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Ricchi ed evasori schivano l’austerità (anzi, ci guadagnano)

Ricchi ed evasori schivano l’austerità (anzi, ci guadagnano)

Giuseppe Pennisi – Avvenire

La saga greca che da cinque anni si dipana sotto i nostri occhi non vuole dire ‘lacrime e sangue’ per tutti coloro in essa coinvolti. In primo luogo, all’interno della Repubblica Ellenica, se la godono i ceti a reddito alto ed i grandi evasori (spesso le stesse persone). Uno studio della Banque de France documenta che il forte aumento tributario attuato nel 2010, il secondo ‘salvataggio’, non ha comportato che un lievissimo aumento del gettito; è, quindi, cresciuta alla grande l’evasione. Esaminando i dati dell’agenzia delle entrate della Grecia, risulta che un terzo dell’aumento tributario è stato perso in quanto è aumentata la proporzione di reddito non dichiarato dalle piccole e medie imprese e dal ‘popolo delle partite Iva’ (le imprese individuali). Numerosi greci, e non solo greci, hanno scommesso soprattutto nel 2012 sul salvataggio; quindi hanno acquistato, sul mercato secondario, titoli pubblici a prezzi stracciati (tra un terzo e la metà del valore nominale) con un rendimento del 15-20% e, dopo il salvataggio quando il valore di mercato dei titoli si è riavvicinato al valore nominale, hanno guadagnato sul conto capitale, incassando al tempo stesso un lauto dividendo.

Oggi, per chi ama il rischio ( e crede in Mamma Europa) la situazione è ancora più favorevole. Sul secondario i titoli greci sono considerati spazzatura; per attirare acquirenti i buoni del Tesoro a tre anni rendono il 27% (l’anno) , mentre i decennali (prima o poi la fune si spezzerà) il 20%. In queste condizioni, le occasioni di guadagno non mancano, sia per i greci (specialmente per chi ha portato capitali all’estero) sia per gli altri (specialmente se hanno buone imbeccate sull’esito del negoziato).

Tutto ciò è molto più grave della dilazione, in 80 -100 rate, su 60 miliardi di arretrati con il fisco che il Governo Tsipras- Varoufakis , pur dichiarandosi ‘di sinistra’ ha esteso a tutti i contribuenti, anche ai più ricchi.

Crisi Grecia – I rischi (e i costi) per l’Italia

Crisi Grecia – I rischi (e i costi) per l’Italia

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Dopo un “tormentone” (per usare il gergo giornalistico) di sei anni circa, la saga greca è arrivata al suo ultimo atto. Ove non all’epilogo. Lo ha mostrato a chiare note la riunione dell’Eurogruppo a Riga in cui il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia e delle Finanze della Repubblica ellenica sono stati chiamati “dilettanti allo sbaraglio”. Quindi, incomunicabilità piena e totale con il resto del gruppo. Nonostante i canali Rai trasmettano immagini (credo di una precedente riunione) in cui il nostro Presidente del Consiglio Matteo Renzi ostenta – in barba non solo all’etichetta internazionale ma semplicemente al buon gusto – baci e abbracci con la sua controparte Alexis Tsipras.

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Occhio alla bolla dei nuovi contratti

Occhio alla bolla dei nuovi contratti

Davide Giacalone – Libero

I primi dati 2015, relativi al lavoro, fecero gridare all’immediato successo del Jobs Act. Peccato non fosse ancora entrato in vigore. I dati di marzo segnano un ulteriore saldo positivo (per 92.299 posti di lavoro), e questa volta la riforma del lavoro è in vigore, proprio dall’inizio di quel mese. Se ne vedono gli effetti? Li si vedranno ancora?

