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Ecco perché il Tfr in busta costa caro al lavoratore

Ecco perché il Tfr in busta costa caro al lavoratore

Paolo Baroni – La Stampa

Il Tfr un busta paga può certo far comodo, soprattutto ai redditi più bassi, ma è anche vero che rischia di creare un grosso buco nelle pensioni future, come ha denunciato lunedì Bankitalia. Quanto grosso? Proviamo a mettere assieme due conti.

Ipotizzando un salario netto di 1.650 euro (30 mila euro lordi/anno ) scegliendo di dirottare il Tfr in busta paga, secondo i calcoli dell’economista Stefano Patriarca pubblicati su lavoce.info, in 4 anni si incassano 9.232 euro, in pratica 164 euro in più al mese per 14 mensilità. Di contro, però, con 35 anni di anzianità il nostro lavoratore tipo, non iscritto alla previdenza complementare, a fine carriera oltre a maturare una pensione pari a 1.511 euro mensili dovrebbe rinunciare a circa 15 mila euro di liquidazione incassando 90.247 euro anziché i 105.227.

Nel caso di un lavoratore iscritto alla previdenza complementare l’impatto dell’operazione-Tfr, anziché sulla liquidazione, sarebbe sull’assegno integrativo. Ed anche in questo caso la perdita è evidente. Un lavoratore che non prende il Tfr in busta paga e dirotta sul fondo integrativo Tfr contributi dell’azienda e suoi contributi, dopo 35 anni ottiene un assegno mensile pari a 752 euro (346 con 20 anni di contributi). Chi prende il Tfr in busta paga per 4 anni rinuncia a circa 100 euro al mese di pensione integrativa: percepirà infatti un assegno di 651 euro al mese anziché di 752 (da sommare sempre alla pensione principale da 1.511 euro/mese).

Non sorprende dunque se il Mefop, la società che ci occupa dello sviluppo dei fondi pensione, ha buon gioco a sostenere che la previdenza complementare per un lavoratore è comunque sempre il miglior investimento. Quello che sorprende, forse, è che stiamo parlando di una società controllata dal ministero dell’Economia. E si badi bene: la convenienza, sostengono al Mefop, resta anche a fronte dell’aumento al 20% delle tasse sui fondi pensione. In questo caso i calcoli prendono in considerazione uno stipendio lordo iniziale di 18mila euro che cresce di un 1% medio annuo, una inflazione media annua del 2% ed un rendimento lordo del fondo pensione e del Tfr del 3% annuo: la scelta del Tfr in busta paga assicura 61,88 euro al mese per 14 mensilità, che in 5 anni diventano 4.331. Tenere in azienda questo Tfr per 5 anni prima di andare in pensione genera invece 5.532 euro netti di capitale, mentre investirlo in un fondo pensione ne frutta 6.096. Se la misura di anticipo del Tfr non fosse a termine, come chiede esplicitamente la stessa Banca d’Italia, in 10 anni si otterrebbero invece 8.663 euro in più di stipendio a fronte di 12.859 euro che verrebbero accumulati in azienda e 14.063 capitalizzati nel fondo pensione. Con un reddito di 25 mila euro, si otterrebbero invece 6.015 euro cash, a fronte rispettivamente di 7.602 e 8.467 euro dopo 5 anni di versamenti in azienda o nel fondo pensioni. Che diventano 12.033 di stipendio in più dopo 10 anni, a fronte di 17.692 euro accumulati in azienda e ben 19.532 euro prodotti grazie al fondo pensione.

Se oltre al Tfr si calcolasse anche la contribuzione del datore di lavoro e quella del lavoratore, più aumentano gli anni di contribuzione e ovviamente più la forbice si allarga. Il «top» si tocca con 40 anni di versamenti: il Tfr in busta paga (con 25 mila euro di reddito) varrebbe 57.881 euro (103 euro netti in più al mese) a fronte dei 167.948 che si otterrebbero lasciando il Tfr in azienda ed i 271.678 della previdenza integrativa. Che in base alle attuali regole corrispondono ad una rendita annua di 16.840 euro oppure in 135.800 euro di capitale più una rendita annua di 8.419 euro. Allora, conviene il Tfr in busta paga? Secondo la società del Tesoro assolutamente no.

