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Assunzioni e autopromozioni, così la scuola si boccia da sola
Redazione Edicola - Opinioni davide giacalone, istruzione, la buona scuola, libero, scuola
Davide Giacalone – Libero
Due torti non fanno un’istituzione. Quelli che fischiano e scioperano contro la riforma, perché ci vedono la fine della scuola pubblica e l’avvento della spietata meritocrazia, dovrebbero dirci a quali allucinogeni testi fanno riferimento. Inoltre scioperano nel giorno in cui si sarebbero dovuti fare i test per valutare la preparazione degli studenti e protestano perché sono stati spostati per non essere cancellati, a dimostrazione che la scuola è l’ultimo dei loro pensieri.
I governanti che millantano come investimento per l’istruzione l’assunzione ope legis di personale docente, preso dalle pozze stantie e stagnanti delle graduatorie, quindi incorporando in via definitiva quel che non ha portato alcun beneficio neanche in via provvisoria, dovrebbero dirci se pensano di prendere in giro gli altri o se stessi. Pensare che per cambiare la scuola si debba partire con l’assunzione in via permanente di quelli che ci sono già stati e ci stanno, così confermando il passato e zavorrando il futuro, è un totale non senso. Né il governo può nascondersi dietro la sentenza della Corte di giustizia europea, che, dicono, impone quelle assunzioni. Non è vero: la Corte ha evidenziato un danno in capo a chi è stato imbrogliato con le graduatorie; si tratta di risarcire il danno, non d’imbrogliare tutti gli altri. È un tema sul quale ci siamo soffermati diverse volte, né ci sono novità: aumentando la spesa corrente si fa il verso al clientelismo di sempre, altro che cambiarlo.
Occupiamoci di un punto nuovo, rivelatore: il ministero dell’istruzione ha messo in rete un sito per l’autovalutazione delle scuole. È un tema fondamentale, che s’appresta a divenir burletta. In pratica si tratta della versione digitale del celeberrimo quesito: oste, è buono il vino? Ciascun preside si connette e compila il modulo, articolato in 49 indicatori e quesiti. Nessuno potrà chiedergli conto delle risposte che avrà dato, neanche nel caso in cui il vino fosse aceto. Al termine di questa profittevole applicazione, potrà confrontare i propri risultati con quelli che i suoi colleghi hanno inserito, con pari senso della realtà. Utilissimo.
Dice il sottosegretario, Davide Faraone: «Non stiamo mettendo voti né abbiamo creato un sistema per classificare le scuole». Peccato, perché è esattamente quel che si dovrebbe fare. E quelle informazioni dovrebbero essere messe a disposizione delle famiglie, in modo che possano scegliere a ragion veduta la scuola cui indirizzare i propri figli e i propri soldi. Certo, anche i soldi, perché la scuola si paga anche quando è pubblica ed è bene che sia il pagatore, non il pianificatore burocratico, a scegliere. Ma non si può fare, perché il personale dipendente è contrario. Non vogliono essere valutati. Il governo dovrebbe rispondere: valutati o licenziati, prego, scegliere. Un docente orgoglioso del proprio lavoro non teme la valutazione, la anela. E vuole che da quella dipenda lo stipendio. Ma sindacati e massa informe sono contrari, perché è dall’informità dell’insieme che discende il loro potere. La valutazione dovrebbe essere indipendente. Qui siamo all’indecenza dell’autovalutazione.
Vi segnalo anche due chicche, passate in commissione parlamentare, quali emendamenti al nulla che è la riforma in gestazione. La prima: le mense scolastiche devono essere rifornite a chilometro zero. Questi hanno scambiato il pasto dei bambini con le minchionerie del ristorante dove si paga di più per potere mangiare di meno. Nelle mense si deve fare attenzione al valore nutritivo dei pasti, non puntare a essere alla moda. La seconda: ci saranno dei corsi contro la discriminazione di genere. Meno male che non hanno pensato alle quote di genere, da rispettarsi per promossi e bocciati, ma la domanda è: tutte le altre discriminazioni sono benvenute? Vorrei sapere quali scuole hanno frequentato i parlamentari votanti roba simile. Se non altro per sconsigliare ad altri di metterci piede.