Il ministro del lavoro, Giuliano Poletti, invita alla prudenza e teme gli entusiasmi, che possono divenire boomerang: «Stiamo parlando di nuovi contratti, non di nuovi posti di lavoro». Il dato che emerge, in quella trasformazione, è la crescita dei contratti a tempo indeterminato (+49,6% rispetto al marzo 2014). Un fatto positivo, che, però, va letto alla luce di un altro dato e di un altro fatto: a) quella tipologia contrattuale copre il 25% delle nuove attivazioni, dei nuovi contratti, il 75% resta a tempo determinato, apprendistato, collaborazioni e altro; b) il concetto di «indeterminato» è cambiato, e sarebbe davvero singolare che ci si dimenticasse la più significativa e positiva innovazione contenuta nel Jobs Act: il contratto a tutele crescenti, talché se ti assumono oggi con un contratto di quel tipo non significa affatto che hai agguantato la stabilità (sempre relativa) del passato, ma hai solo cominciato un percorso che ti porterà, dopo anni, ad avere diritti e tutele comunque inferiori ai lavoratori stabili dell’era precedente. Non critico questo fatto, anzi ne condivido la realistica convenienza, avverto sul possibile imbroglio che consiste nel chiamare con lo stesso nome cose diverse.

Quelli che mostrano di funzionare, però, sono gli incentivi fiscali e le decontribuzioni, che spingono le imprese ad assumere. Il guaio di questi strumenti è che, da un lato, sono temporanei, quindi vanno rifinanziati e, dall’altro, questo potrebbe gonfiare una bolla, una bollicina (a essere precisi), nel 2015, per poi dare luogo a un’implosione nel 2016. Luca Ricolfi ha, giustamente, formulato tale dubbio. Per questo è preoccupante la digressione sul «tesoretto». Non solo per la fregola immaginifica ma, soprattutto, perché la ricerca dell’impiego per alimentare il consenso ha imboccato la via sbagliata: altri premi agli occupati esistenti, modello 80 euro, anziché facilitazioni alle aziende per crearne dei nuovi.

Occhio, infine, a non dimenticare di cosa stiamo parlando, ovvero di un’economia che pensa di crescere, quest’anno, dello 0,5­0,7%, quindi, a seconda delle previsioni, fra la metà e un terzo dell’eurozona. Come si può pensare che una crescita così modesta crei le condizioni per riassorbire la disoccupazione? Che, infatti, resta altissirna. Il problema di gestione politica, normalmente, è che le scelte capaci di propiziare maggiore crescita e produttività creano un effetto ritardato sull’occupazione (che arriva dopo), quindi creando un problema a chi governa, perché rischia di non riuscire a spiegare e far vedere gli effetti positivi di quel che sta facendo. Qui si pretende il contrario, ovvero che l’occupazione cresca prima e di più del prodotto interno lordo. Quando simili prospettazioni vengono presentate ci sono due possibili vie: gridare al miracolo, degno di entrare nei manuali d’economia; oppure avvertire che trattasi di una visione, di un inganno ottico.

Suggestivo, ma irreale.

Oplà, il tesoretto non c’è più

Oplà, il tesoretto non c’è più

Antonio Padellaro – Il Fatto Quotidiano

A Roma, si chiama sòla un personaggio poco affidabile, dedito al raggiro e dunque impegnato a sòlare il prossimo. Di queste sòle il renzismo, quotidiano superspot del Renzi­pensiero, ce ne ha rifilate parecchie: grandiosa quella del piano per l’edilizia scolastica cosa fatta, con i soffitti che continuano a crollare sulla testa dei poveri alunni.

L’ultima della serie riguarda il famoso “tesoretto” che se esistessero gli Oscar delle sòle meriterebbe il premio per gli effetti speciali. Tralasciamo per carità di categoria l’enfasi con cui i giornaloni strombazzarono questo prodigio dei conti pubblici: come se il premier avesse scovato con le sue manine, negli anfratti della Banca d’Italia, un colossale carico di lingotti d’oro, misteriosamente ignorato dai suoi predecessori. Si trattava in realtà di un artificio contabile con cui si sgraffignavano 1,6 miliardi di euro aumentando il defìcit: ma così sono buoni tutti. Invano l’eroico ministro Padoan tentò di frapporsi tra i sogni d’oro e la dura realtà: niente da fare, il tesoretto era lì che aspettava solo di essere distribuito, magari con un’altra mancia elettorale tipo 80 euro. Finché ieri il governo, per non ammettere che il “tesoretto” non è mai esistito, ha comunicato che “sarà congelato”, visto che tra tagli e nuove spese i problemi non mancano.

Come diceva Abramo Lincoln, si possono ingannare tutte le persone una volta, si può ingannare una persona tutte le volte, ma non si potranno mai ingannare tutte le persone tutte le volte.

