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Oppositori contabili

Oppositori contabili

Davide Giacalone – Libero

Da che si doveva sventare il pericolo della clausole di salvaguardia a che ci sono soldi in avanzo. Da che si scopre il tesoretto di 1.6 miliardi a che i tecnici di Camera e Senato avvertono che potrebbe diventare necessaria una correzione dei conti, per 6.4 miliardi. Da che si annuncia una valutazione prudenziale della crescita del prodotto interno lordo, fissata allo 0,7 per il 2015 (la metà della media eurozona, ma cresceremo di più, ripetono), a che si festeggia la stima fatta dal Fondo monetario internazionale, che ci vede in crescita solo dello 0,5 (un terzo dell’eurozona). Ora, a parte dotarsi di un pallottoliere, la domanda è: possibile che la sola opposizione, al governo, la facciano i contabili?

L’opposizione non è mera contrapposizione, che di quella abbondiamo. L’Italia è piena di soggetti politici che sono contro le privatizzazioni e contro le amministrazioni politiche, sicché si suppone auspichino la gestione divina. Di politicastri che protestano a fianco di chi è contro i tagli e di chi è contro le tasse. Loro sono “contro”, anche all’aritmetica e alla logica. Lasciamo perdere la coerenza. L’opposizione temibile, però, non è quella che cavalca i brontolii fagiolari (quella, quando vince, è segno che il sistema ha smollato), bensì quella che si rivolge agli elettori e dice: chi governa sta sbagliando, perché queste altre sono le cose che si dovrebbero fare. Meglio se è capace d’individuare la base sociale cui si riferisce, gli interessi che intende favorire e quelli che vorrebbe colpire. Le forze politiche che sono pro tutti sono pro niente e buon pro faccia a chi si sistema. Non la vedo, questa opposizione.

Sulla legge di stabilità c’è chi pubblica riflessioni e proposte e chi presenta critiche e diversi indirizzi. Ma proprio perché le firmano quelle sono posizioni loro, non di una forza parlamentare che stia facendo il mestiere dell’opposizione. Ciò provoca (ieri accadde a destra, oggi a sinistra) il nascere di un’opposizione innaturale, interna alla maggioranza. E comporta che il vincitore di turno diventi il solo giocatore in campo, con il risultato che perde il senso della realtà e dell’equilibrio, fino a gonfiarsi più di un rospo in calore.

A destra ci sono tanti bigotti rimasti sbigottiti, sicché dicono cose insensate su famiglia, procreazione e diritti individuali. Tanti socialisti asociali travestitisi da liberisti immaginari, sicché l’opporsi risulta loro difficile, nel mentre soffrono l’invidia della prestazione. Tanti giustizialisti manettari che vestirono i panni di un garantismo credibile come il botox. Tanti padri costituenti che ieri vollero quel che oggi considerano progenie bastarda. Finché avevano l’aia seguivano giulivi la scia del becchime, ora che si ritrovano nel pollaio inscenano guerre di galli, forse anche per dimenticare d’esser capponi.