Tanto più che, dopo avere assunto più di centomila graduatoristi, pensano d’introdurre materie come la logica (per cui non sono portati), la musica (andiamo a orecchio o poi assumiamo maestri?), la computazione (che nel significato di «calcolare» si chiamava matematica) e l’insegnamento delle competenze digitali (credo si debbano pagare i ragazzi, capaci di spiegare molto ai loro insegnanti). In questo guazzabuglio di luoghi comuni e bischerate cubiche, i presidi, che non avranno nessuno dei poteri di cui ai primi annunci, dovranno redigere il Pof (piani di offerta formativa), uditi gli enti locali, le istituzioni, i centri culturali, sociali ed economici del territorio. Dove l’unica cosa chiara è la parola «territorio», che andrebbe zappato, affinché torni a veder germogliare almeno il buon senso.
Un’altra tegola incombe: a rischio il ‘contributo’ chiesto dal governo Letta
Redazione Edicola - Opinioni Avvenire, giuseppe pennisi, pensioni, previdenza
Giuseppe Pennisi – Avvenire
Quando a dicembre 2011 era in preparazione il ‘Salva-Italia’, con relativo blocco della perequazione sulle pensioni, furono non pochi esperti ad avvertire che si rischiava una sentenza (totale o parziale) negativa da parte della Corte Costituzionale, che già ben due volte in passato ha censurato i ‘contributi di solidarietà’ sugli assegni previdenziali, a partire da quello deciso dal governo Berlusconi. Ora che la bocciatura è arrivata, ecco che già all’orizzonte se ne profila una seconda. E nel mirino c’è di nuovo un contributo di solidarietà, quello ‘riproposto’ nel 2013 da Letta. Il verdetto starebbe per arrivare in giugno e produrrebbe un ulteriore costo aggiuntivo, per circa 2-3 miliardi. Anche se una tesi (peraltro condivisa da pochi giuristi) sostiene che, al contrario, questa volta il contributo sarebbe giudicato ‘legittimo’, in quanto i fondi resterebbero dentro il pianeta Inps (gli incassi sono destinati a favorire le pensioni dei più deboli).
Ad essersi espresse, in punto di diritto, sono le Corti dei Conti della Calabria, del Lazio, dell’Emilia-Romagna, del Veneto (nonché di altre Regioni). A fronte di ricorsi a loro rivolti da associazioni di pensionati, hanno replicato che si tratta di misure già dichiarate incostituzionali da parte della Consulta: violerebbero ben 8 articoli (3, 4, 35, 38, 53, 81, 96 e 137) della Costituzione. Non solo, la Corte dei Conti aggiunge che le misure contrastano anche con 5 articoli della Convenzione europea sui Diritti dell’uomo e che in materia la Corte di Strasburgo ha già ‘sentenziato’ nel 2013. Il nodo di fondo è che un’’imposta’ – perché tale è da fatto un contributo – sui soli pensionati è discriminatoria. In caso di difficoltà a far quadrare i conti, sarebbe logica e legittima soltanto un’addizionale, temporanea e progressiva, che colpisse tutti i redditi. Come fatto in numerosi Paesi Ocse. Peraltro il tema della previdenza si va sempre più ‘europeizzando’. Nella Ue è infatti in fase di avanzata redazione una ‘direttiva’ per uniformare in qualche modo i sistemi previdenziali e rendere più agevole la libera circolazione dei lavoratori (ora la totalizzazione dei versamenti in vari Paesi Ue è basata su una rete di accordi bilaterali). Una nuova condanna dalla Consulta renderebbe ancor più difficile, per l’Italia, incidere ‘politicamente’ sui contenuti di questa direttiva.
C’è un legame tra Renzi e i black bloc?
Redazione Editoriali black bloc, carlo lottieri, expo 2015, impresalavoro, Matteo Renzi, milano
Carlo Lottieri
A qualcuno può anche sembrare che la devastazione per le strade di Milano causata dai gruppi dei centri sociali porti soltanto acqua al mulino di Matteo Renzi, che d’altra parte è stato uno dei bersagli polemici di quella violenza di strada. Ed è possibile che, nel breve periodo, in qualche modo sia così e che qualche elettore arrivi a pensare che per sconfiggere la sinistra estrema (anche al di là dei black bloc) si debba puntare su questo ex-democristiano riuscito abilmente a mettere le mani su quanto rimane del vecchio Pci.