I tagli e l’aritmetica del consenso

I tagli e l’aritmetica del consenso

Alberto Mingardi – La Stampa

Negli Anni Sessanta, l’economista statunitense Milton Friedman, durante un viaggio in Asia, venne portato a vedere i lavori di costruzione di un canale. Friedman constatò sorpreso che c’erano pochissime ruspe in cantiere e gli operai si aiutavano solo col badile. Non doveva meravigliarsi, gli spiegò uno zelante funzionario, quella «grande opera» faceva parte di un programma per aumentare l’occupazione. Par di vederlo, Friedman, che alza un sopracciglio e dice: «Pensavo doveste costruire un canale. Se volete creare posti di lavoro, dovreste dare a queste persone dei cucchiai, non dei badili».

Si dirà che il mondo è cambiato: è tempo di spending review. Ma come si fa a ridurre le spese, se non è cambiata la mentalità delle pubbliche amministrazioni? L’ultimo Documento di Economia e Finanza ha riacceso i riflettori sui tagli al servizio sanitario nazionale. Nell’estate scorsa, governo e Regioni si erano accordati, col cosiddetto Patto per la Salute, sull’ammontare delle spese per questo comparto nel triennio 2014­-2016. Più di recente, la legge di stabilità ha previsto un aumento del contributo a carico delle Regioni per il contenimento della spesa pubblica. Potendo scegliere dove tagliare, le Regioni hanno deciso di aumentare la sforbiciata ai servizi sanitari. In pochi si sono lamentati. È vero che quasi l’80% del budget dei governi regionali è impiegato per la sanità, ma è difficile immaginare che non si possano limare le uscite anche in altri settori. E nella sanità, che cosa hanno scelto di tagliare le Regioni?

Potremmo pensare che la «spending review» fosse il momento buono per mettere mano a un riordino della rete ospedaliera. Se ne parla da anni: sono molti i piccoli ospedali che potrebbero essere accorpati, recuperando efficienza. La moltiplicazione dei nosocomi serviva alla salute dei partiti: l’idea di avere un ospedale vicino rassicura gli elettori. Ci sono però buoni motivi per «concentrare» risorse e persone in strutture più grandi: la probabilità di morire nel corso di un intervento chirurgico è minore in un ospedale in cui se ne fanno molti, di interventi di quel tipo. Le Regioni non hanno scelto di rivedere la rete ospedaliera: al contrario, hanno annunciato tagli, e importanti, all’acquisto di beni e servizi e all’ospedalità privata.

È una decisione assennata? Le ruspe costano di più dei badili, ma aumentano la produttività degli operai e accorciano i tempi di realizzazione del canale. Fuori di metafora, ogni tanto un farmaco può ridurre le giornate da trascorrere a letto. Ogni tanto un macchinario può aiutare ad individuare per tempo una malattia, consentendo il ricorso a terapie meno debilitanti. Ogni tanto acquistare prestazioni dagli ospedali privati (che col 15% della spesa coprono il 24% dei ricoveri) significa spendere in modo più efficace i soldi di tutti.

Al contribuente, non interessa che i suoi quattrini finiscano nelle tasche della pubblica amministrazione o di fornitori «esterni»: interessa che «comprino» una sanità d’eccellenza. Se le Regioni preferiscono rivedere gli acquisti che gli stipendi, è perché gli scanner per la risonanza magnetica non votano, ma i percettori di un salario statale invece sì. I tagli lineari non piacevano a nessuno. Pareva incredibile che la politica non sapesse scegliere cosa fare e cosa ridurre. Ma quando la politica sceglie, l’impressione è che lo faccia secondo l’unica aritmetica che conosce: l’aritmetica del consenso.

Sull’Ilva le porcate di Stato non finiscono mai

Sull’Ilva le porcate di Stato non finiscono mai

Davide Giacalone – Libero

L’Ilva di Taranto riconosce d’essere responsabile di disastro ambientale e chiede il patteggiamento. I proprietari dell’Ilva restano imputati e subiranno il processo. La cosa singolare, in una situazione surreale, è che l’Ilva è commissariata dal 2013, quindi sotto il controllo e il dominio del governo, il quale governo della Repubblica italiana, aveva negato il disastro ambientale, aveva esibito i documenti che testimoniavano sia la regolarità dell’operato della società, sia il progredire del piano di risanamento ambientale. Il quale risanamento era reso necessario non da quel che aveva fatto l’Ilva privatizzata, ma dal precedente proprietario: lo Stato. Provo a raccontare meglio, perché capisco che ci si possa confondere. Ma spero di non riuscirci, spero che nessuno capisca, perché se qualcuno legge, dall’estero, è la volta che in Italia non ci mette piede neanche per le vacanze.

La polemica

L’Ilva era dello Stato, l’hanno venduta ed è passata ai Riva. Si può discutere sul prezzo e sulle condizioni, ma non sul fatto che insediamento e inquinamento erano quelli generati dal proprietario pubblico. Arrivato il nuovo proprietario la produzione procede bene e l’impianto produttore di acciaio è profittevole. Con il governo è concordato un piano di risanamento ambientale, che il governo stesso sosteneva essere stato rispettato. Interviene la procura della Repubblica e praticamente blocca la produzione, contestando disastro ambientale e altri reati. Esegue sequestri che rendono impossibile la continuazione dell’attività. Il governo (allora Monti) interviene, con un decreto legge, per sbloccare il tutto. Fermo restando che, naturalmente, il procedimento penale va avanti.

Nuovo corso

Ma nel 2013 cambia non solo il governo, ma anche la dottrina, sicché la società viene commissariata e la proprietà estromessa. Motivazione: sono in crisi. Ma la crisi non è data dall’attività industriale, bensì dall’azione della procura e, al momento, siamo ancora solo all’udienza preliminare. Dopo il commissariamento quel che era profittevole va in perdita.

Intervento

I soldi destinati al risanamento prima c’erano e venivano spesi, poi non ci sono più. Le difficoltà così create al gruppo Riva, che non ha solo quell’impianto (che è il più grande d’Europa, con il forno più grande del continente, ora spento), portano all’intervento delle banche tedesche, con il che abbiamo anche favorito quelle. La produzione comincia a essere insufficiente e i clienti si lamentano. E, come se non bastasse, ora la gestione commissariale chiede il patteggiamento. Neanche hanno torto, perché così si tirano fuori da un processo dagli esiti incerti e minimizzano le possibili conseguenze negative. Peccato che agiscono a nome dell’Ilva perché colà messi dal governo. E peccato che i proprietari restano sotto processo, avendo la loro società che ammette il reato da loro e dal governo negato. Con il che si dimostra claudicante non solo la difesa del diritto di proprietà, teoricamente tutelato dalla Costituzione, ma anche quello a difendersi in un processo. Nel quale, naturalmente, non ho idea se siano colpevoli o innocenti. Nel primo caso spero siano condannati, ma nel secondo vorrei fosse chiaro che la pena la scontiamo e la paghiamo tutti, cittadini di uno Stato inaffidabile e sleale.

Vi spiego l’irreversibile leggerezza dell’euro

Vi spiego l’irreversibile leggerezza dell’euro

Giuseppe Pennisi – Formiche

L’irreversibilità dell’euro, richiamata da Juncker e Draghi mentre Tsipras e Varoufakis si esibiscono in gare di salti mortali per raggranellare anticipi su commesse future per gasdotti al fine di far fronte alle esigenze più impellenti (di rimborso del debito), è come l’indissolubilità del matrimonio cattolico quale interpretato da certi tribunali canonici (sui quali Papa Francesco farebbe bene a chiedere una vigilanza rigorosa). Uno di tali matrimoni è stato dichiarato nullo a Roma, dopo circa cinquanta anni dalla feste di nozze, poiché lo ‘sposo’, per così dire, ha dimostrato di frequentare prostitute (o meglio, data l’età, di averlo fatto in passato) per decenni tre-quattro volte la settimana e, indi, di non avere compreso il significato del Sacramento e, perciò, di non essere adatto a fare il marito e il padre.

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In metà rinunciano agli sgravi del 730, saranno controllati lo stesso

In metà rinunciano agli sgravi del 730, saranno controllati lo stesso

Davide Giacalone – Libero

Ogni mattina un pensionato potrebbe ritrovarsi a far la fila dal medico. Ogni mattina un imprenditore potrebbe dovere versare qualche cosa all’erario. Ogni mattina, quando sorge il fisco, non importa che tu sia pensionato o imprenditore: scappa. Tanto poi ti acchiappano. Quel pensionato e quell’imprenditore sono, oggi, più uniti, nel diffidare dello Stato tassatore e controllore.

La Fondazione nazionale dei commercialisti è una fonte interessata. Diciamo che l’eccessiva semplicità degli adempimenti fiscali e l’idea che i cittadini possano far da soli, non è in cima ai loro desideri. Ma hanno più esperienza, sul campo, di tanti che legiferano. Ebbene, la Fondazione ha commissionato uno studio da cui si evince che circa 6 milioni di contribuenti sarebbero pronti a rinunciare alle detrazioni fiscali cui avrebbero diritto, pur di evitare i controlli. Si può sostenere che diffondano sfiducia e allarme per guadagnare clienti. In questo caso, però, non è così. Perché se l’adesione alla dichiarazione dei redditi precompilata, fornita dall’Agenzia delle entrate, diviene garanzia che non ci saranno controlli successivi, perché mai un cittadino dovrebbe prendersi il rischio di far valere un proprio diritto e scaricare spese che darebbero luogo a un risparmio fiscale marginali, comunque meno di quel che costerebbe un professionista nel caso si dovesse rispondere a rilievi delle autorità? La Fondazione calcola che, in questo modo, l’erario si troverà a incassare 1,5 miliardi non dovuti. Peccato, però, per due dettagli: non è vero che firmare la precompilata inibisce i controlli, perché questi sono sempre possibili sui dati che i terzi hanno trasmesso al fisco (quindi quasi tutti); considerare conveniente rinunciare a un diritto equivale a dire che non si ha nessuna fidu­ cia nella lealtà dell’amministrazione fiscale.

Ieri il Consiglio dei ministri ha varato qualche altro decreto legislativo, in materia fiscale. Oramai vengono giù a spizzichi e bocconi, fermo restando che è rimandato a giugno quello che era già stato illustrato e approvato a Natale (e la cosa passa come se fosse normale, come se non contenesse un sentore venefico il fatto che una norma fiscale la si voglia posporre alle elezioni regionali). Ieri è stato il turno, fra gli altri, dell’abuso di diritto. Dicesi «abuso di diritto» che un soggetto applichi le leggi esistenti, ma per trarne un indebito vantaggio. Che uno dice: scusate, se una legge consente un indebito vantaggio, cambiatela. No, ti rispondono, è il contribuente che deve applicarla con animo candido. Quindi non basta attenersi alla legge, occorre scegliere quella che non faccia sorgere il sospetto che ne stai approfittando.

Non basta: il decreto prevede che, da ora in poi, e sull’abuso di diritto, l’onere della prova spetti all’Agenzia delle entrate. E anche questa passa senza destare il dovuto scandalo: dovrebbe essere sempre così: tu Stato mi accusi, spetta a te dimostrare che ho torto, non a me che ho ragione. Invece no, vale solo su questo. E lo hanno scritto nel decreto. Dove si legge anche che se il contribuente ha un dubbio, ove non voglia abusare della legge, poverella, può chiedere all’ufficio fiscale quale legge applicare. Già me lo vedo: scusi, so che dovrei pagare 100, ma con il comma 329 dell’articolo 89 quater del regio decreto etc. etc., potrei pagare 80, secondo lei quale devo applicare? Risposta: sicuro che non ci sia nulla per cui deve pagare 120? Perché il funzionario che suggerisse la via più conveniente potrebbe andare incontro alla contestazione di danno erariale, qualora qualcuno domani dimostrasse l’abuso di diritto. Mentre, se il suggerimento viene dal commercialista, il professionista ne risponde come complicità, per cui gli devi anche pagare gli oneri dell’assicurazione. Però, oh, non vi lamentare, perché nel decreto legislativo c’è anche scritto che l’abuso di diritto non è contestabile in sede penale. Ovvero: non è un reato avere applicato una legge. Non importa se sei pensionato o imprenditore, scappa.