L’aumento dell’Iva è da evitare

L’aumento dell’Iva è da evitare

Cristina Bartelli – Italia Oggi

Aumento dell’Iva da evitare. Lo scatto in avanti, a partire dal 2016, contenuto nella legge di stabilità, porterebbe le aliquote Iva a livelli molto elevati. E la cura, individuata per le casse dello stato, potrebbe avere effetti peggiori del male con un aumento delle transazioni in nero. A tratteggiare lo scenario, ieri, intervenendo in audizione sulla legge di stabilità, davanti le commissioni Bilancio riunite di Camera e Senato, e stato il vicedirettore della Banca d’Italia, Luigi Federico Signorini. Per Banca d’Italia infatti «è preferibile si arrivi a non far scattare le clausole di salvaguardia completando le misure di razionalizzazione della spesa». La conseguenza, per il vicedirettore di Banca d’Italia (le aliquote Iva sui maggiori prodotti e servizi fino a 25% e 13% in due anni) dietro la cura di cavallo dell’Iva è un aumento delle transazioni in nero: «Più elevata e l’imposizione tanto maggiore l’incentivo all’occultamento delle transazioni finanziarie».

Ma le critiche al ricorso delle clausole di salvaguardia sono arrivate anche da Raffaele Squitieri, presidente della Corte dei conti, in audizione sempre ieri. «Appare opportuno sottolineare l’acuirsi delle incertezze sul gettito futuro, per effetto del crescente ricorso a clausole di salvaguardia che si connotano sempre più come soluzioni che rispecchiano difficoltà e ritardi nell’effettiva realizzazione della revisione della spesa pubblica» ha evidenziato Squitieri facendo il caso delle accise con aumenti di prelievo per complessivi 2,2 miliardi «gia prenotati», sottolinea Squitieri, «fino al 2021 per coprire esigenze di bilancio manifestatesi fin da otto anni prima». Sull’Iva il governo ha calcolato che l’aumento di un punto percentuale dell’aliquota del 10% vale 2,3 mld di euro. L’aumento di un punto dell’aliquota del 22% vale invece ben 4 mld. Dall’innalzamento di due punti percentuali dell’aliquota del 10% nel 2016 e di un punto percentuale nel 2017 (arrivando quindi al 13%) entrerebbero nelle casse dello Stato 6,9 mld mentre nel caso dell’aliquota del 22% si arriverebbe a un incremento di 8 mld all’anno.

Il vicedirettore di Banca d’Italia ha bacchettato inoltre il governo sulla voce del gettito, 3,5 mld, iscritto al contrasto all’evasione. La legge di Stabilità realizza «ulteriori passi» nell’affrontare l’evasione fiscale, spiega Bankitalia, e «alcuni interventi sono potenzialmente in grado di incidere sull’evasione» ma data la natura dei fenomeni «gli effetti di gettito vanno stimati con cautela». Per Banca di Italia inoltre è cruciale che la temporaneità del provvedimento» sul tfr contenuto nel ddl Stabilità «venga mantenuta». «Lo smobilizzo del tfr maturando», ha spiegato Signorini, «inciderebbe negativamente sulla capacità della previdenza complementare di integrare il sistema pensionistico pubblico soprattutto per i giovani, mediamente più soggetti a vincoli di liquidità».

Il presidente della Corte dei conti ha invece invitato a riflettere sulla natura del bonus Irpef degli 80 euro: «Nel momento in cui la legge di Stabilità rende permanente il bonus, sarebbe opportuna una riflessione sulla natura dell’istituto, per deciderne o l’assorbimento nella struttura dell’Irpef ovvero l’esplicito inquadramento fra le misure a sostegno dello stato sociale».