A ben guardare, però, la relazione tra renzismo e black bloc non è solamente di opposizione: come si capisce subito dalla lettura della “Carta di Milano” prodotta per iniziativa di questo governo e che l’esecutivo ha in vari modi esaltato. Quello stucchevole miscuglio di decrescita, ecologia, dirigismo e pauperismo che è appunto la Carta presentata nell’imminenza di Expo deve farci riflettere, perché il rapporto tra la sinistra in doppiopetto e quella di piazza esiste senza alcun dubbio e non va dimenticato.
I nostri giovani – a scuola, alla televisione, sui giornali – sono ogni giorno nutriti di una visione distorta della realtà proprio perché da decenni a dominare sono culture ostili al mercato e alla libertà individuale. Quello che la sinistra vuole realizzare è la sconfitta del capitalismo selvaggio e l’edificazione di una società senza diseguaglianze. Quanti hanno distrutto le vetrine di corso Magenta sono cresciuti in un mondo che ritiene normale togliere ai produttori la metà e anche più della ricchezza che realizzano in un anno. E anche per questo non si sentono affatto in colpa di aver sottratto qualche migliaia di euro a chi vende abiti costosi o gioielli.
È ovvio che non vi sia alcuna responsabilità diretta da parte di Renzi per le devastazioni del Primo Maggio, ma è egualmente vero che l’Italia di sinistra (cattocomunista, azionista, progressista, socialdemocratica ecc.) nel corso del tempo ha posto le basi per una contestazione crescente della proprietà e del mercato. E non c’è da stupirsi quando i figli sono un poco più violenti e più coerenti dei padri.
Se la mentalità contemporanea prevalente, che Renzi interpreta tanto bene, vede nelle diversità un’ingiustizia, quelli che il premier ha chiamato “teppistelli” ne traggono le conseguenze. Perché non si può mettere costantemente sotto accusa le logiche del profitto e poi immaginarsi che non succeda nulla.
Bisognerebbe allora iniziare a capire come l’estremismo di coloro che usano le molotov per cercare di sbriciolare le istituzioni del capitalismo liberale aiuti anche a comprendere quanto veleno vi sia nel moderatismo della sinistra governativa. L’immobilismo di chi non fa nulla per ridurre la costante crescita del debito pubblico e anche della tassazione viene talvolta accompagnato da una specie di retorica liberale, ma più spesso è giustificato dal persistere di quello statalismo che la Carta di Milano ha esaltato sotto vari aspetti principali.
È allora chiaro che o si riesce a contrastare il blocco sociale post-comunista e post- democristiano che sorregge Renzi e definisce in larga misura la cultura prevalente, oppure non cambierà nulla. Lo Stato continuerà a dilatarsi e molti dei nostri giovani riterranno di essere vittime di un qualche capitalismo selvaggio che esiste soltanto nei loro sogni e nei testi con cui vengono introdotti alla conoscenza della realtà.
Renzi vale quel che vale, prova a tirare avanti e in qualche rara occasione riesce perfino a muoversi nella giusta direzione. Ma la sua cultura è tanto intrisa di dirigismo che a ben guardare non è affatto così lontano da quanti l’hanno contestato nelle strade milanesi.
Chi desidera vivere in una società più libera e basata sull’economia capitalista deve sapere costruire un’alternativa sia a Renzi, sia alla sinistra radicale. Il mondo non può essere fatto di molte sfumature del rosso: bisogna invece cercare di dare spazio ad altri colori e a diversi modi di esaminare la realtà sociale.
Il “piano d’emergenza” che non basta per l’Italia
Redazione Edicola - Opinioni europa, giuseppe pennisi, grecia, sussidiario
Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net
Dobbiamo temere di essere trascinati da un tracollo della Grecia, ossia un’insolvenza seguita da un’uscita (volontaria o forzata) dall’unione monetaria con implicazioni sulla stabilità finanziaria dell’Italia? L’eventuale sfaldarsi dell’eurozona farebbe accanire la speculazione nei nostri confronti? Lo spread tornerebbe a quota 500, o anche più, a ragione pure del nuovo “buco” apertosi nei conti pubblici in seguito a una sentenza della Corte Costituzionale prevedibile (e prevista da tempo da parte di tutti coloro che si intendono di diritto previdenziale)?
Nell’infuocato fine settimana, le voci della Banca centrale europea (Bce) e dei suoi accoliti hanno ribadito che non c’è nulla da temere poiché dal 2009 a oggi è stata costruito un vero e proprio “muro anti-incendio” (firewall): due pilastri dell’Unione bancaria europea (il sistema di vigilanza e il meccanismo per risolvere gravi crisi bancarie e potenziali dissesti), il Quantitative easing per rilanciare la domanda aggregata, il Piano Juncker per dar vita a un programma pluriennale di investimenti innovativi, nuove agenzie per monitorare gli andamenti finanziari.
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Cuneo fiscale: sotto il Governo Renzi aumento del +0,4%. Toccato il livello record del 48,2% del costo del lavoro
Redazione Studi cuneo fiscale, fisco, impresalavoro, lavoro, massimo blasoni, tasse
ANALISI
In Italia il carico fiscale sul lavoro continua a crescere: tra il 2013 e 2014 è aumentato del +0,4%, toccando il livello record del 48,2% rispetto al costo del lavoro: significa che quasi metà di quanto gli imprenditori pagano per le buste paga dei lavoratori se ne va in tasse e contributi sociali. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro che, elaborando gli ultimi dati Ocse, dimostra come l’Italia sia l’unico grande paese europeo che registra una crescita consistente del cuneo fiscale. Quest’ultimo, infatti, diminuisce in Francia (-0,4%) e Regno Unito (-0,3%) mentre resta sostanzialmente invariato in Germania (+0,1%) e Spagna (0,1%).
La pressione fiscale per i lavoratori si è effettivamente ridotta soltanto per alcune fasce di popolazione, in particolar modo per i single a basso reddito (il calo è compreso tra il -2,3% e il -2,5%) e le famiglie con due redditi (con una riduzione tra il -0,6% e il -0,7%). Risulta invece in aumento per le famiglie monoreddito con figli (+0,5%) e i single con reddito medio o sopra la media (rispettivamente +0,4% e +0,5%). Ne consegue che il bonus fiscale degli 80 euro deciso dal governo Renzi ha paradossalmente prodotto effetti distorsivi, colpendo quanti sono costretti a mantenere una famiglia con un solo stipendio.
Va poi osservato che, rispetto al 2009, l’unica categoria che si è vista diminuire il cuneo fiscale è quella dei single a basso reddito (-1,1% senza figli e -0,2% con figli) mentre le famiglie monoreddito con figli hanno subìto un aumento (+2,1%) superiore a quello per i single a reddito elevato (+1,8%) e medio (+1,4%). Per le famiglie con due redditi l’incremento è compreso tra lo 0,6% e lo 0,7%. La crescita del cuneo fiscale finisce insomma per penalizzare quelle famiglie che vivono con un solo stipendio e che invece andrebbero aiutate.
In valori assoluti, nel 2014 una famiglia con figli a carico e un unico reddito (in media pari a 30.462 euro) ha infatti sopportato un cuneo fiscale pari a 11.880 euro, circa 640 euro annui in più di quello che sarebbe stato se l’incidenza del fisco fosse rimasta ai livelli del 2009. Persino un single con un reddito medio e senza figli a carico ha avuto un incremento più contenuto (+426 euro verso gli attuali 14.683 euro). L’aggravio rispetto al 2009 è inferiore per le altre categorie di famiglie, che hanno subìto un trattamento più favorevole proprio tra il 2013 e il 2014. Anche per loro, tuttavia, di aumento si tratta: tra i 243 e i 306 euro annui. Solamente i single sotto la media pagano di meno, in proporzione, rispetto al 2009 (con un risparmio quantificabile, sui redditi 2014, tra i 40 e i 225 euro) mentre i redditi più alti hanno avuto l’incremento più consistente (+916 euro).
Se le famiglie italiane vivessero all’estero si troverebbero in condizioni decisamente migliori. Grazie a un cuneo fiscale inferiore rispettivamente di 6 e 5 punti percentuali, una famiglia monoreddito con figli che vivesse in Germania o Spagna e con uno stipendio lordo di 30.400 euro si ritroverebbe in tasca tra i 1.250 e i 1.570 euro in più ogni anno (tra i 104 e i 130 euro in più al mese). Lo spread con Regno Unito è ancora più ampio: a parità di condizioni reddituali lorde, una famiglia di Londra risparmierebbe in tasse 3.783 euro all’anno (315 euro al mese). Tra le grandi economie, solo la Francia fa peggio di noi: qui un nucleo monoreddito con figli a carico pagherebbe in tasse 466 euro in più ogni anno.
Un’ipotetica famiglia che avesse invece due redditi da lavoro, uno full time e uno part-time, non troverebbe condizioni peggiori di quelle italiane. Qui il cuneo fiscale pesa per il 39,7% del reddito lordo con un valore di 16.072 euro. In Francia si risparmierebbero 855 euro, in Germania 445 euro, in Spagna 1.296 euro e nel Regno Unito addirittura 6.800 euro.
Per Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro, «questi dati dimostrano come il nostro paese continui a tassare troppo, e spesso più di tutti gli altri, i fattori produttivi e il lavoro in particolare. Per molti anni si è discusso di un possibile riequilibrio del sistema di tassazione, con lo spostamento della pressione fiscale dal lavoro ai consumi. Quel che è accaduto concretamente è che la pressione sui consumi è aumentata grazie all’innalzamento delle aliquote Iva (e probabilmente crescerà ancora) mentre non è diminuita e si è in alcuni casi inasprita quella sul lavoro. La manovra degli 80 euro è servita a poco: come abbiamo visto ha dato poco e male ad alcuni ma ha tolto ad altri»
Pensioni, ecco quanto costa il buco (annunciato) provocato dalla Consulta
Redazione Edicola - Opinioni formiche, giuseppe pennisi, pensioni
Giuseppe Pennisi – Formiche
Era un “buco (nei conti pubblici) annunciato” da molti, molti mesi quello derivante dalla sentenza della Corte Costituzionale sulla parte del decreto Monti chiamato (tra il serio ed il faceto Salva Italia) con cui si bloccava la perequazione delle pensioni superiori a tre volte il minimo all’andamento dell’indice dei prezzi al consumo.
Il Presidente del Consiglio dell’epoca era stato avvertito che la Corte Costituzionale si era già espressa un paio di volte in materia. Così come, ai tempi del Governo Letta, il Ministro del Lavoro e degli Affari Sociali era stato avvisato che solo pochi mesi la Corte Costituzionale aveva bocciato un “contributo di solidarietà” sulle pensioni superiori ai 90.000 euro l’anno e che quindi sarebbe stata parimenti dichiara incostituzionale la norma in materia che è riuscito a fare approvare (e su cui la Corte delibererà in giugno).
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Siamo meno ricchi ma il risparmio cresce
Redazione Edicola - Opinioni davide giacalone, libero, ricchezza, risparmio
Davide Giacalone – Libero
Nel mentre la ricchezza prodotta dagli italiani diminuiva il risparmio gestito cresceva e cresce. L’uscita dalla recessione è solo un segno + davanti a uno zero virgola, restando alla metà della media eurozona e al di sotto di quel che la Banca centrale europea considera l’effetto indotto dal Quantitative easing, mentre la crescita del risparmio gestito ha un ritmo nettamente superiore. Si va strologando sull’esistenza o meno (vale il meno) di un «tesoretto» di 1,6 miliardi ma, da gennaio a marzo, sono 52 i miliardi che i risparmiatori hanno versato nelle casse dei gestori. Non sono due universi, ma sempre lo stesso. Per capirne il senso si devono fissare alcuni paletti.
1. Nel mentre, in Italia, ci muoviamo al ritmo dell’«andante» in de profundis, non parlando altro che di crisi, i mercati globali non hanno il metronomo puntato sul “presto”, ma, comunque, fra il «vivace» e l’«allegro». La ricchezza cresce sempre e investirvi è conveniente.
2. I tassi d’interesse dei titoli del debito pubblico puntano verso lo zero, sicché non è più tempo del fai da te. Ci fu quello in cui le famiglie erano contente nell’incassare interessi a due cifre, magari prestando poca attenzione all’inflazione che ne erodeva il significato. Ora non si può essere altrettanto artigianali, se si vuole danzare con la musica della crescita globale.
3. Dal primo gennaio dell’anno prossimo il risparmiatore rischia assieme alla banca. Siamo abituati a pensare che i soldi «depositati» in banca siano al sicuro, perché questo prevede la legge. Magari poco remunerati, ma al sicuro. La legge cambia, però, e i soldi non si depositeranno più, bensì si presteranno alla banca. Saranno remunerati sempre poco, ma il rischio cresce. In caso di bancarotta il correntista con un deposito superiore a 100mila euro sarà chiamato a compartecipare del fallimento, dopo gli azionisti e gli obbligazionisti. E se ha depositato meno, comunque non può riaverli subito. Quindi meglio mettere i soldi in fondi che sono solo custoditi dalla banca, restando di proprietà del risparmiatore. E ricordarsi che le banche non sono tutte uguali.
4. Il sistema pensionistico è stato modificato tante di quelle volte, e i più giovani non ne avranno uno paragonabile a quello dei loro maggiori, che non c’è da stupirsi se accelera la corsa ad assicurarsi in proprio un futuro non del tutto incerto.
5. Questi sono già buoni motivi per risparmiare, facendosi assistere da soggetti professionalmente adeguati (occhio a chi promette troppo, perché si pensa d’esser furbi e si è polli già allo spiedo). Ma c’è dell’altro: i consumi non riprendono anche perché la ripresa è solo nei comizi e nei titoli di qualche giornale. La moneta risparmiata ha incisa la saggezza su un lato, ma la paura sull’altro.
6. La crescita del risparmio non equivale alla crescita della ricchezza, ma segnala la divaricazione interna alla società: chi può mette da parte; chi non può s’impoverisce. I 23 miliardi raccolti nel solo mese di marzo non sono certo l’effetto dei mitici 80 euro, perché quelli sono stati assorbiti da altri prelievi fiscali e dal lievitare dalle tariffe amministrate. Sono due Italie. Se si allontanano troppo generano un terremoto sociale e politico.
7.Il fisco s’è incattivito anche sul risparmio. Il gestito cresce non perché è insensibile alla tortura, ma perché si dirige verso veicoli domiciliati all’estero. Una specie di monumento alla dabbenaggine fiscale, a come il satanismo esattoriale non può che generare diabolicità nella fuga.
8. Proprio perché s’insegue il mondo che cresce, il nostro risparmio va a finanziare chi è capace di farlo. Quindi genera ricchezza all’estero. È giusto che sia così, perché chi amministra quei soldi deve portare risultati ai clienti. Ma è folle che ciò non inquieti chi governa. Il rimedio non è impedire che si generi ricchezza fuori, ma consentire che si possa farlo anche a casa.
Se restassero cinque minuti di tempo libero, fra un sistema elettorale e una fiducia, tutto questo meriterebbe un pizzico d’attenzione.
Le minacce di una “nuova guerra fredda”
Redazione Edicola - Opinioni economia, eurozona, formiche oeconomicus, giuseppe pennisi
Giuseppe Pennisi – Formiche Oeconomicus
Ci sono segni di miglioramento dell’economia internazionale, una cui ripresa potrebbe far da traino al continente vecchio e soprattutto alla malconcia eurozona. A fine marzo una conferenza internazionale a Sendal, la città più vicina all’epicentro del terremoto che devastò il Giappone nel 2011, ha portato ad un’intesa su parametri ambientali per ridurre i rischi di disastro più realistici (e più fattibili) di quelli di Kyoto. In settembre, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite verrà dedicata alo sviluppo; le diplomazie stanno negoziando Sustainable Development Goals più concreto dei Millennium Development Goals definiti nel 2000. Prima di allora, in luglio, ad Addis Ababa un assise di organismi internazionali e di grandi banche esaminerà come mobilizzare risparmi e flussi privati di capitale per lo sviluppo. In dicembre, infine, a Parigi dovrebbe venire firmato un nuovo trattato sui cambiamenti climatici. Anche se gli obiettivi di queste riunioni rischiano di accavallarsi, se ben gestite , potranno contribuire ad un nuovo percorso di sviluppo. E potrebbero anche essere la premessa per più vasti accordi in materia monetaria e finanziaria. Non si pensi ad una Nuova Bretton Woods , il miraggio lanciato una decina di anni fa. Ma se i temi a più vasto raggio di ambiente e sviluppo verranno incanalati verso targets realisti tramite percorsi concreti, si potrebbero aprire più facilmente negoziati tra grandi mercati comuni ed eventualmente grandi accordi monetari in gestazione su base geografica.
Questo quadro sostanzialmente ottimista non tiene però conto del riaccendersi (e riscaldarsi) di una nuova guerra fredda di cui quasi ogni giorno si vedono i segnali. In un primo momento, il tema sembrava che restasse nei confini dei contrasti tra Stati emersi dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche di un tempo. Le stesse cruenti vicende dell’Ucraina sono parse liti tra ex-amanti non più nello stesso letto. Tuttavia, i nodi che riguardano le forniture di oli minerali (principalmente gas) all’Unione Europea tramite l’Ucraina mostrano come le ramificazioni siano molto più vaste e più profonde. Si è sorriso quando la Repubblica di Cipro, travolta da una crisi bancaria senza precedenti, si è rivolta a Mosca: sembra il ruggito del topo per ricordare il titolo di un film d’epoca di satira politica. Molto più preoccupante, l’abbraccio con Mosca del Presidente del Consiglio Greco Alexis Tsipras quando il negoziato con la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea ed il Fondo Monetario Internazionale sembrava sull’orlo del fallimento. Preoccupanti anche se poco notate al di fuori della Norvegia le manovre militare russe al circolo polare artico su cui Mosca considera di avere privilegi. Per non parlare delle tensioni tra le vaste regioni russe in Asia ed i Paesi confinanti.
Dato che gli obiettivi di una rubrica mensile sono quelli di andare al di là del contingente e del congiunturale, vale la pena chiedersi se una nuova guerra fredda potrebbe avere effetti sull’economia internazionale. Da un lato la Russia di oggi è un Paese in cui l’aspettativa di vita alla nascita diminuisce, l’industria (tranne quella militare) è obsoleta, le generazioni più giovani sono allo sbando, e attorno al Cremlino sono in corso lotte di potere di cui è difficile anche solo azzardare un percorso. Da un altro, gode di enormi risorse naturali, specialmente in campo energetico, e può diventare una polveriera.
Lo sanno bene non solo in Norvegia ma anche nei Länder tedeschi più prossimi al confine con la Federazione Russia dove – lo mostrano eloquentemente film che non trovano distributori italiani – il timore dell’immigrazione dall’Est sta provocando , tra le giovani generazioni, aggregazioni di tipo nazista. Non certo una buona promessa. Né per la politica né per l’economia.
Renzi, Tsipras e il gioco del pollo
Redazione Edicola - Opinioni austerity, formiche, giuseppe pennisi, Matteo Renzi, tsipras
Giuseppe Pennisi – Formiche
Nei resoconti televisivi degli incontri internazionali, Tsipras e Renzi sfoggiano, anzi ostentano, grandi abbracci e baci. Solo per il pubblico? O c’è qualcosa di più sincero?
Renzi e Tsipras sono affratellati da quello che in teoria dei giochi si chiama “il gioco del pollo”, che in italiano sarebbe meglio chiamare “gioco del coniglio”, ossia di cosa plasma i comportamenti in una situazione ad alto rischio.
Andiamo con ordine. All’inizio del negoziato tra Tsipras e i suoi partner su Formiche.net ho ricordato i “giochi” multipli su più tavoli: su un tavolo (con i partner europei) l’obiettivo di Tsipras era quello di massimizzare la “reputazione”; con il proprio elettorato, invece, quello di massimizzare “la popolarità”. Un equilibrio di Nash, quello del film A Beautiful Mind (quindi sempre instabile) che, però, non sembra sia riuscito a raggiungere.
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