie alla sopravvivenza delle vecchie regole. Per non parlare della Sardegna, dove l’ex presidente dell’assemblea regionale Claudia Lombardo, di Forza Italia, percepisce da pochi mesi un vitalizio da 5.129 euro all’età di 41 anni.

Il rapporto scomparso non risparmierebbe nemmeno i Comuni (un mondo da cui proviene il premier Matteo Renzi e alcuni dei suoi collaboratori più stretti a cominciare da Graziano Delrio) per i quali stima un minore esborso annuale di qualche centinaio di milioni grazie a una rigorosa politica di accorpamenti per quelli al di sotto dei 5 mila abitanti, i quali assorbono il 54 per cento della classe politica locale. Numerosissima, stando ai dati contenuti nella relazione della Corte dei conti sul rendiconto dello Stato, pubblicata qualche settimana fa. I politici comunali sono 138.834: uno ogni 427 cittadini italiani. Tanti. Troppi, anche se il loro costo unitario non è paragonabile a quello delle altre istituzioni. Con qualche significativa eccezione. Il documento cita il caso del Trentino Alto Adige, per sostenere la necessità, anche qui, di allineare gli esorbitanti stipendi dei suoi sindaci a quelli del resto d’Italia: considerando che il primo cittadino di Merano guadagna 3 mila euro al mese più di quello di Milano, città 35 volte più popolosa.

Per la Corte dei conti gli apparati politici comunali costano 1,7 miliardi l’anno, contro il miliardo e mezzo circa di Camera e Senato, che hanno 945 onorevoli più i senatori a vita, e il miliardo delle Regioni, dove si contano 1.270 fra eletti e assessori. Solo per pagare stipendi e pensioni di deputati e senatori si sono spesi nel 2013 ben 447 milioni, con un aumento di 8 milioni sul 2012. Ciò esclusivamente a causa della crescita della spesa per i vitalizi, pari ormai a metà del totale (220 milioni). Compresi gli europarlamentari e gli apparati provinciali, i politici italiani sono in tutto 145.591. Uno ogni 407 residenti nel nostro Paese. Il che la dice lunga sul peso della politica in Italia. I magistrati contabili riconoscono che nonostante l’aumento dei vitalizi le spese di Camera e Senato nel 2013 si sono ridotte rispettivamente del 5 e del 4 per cento. Inoltre il taglio dei vertiginosi stipendi del personale delle due Camere (arrivati a superare la media per dipendente di 150 mila euro l’anno) sarebbe ormai avviato. Mentre mancano pochi giorni alla rescissione dei costosissimi affitti dei palazzi Marini dell’immobiliarista Sergio Scarpellini, resa possibile da una legge voluta dal Movimento 5 stelle, che farebbero risparmiare a Montecitorio fra 32 e 37 milioni l’anno. Al netto s’intende, delle inevitabili cause giudiziarie che saranno intentate contro questa decisione. Vedremo. L’impressione è che per allineare davvero le uscite di Camera e Senato a quelle degli organismi equiparabili di altri Paesi la strada sia ancora lunga e insidiosa.

E se «il costo relativo al 2013» del Quirinale è stato di 228 milioni di euro, cioè «pari a quanto speso l’anno precedente», la Corte dei conti non manca di sottolineare che nel 2013 la presidenza del Consiglio ci è costata 458 milioni, con un aumento dell’11 per cento, e che gli apparati politici dei ministeri «hanno comportato una spesa di oltre 200 milioni». Le sforbiciatine saranno state dunque volenterose, ma di sicuro non sufficienti considerando la mole delle uscite delle sole strutture politiche istituzionali: 6 miliardi. Lo scorso anno le quelle centrali (Camera, Senato, Quirinale, Palazzo Chigi…) sono costate circa 3 miliardi, con un calo del 4 per cento sul 2012. Altri 3 miliardi sono stati spesi per mantenere quelle locali, giunte e consigli di Regioni, Province e Comuni: in flessione, secondo i magistrati contabili, del 5 per cento. Troppo poco, dopo un’indigestione di quella portata. I costi della politica «rappresentano una voce di spesa significativamente maggiore rispetto a quella sostenuta nei paesi demograficamente confrontabili con l’Italia, quali Germania, la Francia, la Gran Bretagna, la Spagna. Ne consegue l’esigenza, non ulteriormente procrastinabile, di un’adozione di misure contenutive coerenti», conclude la Corte dei conti. Senza citare, per carità di patria, l’indotto. Innanzitutto quello dei partiti: sul quale si è fatta fin troppa melina. Tanto per dirne una, aspettiamo ancora la famosa legge attuativa dell’articolo 49 della Costituzione, quella che dovrebbe regolamentare dopo quasi settant’anni natura e funzioni dei partiti. E la legge che ha riformato il finanziamento pubblico continua a suscitare perplessità. Non a caso quel rapporto svanito propone di anticipare l’abolizione dei rimborsi elettorali…

I documenti svaniti sui costi della politica

I documenti svaniti sui costi della politica

Riccardo Puglisi – Corriere della Sera

Dove sono finiti i 25 documenti Pdf che contengono le relazioni finali dei gruppi di lavoro della spending review di Cottarelli? Questi file sono stati consegnati all’inizio di marzo, ma sembra che siano rimasti chiusi in qualche (virtuale) cassetto. Esperienza personale: io stesso ho fatto parte di uno dei gruppi di lavoro – quello dedicato all’analisi dei costi della politica – e ricordo la data d consegna. Eppure posso leggere il documento solo andando a ripescarlo dal mio computer. Né io, né nessun altro, può leggerlo nel sito internet dedicato alla revisione della spesa.

Facciamo un passo indietro. Ho il sospetto che la famosa frase di Margaret Thatcher, premier britannico dal ’79 al ’90 – «Non esiste il denaro pubblico, esiste solo il denaro dei contribuenti» – trovi sempre più consensi in Italia, a motivo dell’asfissiante livello di pressione fiscale raggiunto. Il denaro dei contribuenti finanzia nel nostro Paese una spesa pubblica che sembra difficile da domare, specialmente nella sua parte corrente, cioè al netto degli investimenti. Con un anglicismo forse superfluo, il processo di revisione della spesa pubblica è noto dalle nostre parti come spending review. Esso viene delegato a commissioni tecniche, le quali devono identificare i capitoli di spesa meno giustificabili dal punto di vista sociale, e le sacche di inefficienza che non hanno alcuna giustificazione. Lo scopo finale è naturalmente quello di creare gli spazi per una riduzione consistente della pressione fiscale di cui sopra.

L’ultima esperienza di revisione della spesa è quella guidata da Carlo Cottarelli, su incarico del governo Letta. Sul sito revisionedellaspesa.gov.it esiste una sezione apposita chiamata Revisione aperta, all’interno della quale «[…] verranno inseriti progressivamente tutti i dati e le informazioni disponibili sulla spesa e sui dati raggiunti dall’attività di Revisione della spesa». Il dato di fatto è che i 25 gruppi di lavoro costituiti da Cottarelli hanno consegnato le proprie relazioni finali nel mese di marzo, ma la sezione è e resta desolatamente vuota. Il governo Renzi ha dichiarato di avere recepito molti dei suggerimenti forniti dai gruppi di Cottarelli, ma al momento non è possibile sapere con esattezza che cosa non è stato recepito.

Su questo tema, come accennavo, posso aggiungere qualche dettaglio proveniente dalla mia esperienza personale. Insieme ad altri economisti ho fatto parte del gruppo di lavoro – presieduto da Massimo Bordignon dell’Università Cattolica – a cui Cottarelli aveva affidato il compito di analizzare i cosiddetti costi della politica, sia a livello statale che a livello locale. I numeri sono importanti: ai primi di marzo abbiamo consegnato un file Pdf di 106 pagine, il quale riassume i risultati della nostra analisi. Con uno spericolato esercizio di estrapolazione posso immaginare che gli altri 24 gruppi di lavoro abbiano prodotto documenti simili al nostro. La domanda sorge spontanea: come mai questi documenti non sono liberamente consultabili all’interno della suddetta sezione del sito apposito?

Intendiamoci: sono ben lungi dal pensare che il governo debba passivamente recepire tutti i suggerimenti provenienti dai gruppi di lavoro della spending review. Evidentemente governo e parlamento hanno l’ultima parola sui tagli da farsi. La questione è un’altra, ed è di carattere procedurale: ritengo che i cittadini-contribuenti abbiano il diritto di sapere quali suggerimenti siano contenuti nei documenti della spending review, in modo tale da poter verificare che cosa è stato recepito dal governo, e che cosa non lo è stato. Il governo potrebbe anche spiegare le ragioni politiche o tecniche per cui ha deciso di non recepire questo suggerimento o quell’altro.

Nel novembre 2012 – durante la campagna elettorale per le primarie del Partito democratico – Matteo Renzi aveva rimarcato la necessità di un Freedom of Information Act (Foia), cioè di un’assoluta trasparenza su documenti e informazioni della Pubblica amministrazione, per «combattere corruzione e inefficienze». Per quali strane ragioni il Renzi premier del 2014 deve «cambiare verso» rispetto al Renzi del 2012, lasciando chiusi nel cassetto i 25 documenti Pdf della spending review?

Se uno su dieci diventa povero

Se uno su dieci diventa povero

Tito Boeri – La Repubblica

Con la pubblicazione ieri da parte dell’Istat dei dati sulla povertà nel 2013, cominciamo ad avere un quadro abbastanza completo di cosa è successo alla distribuzione dei redditi in Italia in questa interminabile crisi. Bene chiarire subito che è stato uno shock senza precedenti nella storia repubblicana. Il reddito medio è calato in sei anni del 13 per cento, riportandosi ai livelli di un quarto di secolo fa. Per ritrovare un potere d’acquisto medio comparabile dobbiamo risalire al 1988, per capirci l’anno del disgelo fra Stati Uniti e Unione Sovietica, con la visita di Ronald Reagan a Gorbaciov nel freddo inverno moscovita. Bene che i politici e coloro che fanno informazione si ricordino di questo meno 13% nel commentare le prese di posizione delle rappresentanze di interessi che lamentano il calo dei redditi delle categorie da loro rappresentate. Nelle ultime settimane, ad esempio, abbiamo assistito ad un florilegio di comunicati che lamentavano il crollo dei redditi dei pensionati proprio mentre partiva la campagna di Cgil-Cisl-Uil per estendere ai pensionati il bonus di 80 euro del governo Renzi. Ma anche i dati più allarmanti (quelli rilasciati da Confesercenti) segnalavano un calo dei redditi dei pensionati inferiore al 10 per cento, quindi ben al di sotto di quello vissuto dall’italiano medio in questo periodo. Se poi si guardano i dati dell’Istat, ci si rende conto che quello dei pensionati è l’unico gruppo sociale i cui redditi siano addirittura aumentati almeno durante la prima parte della crisi, nella Grande Recessione del 2007-9, e come la fascia di età al di sopra dei 65 anni sia l’unica in cui la povertà non è aumentata in questi lunghi anni di crisi.

La cosa forse più sorprendente che si impara leggendo le statistiche (lo fa in dettaglio Andrea Brandolini su lavoce.info) è il fatto che in Italia, a differenza che in molti altri paesi, le disuguaglianze non sono aumentate, se non marginalmente, durante la crisi. C’è stato come uno spostamento verso il basso dell’intera distribuzione dei redditi, senza che le forti disuguaglianze che la caratterizzavano in partenza siano sensibilmente aumentate. Non ci sono oggi ragioni in più di quelle che c’erano prima della crisi per preoccuparsi di queste disuguaglianze. Ce ne sono invece molte di più per preoccuparsi della povertà assoluta, delle persone che vivono al di sotto di standard di vita decorosi, raddoppiate in sei anni, passando da meno di 3 milioni a più di 6 milioni. Lo ha certificato ieri l’Istat sulla base di dati sulla spesa delle famiglie, peraltro in coerenza con i dati sui redditi del rapporto Caritas.

Un altro luogo comune che viene fortemente messo in discussione da queste statistiche è quello sul ridimensionamento della cosiddetta classe media. Non c’è stata una polarizzazione dei redditi, con uno schiacciamento di chi sta in mezzo. Nel calo generalizzato dei redditi, la quota di reddito nazionale del 60 per cento di persone che hanno redditi superiori a quelli del 20 per cento più povero e inferiori a quelli del 20 per cento più ricco della popolazione è rimasta praticamente invariata dal 1985 ad oggi. C’è stato addirittura un incremento della percentuale di persone che appartengono alla classe media, definita come persone che guadagnano meno del doppio e più di tre quarti di chi si posiziona esattamente a metà nella distribuzione dei redditi. Questo perché non pochi far quanti erano inizialmente nelle parti alte della distribuzione sono scesi al di sotto del 200 per cento del reddito mediano, finendo così per approdare nella cosiddetta middle class. Questa al contempo ha perso famiglie che dalla classe media sono scivolate in condizioni di povertà.

Questi dati sono molto importanti per capire i problemi distributivi che stanno di fronte alla politica economica in Italia. Nel declino economico generalizzato del nostro paese e nelle due pesanti recessioni che abbiamo attraversato sembra esserci stato un arretramento complessivo, in cui tutti i decili della distribuzione del reddito hanno subìto un peggioramento assoluto. L’Italia è un paese in cui i problemi distributivi sono al contempo sempre più marcati e sempre più difficili da risolvere perché anche chi potrebbe “dare di più” ha già assistito a una erosione del proprio reddito e, dunque, in qualche misura si sente di avere già dato. È davvero il momento di preoccuparsi per la prima volta in Italia dei più poveri, degli ultimi degli ultimi, ignorati anche dai bonus di Renzi, che ha escluso i cosiddetti incapienti e i disoccupati. Bisogna offrire protezione di base anche a chi ha meno di 65 anni. Bene che chi ci governa sia consapevole del fatto che è illusorio pensare di costruirsi le proprie fortune elettorali con trasferimenti alla classe media. Oggi la classe media è troppo numerosa (si tratta di più di 34 milioni di persone) per i nostri vincoli di bilancio: nessun governo potrà mai attuare trasferimenti (o riduzioni di tasse) sufficientemente grandi per essere percepiti da chi appartiene alla middle class. Mentre la costruzione di un efficace paracadute contro la povertà per tutti costerebbe molto meno e verrebbe apprezzata anche dall’elettore medio. La lezione della crisi è infatti che anche chi ha redditi a metà tra i più ricchi e i più poveri rischia di precipitare nell’indigenza. È una lezione che capiscono molto bene le famiglie con figli minori: ne bastano due per avere un rischio di povertà doppio rispetto a quello dell’italiano medio. Ne sono perfettamente consapevoli anche gli elettori mediani, coloro che appena al di sopra dei 50 anni sono al contempo troppo giovani per la pensione e troppo vecchi per essere riassunti in caso di perdita del lavoro, per colpa di istituzioni, di regole contrattuali e regimi di contrattazione salariale che ci ostiniamo a non voler riformare.

Conquistateci tutti!

Conquistateci tutti!

Marco Valerio Lo Prete – Il Foglio

«Il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia per tutto il globo terrestre. (…) Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutit i paesi. Con gran dispiacere dei reazionari, ha tolto all’industria la base nazionale». Tutto vero, solo che con gran dispiacere dello stesso Karl Marx – che questo scriveva nel 1848 – la “presa di coscienza del proletariato” non ha distrutto l’economia di mercato. Resta dunque intatto, a quasi due secoli di distanza, l’effetto trasformativo del capitalismo globalizzato, magistralmente descritto dal filosofo di Treviri, e restano gli annessi sentimenti e le resistenze di stampo “reazionario”. Lo dimostra, periodicamente, l’atteggiamento allarmistico di pezzi dell’establishment e della stampa nazionale di fronte agli investimenti esteri in Italia. Gli emiratini di Etihad mettono sul piatto 1,2 miliardi (tra capitale e investimenti) per resuscitare Alitalia, compagnia di bandiera ridotta prima a carrozzone pubblico e poi di nuovo tramortita dalla gestione privata dei “capitani coraggiosi” col passaporto italiano? Allora ecco che arriva la minaccia di veto della Cgil che non accetta esuberi di sorta (980 su oltre 12mila dipendenti) dettati dal conquistatore straniero. La scorsa settimana Indesit, azienda di elettrodomestici, viene acquistata dalla statunitense Whirlpool? Apriti cielo, ecco pronta da pubblicare la lista dei marchi che “scappano” all’estero. Al punto che il presidente del Consiglio Matteo Renzi, steccando rispetto al coro lagnoso, ha detto al Corriere della Sera: «La considero un’operazione fantastica. Perché non si attraggono gli investimenti e poi si grida “al lupo”, riscoprendo un’autarchica visione del mondo che pensavamo superata».

I “reazionari” però insistono. Perché gli investimenti esteri, escludendo i casi in cui assumono le sembianze della cannibalizzazione utile solo a preservare monopoli altrui, hanno conseguenze perfino più profonde e innovatrici di quelle solitamente messe in conto, cioè Pil e posti di lavoro aggiuntivi. Che pure, in un paese a crescita anemica e col debito pubblico in aumento – ieri è stato raggiunto il record di 2.166,20 miliardi – non sarebbe poca cosa. Gli investitori esteri, in Italia, spesso portano infatti con sé sistemi produttivi più efficienti della media nazionale, modalità di gestione d’azienda che fanno più volentieri ricorso al capitale proprio e generano maggiore redditività, per non dire dello svecchiamento delle relazioni industriali. Capitalismo e concorrenza, dunque, fuori da certi canoni cui una parte del mondo produttivo italiano si è abituata.

«Dell’investimento estero tendiamo a offrire sempre e comunque un’immagine catastrofica – dice al Foglio Giorgio Barba Navaretti, ordinario di Economia politica all’Università degli Studi di Milano, autore per il Mulino di “Fiat Chrysler Automobiles – Così guardiamo con sospetto sia la Fiat che si espande all’estero e diventa Fiat-Chrysler, sia l’italiana Indesit che viene comprata dall’americana Whirpool». Fenomeno curioso che secondo Navaretti è dovuto al fatto che «non abbiamo un’idea chiara di cosa voglia dire “competere” oggi. Diventare globali, infatti, è parte di un processo ormai normale. Piuttosto dovremmo ragionare sul fatto che le nostre aziende, per una struttura di governance che non riesce a trasformarsi da “familiare” a “manageriale”, faticano a espandersi e quindi a emanciparsi per esempio dal solo capitale bancario. Perciò tendiamo ad avere più “prede” che “predatori”».

C’era da attenderselo, in un paese che è al 65° posto su 189 nella classifica mondiale in quanto a facilità di fare impresa. Meglio di noi Spagna (52° posto), Francia (38°) e Germania (21°). Tra inefficienza del sistema giudiziario, fisco laborioso e asfissiante, burocrazia onnipervasiva gli autoctoni barcollano, figurarsi col fardello aggiuntivo della cattiva congiuntura. Gli stranieri, al netto di occasioni troppo ghiotte per rifiutarle, si tengono alla larga: comprano titoli di Stato se Mario Draghi garantisce «whatever it takes», ma poi negli ultimi vent’anni indirizzano nel nostro paese soltanto l’1,6 per cento di tutti gli investimenti esteri realizzati nel mondo, contro il 3,5 per cento della Spagna e il 5,5 per cento della Francia. E noi, quando gli investitori esteri ci sono, come li accogliamo? «Come fossero delle sanguisughe che nel migliore dei casi succhiano il nostro sangue per pagare all’estero meno tasse sugli utili», dice al Foglio l’economista industriale Riccardo Gallo. Idea sbagliata, spiega, perché «i dati raccolti da Mediobanca su un campione rappresentativo delle medie e grandi imprese a controllo estero presenti nel nostro paese dimostrano che queste imprese creano più valore aggiunto delle italiane, hanno nell’insieme una redditività positiva, hanno pagato oltre 40 miliardi di tasse negli ultimi 10 anni e continuano a rischiare più capitale proprio di quanto non facciano le concorrenti italiane. Altro che sanguisughe». E poi «basta con questo senso di avvilimento!» esclama Gallo. «È datata la visione delle multinazionali straniere che si contrappongono alle microimprese italiane. Il processo produttivo è diventato davvero globale. Oggi dunque anche una microimpresa italiana, se primeggia nel suo campo, si può aggiudicare un anello di una lunga catena di montaggio».

Nelle scorse settimane Paolo Ciocca, economista di Bnl-Bnp Paribas, ha pubblicato una ricerca sulle 13.527 imprese a controllo estero residenti al 2011 in Italia (escludendo attività finanziarie e assicurative). Ha scoperto che hanno una dimensione media maggiore di quelle nazionali: 88,6 addetti contro 3,5. Che ogni loro singolo addetto crea il doppio del valore aggiunto rispetto a un addetto di un’azienda tutta italiana, il 20 per cento in più se il confronto si limita alle medio-grandi. Queste imprese poi investono in media il doppio di quelle a controllo italiano, anche in ricerca e sviluppo. Più produttività e più ricerca, nemmeno a dirlo, generano in media una redditività maggiore. Obiettivo perseguito perfino a costo di scuotere la foresta pietrificata delle relazioni industriali. «C’è il caso di Ducati che, una volta acquisita dai tedeschi, ha importato un modello più partecipativo di relazioni coi sindacati, ma anche di maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro – dice al Foglio Paolo Tomassetti, ricercatore di Adapt. E c’è il caso di Fiat che, uscendo dal contratto collettivo nazionale del settore metalmeccanico in occasione della fusione con Chrysler, ha spinto tutto l’indotto ad adeguarsi alle nuove esigenze». Nello svecchiamento delle relazioni industriali di stampo concertativo tra sindacati e Confindustria, dunque, «un effetto emulazione rispetto agli investitori esteri è sicuramente possibile». Difficile stupirsi, in definitiva, se di fronte al borghese col passaporto straniero s’ode solo la lagna dei “reazionari”.

Non basta il lavoro per garantisti un futuro

Non basta il lavoro per garantisti un futuro

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Non solo disoccupazione. Anche nel nostro Paese si stanno aggravando i fenomeni dei working poor e della in-work poverty. Il primo riguarda coloro le cui retribuzioni sono così basse che essi e le loro famiglie restano al di sotto della soglia di povertà. Il secondo coloro che, pur lavorando, rimangono ai margini e hanno alta probabilità di scivolare nella povertà o perché hanno compensi erosi da un’inflazione relativa, composta principalmente dai generi di prima necessità come abitazione e cibo, o perché sono a rischio di perdere l’impiego.
Secondo i dati della Commissione Europea, già nel 2012 il 29,9% della popolazione italiana era a rischio povertà ed esclusione sociale; tra i 28 dell’Ue ci superavano solo Romania e Grecia. Oggi, la proporzione supera il 30%. Sempre nel 2012, nell’Unione oltre il 12% degli occupati era da considerarsi working poor (con un aumento significativo rispetto al 9,3% segnato nel 2000): la crisi ha colpito particolarmente queste fasce sociali. In Italia la quota dei working poor (sul 10% degli occupati, prevalentemente i giovani) è inferiore alla media europea grazie in particolare alla bassa dispersione salariale prevista nei contratti nazionali di lavoro e a livelli salariali “mediani” contenuti e in linea con la media continentale. Sta crescendo pericolosamente, e velocemente, invece, la in-work poverty a ragione della riduzione delle ore lavorate (soprattutto per la cassa integrazione), della modesta intensità di lavoro all’interno delle famiglie (molto elevata la proporzione dei nuclei monoreddito), della scarsa efficacia dei meccanismi di protezione sociale nel ridurre il rischio di povertà. Questi temi, che dovrebbero essere centrali nell’azione di Governo, sono analizzati in dettaglio in uno studio commissionato dal Cnel al Centro di ricerche per i problemi del lavoro e dell’impresa dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. A differenza di altri lavori in materia, l’analisi contiene un ventaglio di proposte puntuali per contrastare il fenomeno tanto degli individui (riduzione del cuneo fiscale, introduzione di un salario minimo legale) quanto delle famiglie (come disegnare gli incentivi per fare entrare nella forza lavoro coloro che, delusi, la hanno abbandonata). Se ne mostrano vantaggi e limiti proprio per facilitare scelte da chi ha responsabilità politica.

Pagamenti alle imprese e bot, debito pubblico al nuovo record

Pagamenti alle imprese e bot, debito pubblico al nuovo record

Stefania Tamburello – Corriere della Sera

Ancora un record per il debito pubblico, che è un primatista eccezionale. Recede raramente e va sempre avanti: in maggio, secondo i dati della Banca d’Italia, è cresciuto di 20 miliardi arrivando a toccare i 2.166,3 miliardi. Una cifra altissima. Toccò la cifra di un miliardo di lire nel 1948 e dieci anni fa, a maggio del 2004, era a 1.471,804 miliardi di euro.

Fatte le riflessioni sulla pesantezza dei numeri, si deve osservare che i record, mese dopo mese, non devono sorprendere perché nella sostanza il debito si accresce perché le entrate dello Stato continuano ad essere inferiori alle sue spese facendo emergere un fabbisogno da finanziare. I titoli che lo Stato emette per raccogliere le risorse di cui ha bisogno rappresentano circa l’83% del debito e producono a loro volta interessi da pagare a chi li ha comprati che incidono sul bilancio e quindi finiscono per produrre altro debito.

In secondo luogo il dato più significativo per capire quanto il debito limiti l’azione di uno Stato è il suo rapporto con il Prodotto interno lordo che in Italia, vista la stagnazione seguita all’uscita dalla recessione, è molto alto, superiore al 132%. È questa percentuale, non il valore in assoluto, che fa dell’Italia, agli occhi degli investitori, un Paese a rischio, perché il reddito che produce non sarebbe in grado di far fronte ai debiti.
Di positivo c’è il fatto che l’Italia è un ottimo pagatore e che, se si esclude il periodo nero a cavallo tra il 2011 e il 2012, ha sempre goduto della fiducia degli investitori istituzionali e non ha problemi a collocare i suoi titoli sul mercato a costi che negli anni sono comunque diminuiti.
Come dice il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, «la via maestra per ridurre il debito è solo una crescita sostenuta». Per il resto, a meno di operazioni straordinarie finora solo immaginate, la strada per farlo calare passa necessariamente per avanzi primari di bilancio crescenti e quindi con una riduzione del fabbisogno e delle spese correnti, visto che le entrate – vedi le tasse – sono ai massimi e a loro volta frenano la crescita. Ieri la Banca d’Italia ha diffuso anche il dato sulle entrate tributarie, pari in maggio a 31 miliardi, in aumento del 2,9% rispetto allo stesso mese del 2013. Nei primi cinque mesi dell’anno le entrate sono invece cresciute dell’1,6% (2,2 miliardi).
Ogni italiano, quando nasce, ha già circa 30 mila euro di debiti. Ma chi ne è responsabile? In maggio, spiega il comunicato di Bankitalia, il debito è aumentato di 20 miliardi: l’incremento riflette per 5,5 miliardi il fabbisogno delle amministrazioni pubbliche e per 14,9 miliardi l’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro, pari a 92,3 miliardi contro i 62,4 miliardi di maggio 2013, che sono in pratica il cuscinetto di risorse che il ministero utilizza per le necessità correnti. In particolare, approfittando del buon andamento dei tassi di interesse dei primi mesi dell’anno, il Tesoro, spiegano a Via Venti settembre, ha fatto pre-funding, ha collocato cioè più titoli di quanto avesse bisogno per poter affrontare con tranquillità le più pesanti scadenze della seconda metà dell’anno. Ha messo insomma fieno in cascina per il periodo di maggior bisogno,approfittando delle condizioni favorevoli di approvvigionamento, sintetizzabili in un unico dato. Il costo medio dell’emissione dei titoli nei primi mesi del 2014 è stato pari all’1,58%, il minimo storico per l’Italia. Non per nulla la gestione dei titoli aggiunta agli effetti dell’apprezzamento dell’euro hanno contenuto l’incremento del debito per 0,4 miliardi.
Questo aumento di 20 miliardi, dice ancora il comunicato dell’Istituto di via Nazionale, è il risultato di un aumento di 20,9 miliardi del debito delle amministrazioni centrali e di una diminuzione di 0,9 miliardi di quello delle amministrazioni locali, con l’invarianza di quello degli enti previdenziali. Ma al di là della distribuzione tra centro e periferia, sul debito incidono – e la cosa è visibile nei dati definitivi del 2013 – anche il programma dei pagamenti dei crediti della Pubblica amministrazione alle imprese e la partecipazione dell’Italia ai piani di sostegno dei Paesi europei in difficoltà.

L’anno scorso, infatti, il fabbisogno pubblico da finanziare è stato pari a 78,8 miliardi a fronte di 74,2 miliardi nel 2012. Su quella cifra, però, hanno inciso le risorse destinate al sostegno finanziario dei Paesi dell’Eurozona in difficoltà, pari a 13 miliardi (erano stati 29,5 nel 2012 e 60 miliardi dal 2010 ad oggi), e i fondi per accelerare il pagamento dei debiti commerciali delle Pubbliche amministrazioni e dei rimborsi fiscali, pari a 21,6 miliardi, ma che dovrebbero arrivare a 40 miliardi entro il 2014. Interventi e cifre, questi, che hanno dunque appesantito il fabbisogno da finanziare e quindi il debito, anche se quest’ultimo, vista la sua ampiezza, sembra poter camminare da solo. Nel Documento d’economia e finanza il governo ha previsto che il rapporto debito-Pil, pari nel 2013 al 132,6% (al 129,1% al netto del sostegno finanziario ai Paesi europei), salga nel 2014 al 134,9% proprio, prevalentemente, per effetto dell’accelerazione del pagamento dei debiti commerciali delle Amministrazioni pubbliche. Guardando al numero assoluto del debito, l’83% è rappresentato da titoli di Stato che per circa il 30% sono detenuti da soggetti stranieri, o comunque non residenti in Italia. In giugno il 65,73% dei titoli in circolazione, con una vita media residua di 6,33 anni, erano Btp, seguiti lontanissimo, con il 7,85%, dai Bot.

Lo stato ci riprova: mette in vendita palazzi ed ex conventi

Lo stato ci riprova: mette in vendita palazzi ed ex conventi

Andrea Ducci – Corriere della Sera

All’Agenzia del Demanio lo considerano un banco di prova. Il tentativo di prendere il polso al mercato immobiliare per riavviare le annunciate dismissioni di palazzi e terreni pubblici, incontrando, finalmente, l’interesse di investitori e operatori del real estate. Così, l’Agenzia, guidata da Stefano Scalera, annuncia un nuovo bando per piazzare 15 immobili di Stato con l’obiettivo di incassare almeno 11 milioni di euro. L’operazione non è nuova e sottopone al mercato un elenco di beni in parte già noti agli addetti ai lavori. Ma tant’è. L’importante è rimescolare le carte e portare a casa più soldi possibile. A ricordarlo è la legge di Stabilità del 2014, che indica un gettito derivante dalle dismissioni pubbliche di almeno 500 milioni di euro all’anno. Allo stato attuale un mezzo miraggio.

Per avvicinarsi all’obiettivo il primo lotto di immobili resterà in offerta fino al 29 settembre. All’interno del pacchetto c’è un po’ di tutto e per tutte le tasche: appartamenti, uffici, palazzetti storici, ex conventi, terreni ed ex aree militari. Il pezzo più a buon mercato è una ex caserma a Triora (Imperia), per un paio di fabbricati e il terreno annesso la base d’asta è 430 mila euro. Per poco di più (494 mila euro) è possibile presentare un’offerta per un edificio intero (15 appartamenti) in una zona centrale di Trieste. L’immobile più costoso inserito nel bando è nella periferia sud di Verona, vicino alla zona artigianale. Nel dettaglio, si tratta di un’area di 3 mila metri e di un capannone con un valore di base d’asta fissato a 1,42 milioni. In Veneto si trova anche l’ex base missilistica di Ceneselli (Rovigo), chi acquista dovrà farsi carico della bonifica dei terreni e della rimozione dei beni mobili abbandonati dai militari sul terreno. In totale l’area è grande poco più di 8 ettari e comprende 42 fabbricati. Il prezzo di partenza per aggiudicarselo è 1,35 milioni.
Al Demanio, vista la taglia e la tipologia degli immobili, confidano molto sul mercato retail puntando sul pregio storico architettonico di alcuni beni. A Firenze e a Spoleto, per esempio, finiscono in asta due palazzine ad uso ufficio mentre a Caravaggio (Bergamo) è prevista la vendita all’incanto dell’ex Casa del Fascio (tre piani per un totale di oltre 1.200 metri di superficie). Un capitolo a sé fa l’elenco degli immobili inseriti nel progetto Valore Paese Dimore. L’intento dell’operazione è valorizzare castelli, conventi e strutture di pregio creando un modello integrato di ospitalità e attività culturali con la collaborazione delle amministrazioni locali. Non a caso il progetto, oltre al Demanio, vede coinvolti Invitalia, Anci (Associazione dei comuni), Ministero dei beni Culturali e Cassa Depositi e Prestiti.

In tutto sono circa 200 gli immobili individuati e inseriti nel portafoglio del progetto Valore Paese Dimore. Il valore aggiunto agli occhi degli investitori dovrebbe essere il corredo di «strumenti tecnici normativi e finanziari» riservato a questo genere di beni. Tradotto, vuol dire un percorso agevolato per la conversione in strutture turistiche e ricettive. È quanto previsto per il Forte Pianelloni (850 mila euro) a Lerici (La Spezia), un’ex fortificazione con tanto di terreni e antica cinta muraria, Casa Nappi (511 mila euro), un palazzetto storico nei pressi del santuario mariano di Loreto (Ancona), e l’ex convento seicentesco di S. Domenico (921 mila euro) nella città vecchia di Taranto. Nel caso di questi due ultimi immobili, però, qualcosa non ha funzionato. Tornano in asta dopo essere rimasti invenduti in occasione dei precedenti bandi.

Il debito pubblico vola a 2.166 miliardi

Il debito pubblico vola a 2.166 miliardi

Il Sole 24 Ore

Non sembra avere limiti il debito pubblico italiano. A fine maggio, secondo i dati pubblicati ieri dalla Banca d’Italia, il disavanzo ha raggiunto il nuovo record storico a 2.166 miliardi di euro, 20 miliardi in più rispetto al mese precedente. L’incremento, sempre in base a quanto riportato nel supplemento al Bollettino Statistico “Finanza pubblica, fabbisogno e debito”, riflette per 5,5 miliardi il fabbisogno delle Amministrazioni pubbliche e per 14,9 miliardi l’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro (pari a fine maggio a 92,3 miliardi e 62,4 miliardi a maggio 2013).

Nel dettaglio, e con riferimento alla ripartizione per sottosettori, il debito delle Amministrazioni centrali è aumentato di 20,9 miliardi, quello delle Amministrazioni locali è diminuito di 0,9 miliardi, mentre il debito degli Enti di previdenza è rimasto sostanzialmente invariato.

Il bilancio complessivo avrebbe potuto essere anche leggermente peggiore, perché l’emissione di titoli sopra la pari, l’apprezzamento dell’euro e gli effetti della rivalutazione dei BTp indicizzati all’inflazione (BTp-i) hanno contenuto l’incremento del debito per 0,4 miliardi.

Interessante l’analisi dello spaccato dei possessori dei titoli di Stato italiani, visto che ad aprile la quota in mano agli investitori non residenti è cresciuta a 671 miliardi di euro rispetto ai 655 del mese precedente: un’altra dimostrazione del ritorno di interesse dei fondi internazionali per i BTp di casa nostra.