Imprese e Occupazione: in Italia la peggior coesione territoriale europea

Imprese e Occupazione: in Italia la peggior coesione territoriale europea

NOTA

Nessun Paese europeo ha una coesione territoriale peggiore della nostra. La lunga crisi economica ha infatti ulteriormente accresciuto lo storico divario socio-economico che divide l’Italia: da una parte il Centro-Nord, che presenta indicatori in linea con quelli di Francia, Germania e Regno Unito; dall’altra il Mezzogiorno, che soffre tassi di disoccupazione sempre più simili a quelli della Grecia.
L’analisi dei principali dati su imprese e occupazione evidenzia diversità territoriali molto marcate nella nostra penisola. Il tasso di occupazione registra infatti 32,2 punti percentuali di differenza tra la migliore e la peggiore regione: a Bolzano lavora il 71,4% della popolazione tra 15 e 64 anni, mentre in Calabria ha un’occupazione solo il 38,9% degli under 65. Nessun altro Paese fa peggio di noi: la differenza tra la migliore e la peggiore regione spagnola in termini di occupazione di ferma al 18,7%, in Grecia questo gap è solo del 13,9%, in Germania è fermo all’11,1% mentre in Francia è solo dell’8,5%.
Questa realtà è figlia anche della diverse condizioni che le aziende incontrano sul territorio. Avviare un’impresa a Napoli può richiedere il triplo del tempo impiegato a Milano (16 giorni contro 6), una differenza che tutto sommato può apparire sostenibile. Se osserviamo però i tempi che un’azienda deve attendere per ottenere i permessi edilizi necessari a costruire un magazzino o un negozio, ci rendiamo conto della frattura che spacca in due il Paese: se a Milano sono necessari 151 giorni (comunque inferiori ai 154 in Svizzera e ai 197 a Tokyo), a Palermo si devono invece attendere ben 316 giorni (come in Iran e addirittura peggio dei 302 in Togo).
A questa grande disparità territoriale di occupati e di tempi di risposta alle imprese fa da contraltare un costo del lavoro che, invece, cambia molto poco sul territorio nazionale. L’Italia si colloca tra i Paesi che hanno la minore disparità regionale in quanto a costo del lavoro: una situazione illogica che fa costare il lavoro in Calabria poco di meno rispetto al Piemonte. Questo elemento di rigidità contribuisce ad aumentare il divario tra regioni: a parità di costo del lavoro, infatti, le aziende continueranno a scegliere territori con livelli infrastrutturali migliori e servizi pubblici più efficienti.
Queste condizioni richiederebbero una risposta dalle istituzioni ma è proprio a livello di governance locale che si evidenzia un altro gap di non poco conto. Mentre le province di Trento e Bolzano vantano una qualità della governance locale che si assesta fra il 10% delle migliori regioni europee, il Sud e il Lazio restano invece fanalino di coda in Europa. Per comprendere plasticamente questa differenza è sufficiente constatare come la miglior regione italiana sia alla pari con la migliore regione tedesca mentre la peggiore regione italiana ristagna purtroppo al livello della peggior regione della Romania e poco sopra della peggiore regione bulgara.

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L’Italia divisa in due – Leggi il paper completo

L’Italia divisa in due – Leggi il paper completo

Di Paolo Ermano

In una recentissima relazione che la Commissione Europea ha indirizzato all’Italia intitolata didascalicamente: “Relazione per paese relativa all’Italia 2015 comprensiva dell’esame approfondito sulla prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici “, nella sezione 3.5 intitolata “Tema Speciale: Disparità Regionali” viene messo in luce come la crisi economica continui ad aggravare in maniera sostanziale la differenza nelle performance economiche fra Sud e Centro-Nord. Per dirla con il sintetico linguaggio del governo europeo: “La crisi ha aggravato lo storico divario socioeconomico tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno “.
Nel Mezzogiorno d’Italia vivono poco più di 20 milioni di abitanti, circa 1/3 della popolazione totale del Paese. Il Sud rappresenta, quindi, una porzione rilevante del Paese; eppure sembra comportarsi come un’area a sé, un’area sempre più indirizzata verso un declino economico che molto probabilmente rischierà di portare con sé un collasso sociale. Invece, il resto d’Italia, il Centro-Nord, dove gli altri 40 milioni di abitanti vivono, è un insieme di regioni che, come vedremo, si attesta a livello di sviluppo vicini ai migliori partener europei, una situazione di squilibrio economico che si riflette inevitabilmente sulle possibilità di governo del Paese.
L’elemento sorprendente dell’analisi che segue su Centro-Nord e Mezzogiorno è la sua semplicità. Prendendo a prestito 4 grafici dal rapporto della Commissione Europea, si può rappresentare una storia del Mezzogiorno di declino, un declino legato all’impossibilità di fare attività d’impresa, un declino fatto di disoccupazione, di scarsa capacità imprenditoriale e, forse soprattutto, di una governance disastrosa.

1. Mercato del lavoro

Come si vede nel primo grafico (Grafico 3.5.1.), il progresso occupazionale al Centro-Nord ha subito una battuta d’arresto con l’avvento della crisi, dopo un trend ascendente che perdurava dagli inizi degli anni ’90. E’ interessante notare come nonostante tutto, in quest’area la tremenda crisi degli ultimi anni non ha ridotto l’occupazione come invece accadde alla fine degli anni ’80, segno che di un sistema economico-sociale che, per quanto farraginoso, ha tenuto.

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Invece nel Mezzogiorno siano letteralmente davanti a un disastro: a fine 2013, l’occupazione nel Mezzogiorno si attestava a valori inferiori a quelli raggiunti nel 1977, di quasi 5 punti percentuali inferiori. Mentre dall’inizio della crisi quest’area osservava il tracollo degli occupati, registrava anche un aumento del tasso di disoccupazione di quasi 10 punti percentuali, circa la metà di quanto accadeva al Centro-Nord.
Un’Italia a due velocità, dove mentre 1/3 della popolazione annega e gli 2/3 galleggiano e si allontanano.

2. Il Costo del Lavoro

Fra le ragioni economiche di questo tracollo, certo non le uniche variabili utili a comprendere quanto accade, sicuramente dobbiamo considerare un mercato del lavoro estremamente rigido. Il tema centrale in questo caso non è tanto la flessibilità contrattuale, quanto la difficoltà che squilibri fra domanda e offerta di lavoro incontrano nell’indurre una variazione delle retribuzioni.
Come emerge da questo grafico, l’Italia detiene il primato dello squilibrio del tasso di occupazione regionale (Grafico 3.5.3. A): l’asticella, che ha ai vertici la regione con il più alto tasso di occupazione e al vertice opposto quella con il più basso, più lunga è sicuramente quella del nostro Paese.

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Eppure, a questa grande disparità di occupati, e quindi di offerta di lavoro, non corrisponde un altrettanto ampio divario nei costi del lavoro del settore privato (grafico 3.5.3. B). Anzi, l’Italia si inserisce nel gruppo con i paesi aventi la minore disparità regionale, una situazione illogica, alla luce della disparità di performance dei mercati del lavoro nel Mezzogiorno e al Centro-Nord.
Ad esempio il costo del lavoro in Calabria è poco inferiore al costo del lavoro in Piemonte. Considerando la presenza di un livello di infrastrutture superiore, di servizi pubblici e privati relativamente più efficienti, e della qualità della pubblica amministrazione, è molto più probabile che un’impresa si sviluppi in Piemonte, rispetto alla Calabria: il differenziale di costo del lavoro è troppo basso per avviare un processo di sviluppo privato in Calabria.

3. La Produttività

Basterebbe abbassare il costo del lavoro per far ripartire il Mezzogiorno, magari attraverso una modifica nelle regole del mercato del lavoro?
Questo sarebbe sicuramente un primo passo, ma non sarebbe sufficiente. Come che si vede nel grafico 3.5.4, nel 1980 produrre nel Mezzogiorno comportava un risparmio in termini di costo del lavoro di circa il 20% rispetto al Centro-Nord, e così accade ancora nel 2013. Da questo punto di vista, il Sud non ha raggiunto il Centro-Nord, le distanze non si sono attenuate.

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Tuttavia, la chiave per comprendere “la questione meridionale” è nella relazione fra costo del lavoro e produttività: infatti, l’uno senza l’altra non è permette di sviluppare un’analisi completa.
Nel Mezzogiorno la produttività è bassa, troppo bassa: rispetto al resto del Paese, in 33 anni il Mezzogiorno ha perso 10 punti percentuali di produttività.
Per fare un esempio esplicativo, in media un operaio di Osoppo produce nella stessa unità di tempo il 20% in più del suo omologo a Foggia.
La somma di questi due effetti, costo del lavoro che cala e produttività che cala, fa sì che nel Mezzogiorno la produzione di un singolo bene nel settore manifatturiero costi di più che nel Centro-Nord. E il contesto meridionale, come vedremo, non incentiva certo lo sviluppo industriale
Insomma non conviene, dimostrando una volta di più che con la produttività si può competere con chi ha un costo del lavoro inferiore al tuo.

4. E le Amministrazioni?

Una risposta immediata ai problemi prima illustrati può venire dalle istituzioni: è impensabile aspettarsi che un tessuto imprenditoriale emerga spontaneamente nelle regioni del Mezzogiorno, vivacizzando il territorio. E’ impensabile perché non vi sussistono le condizioni per cui questo accada.
Solo l’amministrazione pubblica, agendo attraverso regole migliori e con un’adeguata politica di investimenti a tutto campo potrebbe creare le precondizioni per lo sviluppo. La domanda è: quale amministrazione? Quella locale o quella nazionale?
La domanda non è banale, principalmente perché i poteri dell’amministrazione centrali non sono poi così ampi nell’imporre scelte a livello regionale, né quelli delle amministrazioni regionali sono spesso sufficienti per varare un piano di così ampio respiro. La questione è complessa e questa non è la sede adatta per trattarla.
Tuttavia, una cosa è certa: anche a livello di governance locale, il Mezzogiorno è profondamente deficitario rispetto al Centro-Nord.
Nel grafico 3.5.5. sono riportati i dati relativi alla qualità della governance fra diverse regioni di diversi Paesi.
governance
Di nuovo, l’Italia brilla per l’ampiezza dello spettro di possibilità. Mentre le provincie di Trento e Bolzano possono vantare un ambiente socio-economico che si assesta fra il 10% delle migliori regioni europei, “le Regioni del Sud (e il Lazio) sono tra le peggiori dell’UE”, relegando il paese in quinta posizione dal basso nella graduatoria europea.
In sostanza, la nostra migliore regione ha un livello di governance pari al miglior esempio tedesco, mentre la nostra peggiore si attesta al di sotto della peggior regione rumena, davanti solo alle regioni bulgare.
Se queste sono le condizioni ambientali in cui sviluppare l’economia, è inutile sperare nell’attività privata: bastano le regole delle amministrazioni locali ad affossare ogni tentativo di sviluppo. Ma proprio queste amministrazioni locali, così come sono ora, sono le meno adatte a innescare un processo di sviluppo strutturato: non ne hanno né la capacità, né la forza. Solo un intervento diretto dall’alto, coordinato magari dalle istituzioni europee, in funzione di garanti di un processo di riordino del sistema adeguato e incisivo, porterebbe a un sostenuto cambiamento di rotta per il Mezzogiorno, favorendo così lo sviluppo dell’intero Paese.
Tuttavia qualcosa si potrebbe già fare, senza grande clamore.
La relazione della Commissione Europea termina con una serie di esempi pratici che danno la cifra del ritardo del Sud e ne indicano, allo stesso tempo, una prima via di uscita dal declino.
“Ad esempio, ottenere le autorizzazioni per la costruzione di un magazzino richiede 164 giorni a Bologna (Emilia-Romagna) con un costo equivalente al 177% del reddito pro capite, mentre a Potenza (Basilicata) sono necessari 208 giorni con un costo pari al 725% del reddito pro capite. Far eseguire un contratto richiede in media 855 giorni e costa il 22% del credito a Torino (Piemonte), rispetto ai 2 022 giorni e un costo pari al 34% del credito a Bari (Puglia). I tempi per l’avviamento di un’impresa variano da 6 giorni a Padova (Veneto) fino a 16 giorni a Napoli (Campania), mentre la registrazione di una proprietà necessita di 13 giorni a Bologna e di 24 giorni a Roma” .
Questi sono tutti procedimenti amministrativi che impattano sulla possibilità di sviluppo economico: se, ad esempio, Napoli copiasse Padova, e Potenza copiasse Bologna qualcosa inizierebbe a cambiare.
Ridicolo far festa per il Pil a +0.5%

Ridicolo far festa per il Pil a +0.5%

Davide Giacalone – Libero

Le campane del Fondo monetario internazionale suonano a morto, per l’Italia, ma da noi si offrono confetti. Il medico che comunicasse una diagnosi fatale, o l’avvocato che mettesse a parte il cliente dell’irrimediabile sconfitta giudiziaria, considererebbero matti gli interessati, se li vedessero festeggiare. Da noi si brinda per dati pessimi. Ed è segno che si è così fuori di testa al punto da negare l’evidenza dei numeri.

Dicono politici, giornali e opinionisti nostrani: secondo l’Fmi l’Italia crescerà più del previsto. Evviva. Dicono i numeri che la stima di crescita del prodotto interno lordo, per il 2015, s’inchioda allo 0,5%. Considerato che il governo ha appena previsto una crescita dello 0,7, a me pare qualche cosa in meno, non in più. Già, si obietta, ma è una stima al rialzo, perché prima il Fmi prevedeva solo 0,4. Peggio mi sento, perché l’incremento, dovuto alle politiche espansioniste della Banca centrale europea, è calcolato in +0,3 per l’eurozona e +0,1 per l’Italia. La nostra crescita incrementale è pari a un terzo della media europea. E non basta, perché la crescita 2015 dell’eurozona è stimata all’1,5 mentre la nostra, come detto, allo 0,5.

Dunque: fino a ieri noi rabbrividivamo all’idea di crescere solo la metà della media europea, mentre ora festeggiamo il crescere solo un terzo. Sono numeri da paura. Ma fa ancora più paura l’incoscienza e la superficialità di chi li commenta con il sorriso di compiacimento. Finalmente si rivede la crescita. Questa è la straordinaria fesseria che sentiamo ripetere. Taluni, e son tanti, hanno l’attenuante di non sapere di che parlano, ma altri hanno l’aggravante di far finta di non sapere cosa diavolo dicono. Tutti popolano la Repubblica dei bonus, quella in cui si redistribuiscono i soldi nel mentre si accresce il debito.

Una classe dirigente che si rispetti, fatta di politici, ma anche di cattedre e opinionisti, dovrebbe avere il coraggio di partire dalle previsioni (quelle del Fmi coincidono con quelle della Banca d’Italia) per dedicarsi a come modificarle, prendendo atto che segnano un sicuro insuccesso italiano, con un aumento del nostro svantaggio competitivo. Da lì si dovrebbe passare ai possibili rimedi. Ad esempio: la nostra macchina produttiva ha dimostrato, con le esportazioni, di avere un motore capace di ruggire, anziché dilapidare ricchezza blandendo elettori si potrebbe concentrare la spinta laddove la si crea, arricchendo tutti, elettori compresi. Ma quelli di domani, mentre ci si occupa solo di quelli odierni. Una classe dirigente non degna di rispetto, invece, prova a negare la realtà, allo scopo di tirare avanti senza farci i conti, Nel frattempo concentrando tutte le energie in partite certo non prive di rilevanza, ma estranee alla sola vitale: la capacità di riprendere la via della crescita, ad una velocità almeno pari a quella degli altri europei. È la sola condizione capace di farci reggere il peso del debito. Il resto è fuffa.

Tsipras ha ancora una via d’uscita. Ma lui e Varoufakis hanno bruciato l’iniziale patrimonio di  simpatia

Tsipras ha ancora una via d’uscita. Ma lui e Varoufakis hanno bruciato l’iniziale patrimonio di simpatia

Giuseppe Pennisi – Avvenire

In un’unione monetaria che non è quella che gli economisti chiamano ‘un area valutaria ottimale’ (con perfetta ed effettiva mobilità di fattori di produzione, di beni e di servizi), la Grecia potrebbe ancora salvarsi, nonostante un debito pubblico pari al 175% del Pil e conti da considerare ‘poco chiari’ (a voler essere gentili). L’80% del debito dello Stato è, in conseguenza di varie ristrutturazioni e salvataggi, dovuto a istituzione pubbliche che non ammettono insolvenze o sconti (ma in certi casi accettano dilazioni). Atene dovrebbe attuare speditamente una strategia caratterizzata da tre mosse: ripagare subito i debiti con il Fondo Monetario (perché sono i più cari in termini di interessi ed ammortamento); pagare, al più presto le obbligazioni della Banca centrale europea (sia perché costose sia soprattutto per avere accesso a nuovi finanziamenti quali quelli del Quantitative easing); rinegoziare le scadenze di quanto deve ai Governi della zona euro (circa 30 miliardi di euro solo all’Italia).

In tal modo secondo calcoli effettuati il 13 aprile dal Peterson Institute of International Economics, il tasso effettivo medio d’interesse sul debito scenderebbe al 2%, una frazione di quello che gravava i greci nel 2009 quando la crisi è scoppiata. Unitamente a serie riforme interne, nel giro di un paio di anni la Grecia riprenderebbe a crescere, come mostra l’esperienza di una novantina di paesi censiti da Banca mondiale e Fondo monetario. Tuttavia, è difficile che questa strada venga seguita da Tsipras e Varoufakis ed accettata dagli altri principali protagonisti. Nel giro di tre settimane, infatti, Tsipras e Varoufakis hanno dilapidato il capitale maggiore che avevano a disposizione nei giorni successivi alla creazione del nuovo Governo: il capitale di simpatia creato con il loro modo di fare un po’ guascone (e molto poco pericleo) in un ambiente dove si veste in grisaglia e si portano cravatte scure. Lo hanno letteralmente buttato a mare prima prendendo impegni (di presentare programmi concreti e specifici per questa o quella data) mai mantenuti, ritirando fuori, poi, il contenzioso dei danni di guerra con la Germania, facendo, infine, intendere che sarebbero andati a flirtare con un Putin, il quale li ha degnati di tè e sorrisi senza neanche far loro gustare vodka e caviale. Principalmente, però, non sono stati in grado di giocare a due livelli trovando un equilibrio tra ‘reputazione’ con i loro creditori e ‘popolarità’ con i loro elettori. Ora contano quasi esclusivamente sul timore che i loro creditori avrebbero degli effetti dell’uscita delle Grecia dall’eurozona sul resto dell’area.

È una partita ad alto rischio: da un lato, una ‘Grexit’ non piace a nessuno, da un altro, nei piani alti dell’eurozona, ci si sente presi in giro da chi pratica il gioco delle tre carte con uno stile più levantino che dell’Atene classica.

La trappola della “precomplicata”

La trappola della “precomplicata”

Davide Giacalone – Libero

Siete prediffidati, non crediate alla precompilata. Agli italiani che accetteranno l’oracolo del fisco, apponendo la propria firma in calce a quel che l’erario chiede, rinunciando a ogni modifica e ulteriore detrazione, quindi anche a far valere le spese mediche eventualmente sostenute, si dice che, in quel modo, eviteranno ogni successivo controllo. Non è vero. Fate attenzione, perché delle bugie che racconta il fisco si pente solo con congruo ritardo. E senza pagare le ammende che pretende dai contribuenti.

Definimmo «precomplicata» quella che s’annunciava come precompilata perché il lavoro non lo ha fatto l’Agenzia delle entrate, che ne mena vanto, ma i sostituti d’imposta. Vale a dire i privati cittadini, per loro i commercialisti, le imprese, i datori di lavoro e, per quel che riguarda i pensionati, le rispettive casse. A una settimana dalla scadenza non era ancora disponibile il modello della CU, la certificazione unica, che ha sostituito la CUD, certificazione unica dipendenti. Tanto è vero che molti di noi hanno ricevuto (o inviato) certificazioni provvisorie e non a norma. Pazienza? Un corno, perché con il nuovo sistema si pagano 100 euro di multa per ogni errore. E il cielo non voglia che oltre a essere irregolare sia pure errata, perché, in quel caso, il contribuente risponde anche di quel che non ha fatto, ma ricevuto. Da qui le missive inviate, per dire: scusate, mi pare sia tutto a posto, ma il modello che mi avete inviato non è quello voluto dall’autorità preposta. Anche nel caso in cui s’accetti l’oroscopo fiscale, trovato nel cassetto digitale, questo non significa affatto che saranno esclusi i controlli. A chi lo sostiene si dovrebbe contestare il raggiro collettivo, perché sono sempre passibili di controlli e accertamenti i presupposti della dichiarazione, inviati all’amministrazione. Ed è la dimostrazione che la rivoluzione di cui parla la direttrice dell’Agenzia, Rossella Orlan­ di, altro non è che un assemblamento d’informazioni, fornite dai privati.

Esempio: la tua banca mi ha detto che hai un mutuo e tu mi hai detto che sei residente nella casa cui quel mutuo si riferisce, io fisco ho usato quelle informazioni per precompilarti la dichiarazione, ma non ne rispondo, perché sei tu banca e tu cittadino che me le hai date. Che, in compenso, sono sventolate minacciosamente verso quanti osino cambiarne anche un solo rigo. Magari, come detto, per detrarre le spese mediche. E non solo saranno controllati, ma ne risponderanno personalmente i consulenti che lo aiuteranno a farlo, siano essi commercialisti o Caf. I quali sono professionisti che il fisco s’era abituato ad utilizzare come esattori, il cui costo era ed è a carico del tassato, al punto da non sopportarne la funzione quando tornano a svolgere il loro genuino mestiere: aiutare il contribuente ad adempiere i propri doveri, senza, però, versare nulla più di quel che si ritiene dovuto. Fate pure, dice il fisco, ma se commettete un errore pagate in due: il contribuente e il complice.

È giusto? Secondo me no, ma ammetto che ci potrebbe anche stare, se l’amministrazione fiscale non si distinguesse a sua volta per grossolana demagogia ed enormità degli errori. Leggo che la dottoressa Orlandi prende le distanze dai blitz stile Cortina. «Abbiamo cambiato atteggiamento», dice. Il modo giusto per perseguire l’evasione fiscale è un altro, usando le banche dati. Ma va?! Noi lo sostenevamo allora, ma finimmo sommersi dalla marea retorica e stucchevole del dagli all’evasore, con il direttore dell’Agenzia che magnificava l’operazione. Sostenevamo allora quel che l’Agenzia dice oggi: è roba spettacolare, ma inutile. Solo che noi ci beccammo le accuse di volere proteggere gli evasori, lanciate da un’opinione pubblica da cotanto ufficio diseducata al rispetto dell’onorabilità di ciascuno. Direi che non guasterebbe ricevere le scuse. Se la cosa risulta complicata, possiamo inviarne una bozza, pre­compilata.

Così le banche fanno business

Così le banche fanno business

Massimo Blasoni – Metro

Un pessimista spesso è solo un ottimista ben informato. Ecco perché, pur apprezzandola, non ci siamo uniti al coro degli entusiasti per l’importante immissione di liquidità nelle banche italiane garantita dal Quantitative Easing della Bce. Se questa misura potrà davvero sostenere la ripresa economica di famiglie e imprese lo sapremo soltanto fra qualche mese. Rielaborando le rilevazioni del Sistema europeo delle Banche centrali, abbiamo però scoperto che dal 2005 al 2015 le banche italiane hanno visto crescere del 96% i propri depositi (per un controvalore di circa 1.160 miliardi di euro) ma che di questi meno della metà (530 miliardi) è servita a finanziare famiglie e imprese (+47% nello stesso periodo) mentre la restante parte è stata utilizzata per triplicare l’esposizione in titoli (cresciuta del +189% per una cifra corrispondente di 559 miliardi).
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