“Garanzia Giovani” labirinto burocratico: ogni offerta di lavoro è costata 58.700 euro

“Garanzia Giovani” labirinto burocratico: ogni offerta di lavoro è costata 58.700 euro

Emanuela Micucci – Italia Oggi

Garanzia Giovani sale a quota 273.124 iscrizioni, di cui 76.003, il 28%, sono giovani presi in carico e profilati. Mentre 29.229 sono i posti di lavoro disponibili. Un trend, quello delle registrazioni, salito negli ultimi due mesi a 50mila iscrizioni al mese, come ha sottolineato in Commissione Lavoro del Senato il ministro del Lavoro Giuliano Poletti indicandolo come «un buon risultato».

Dedicato ai 2.254.000 giovani tra i 15 e i 29 anni che né studiano né lavorano (i Neet), di cui circa 1,27 milioni hanno fino a 24 anni e tra questi 181mila sono stranieri, cioè il 21% dei ragazzi di questa fascia di età, il programma Garanzia Giovani «più che uno strumento efficace per offrire concrete opportunità di lavoro a centinaia di migliaia di giovani italiani, si è purtroppo rivelato un labirinto burocratico che non conduce da nessuna parte», osserva il Centro Studi ImpresaLavoro nella ricerca “Il labirinto della Garanzia Giovani” (www.impresalavoro.org). Analizzando i report periodici del ministero del Lavoro dall’avvio del programma (il 1 maggio scorso) fino al 9 ottobre, quando vi avevano aderito 250.770 giovani, di cui 59.150 sono stati poi effettivamente presi in carico dal sistema Garanzia Giovani ed erano stati offerti 25.747 posti di lavoro. Numeri leggermente aumentati a fine ottobre, come riportiamo in apertura del nostro articolo, ma che sostanzialmente confermano la conclusione di ImpresaLavoro: ogni ragazzo preso in carico è costato sin qui 25.600 euro e ogni offerta di lavoro ci è costata finora la somma ragguardevole di 58.700 euro.

«Sulla base dei dati sui Neet – spiega Giancamillo Palmerini, curatore della ricerca – il nostro Pese riceverà infatti risorse, a titolo della YEI (Youth Employment Initiative) pari a circa 567 milioni di euro. A questi si dovrà sommare un pari importo a carico del FSE, oltre al co-finanziamento nazionale. La disponibilità complessiva del programma sarà, pertanto, pari a circa 1.512 milioni di euro». Risorse su cui è intervenuto Poletti in Commissione Lavoro al Senato, indicando in 1,5 milioni la platea massima potenziale di giovani e in 900mila quella ragionevole, ma precisando che le risorse disponibili sono in grado di garantire il servizio potenzialmente a 400-500mila giovani». A oggi, ha aggiunto, «complessivamente sono stati impiegati 561 milioni di euro».

Secondo l’analisi di ImpresaLavoro, la maggior parte delle occasioni di lavoro è concentrata al Nord, ben il 71,7%, contro il 14,3% al Centro e il 13,9% al Sud mentre quelle all’estero rappresentano solamente lo 0,1%: percentuali rimaste invariate nel corso del mese.

La carica delle slot 2.0, raccolgono soldi in Italia e pagano le tasse all’estero

La carica delle slot 2.0, raccolgono soldi in Italia e pagano le tasse all’estero

Alessandro Barbera – La Stampa

A Bolzano, dove il gioco l’hanno dichiarato illegale tout court con una grida di stampo manzoniano, nei bar si trovano ormai solo quelli. Si chiamano «totem», e somigliano in tutto per tutto a bancomat per il prelievo di contante. All’ultima fiera del settore, a Roma, sono andati a ruba. Ne vendevano di ogni tipo: neri o colorati, multitouch, con distributore di gettoni o ricariche per cellulare. Per quanto tentino di camuffarle, altro non sono che macchine per il gioco on line: poker, gratta e vinci, scommesse sportive. Non sono le slot machine tradizionali, quelle macchine protagoniste di una querelle iniziata ai tempi di Vincenzo Visco su quanto dovessero versare al fisco. I «totem» non sono collegati alla rete dei Monopoli, non sono gestiti dai concessionari italiani, non pagano le tasse in Italia. I totem sono collegati a internet, e pagano le tasse dove sta il concessionario che le gestisce. Poco importa se in un paradiso fiscale, in Gran Bretagna o a Malta. Un ordine del giorno presentato alla Camera pochi giorni fa ha chiesto al governo di «rafforzare gli interventi repressivi», nel timore che finiscano per far crollare il gettito dei concessionari italiani.

Per capire il perché di questa esplosione occorre leggere un passaggio dell’articolo 44 della legge di Stabilità, quello che aumenta per quasi un miliardo il prelievo sulle slot machine dei concessionari italiani. «In attesa del riordino della disciplina in materia di giochi pubblici» e «per assicurare parità di condizione fra imprese che offrono scommesse per conto dello Stato e persone che offrono comunque scommesse con vincite in denaro»›…segue una lunga lista di disposizioni. In sintesi: i totem non sono autorizzati, ma nemmeno del tutto illegali. Basta scorrere la lunga serie di dissequestri avvenuti negli ultimi mesi: a Bolzano, a Venezia, Roma, Castel di Sangro, Catania. La Guardia di Finanza chiude i centri, il giudice non convalida. La ratio è la stessa che già nel 2012 aveva permesso il dissequestro di un centro scommesse di Stanleybet, la multinazionale inglese con sede a Liverpool. In quel caso il giudice sottolineò l’«assoluto dispregio delle regole comunitarie nella distribuzione delle concessioni».

Nel settore dei giochi, come già è accaduto nel caso di Google, tracciare il confine fra ciò che è italiano e ciò che non lo è a fini fiscali è sempre più difficile. Lo dimostra la soluzione kafkiana scelta dall’articolo 44 per una delle sanzioni da infliggere a chi installa un totem: non è pagata per l’apparecchio cosiddetto «abusivo», ma per ciascuno degli apparecchi installati e dotati di regolare concessione. La norma sembra folle ma non lo é: serve a dissuadere i gestori delle macchine dal far installare apparecchi «legali» negli stessi spazi dei totem.

Fino a che lo Stato non riuscirà a farsi pagare le tasse dai gestori stranieri non resta che farne pagare di più a chi ha una concessione in Italia. L’articolo 44 aumenta la tassa a carico delle vincite fino al 9 per cento per le videolotterie (oggi è al 5 per cento, tre anni fa era del 2), al 17 per cento (oggi è del 12 per cento) per le altre macchine come ad esempio il videpoker: per i concessionari italiani significherebbe azzerare o quasi i margini. Per limitare l’impatto dell’aumento, il governo propone di abbassare la vincita a chi gioca, riducendo la percentuale minima dal 75 al 70 per cento. C’è un ma: la revisione delle quote significa intervenire sul software di ciascuna slot. Secondo Fabio Schiavolin di Cogetech per adeguare le macchine sono necessari «da un anno a un anno e mezzo»: il rischio è quello di un nuovo maxicontenzioso. Confindustria stima che nel frattempo saranno stati persi 75mila posti di lavoro e fino a un quarto del gettito fiscale. Non un grande affare.

La Corte dei Conti: così le regioni truccano i conti

La Corte dei Conti: così le regioni truccano i conti

Federico Fubini e Roberto Mania – La Repubblica

Prestiti dal Tesoro non regolarmente iscritti fra debiti, in Piemonte. Cessioni di immobili della Liguria che risultano partite di giro in grado di arricchire, grazie alle commissioni, solo la Cassa di Risparmio di Genova. “Discrasie” che impediscono alla Corte dei conti di “parificare” (cioè dichiarare credibile) il bilancio della Campania. POI le spese non coperte della Sardegna, i controlli inesistenti della Calabria, le leggi senza relazione tecnica della Sicilia, gli aumenti di capitale delle società termali della Toscana, le spese non giustificate dei presidenti in Trentino-Alto Adige, i 1.600 dipendenti fuori bilancio del Friuli. Non c’è quasi Regione che ne esca indenne. Da quest’anno la Corte dei Conti ha il potere di controllare e certificare i conti dei governatori, grazie a una norma dell’ottobre 2012. E da qualche mese nelle relazioni della Corte stanno venendo alla luce centinaia di trucchi e imbellettature che a volte sconfinano nella falsificazione dei bilanci.

L’esercizio della magistratura contabile è di quelli condotti al di sotto dei radar, senza clamori. È un’operazione fra le più ardue perché – miracolo del federalismo all’italiana – ogni Regione d’Italia scrive il bilancio in base a regole che si è scelta da sola. Nell’ultimo decennio quasi nessuna si era mai dovuta assoggettare a un controllo esterno. Ora però sta succedendo mentre si avvicina una legge di Stabilità che taglia 4 miliardi alle Regioni stesse. E da un esame delle carte della Corte emerge che in molti casi i tagli e la pulizia di bilancio saranno durissimi.

Fra i casi più controversi c’è il Piemonte, dove la magistratura contabile ha negato la “parifica”, cioè la certificazione, di parte del bilancio. Una relazione della Corte dell’11 luglio parla di “dubbi sulla corretta iscrizione a bilancio della anticipazioni”, cioè di oltre due miliardi di euro prestati dal Tesoro nel 2013 per pagare gli arretrati alle imprese fornitrici della sanità. La Corte nota che il Piemonte nel 2012 “ha finanziato con le risorse ricevute dei debiti diversi”, e “passività pregresse extra bilancio”. L’accusa sarebbe dunque duplice: la giunta ha preso un prestito dal Tesoro per saldare le imprese creditrici, ma ha usato quei soldi per altre spese; in più, ha cancellato dal bilancio i debiti verso i fornitori già pagati, ma non ha iscritto i prestiti del Tesoro come nuovo debito. Se lo facesse uno Stato europeo, sarebbe un caso politico dirompente a Bruxelles e a Francoforte.

Ancora più drastico il giudizio sulla Campania, relativo al bilancio 2012. La Corte nega in blocco la parifica. “La Procura Regionale – si legge nella requisitoria del giudice – condivide le osservazioni attinenti alla mera regolarità contabile formulate dalla Sezione di controllo”. Poche parole burocratiche ma devastanti, a fronte di un bilancio da 16,8 miliardi con un deficit di 1,7 miliardi. La giunta ha fatto ricorso e per ora ha ottenuto il ritiro del giudizio della Corte dei Conti, ma questa resta un’amministrazione “vicina al default”.

Molto duro poi anche il giudizio sulla Liguria, dove la Corte nega il timbro su 91 milioni di “residui attivi” (crediti presunti ma in realtà inesigibili), su 103 milioni di cessioni di immobili e su 17,5 milioni di operazioni in derivati con la banca americana Merrill Lynch. L’amministrazione ligure presenta in realtà anche problemi più piccoli ma quasi grotteschi. Primo fra tutti, un bonus fino al 20% della paga in più dato ai direttori delle Aziende sanitarie. La Corte parla di “stortura”, perché l’obiettivo di produzione del premio di produzione 2013 ai dirigenti Asl viene fissato un mese prima della fine dell’anno stesso a un livello molto vicino: impossibile mancarlo, a quel punto. “Una scelta del tutto irrispettosa dei principi di efficienza”, dice il magistrato. Ancora peggio la presunta “cessione” per 103 milioni di immobili della Regione a Arte, un ente strumentale della Regione e con i soldi sempre della Regione transitati da un conto di Carige: certificazione negata.

Assai seri anche i problemi del Veneto, anch’esso a rischio bocciatura: la requisitoria del magistrato parla di “errori” di contabilizzazione dell’indebitamento e “rappresentazioni contabili scorrette”. Ma pure le giunte che passano l’esame non ne escono bene. Nelle provincie autonome di Trento e di Bolzano spese “di rappresentanza” dei due presidenti per decine di migliaia di euro non hanno giustificativi ritenuti credibili. In Toscana nel 2013 emerge uno scostamento al rialzo addirittura del 75% delle spese fra preventivo e consuntivo, da quota 10,4 miliardi fino a 18,4 miliardi. La giunta, invece di privatizzare, si è addirittura spinta a salire nel capitale della società Terme di Chianciano e in Fidi Toscana, una finanziaria in perdita che ha partecipazioni in tutto: dai caseifici della Maremma agli allevamenti ittici. Quanto al Friuli-Venezia Giulia, la Corte mostra che presenta 2.800 dipendenti, ma altri 1.700 lavorano per la stessa Regione, fuori bilancio, in un “sistema satellitare composto da enti, agenzie, aziende, società, enti funzionali”.

Insomma, credevamo che il fiscal compact ci avesse cambiato la vita. Fine della finanza pubblica allegra, nessuno sforamento se non in casi eccezionali. Le Regioni italiane, però, senza troppo clamore, vivono in un’altra epoca. Violando le regole dell’Unione, quelle del Parlamento nazionale, quelle del buon senso come quelle, infine, delle “più elementari regole contabili “, come ha scritto la Corte dei Conti nella relazione al bilancio della Sardegna. Già perché da quelle parti, ma non solo da quelle parti, si è davvero esagerato. Come nel 2010 e nel 2011 anche nel 2013 si è ricorso all’esercizio provvisorio. Il bilancio 2013 è stato approvato a maggio. Ma nel frattempo i legislatori sardi hanno approvato leggi senza alcuna copertura finanziaria, rinviando, per le coperture, proprio alla legge di bilancio che sarebbe arrivata dopo.

Pensate se un simile schema fosse adottato da un governo nazionale nei confronti di Bruxelles: prima spendo poi troverò le coperture. I giudici contabili parlano di una situazione “particolarmente grave”, di una situazione di “irregolarità complessiva”. E irregolarità per irregolarità, la regione Sardegna ha continuato a trasferire risorse alle partecipate, spesso senza che queste abbiamo un regolare contratto di servizio e spesso nonostante siano in perdita. Trasferimento, in quest’ultimo caso, in violazione della legge. C’è pure il caso della Fluorite di Silius (manutenzione e bonifica delle strutture minerarie) finita in liquidazione dal 2009. Bene, nel 2013 la Fluorite ha aumentato la propria spesa per il personale passando da poco più di tre milioni a 3,7 milioni. Si può? Certo che no. E la legge stabilisce che spetti proprio all’amministrazione regionale controllante il compito di contenere le voci della spesa corrente. Ma questa è una società partecipata da una Regione per di più a statuto speciale. Regione che non controlla nulla, non le partecipate, ma nemmeno i suoi assessorati. Hanno scritto i giudici della Corte dei Conti: “Si è potuto riscontrare che la Regione non esercita alcun controllo, in termini di semplice conoscenza, su aspetti essenziali ai fini dell’esercizio dei propri compiti gestionali e della propria programmazione finanziaria “. Regioni come le tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlo.

In Sicilia solo la metà delle leggi presentate dalla giunta sono accompagnate dalla relazione tecnica. “Ciò – scrivono i giudici contabili – non consente l’emersione di oneri che potrebbero rimanere occulti “. D’altra parte siamo nella regione in cui ci sono ancora pensionati con l’assegno calcolato sull’ultima retribuzione tanto che dal 2009 al 2013 la spesa previdenziale è cresciuta dell’8%. L’89% delle risorse va a spesa corrente il che pone “a serio rischio, per il futuro, il mantenimento dei necessari equilibri di bilancio”, scrive la Corte.

Andiamo in Calabria. Qui i debiti fuori bilancio sono diventati la norma, non l’eccezione. Nell’esercizio del 2013 sono stati riconosciuti oltre 2,3 milioni di debiti senza copertura ai quali aggiungere 24,5 milioni di debiti “da riconoscere ” già pagati a seguito di pignoramenti senza però copertura. In totale quasi 27 milioni di debiti scoperti. “L’esistenza di debiti senza copertura finanziaria condiziona pesantemente gli equilibri finanziari della Regione, in piena continuità ed assonanza con la deleteria prassi di procedere al riconoscimento di debiti fuori bilancio per somme sempre più ingenti”. Ma quando si arriva a pagina 55 del Giudizio sulla Calabria si rischia di rimanere allibiti: “La Regione non solo non è dotata di strumenti e sistemi atti a garantire in termini di cassa il rispetto dei vincoli tra entrate e spese, ma non è oggettivamente nelle condizioni di conoscere le proprie disponibilità di cassa vincolata dell’anno, né quelle per le quali occorrerebbe provvedere alla ricostituzione. Tale situazione costituisce violazione del principio di trasparenza ed è certamente foriera di una grave situazione di squilibrio della gestione vincolata della cassa regionale”. E anche di quelle statali, aggiungiamo noi.

Ricercatori precari a vita, solo uno su cento ce la fa

Ricercatori precari a vita, solo uno su cento ce la fa

Flavia Amabile – La Stampa

Solo un ricercatore precario su 100 nelle università italiane ha davanti a sé una possibilità vera di stabilizzazione, gli altri 99 stanno perdendo tempo. O, più semplicemente, stanno preparando le valigie per andare altrove, a molti chilometri di distanza da un’Italia che, lontano dai proclami dei consigli dei ministri di governi di ogni colore politico, non riesce a fare nulla per i suoi cervelli. L’Apri, associazione dei precari della ricerca, ha analizzato i dati attuali del ministero dell’università. Il ritratto che ne è emerso non è dei più lusinghieri per le università e per la politica italiana. Esistono 2450 ricercatori a tempo determinato di tipo A, cioè quelli che hanno durata triennale, rinnovabili per altri due anni e poi fine, si fermano lì, non possono fare altro. Ci sono 15.237 titolari di assegni di ricerca di vario tipo, in pratica persone che lavorano nelle facoltà come dei borsisti, dopo essersi procurati da soli i fondi per la loro attività ma che non otterranno mai alcuna stabilizzazione. Ed esistono 224 fortunati ricercatori a tempo determinato di tipo B, con contratti di tre anni, gli unici che possono portare alla promozione a professore associato se, al termine dei tre anni, avranno conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale. Sono 224 persone in tutt’Italia, assunte con contratti basati su una legge del 2010 che ha portato ai primi bandi solo dopo tre anni di attesa, nel 2013. A queste condizioni, quasi 99 ricercatori su 100 saranno espulsi dal sistema accademico, una cifra ancora più negativa di quella dello scorso anno, comunque drammatica, di 96 ricercatori che il sistema avrebbe buttato fuori.

In questa situazione che cosa sta facendo il governo Renzi? La riforma Gelmini che prometteva di risolvere il problema del precariato nelle università ha soprattutto cancellato il problema come dimostrano i dati e come denunciano le associazioni. La ministra Gelmini aveva anche previsto che il 40% delle risorse degli atenei per il turnover fossero destinate obbligatoriamente a posti di ricercatore a tempo determinato. Dopo di lei Francesco Profumo eliminò il vincolo e introdusse l’obbligo di creare un posto da ricercatore a tempo determinato di tipo B ogni nuovo professore ordinario per dare spazio vero ai giovani. Ora che stanno ripartendo i concorsi, la Crui, la Conferenza dei rettori, ha chiesto più volte di abolire la norma di Profumo. Il governo Renzi ha ceduto con una manovra molto furba: nella legge di stabilità si è esteso il vincolo rendendolo valido anche per i ricercatori di tipo A, quelli che non hanno speranze di trovare una sistemazione stabile nelle università.

«Ovviamente nessun ateneo avrà interesse ad assumere ricercatori di tipo B che costano di più e creano problemi in fatto di organico – commenta Luigi Maiorano, presidente dell’Apri -. È inutile, quindi, che anche questo governo annunci di poter risolvere il problema dei precari. L’esito delle decisioni prese dal governo è facilmente prevedibile: avremo più promozioni di associati ad ordinari e più precariato». «Si tratta di una mano di vernice su un sistema ormai arrugginito», spiega Antonio Bonatesta, segretario nazionale dell’Adi, l’associazione dottorandi e dottori di ricerca. «Ci troviamo dinanzi a interventi di maquillage che non si pongono in modo serio e credibile l’ obiettivo di risolvere strutturalmente la drammatica situazione dei giovani ricercatori in Italia». Ed estendere il vincolo, come ha fatto il governo Renzi, significa che – prosegue l’Adi – «Gli atenei -si orienteranno verso la figura che richiede il minor aggravio e cioè quella del ricercatore di tipo «a», sprovvisto di tenure track e più precario».

Fisco, a novembre 221 adempimenti

Fisco, a novembre 221 adempimenti

Isidoro Trovato – Corriere della Sera

Quali sono i due periodi dell’anno in cui si sente parlare di ingorghi? Estate e vacanze natalizie. E il Fisco si adegua. Il groviglio di scadenze che ha agitato le notti di imprese, professionisti e contribuenti in estate si ripresenta (con ammirevole coerenza) anche in quest’ultimo scorcio di 2014. Saranno oltre 400 gli adempimenti che attendono i contribuenti in questa parte finale di anno. Una concentrazione di adempimenti tale da mandare in tilt le aziende e gli studi professionali. Il paradosso, poi, sta anche nel fatto che un paio di giorni fa il Consiglio dei ministri ha approvato definitivamente il decreto legislativo sulle semplificazioni in attuazione della delega fiscale.

E così succede che, al di là delle (buone) intenzioni di velocizzazione manifestate dal governo, sono 221 le scadenze che attendono i contribuenti nel mese di novembre, come è rilevabile dal prezioso servizio presente nel sito internet dell’Agenzia delle Entrate sulle scadenze dei contribuenti. Si tratta di 221 tra versamenti, comunicazioni, dichiarazioni, adempimenti di varia natura. «Lo avevamo chiesto già in estate – afferma Rosario De Luca, presidente Fondazione Studi Consulenti del Lavoro -. Auspichiamo una vera razionalizzazione del calendario fiscale e interventi mirati ad evitare errori formali e l’applicazione del conseguente regime sanzionatorio».

Si parte con i versamenti mensili di ritenute fiscali, rate di Unico e Iva periodica fissati per il 17 novembre. Ma dicembre non sarà da meno, considerando che il giorno 1 scadranno gli anticipi delle imposte in acconto per il 2014. Acconti che vanno per l’Ires dal 101,5% fino al 130% per banche e assicurazioni, e al 100% per l’Irpef. E così, oltre ai consueti adempimenti mensili, nel mese di dicembre scadranno i termini per il versamento dei tributi comunali sugli immobili. I contribuenti infatti saranno chiamati alla cassa il 16 dicembre per il saldo dell’Imu e della Tasi. E il 27 dicembre, mentre ci si avvicina a Capodanno, arriva l’oneroso versamento dell’acconto dell’Iva.

Sempre a dicembre, altri due appuntamenti importanti: rispettivamente entro il 29 ed il 18 dicembre, scadranno i termini per le presentazioni tardive dei modelli Unico e dei 770. Ma prima che la mezzanotte del 31 dicembre porti via il 2014, gli obbligati alla tenuta delle scritture contabili ai fini fiscali dovranno procedere con la stampa dei registri relativi al periodo di imposta 2013. