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L’impresa in politica per contrastare la mediocrazia

L’impresa in politica per contrastare la mediocrazia

di Giuseppe Pennisi

Da circa un decennio due studiosi italiani trapiantati negli Stati Uniti, Andrea Mattozzi (del California Institute of Technology) e Antonio Merlo (della University of Pennsylvania), studiano la Mediocracy (“Mediocrazia- ossia il potere dei mediocri”) . Fondamentale il loro saggio uscito come  NBER Working Paper No. W12920. È un’analisi teorica , ma Mattozzi e Merlo non nascondono di averla basata sul “caso Italia”. La ricerca studia i metodi reclutamento iniziale nei partiti e costruisce un modello di reclutamento politico in cui i partiti sono in concorrenza con le imprese e le lobby dell’industria, della finanza, del commercio e via discorrendo. Anche ove i partiti potessero avere la prima di scelta (le imprese e le lobby pagano di più ed offrono carriere più stabili), decidono di reclutare i mediocri al fine di evitare che i loro leader siano minacciati, o meglio insidiati, dall’interno.

Secondo Francisco J. Gomes (London Business School), Laurence Klotikoff (Boston University) e Luis M. Viceira (Harvard Business School) ciò è all’origine del fenomeno che denominano “The Excess Burden of Government Indecision” (“Il peso eccessivo dell’indecisione dei Governi”) pubblicato come NBER Working Paper No. W12859. La mediocrità ha come conseguenza la tendenza a procrastinare quando si devono dare soluzioni a problemi di politica pubblica. Ciò genera un onere molto forte sulla collettività.

Un nuovo studio quantitativo abbraccia i Paesi OCSE. Ne sono autori Bernd Hayo e Florian Neumeier ambedue della Università di Marburg in Germania. È uscito nell’ultimo numero di “Economics and Politics” (Vol, 28, No. 1 2016, pp,55-78) con il titolo Political Leaders “Socioeconomic Background and Public Budget Deficits; Evidence from OECD Countries”. L’analisi si basa su dati di 21 Paesi OCSE nel periodo 1980-2008. In breve, lo status socio-economico dei decisori politici ad alto livello (Presidenti, Primi Ministri) ha un impatto sulle decisioni di bilancio. In sintesi, nei Paesi in cui i governi sono guidati da politici provenienti da “fasce basse” di reddito ed istruzione il rapporto deficit-Pil supera di 1,6 punti percentuali quello che prevale in Paesi guidati da imprenditori ad alto reddito dedicatisi alla  politica.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

«Ora investire in sicurezza»

«Ora investire in sicurezza»

di Massimo Restelli e Gian Maria De Francesco

Una delle prime reazioni dopo gli attacchi di Parigi e di Bruxelles è stata l’invocazione di una maggiore spesa pubblica nei settori sicurezza e difesa, spesso esposti a tagli da parte dei governi europei perché si tratta di costi facili da aggredire (l’ottusità di chi invoca la pace a tutti i costi ha semplificato il lavoro dei governanti). Ma davvero impiegare le nostre tasse per aumentare la nostra percezione di un ambiente sicuro e meno esposto alle insidie del terrorismo islamico può risolvere la questione quando l’Isis ha messo anche Internet tra i suoi obiettivi? La risposta è no e lo spiega bene Edward Marsh, direttore Aerospazio Sicurezza & Difesa della società di consulenza americana Frost & Sullivan.

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La qualità della spesa pubblica nelle regioni italiane

La qualità della spesa pubblica nelle regioni italiane

di Paolo Ermano

Con il rapporto Benessere Equo e Sostenibile, l’Istat da qualche anno sperimenta un diverso modo di sintetizzare la qualità della vita in Italia. Meno sintetico del PIL, ma per questo più ampio e ricco, il Rapporto BES propone, invece di un unico numero, dodici aree tematiche, dalla salute al paesaggio, dal benessere soggettivo al lavoro, ognuna analizzata tenendo conto di diversi indicatori, per fornire una lettura più articolata della nostra società. Dal punto di vista metodologico, dove possibile questi indicatori sono poi sintetizzati in un indice composito che permette anche di fare una classifica fra le regioni in ciascun settore analizzato.

Nel rapporto 2015, l’indice composito è proposto per le seguenti aree tematiche:

1) Salute
2) Istruzione e Formazione
3) Lavoro e conciliazione tempo libero
4) Benessere economico
5) Relazioni sociali
6) Sicurezza
7) Benessere soggettivo
8) Paesaggio e Patrimonio culturale
9) Ambiente

Sono esclusi, quindi: Politica e istituzioni, Ricerca e Innovazione, Qualità dei Servizi.

Indicativamente, questi nove indici sintetici si prestano a essere valutati alla luce della spesa pubblica sostenuta nelle singole regioni. Si potrebbe supporre che laddove la spesa risulti più alta si possano osservare valori più elevati nelle variabili considerate, cioè una qualità di vita migliore.

Da questo punto di vista i dati proposti dall’Agenzia per la Coesione Territoriale nei Conti Pubblici Territoriali (CPT) rappresentano un valido supporto d’indagine.

Purtroppo, data la composizione degli indici aggregati, non è sempre facile definire quali voci dei CPT siano da imputare al singolo indicatore. Per esempio, l’indicatore del Benessere Soggettivo è la sintesi di misure che hanno a che vedere con la soddisfazione per la propria vita, soddisfazione per il tempo libero e i giudizi sulle aspettative future: variabili sulle quali è impossibile determinare quale voce di spesa possa incidere e in quale misura.

Pertanto, partendo da queste nove aree tematiche è stato possibile compiere una valutazione appropriata fra l’indice composito e le voci di spesa dei CPT solo per cinque aree:

1) Salute
2) Lavoro
3) Sicurezza
4) Istruzione
5) Ambiente

Nonostante queste limitazioni, i risultati ottenuti propongono una riflessione importante sulla spesa pubblica in Italia. Emerge infatti come solo su alcuni ambiti (sicurezza e lavoro) una maggior spesa pubblica porti effettivamente a risultati migliori. In altri, come il settore istruzione, la spesa pro-capite non spiega i risultati ottenuti nelle singole regioni. Forse è il caso di riflettere in maniera meno ideologica sull’importanza di organizzare bene l’attività del settore pubblico.

Salute

Il tema della salute è alla base del benessere individuale e per questo è il primo dei temi affrontati dal rapporto Istat. Come già indicato, l’indice composito, che in tutti i temi discussi qui è costruito in modo da dare un voto più alto a chi ottiene i risultati migliori, tende a considerare sia dati direttamente influenzati dalla spesa sanitaria volta alla cura delle persone, sia dati relativi all’attività di prevenzione. Da questo punto di vista, la voce dei CPT relativa alle spese del comparto salute copre le stesse aree tematiche: cura e prevenzione. Confrontando la classifica ricavata dall’indice composito con la spesa regionalizzata non emerge chiaramente un legame fra spesa e risultati:

 

BES1

Ad esempio, la Liguria spende circa €200 pro-capite in meno della Lombardia raggiungendo circa gli stessi risultati in termini generali. Si confrontino poi i risultati di Emilia Romagna, Toscana e Friuli Venezia Giulia: con differenze intorno ai €400 pro-capite a testa, queste regioni ottengono sostanzialmente lo stesso risultato. Se la Toscana spendesse quanto l’Emilia Romagna dovrebbe indirizzare quasi €1,5 mld alla sanità in più, una cifra davvero ragguardevole, pari a quasi ¼ dell’attuale spesa. Senza parlare della Sardegna e Piemonte: a parità di spesa pro-capite, raggiungono posizioni molto diverse in classifica.

Da questi pochi indicatori, risulta chiaro che la qualità di un servizio sanitario non è solo una questione di risorse impiegate: in un periodo di restrizione della spesa pubblica, ragionare in maniera più strutturata su come migliorare il servizio diventa una priorità.

Lavoro

Anche il tema del Lavoro viene analizzato dal BES secondo quattordici variabili che vanno a comporre l’indice sintetico. Di queste solo una misura, la soddisfazione sul lavoro, riguarda una variabile sulla quale la spesa pubblica ha una scarso potere di influenza. Per il resto, la spesa pubblica sintetizzata nelle variabili lavoro dei CPT può essere ragionevolmente considerata la leva per migliorare gli indici del BES considerati.

BES2

 

La spesa pro-capite, è bene specificarlo, dipende da due voci dei CPT: quella relativa al lavoro e quella relativa alla previdenza. Per questo è influenzata dalla presenza di strumenti come la cassa integrazione che nel 2013 aveva un peso rilevante: le regioni con un tessuto produttivo più sviluppato sono quelle che più hanno beneficiato dello strumento di tutela dei lavoratori, e quindi sono le regioni con una spesa significativamente più elevata. Tuttavia le performance delle singole regioni dipendono, di nuovo, anche da altri fattori: per esempio, nelle prime dieci regioni troviamo solo regioni del Nord con livelli di spesa molto variegati e con risultati tutto sommato comparabili. Di nuovo, sembra emergere che più che la quantità della spesa, conti la qualità della spesa.

Colpisce il ritardo del centro-sud: Abruzzo e Lazio, con livelli di spesa pro-capite pari a quelli della Provincia di Bolzano e della Valle d’Aosta rispettivamente, ottengono performance di certo meno brillanti.

Sicurezza

Il tema della sicurezza in questi anni è diventato dirimenti in molti dibattiti politici, così come nella percezione della qualità di un territorio da parte dei cittadini. Anche per queste ragioni, l’indicatore Istat prende in considerazioni dati oggettivi, come il tasso di omicidi o di furti nelle abitazioni, e li incrocia con informazioni sulla percezione di sicurezza/insicurezza della popolazione. Entrambi i fattori sono influenzati nel medio lungo periodo dalla capacità d’intervento dello Stato, per quanto fattori culturali possano incidere in maniera sostanziale sul senso di sicurezza che una comunità può garantire ai suoi membri. Come mette in evidenza la tabella, il livello di spesa pro-capite nelle diverse regioni è, nuovamente, abbastanza variegato.

BES3

Paradossalmente, ad esclusione del Lazio, il cui costo pro-capite è di gran lunga il più elevato per la presenza delle Istituzioni più importanti del nostro Paese a Roma, tendenzialmente le regioni che spendono proporzionalmente di più in sicurezza presentano un valore composito più elevato.

Interessante notare, inoltre, come le regioni più problematiche, quelle in cui i dati sulla sicurezza sono i più modesti, sono collocate tanto al Nord quanto al Sud del Paese, indicando ad opinione di chi scrive come quei fenomeni di criminalità storicamente collocati in aree geografiche ben definite del Paese oramai non rappresentino più l’unica minaccia reale e percepita alla sicurezza delle persone; non è solo una questione economica, quanto demografica: molte delle regioni che ottengono scarsi risultati nell’indice composito non sono necessariamente le più ricche del Paese, ma sono quasi esclusivamente quelle a più alta densità abitativa.

Istruzione

Ecco un settore in cui ci si dovrebbe aspettare che chi spende di più riesce a ottenere risultati migliori, in un ambito che finalmente inizia a essere unanimemente considerato strategico sia per formare cittadini consapevoli, sia per creare le condizioni di sviluppo nella nuova economia della conoscenza.

Purtroppo, o per fortuna, così non è: spesa e risultati sembrano poco correlati:

BES4

Anche in questo caso l’indicatore analizza diversi aspetti: dal livello di alfabetizzazione, alla partecipazione all’alta formazione, alla capacità di dare opportunità a chi finisce il ciclo scolastico. Se impressiona la spesa pro-capite delle Provincie Autonome di Trento e Bolzano, zone i cui dati macroeconomici certificano sia una ripresa più vigorosa che nel resto del Paese, sia un’attenzione alla formazione di persone altamente qualificate più elevata che altrove, nelle altre regioni la spesa pro-capite è sostanzialmente simile, attestandosi poco al di sotto dei €1000 pro-capite. Eppure i risultati conseguiti sono diversi, con la Sicilia, ad esempio, che arriva ultima nella classifica con una spesa identica al Friuli Venezia-Giulia, posizionato in terza posizione, primo tra quelli con un livello di spesa in linea con la media italiana.

Quindi, di nuovo, il problema non è relativo alla risorse che mancano, quanto al modo in cui queste sono spese: e, parlando di educazione, una riflessione più seria rispetto alla semplice quantificazione delle dotazioni è d’obbligo per garantirsi gli investimenti in capitale umano necessaria rilanciare l’economia e la società italiana.

Ambiente

L’ultimo indicatore che abbiamo preso in considerazione è quello ambientale. Sempre più spesso ci troviamo a fare i conti con i danni derivati da un clima sempre più bizzoso e imprevedibile a causa del cambiamento climatico. Per rispondere a questo mutamento delle condizioni ambientali, investire sul territorio in termini preventivi diventa un elemento critico per garantire una gestione normale di eventuali eventi metereologici eccezionali.

In questi termini, l’indice composito riferito all’ambiente permette una prima valutazione della qualità di un territorio e degli investimenti fatti per garantire una sua stabilità ecologica.

bes5

Di nuovo, riemerge la grande varietà negli impegni di spesa: abbiamo regioni dove si spendono meno di €100 a testa e regioni in cui la spesa pro-capite supera di molto questa soglia. Tanta varietà per un territorio così complesso non sembra essere una risposta ottimale al problema della qualità dei territori. E colpiscono i risultati non certo lusinghieri di regioni, come ad esempio la Toscana, dove il territorio rappresenta un asset chiave per lo sviluppo economico del turismo e per la preservazione di un patrimonio artistico-culturale unico al mondo. Lo stesso potrebbe dirsi per la Regione speciale Sicilia.

Forse il regionalismo in ambiti come questi, in cui si deve preservare lo spazio e quindi l’identità di una comunità, dovrebbe essere ripensato in un’ottica di maggior accountability dell’azione di governo. Oramai sembra un obbligo più che una delle possibili proposte.

Varrebbe la pena andare controvento?

Varrebbe la pena andare controvento?

di Giuseppe Pennisi*

Nelle due ultime settimane, la banche centrali dell’eurozona, degli Stati Uniti e del Giappone hanno continuato a seguire la stessa strategia di tassi d’interesse bassi od addirittura negativi. Lars O. Svensson dell’Università di Stoccolma esamina il costo di “andare contro il vento” (Leaning Against the WIND- LAW è l’acronimo inglese) nel paper “An Analysis of  Leaning Against the Wind: Are Cost Larger Also with Less Effective Macro-Prudential Policy?” – Un’analisi dell’andare contro il vento: i costi sono maggiori con una politica macroprudenziale meno efficace?) messo on line tempestivamente come NBER Working Paper No. w21902.

Andare contro vento o LAW vuole dire una politica monetaria caratterizzata da tassi d’interesse più alti degli attuali. I suoi benefici principali sarebbero una minore crescita del debito pubblico reale ed una minore probabilità di una nuova crisi finanziaria ma avrebbe costi in termini di un più elevato tasso di disoccupazione ed una maggiore inflazione: Come è noto , tra gli obiettivi principali dell’eurozona ci sono un abbassamento della disoccupazione ed un aumento, invece, di un’inflazione rasoterra. I costi, secondo Svensson sarebbero ancora maggiori in caso di crisi. Tali costi addizionali di “andare controvento/LAW” sono stati in gran misura ignorati dalla letteratura. Il paper include stime empiriche: esse suggeriscono che in caso di crisi, i costi sarebbero nettamente superiori ai benefici anche in caso di una politica monetaria non neutrale e tale da incidere sul debito reale in via permanente. Inoltre, una politica macro-prudenziale meno efficace ed un boom del credito risulterebbero in un costo ancora maggiore.

Quindi, andare controvento/LAW non sarebbe la ricetta appropriata, anche in termini di riduzione del debito.

Un’indicazione alternativa viene proposta da Antonio Afonso e Marcello Geada Alcantara dell’Università di Lisbona nel lavoro Foreign Debt Crisis and Debt Mutualizsation (ISEG Economics Department Working Paper No. WPxx/2016/DE/UECE). Altro paper divulgato in questi giorni. A loro avviso la strada maestra per uscire dalla trappola del debito pubblico consiste nella emissione di titoli di differente classe o colore: quelli blu coprirebbero il debito sino al 60% del Pil, quelli gialli debito tra il 60% ed il 90% del Pil e quelli rossi debito superiore al 9% del Pil. Anche ove non ci fosse una formale “mutualizzazione” del debito dell’eurozona, pochissime banche centrali nazionali potrebbero emettere titoli blu, ma gli Stati dell’area dell’euro avrebbero un forte incentivo a poter emettere titoli gialli con gli altri Statu dell’eurozona, specialmente se per essere collocati i “loro” titoli nazionali richiedono alti rendimenti.

Tuttavia, non bastano le misure monetarie. Occorre privatizzare e liberalizzare.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Le elezioni Usa, a metà del ciclo delle Primarie

Le elezioni Usa, a metà del ciclo delle Primarie

di Pietro Masci*

Con il voto del 15 marzo in Florida, Illinois, Missouri, North Carolina e Ohio – dopo che avevano votato Iowa, New Hampshire, South Carolina, Nevada, Alabama, Alaska, Arkansas, Georgia, Massachussets, Minnesota, Oklahoma, Tennessee, Texas, Vermont, Virginia, Kansas, Kentucky, Louisiana, Maine, Hawaii, Idaho, Washington DC, Wyoming – oltre la metà  degli stati ha espresso le sue preferenze.

Nel campo repubblicano, Donald Trump ha finora ottenuto 678 delegati, Ted Cruz 423, Marco Rubio (che ha sospeso al sua campagna presidenziale dopo la sconfitta nel suo stato, la Florida) 164, John Kasich 143.

Nel campo democratico, Hillary Clinton ha finora ottenuto 1614 delegati, Bernie Sanders 856. I voti comprendono 573 c.d. super-delegati (scelti dal partito), 467 dei quali si sono schierati per Clinton e 26 per Sanders.

I delegati necessari per ottenere la nomina del partito repubblicano sono 1237 e i delegati ancora disponibili nelle prossime primarie sono 1134. Pertanto Trump (ottenendo circa il 50% dei delegati ancora disponibili), Cruz (ottenendo circa il 75% dei delegati disponibili) e teoricamente anche Kasich possono raggiungere il numero di delegati necessario per ottenere la nomina del partito repubblicano come candidato alla Presidenza.

Nel caso del partito democratico, i delegati necessari per ottenere la nomina sono 2383, e i delegati ancora disponibili nelle prossime primarie sono 2295. Pertanto la nomina è alla portata di Clinton, ma è piu’ difficile da raggiungere per Sanders.

L’elemento comune ai due partiti è che tutti i candidati attualmente in corsa hanno dichiarato che intendono arrivare ai rispettivi Congressi che si terranno il 18-21 luglio a Cleveland per i repubblicani,e il 25- 28 luglio a Filadelfia per i democratici. Cio’ significa che i candidati non ritengono chiusa la corsa alla nomina –malgrado il chiaro vantaggio rispettivamente di Trump e Clinton. Si apre la possibilità  – maggiormente per i repubblicani, ma anche per i democratici – di arrivare ai Congressi senza che nessun candidato abbia raggiunto un numero di delegati sufficiente ad assicurare la nomina.

Tale situazione è legata all’incertezza che circonda i candidati  principali.

Trump deve fare i conti con l’insofferenza di gran parte dell’apparato del partito repubblicano che osteggia la sua candidatura. Mitt Romney – il candidato republicano che si era presentato nel 2012 contro Obama – ha affermato che Trump è un “truffatore”. Addirittura, Romney ha dichiarato che esiste una competizione tra “Trumpismo” e “Republicanismo” e che il Trumpismo è associato a caratteristiche che non appartengono al Partito Repubblicano (razzismo, misogenia, bigotteria, volgarità e violenza). Altri autorevoli rappresentanti del partito repubblicano si muovono tra due opzioni: fermare Trump prima del Congresso di Cleveland (ed in tale prospettiva Cruz emerge, anche se con una certa riluttanza, come il candidato del partito), o addirittura creare un terzo partito. A tali impostazioni, Trump risponde che se si tenterà di fermare la sua nomina al Congresso, si rischia di scatenare sommosse.

Quanto a Clinton, esistono due circostanze che possono influenzare la sua nomina: la presenza dei c.d. super-delegati designati dal partito che potrebbero determinare la scelta del candidato presidenziale a suo favore, rafforzando l’immagine di un sostegno da parte dell’apparato, ma non dei cittadini. Tuttavia, l’aspetto piu’ significativo è la possibilità che Clinton venga rinviata a giudizio per l’utilizzo – durante il periodo nel quale era Ministro degli Esteri sotto la Presidenza di Obama – di un sistema privato di posta elettronica e pertanto non potrà partecipare come candidato.

Il processo del voto americano per l’elezione del Presidente è molto lungo, pieno di sorprese e stavolta come non mai. Durante il percorso, la maggioranza dei candidati si perde (ad esempio i candidati repubblicani erano inizialmente 17); coloro che rimangono si modificano, si affinano, articolano meglio il loro messaggio. La campagna presidenziale negli Stati Uniti consente di analizzare a fondo le posizioni dei candidati – ed il loro passato – e verificare l’impatto che determinate proposte ha sulle diverse componenti della popolazione (ad esempio l’elettorato femminile, quello etnico, incluso i c.d. latinos) oltre che nei diversi stati.

Però, il rischio rimane che si verifichi – o si accentui – la polarizzazione e che non emerga un candidato in grado di unire il paese. Le divisioni aumentano con la recente nomina da parte del Presidente Obama di Merrick Garland come giudice della Corte Suprema per sostituire il conservatore Antonin Scalia. La maggioranza dei senatori repubblicani, che controllano il Senato che decide sulle nomine, ha già affermato che non prenderà  in considerazione la nomina di Garland.

Gli Americani comunque si rendono conto della grande importanza di queste elezioni e stanno accorrendo numerosi a votare, come mai in passato, ad eccezione del 2008 (elezione del Presidente Obama, ugualmente storica). Tuttavia, rispetto al 2008, la situazione si è ribaltata: sono i repubblicani che accorrono più numerosi alle urne nelle primarie.

In tale contesto, Trump e Sanders – in modi diversi – stanno portando nuovi elettori alla politica. Sanders attrae i giovani – i c.d. Millenials – e una parte di coloro che sono stati penalizzati dalla globalizzazione e dalla crisi economica e finanziaria. Trump richiama gli indipendenti che preferiscono come rappresentanti persone comuni e con esperienza e non i politici; gli attuali c.d. Reagan democrats – i democratici di Reagan (elettorato democratico che negli anni 80’ voto per Reagan) – vale a dire i colletti blu, lavoratori che incontrano varie difficoltà economiche e sociali derivanti dalla globalizzazione e dall’emigrazione. Questo fenomeno è complesso e non è unidirezionale, ma trasversale nel senso che anche Trump attrae i giovani e anche Sanders attrae i democratici di Reagan e gli indipendenti; e indica che Trump e Sanders sono apprezzati da cittadini che non presentano significative differenze e che sono rimasti, in passato, ai margini della politica e probabilmente non hanno votato.

Una parte significativa dell’elettorato percepisce di essere danneggiata dall’emigrazione; dagli accordi commerciali di libero scambio che accellerano la de-localizazzione delle imprese; e dalla crisi economica e finanziaria. Molti americani sono impauriti dal terrorismo e delusi dall’incerta politica estera del governo, sopratutto nel Medio Oriente. Inoltre, mentre circolano numerosi studi economici, e sociali che descrivono la situazione drammatica degli emigranti e dei rifugiati, non si trova un’analoga attenzione sopratutto sotto il profilo economico e politico verso quei segmenti della popolazione che hanno pagato – e pagano – per gli eventi sopra indicati.

Alcuni analisti identificano nella rabbia la caratteristica comune di questi elettori. In effetti, una buona parte dei cittadini americani che si dirigono verso Trump e Sanders sono delusi e arrabbiati (la tentazione di utilizzare un altro aggettivo piu’ colorito e’ grande) per i bassi salari, la disoccupazione o l’occupazione parziale, i bassi salari, le disuguaglianze, l’insicurezza,  l’incapacita’ degli Stati Uniti di operare con efficacia sulla scena internazionale; e ritengono i politici e gli apparati burocratici i maggiori responsabili.

Mark Muro and Siddharth Kulkarni del Metropolitan Policy Program della Brookings Institution pongono in relazione la rabbia crescente di una quota importante dell’elettorato Americano con la caduta dell’impiego nell’industria manifatturiera negli ultimi 35 anni. Il grafico che segue visualizza il declino dell’impiego nel manifatturiero negli Stati Uniti determinato principalmente da de-localizzzione, globalizzzione, e automazione.

graficoUSA

Trump e Sanders prestano attenzione a questa parte dell’elettorato e rappresentano le novità nella politica americana. Sanders parla apertamente che il denaro compra le elezioni; propone il finanziamento pubblico dei partiti (un’affermazione che equivale a una bestemmia negli Stati Uniti); non rinnega le parole positive che negli anni 80’ ha avuto nei confronti di Fidel Castro e Ortega (pur riconoscendo che sono due dittature da non imitare).Trump polemizza aspramente e con un linguaggio espressivo con la television, la stampa, e i partiti. Peraltro il comportamento vistoso e le affermazioni e immagini iperboliche di Trump, se da una parte accentuano l’opposizione dell’apparato del Partito Repubblicano, dall’altra gli garantiscono il sostegno dei cittadini che si ribellano all’inazione dei “politici“. La principale ragione del sostegno a Trump è: “non è un politico e ci si puo’ fidare di lui”. Anche se non nella stessa misura, anche Sanders – senatore indipendente, non democratico, del Vermont – è percepito come un outsider.

I principi di questi due candidati sono certamente diversi: Trump s’ispira alla competizione aspra; Sanders alla realizzazione di opportunità per tutti. Tuttavia, le loro posizioni non sono completamente all’opposto, come si potrebbe credere (e per inciso questa è la ragione per la quale l’apparato del Partito Repubblicano ritiene che Trump snaturi il partito). Entrambi si oppongono alle guerre (ma Trump dichiara che aumenterà le spese militari); entrambi sono contrari al ruolo del denaro nella politica e alla decisione della Corte Suprema che consente contributi illimitati e anonimi (anche se Trump è meno specifico di Sanders su questo tema); entrambi si oppongono agli accordi di libero scambio. Trump e Sanders divergono sostanzialmente sulle politiche dell’emigrazione. Trump ripetutamente dichiara che con lui gli Stati Uniti faranno sempre affari vantaggiosi in ogni campo (e sopratutto nel commercio con paesi come Cina, Messico, Corea) e torneranno grandi e vincitori; incessantemente proclama che costruirà un muro al confine tra Stati Uniti e Messico (e il Messico pagherà  il costo della costruzione); deporterà gli immigrati illegali; e apertamente afferma che non consentirà ai mussulmani di entrare, almeno per un certo tempo, negli Stati Uniti. Sanders, invece, intende introdurre una nuova legge sull’immigrazione e permettere agli illegali che sono negli Stati Uniti (oltre 11 milioni) di poter perseguire la cittadinanza americana, naturalmente pagando le imposte.

Se eletto, Trump dichiara che eliminerà le riforme di Obama, inclusa la legge sulla copertura assicurativa per le malattie; e annullerà gli ordini esecutivi dell’attuale Presidente (ad esempio quello con il quale è stato ratificato l’accordo nucleare con l’Iran). D’altra parte, Sanders propone di aggiustare le disparità attraverso la tassazione fortemente progressiva.

Trump e Sanders sono accomunati dal non dipendere dai contributi dei grandi gruppi d’interessi che accentua l’indipendenza dei due candidati: Trump finanzia la campagna presidenziale con i suoi soldi; Sanders con milioni di piccoli contributi.

A proposito della base che appoggia Trump e Sanders, viene in mente Ralph Nader- un ottantenne attivista politico di sinistra e autore concentrato nell’area della protezione del consumatore, dell’ambiente e della democrazia effettiva – che nel 2000 si presento’ alle elezioni presidenziali come terzo candidato. La presenza di un candidato di sinistra come Nader tolse voti al candidato democratico Gore e non gli consenti – più del pasticcio della conta dei voti in Florida – di vincere l’elezione presidenziale contro Bush. Nel 2014, Nader ha scritto un libro – Unstoppable: The Emerging Left-Right Alliance to Dismantle the Corporate State – L’inarrestabile alleanza della destra e della sinistra contro lo stato corporativo al servizio delle grandi imprese. Nel libro, Nader s’incentra sulla reazione del pubblico americano – di destra e sinistra – contro l’apparato di potere. Le aree di comune interesse di destra e sinistra sono principalmente le politiche in tema ambientale, energetico, industrial-farmaceutico e militare, determinate dallo strapotere delle grandi imprese che controllano le scelte dei politici. Nader sostiene che è nell’interesse dei cittadini di diverse etichette politiche ad unirsi nella lotta contro lo stato corporativo che, se lasciato incontrollato, sarebbe portato a ignorare la Costituzione, eliminare i diritti fondamentali e le libertà del popolo Americano.

L’intuizione di Nader di un’alleanza tra destra e sinistra – che può apparire tanto improbabile – si può realizzare in un confronto a novembre tra Trump e Clinton. In effetti, nel caso la competizione presidenziale sia tra Trump e Clinton – che sembra lo scenario più probabile – non è affatto inconcepibile che i sostenitori di Sanders durante le primarie votino per Trump nell’elezione di novembre piuttosto che per Clinton, riversando verso Hillary l’avversione contro l’apparato dei partiti, i politici senza passione e autenticità. Cominciano a circolare interviste e piccole inchieste che sembrano confermare che il passaggio di elettori da Sanders sconfitto nelle primarie al candidato presidenziale Trump rappresenti una possibilità concreta. E la strategia della campagna di Trump – piena di generalità e slogans e con poche specifiche indicazioni delle politiche proposte – sembra perseguire l’obiettivo di attrarre vecchi e nuovi elettori insoddisfatti.

Queste considerazioni fanno sorgere una riflessione: può Trump vincere l’elezione presidenziale sostanzialmente con i soli voti dei “bianchi” (religiosi sopratutto evangelisti, conservatori, libertari, indipendenti, e insoddisfatti, vecchi e nuovi)? Le affermazioni di Trump sul muro al confine con il Messico e gli attacchi ai mussulmani – intercalati da rassicurazioni del tipo: “ho tanti amici ispanici e mussulmani” – non sembrano spianare la strada per costruire una larga e diversa coalizione e per evitare una spaccatura nel Paese.

D’altro canto, se la strategia di Trump non funzionasse, e Clinton venisse eletta, sarebbe in grado la prima donna Presidente degli Stati Uniti di superare il significativo clima di sfiducia che comunque l’accompagna?  E creare coesione tra le diverse componenti del Paese?

La domanda di fondo rimane la stessa: sarà il prossimo Presidente degli Stati Uniti in grado di ricompattare il paese? Naturalmente, la risposta a tale interrogativo ha implicazioni non solo per la politica interna, ma anche per la politica estera degli Stati Uniti.

*Esperto di politiche pubbliche, residente negli Stati Uniti; docente Istituto Studi Europei, Roma

Massimo Blasoni a Tagadà – La7

Massimo Blasoni a Tagadà – La7

Il presidente del Centro Studi ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, è intervenuto a “Tagadà”, su La7, ospite di Tiziana Panella. In studio, insieme a lui, Alessandro Cecchi Paone, Filippo Civati e Ferruccio De Bortoli.

Il rischio che i giovani vadano in pensione con cifre miserevoli è purtroppo fondato. Non solo, l’età della pensione…

Posted by Massimo Blasoni on Friday, March 18, 2016

Lo spirito d’impresa? Accettare le sfide

Lo spirito d’impresa? Accettare le sfide

Massimo Blasoni – Metro

In che misura il coraggio di affrontare sfide nuove e dall’esito (anche occupazionale) non scontato sono utili per la produttività? Senza troppo filosofeggiare, credo sia inconfutabile l’assunto per cui non c’è impresa senza rischio. L’esigenza di competere per sopravvivere o per sviluppare è un fattore stimolante. Non è bene essere temerari, però nemmeno il restare statici. Il mercato genera selezione, obbliga a competere. E l’imprenditore deve essere veloce, per lui il fattore tempo è tutto. Non è così nella Pubblica Amministrazione, che governa la politica più che esserne governata. In questo settore è maturato nei decenni un approccio ai temi che non è quello dei mercati e che in sanità si definisce col termine “medicina difensiva”: la verifica di regolarità diventa ossessiva e l’obiettivo di chi deve produrre l’atto amministrativo non è la tempestività della risposta ma l’autotutela.

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Lavoro: l’impatto dell’esonero contributivo,<br /> regione per regione

Lavoro: l’impatto dell’esonero contributivo,
regione per regione

Nel 2015 in Italia, tra nuove assunzioni e trasformazioni di contratti a tempo, sono stati attivati 2milioni501mila rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Il 63,3% del totale di questi contratti è stato assistito dall’esonero contributivo triennale previsto dal governo. Un dato, quello rilevato dal Centro Studi “ImpresaLavoro” sui numeri resi noti dall’Inps, che se analizzato su base regionale mette in luce alcune interessanti differenze tra i territori.

Scomponendo il dato a livello locale, infatti,  tra nuove assunzioni e variazioni contrattuali di rapporti di lavoro esistenti (le cosiddette trasformazioni), Umbria (68,51%), Friuli Venezia Giulia (68,12%) e Sardegna (67,60%) sono le tre regioni italiane che hanno – in percentuale – beneficiato maggiormente delle decontribuzioni governative. Mentre Lombardia (54,88%), Toscana (56,12%) e Sicilia (58,31%) chiudono la classifica, con numeri leggermente inferiori alla media nazionale.

In valori assoluti è la Lombardia la regione in cui si è registrato un numero maggiore di esoneri contributivi (264.463), seguita dal Lazio (175.735), dalla Campania (144.747), dal Veneto (118.668) e dall’Emilia Romagna (114.795).

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Concentrando l’analisi dei dati sulle sole nuove assunzioni, invece, è la Sardegna (67,37%) che questa volta precede sia Umbria (65,46%) che Friuli Venezia Giulia (64,51%) e si attesta come il territorio che maggiormente ha fatto ricorso alla decontribuzione prevista dal Governo. Sopra la media nazionale del 57.7% ci sono anche Calabria (63,95%), Molise (63,46%) e Lazio (63,40%), la prima delle grandi regioni.  Seguono Basilicata (61,99%) Piemonte (61,24%) e Puglia (61,19%). Tre regioni hanno un incidenza degli incentivi sul totale dei nuovi contratti fissi inferiore alla media nazionale. Si tratta del Veneto (57,61%), della Toscana (50,87%) e della Lombardia (48,63%).  Dal punto di vista dei valori assoluti è ancora la Lombardia, con 177.235 contratti la regione in cui sono stati attivati il maggior numero di nuovi rapporti a tempo indeterminato assistiti dalla contribuzione pubblica. Seguono il Lazio con 139.463 contratti e la Campania con 127.831.

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Analizzando, infine, la percentuale di esoneri contributivi sul totale delle trasformazioni (da contratti a termine a contratti a tempo indeterminato), in testa alla graduatoria regionale si piazza la Val d’Aosta (82,65%), davanti a Emilia Romagna (79,61%) e Piemonte (78,62%). Con 87.228 trasformazioni assistite (il 74,29% del totale), stavolta i numeri della Lombardia sono leggermente superiori alla media nazionale (73,84%). Mentre, pur restando al di sopra del 60%, le regioni con la percentuale più bassa di trasformazioni assistite dalla decontribuzione sono Basilicata (60,80%), Calabria (60,81%), Sicilia (61,83%) e Campania (62,87%).

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Il venir meno dei generosi incentivi governativi (ridotti per quest’anno da 8.060 euro ad assunzione per tre anni ad un massimo di 3.250 euro su base annua per due anni) si è riflesso immediatamente nel calo del 39,5% dei contratti a tempo indeterminato attivati a gennaio di quest’anno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Questo calo assume contorni diversi a seconda delle regioni esaminate. In Friuli Venezia Giulia e Molise, ad esempio, la contrazione è contenuta e si ferma, rispettivamente, al 23,2% e al 20,3% con un calo di contratti fissi di 580 e 121 unità. Marcato, invece, il rallentamento in Basilicata dove i nuovi contratti a tempo indeterminato più che si dimezzano (-57,7%) passando dai 1.436 di gennaio 2015 ai 608 di gennaio 2016. Dinamica simile a quella della Valle d’Aosta (-56,6%), Abruzzo (-52,6%) e Umbria (-52,2%). Tra le regioni più grandi è l’Emilia Romagna quella che registrare la contrazione più netta, -43,3% di contratti a tempo indeterminato rispetto a gennaio 2015 (-6.216 attivazioni). Segue il Lazio (-43,1%) e la Toscana (-40,8%). Rallentano, ma sotto la media nazionale, la Lombardia (-39%, pari a 15.852 attivazioni in meno), il Veneto (-36,5%, pari a 5.019 attivazioni in meno) e la Campania (-35,7%, pari a 5.789 attivazioni in meno).

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Blasoni: “Un fondo di garanzia per stimolare le imprese”

Blasoni: “Un fondo di garanzia per stimolare le imprese”

Massimo Blasoni – Libero

Alla luce dei nuovi interventi della Banca Centrale Europea ad incrementare la già rilevantissima liquidità immessa da oltre un anno nell’economia, forse le cose potranno cambiare. Ad oggi però in Italia gli effetti, con riferimento all’erogazione del credito alle famiglie e soprattutto alle imprese, sono stati modesti. Un dato confermato da Bankitalia anche a gennaio: si è registrata a inizio 2016 una variazione percentuale negativa, seppur minima, su base annua, dello 0,1%.

Nel report dell’istituto di Palazzo Koch è interessante la scomposizione con riferimento alle rilevazioni sui prestiti alle famiglie e a quelli alle società non finanziarie, in altre parole le nostre imprese. L’erogazione del credito alle famiglie a gennaio è cresciuta dello 0,8% su base annua. È ben diversa la situazione per le società non finanziarie. Come succede ormai da più di un quinquennio, l’anno è iniziato con un -0,9% che fa riflettere su quanto sia difficile per le nostre imprese ottenere credito. Va molto meglio alle attività produttive dei principali competitor europei.

I motivi del perdurare del credit crunch in Italia sono in parte imputabili alla debolezza delle nostre banche. Queste, il dato è di gennaio, hanno bruciato capitalizzazione in borsa per oltre 185 miliardi rispetto ai livelli pre-crisi e sono condizionate da più di 200 miliardi di sofferenze lorde. Certo non possiamo chiedere alle nostre banche di finanziare imprese prive dei necessari requisiti. Tuttavia non è differibile l’obiettivo di garantire nuova liquidità al sistema produttivo. Vi è grande sfiducia nelle obbligazioni e la nostra borsa non pare un’alternativa per garantire sufficiente sviluppo al sistema imprenditoriale. Soprattutto alle aziende di non grandi dimensioni. Sono solo 356 le imprese quotate alla Borsa Italiana ed è difficile pronosticare a breve un esponenziale allargamento di questa platea.

Perché allora non ipotizzare un fondo di garanzia nazionale per gli investimenti delle imprese? Il bail in impedisce i salvataggi di Stato, non altre forme di partecipazione. Certo si tratta di un’operazione complessa e i vincoli europei e di debito non sono pochi. È necessario però tentare. Le imprese italiane sono già gravate da costi dell’energia, imposizione fiscale e deficit di infrastrutture che ne condizionano la competitività. Senza credito per nuovi investimenti non ci saranno né ripresa né nuova occupazione.

Crisi e salari in Italia

Crisi e salari in Italia

di Giuseppe Pennisi*

Quale è stato l’andamento dei salari in Italia da quando è iniziata la crisi? Gran parte dell’informazione giornalistica è necessariamente di parte in quanto basata su dati parziali in cui spesso il breve periodo viene estrapolato in medio e lungo termine.

Quindi è importante un lavoro della Banca d’Italia on line dalla fine della prima settimana di marzo: l’Occasional Paper No 289 Wages and Prices Setting in Italy During the Crisis: The Firms Prespectives. Ne sono autori Francesco D’Amuro, Silvia Fabiani, Roberto Sabbatini, Raffaella Tartaglia Porcini, Fabrizio Venditti, Elena Viviano e Roberto Zizza – tutti del servizio studi dell’istituto di Via Nazionale. Un lavoro di équipe che si basa su due indagini condotte del network sulle dinamiche dei prezzi e dei salari del Sistema Europeo di Banche Centrali (Sebc) , una “rete”, quindi di economisti dei servizi studi delle Banche centrali nazionali dell’eurozona tutti impegnati in ricerche su temi analoghi, utilizzando metodi uniformi, nonché metodi di rilevazioni e questionari armonizzati per analizzare le più importanti trasformazioni nei mercati del lavoro nazionali. La “rete” ha condotto due indagini empiriche (Stato per Stato) nel 2007 e nel 2009 ed una terza nel 2013, i cui risultati sono disponibili da pochi mesi. Il lavoro pubblicato on line riguarda solamente l’Italia. È auspicabile che vengano diffusi anche gli altri studi Paese.

Il lavoro prende l’avvio da una considerazione specifica all’Italia: il debito sovrano ha colpito severamente l’economia italiana, causando un collasso della domanda interna, un aumento dell’incertezza e difficoltà di accesso alla finanza internazionale. Le imprese hanno risposto riducendo l’input di lavoro (aggiustandone i margini sia di intensità – orari di lavoro – sia di livello di occupazione) piuttosto che riducendo i salari nominali o reali. Tuttavia, le trattative e la prassi di determinazione delle retribuzioni sono state influenzate dal quadro economico generale: la proporzione di lavoratori in imprese che sono ricorse a blocchi dei salari, ed anche a riduzioni, è gradualmente aumentata dal 2010 sino a riguardare il 17% dei lavoratori dipendenti nei settori presi in esame dall’inchiesta. Inoltre, numerose imprese hanno adattato le loro strategie di prezzi aggiustandoli più frequentemente che nel passato (spesso abbassandoli a ragione di una maggiore concorrenza).

Le nuove tecnologie  inducono a prospettare un aumento della produttività del lavoro e, quindi, dei salari reali? Non sembra suggerirlo l’esperienza americana, quale analizzata da Chad Syverson delle Booth School of Business della Università di Chicago nello studio Challenges to Mismeasurament: Explanation for the US Productivity Slowdown.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro