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Il commento del Prof. Giuseppe Pennisi

Il commento del Prof. Giuseppe Pennisi

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

Appena due giorni fa alcuni organi di stampa vicini a Palazzo Chigi avevano esultato perché a settembre l’indice di fiducia dei consumatori era cresciuto dal 101.9 a 102 – un aumento, in effetti, impercettibile. Nei giorni scorsi, la vera e propria gelata su fatturato ed ordini registrata per luglio (con il rallentamento registrato anche per la performance sui mercati internazionale) aveva anticipato il clima cupo in cui operano le imprese italiane. Nelle ultime settimane l’atmosfera è stata aggravata dalle divisioni sulla politica del lavoro e dalle voci insistenti di aumento dell’imposizione tributaria (anche se sotto la forma di ‘contributi’ e ‘canoni’) e di profondo riassetto dell’imposta di successione in occasione dell’ormai prossima legge di stabilità, il cui ddl deve essere presentato entro il 15 ottobre. Il Presidente della Banca centrale europea (Bce) Mario Draghi è chiaro e netto: la crisi finirà quando sarà tornata la fiducia. Affermazione del tutto condivisibile.
Oggi, però, indiscrezioni da Francoforte indicano che tra il Presidente della Bce ed il Governo tedesco è in atto una sfida all’Ok Corral innescata dalla proposta di acquisto di Abs (Asset backed Securities), titoli bancari cartolarizzati da parte dell’istituto. Anche se non si arriverà ad una resa dei conti all’interno della Bce, ciò non annuncia nulla di buono in materia di regole certe per le imprese (e quindi di fiducia). Tanto più che su piano interno è in atto un scontro sulla normativa per il lavoro all’interno del partito di maggioranza relativa.
Renzi porterà dagli Usa qualche idea di politica industriale?

Renzi porterà dagli Usa qualche idea di politica industriale?

Giuseppe Pennisi – Formiche.net

Il viaggio del Presidente del Consiglio Matteo Renzi negli Stati Uniti ha molteplici obiettivi: partecipare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, essere presente alle manifestazioni su ambiente e clima, visitare la Silicon Valley e discutere con il Presidente della Università di Stanford delle determinanti che hanno portato ad un vasto distretto di forte sviluppo tecnologico.
Su questo argomento, c’è da augurarsi che rientri in Italia con lo stimolo di dare nuova vita a quella “politica industriale” che da qualche tempo sembra quasi una parolaccia. L’Italia è un Paese a vocazione manifatturiera per necessità: privo di materie prime, può solo contare su produzione industriale e mercato mondiale. Dall’inizio della crisi nel 2008, abbiamo perso quasi il 25% del valore aggiunto industriale e in percentuale del Pil la quota della nostra protezione industriale è passata dal 22% a poco più del 15%.
Ai livelli quasi della vicina Francia che conta però su un vasto comparto agricolo altamente sovvenzionato dai contribuenti europei tramite la politica agricola comune. Attenzione: proprio in Francia sono stati prodotti due importanti documenti, il Rapport Beffa del 2005 ed il Rapport Gallois del 2012 che, pur ponendo l’accento sulla competitività dell’industria francese, contenevano proposte per una strategia industriale europea. Il Rapport Beffa ha avuta una certa eco grazie a seminari e dibattiti organizzati dalla Fondazione Ideazione. Il Rapport Gallois è stato semplicemente ignorato nel nostro Paese. In breve l’ultimo documento organico di politica industriale italiano resta quello predisposto da Antonio Marzano nel 2004, quando era Ministro delle Attività Produttive. Restò, però, una bozza di documento a ragione di una malattia di Marzano e del suo trasferimento al CNEL.
Renzi ha senza dubbio tratto utili stimoli dalla Silicon Valley e dagli incontri all’Università di Stanford. Mi chiedo, però, quanto siano pertinenti ad un Paese come il nostro tra gli ultimi in Europa in termini di infrastruttura cablata e banda larga e dove meno del 15% della popolazione in età lavorativa ha un diploma di laurea (rispetto al 30% in Spagna, al 29% in Francia ed al 27% in Germania, nonché al 75% nella Silicon Valley). Forse avrebbe tratto idee più concrete, e più rilevanti alla situazione italiana, dallo studio pubblicato in queste settimane dall’Inter-American Development Banl, o meglio una raccolta di studi curata da Gustavo Crespi ed Eduardo Fernandez Arias (Retinking Production Development: Sound Policies and Institutions for Economic Transformation).
Solamente i gufi schizzinosi possono adombrarsi da riferimenti all’America Latina. Mostrano di essere profondamente ignoranti degli alti tassi di crescita di numerosi Paesi dell’America Centrale e Meridionale negli ultimi vent’anni e di non sapere che per gran parte del Continente è non più l’Europa ma la Corea del Sud. I saggi indicano come riforme istituzionali – tanto care a Matteo Renzi – possono, anzi debbono, essere coniugate a politiche industriali ancorate ad innovazioni fattibili anche se scarseggiano le infrastrutture ed il capitale umano.
Particolarmente utile la sezione sui business incubator – e sul ruolo dello Stato e delle autonomie locali a questo riguardo – anche per ricca di casi di studio di “avventure” che hanno avuto successo in contesti non troppo distinti dal nostro. E’ vero che alcuni capitoli sono difficili da digerire: scritti per economisti quantitativi con una forte formazione matematica, possono scoraggiare i politici dalla loro lettura. Li salti a pie’ pari. E si concentri invece su quelli che possono dare una politica industriale all’Italia.

Massimo Blasoni a “Fatti e Misfatti” – TgCom24

Massimo Blasoni a “Fatti e Misfatti” – TgCom24

Il presidente di ImpresaLavoro interviene alla rubrica “Fatti e Misfatti” del TgCom24, condotta dal giornalista Paolo Liguori, per un confronto con Francesca Re David, del Comitato Centrale Fiom. Ancora una volta al centro del dibattito la riforma del lavoro, con particolare riferimento all’articolo 18.

 

Massimo Blasoni a “Fatti e Misfatti” – TgCom24

Massimo Blasoni a “Fatti e Misfatti” – TgCom24

Il presidente di ImpresaLavoro interviene nella rubrica “Fatti e Misfatti” del TgCom24, condotta dal giornalista Paolo Liguori. Partecipano anche il senatore Pietro Ichino, Francesca Re David (Comitato Centrale Fiom) e il segretario generale della CISL Raffaele Bonanni.

 

Il «bazooka» di Draghi deve essere utilizzato anche per le infrastrutture

Il «bazooka» di Draghi deve essere utilizzato anche per le infrastrutture

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Oggi la Banca centrale europea lancerà la prima asta di quello che è stato chiamato il bazooka di Mario Draghi: i T-ltro ( Targeted Long Term Refinancing Operations). È un acronimo difficile da pronunciare ma che, se lo strumento funziona, dovremo imparare a memorizzare. Lo strumento, infatti, rappresenta una vera svolta nella politica della Bce: è un modo originale (e sino ad ora mai provato in nessun Paese) per fare sì che la liquidità creata dall’istituto di emissione non finisca, come spesso avvenuto in passato, in una ‘trappola’ e non venga tesorizzata dalle banche per ‘ripulire’ i loro portafogli. La liquidità è, invece, targeted, ‘mirata’ al rifinanziamento di operazioni (investimenti) a lungo termine.
Le aspettative sono grandi in tutta Europa. E non solo. Se lo strumento darà i risultati attesi potrebbe essere replicato in Paesi (ad esempio il Giappone) che hanno sofferto e soffrono di trappole della liquidità. L’asta ha un plafond di 400 miliardi di euro, ma non è detto che si giunga ad utilizzarlo interamente. Le stime parlano di una capacità di ‘assorbimento’ per l’insieme dell’eurozona di 270 di euro (di cui 115-120 alla prima asta ed il resto alla seconda programmata per dicembre). La spiegazione è che dal 2008, inizio della recessione, ad oggi le imprese hanno tentato di fare funzionare (e fruttare) la dotazione di capitale fisso a loro disposizione e non hanno programmato investimenti a lungo termine.
Guardiamo con maggiore attenzione quelle che possiamo chiamare ‘le cose di casa nostra’. Secondo stime della Bce, 75 dei 400 miliardi sarebbero la ‘quota’ potenziale dell’Italia. Pier Carlo Padoan, ministro del Tesoro, ha detto di aspettarsi una richiesta da 37 miliardi da parte delle banche. Altre stime indicano cifre appena inferiori. Occorre chiedersi se le associazioni di categoria (in primo luogo la Confindustria) ed il Ministero per lo sviluppo economico hanno nei loro cassetti ‘progetti pronti’ che il sistema bancario non ha finanziato e potrebbero decollare grazie al T-ltro, quali sono le tipologie, quali i costi ed i finanziamenti necessari. Sarebbe nell’interesse di tutti avere questi dati. In primo luogo, del Presidente del Consiglio. Non per curiosità. Ma per un’esigenza molto pratica. Ove l’Italia mancasse di progetti pronti nei comparti T-ltro, non sarebbe il caso di chiedere alla Bce di ampliare la platea alle infrastrutture, molte delle quali rimaste al palo (anche se cantierabili ) pure dopo lo Sblocca Italia? Auspichiamo di avere presto risposte e se del caso un’azione politica spedita. Non è tempo di piagnistei, come amava ripetere il sindaco di Firenze Piero Bargellini.
Jobs Act, al pettine il nodo dell’articolo 18. Efficienza mercato del lavoro, Italia ultima in Europa

Jobs Act, al pettine il nodo dell’articolo 18. Efficienza mercato del lavoro, Italia ultima in Europa

ilsole24ore.com

Presto al pettine il nodo del Jobs Act, la modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Martedì la commissione Lavoro del Senato esaminerà le proposte di modifica dell’articolo 4, che riguarda lo Statuto e che delega al Governo il riordino delle forme contrattuali. I partiti centristi della maggioranza (e Renzi) vorrebbero inserire le modifiche sui licenziamenti per le imprese che superano i 15 dipendenti, mentre la sinistra Pd chiede di non modificare il perimetro della delega. Obiettivo del Jobs Act, in Aula a palazzo Madama del 23 settembre, è modernizzare il mercato del lavoro, che secondo un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati del World Economic Forum è ultimo per efficienza in Europa (e in particolare nelle modalità di assunzione e licenziamento) e 136mo su 144 censiti nel mondo.

Donne e lavoro, confermato il 93° posto (su 144) 
Nella classifica dell’efficienza il nostro mercato del lavoro si piazza infatti poco sopra a Zimbabwe e Yemen, e viene superato da Sri Lanka e Uruguay. Rispetto al 2011 retrocediamo di 13 posizioni a livello mondiale in termine di efficienza generale, e soprattutto perdiamo 19 posizioni con riferimento alla collaborazione tra impresa e lavoratore, così come altre 15 per la complessità delle regole che ostacolano licenziamenti e assunzioni (hiring and firing process). L’unico settore in cui non si registra un arretramento dell’Italia è quello relativo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro: conserviamo infatti la comunque assai deludente 93ma posizione che avevamo raggiunto nel 2011.

Efficacia, Italia fanalino di coda in Europa 
La performance del nostro mercato del lavoro è negativa anche per i parametri relativi all’efficacia, che ci vedono tra gli ultimi nel mondo e, quasi sempre, all’ultimo posto in Europa. Tra i Paesi dell’Europa a 27, ad esempio, rileva ImpresaLavoro, «siamo ultimi per quanto concerne la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Austria e Olanda). Siamo terz’ultimi per flessibilità nella determinazione del salario (contrattazione nazionale prevalente su quella decentrata). Siamo anche il peggior Paese europeo per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività e per l’alto livello di tassazione sul lavoro.

Giuseppe Pennisi – commento al Paper di ImpresaLavoro

Giuseppe Pennisi – commento al Paper di ImpresaLavoro

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

«Il lavoro italiano ha le caratteristiche di non essere secondo a nessuno. Due economisti che non potevano comunicare l’uno con l’altro – non solo c’era la guerra ma uno scriveva in inglese e l’altro in magiaro (e solo dopo molti anni venne tradotto….in tedesco, ma non in inglese) – l’americano (e liberista) Charles Kindleberger e l’ungherese (e marxista) Ferenc Janossy, hanno dimostrato che il ‘miracolo economico’ è stato determinato innanzitutto dalla capacità di apprendimento e dalla flessibilità dei lavoratori italiani. Le classifiche del WEF provano che l’eccesso di regole ha tarpato le ali essenziali per la crescita. Governo e Parlamento devono tenerlo ben presente».
Salvatore Zecchini – commento al Paper di ImpresaLavoro

Salvatore Zecchini – commento al Paper di ImpresaLavoro

Salvatore Zecchini, membro del board scientifico di ImpresaLavoro, è docente di Politica Economica Internazionale all’Università Tor Vergata di Roma e presidente del Gruppo di Lavoro dell’OCSE su PMI e Imprenditoria.

La cartina di tornasole dell’efficienza di un mercato del lavoro sta nella sua capacità non solo di assicurare condizioni dignitose al lavoratore, ma di favorire la creazione di un ampio numero di opportunità di lavoro e di competenze, tale da assorbire il massimo delle forze lavoro disponibili. Alla luce di questo test, l’elevata disoccupazione e il basso tasso di partecipazione al mondo del lavoro, che caratterizzano da due decenni l’economia italiana, come pure il desiderio ardente dei lavoratori di assicurarsi una pensione prematuramente, possono prendersi a prova delle gravi inefficienze e disfunzioni del modo in cui si articola il nostro sistema lavoro.
In particolare, le misurazioni di queste debolezze da parte di istituti stranieri e il confronto con gli stessi parametri di altri paesi offrono uno spaccato di quanto non va nel sistema e di come queste incidono sull’attrattiva del Paese per gli investitori, italiani o stranieri che siano.
Rigidità nell’entrata e nell’uscita dal posto di lavoro, scarsa disponibilità ad adattarsi ai mutamenti nelle esigenze di lavoro delle imprese, dinamiche salariali inflessibili e poco in linea con l’evoluzione della produttività, pesanti oneri verso il fisco ed una diffusa contrapposizione corporativa verso le esigenze della produzione e della concorrenza sono tutti fattori che scoraggiano la domanda di lavoro delle imprese e ne modificano le caratteristiche. In particolare, da decenni le imprese tendono a sostituire i lavoratori con automazioni ed import di semilavorati, e a spostare le loro richieste verso qualifiche più elevate, dove si scoprono tuttavia imperdonabili carenze.
È su questi punti che dovrebbe specialmente indirizzarsi la riforma del lavoro da tempo annunciata dai governanti, con l’intento di realizzare notevoli correzioni strutturali e creare le condizioni istituzionali e culturali per un grande rilancio dell’occupazione.

Consigli a Renzi – Ora scelga se tagliare i “suoi” sindaci o i precari

Consigli a Renzi – Ora scelga se tagliare i “suoi” sindaci o i precari

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

In inglese si dice red herring. In italiano specchietto per le allodole. Questi paiono essere i lineamenti di riforma della scuola presentati al fine di un doveroso, prima che meritorio, débat publique dal governo Renzi. In primo luogo, tutti pensiamo di intenderci di scuola perché o come studenti, o come insegnanti, o come genitori abbiamo esperienza almeno della scuola d’obbligo. Quindi, un débat non può non essere acceso. E celare le difficoltà di predisporre una legge di stabilità che non vuole scontentare parte dell’elettorato tradizionale di un governo in gran misura composto da ex-sindaci (ad esempio, utilizzando la scure nei confronti del capitalismo municipale), ricorrendo a tagli lineari di profumo tremontiano ed al blocco dei salari del pubblico impiego. Un acceso – anche meglio se infuocato – dibattito sulla scuola può distrarre da questi difficili temi. In secondo luogo, i lineamenti di riforma sono tali da suscitare seri dubbi. Ho trattato di questa materia per diversi anni dirigendo una divisione specifica in Banca mondiale e collaborando con il rapporto mondiale dell’Unesco sull’istruzione (nonché scrivendo un paio di libri in materia); penso, quindi, di avere titolo di entrare nel merito.
I due problemi sono simmetrici. Vediamo, prima, perché il governo può ancora ricorrere (il disegno di legge di stabilità è atteso tra più di un mese) a una strumentazione migliore dei tagli lineari e del blocco agli stipendi e, poi, le insufficienze dei lineamenti sulla buona scuola.
Sotto il primo profilo, il governo dispone di un documento (purtroppo è stato deciso di non renderlo pubblico) di un Commissario alla revisione della spesa (Carlo Cottarelli, ndr) che ha individuato puntualmente 15-20 miliardi di spese non necessarie specialmente nel “socialismo regionale, provinciale e municipale” e negli enti (strumentali e di ricerca) dei ministeri. E’ un ampio campo su cui operare, sulla base di cifre certe e di valutazioni precise, ed è questo il campo dove trovare le risorse per far quadrare i conti della spesa di parte corrente ed avere spazi per rilanciare gli investimenti. Ove ciò non bastasse, nuove metodologie di valutazione della spesa sono state varate dal Cnel nel 2012 ed hanno avuto il consenso dei maggiori ministeri nonché delle istituzioni finanziarie internazionali.
Purtroppo esponenti della Cgil al Cnel hanno chiesto che il lavoro non venisse proseguito; sta alla segreteria della Cgil chiedere ai suoi nominati spiegazioni in proposito, anche in quanto l’opposizione della Cgil al lavoro sulla qualità della spesa pone la confederazione in una situazione almeno imbarazzante nelle discussioni sulla legge di stabilità. Sulla base del lavoro Cnel ed in collaborazione con gli enti di ricerca di alcune regioni, l’Uval (Unità di Valutazione), ora operante nell’agenzia per la coesione territoriale (quindi in seno alla stessa presidenza del Consiglio) ha completato in luglio un aggiornato buon manuale della valutazione della spesa per ora disponibile (anche al presidente del Consiglio) su supporto telematico (è in corso l’approntamento dell’edizione a stampa).
Quindi, esiste la strumentazione per affrontare la riduzione della spesa distinguendo tra quella “socialmente produttiva” (nel lessico dell’economia del benessere) a quella “socialmente improduttiva”, senza ricorrere a tagli e blocchi lineari, a red herring e a specchietti per le allodole come paiono essere i lineamenti per labuona scuola. 
Veniamo ai punti principali, riservandoci di esaminare gli altri man mano che il débat proseguirà.
a) Stabilizzazione dei precari. Le statistiche Ocse ed Unesco dimostrano che, in rapporto agli allievi, abbiamo il numero di insegnanti maggiore al mondo. Per arrivare alla media europea si potrebbe fare a meno di circa 50mila precari. Ciò che conta, soprattutto, è la qualità degli insegnanti. Occorre non ripetere l’errore del decreto Misasi del 1972 che stabilizzò ope legis tutti gli assistenti ed i docenti incaricati nelle università della Repubblica, dando un colpo mortale agli atenei pubblici italiani, quasi tutti al di fuori della statistiche sulle 150 migliori università mondiali, ed incoraggiando la nascita di quelle private. Quindi, per il bene dei nostri figli e nipoti occorre coniugare “stabilizzazione” con “selezione”. Ciò comporta procedure (concorsi) e tempi lunghi. Ciò implica anche tenere adeguante conto dell’apporto che possono dare le scuole paritarie, ignorate o quasi nei lineamenti per la buona scuola.
b) Modernizzazione dei programmi. Non si può non essere d’accordo con la modernizzazione dei programmi per le scuole “generaliste” e con un sistema duale di alternanza con il lavoro per l’istruzione tecnica, commerciale, industriale, agraria, turistica e via discorrendo. Ciò comporta però, per ragioni d’efficienza e economicità, istituti scolastici di almeno 400 allievi od un sistema di rotazione dei docenti in varie scuole. Inoltre, sono essenziali aule specializzate ed un sistema (consueto in molti Paesi ma raro in Italia) in cui gli studenti si spostano da aula ad aula a seconda della materia, mettendo fine al nesso tra classe (gruppo di studenti) ed aula. A sua volta, ciò richiede presidi o direttori addestrati in questo campo. Ciò comporta forte spesa pubblica in edilizia scolastica e formazione. I lineamenti non ne fanno alcun cenno.
c) Rendimenti dei livelli e tipologia di istruzione. Sono anni che non vengono effettuati studi sui rendimenti dei vari livelli e delle varie tipologie d’istruzione (ne feci uno con George Pscharopoulos nel lontano 1984 ma ora non presenta più alcuna utilità). Sono necessari per orientare studenti a scegliere in funzione delle opportunità del mercato del lavoro. Ma in questa materia, i lineamenti sono muti e silenti.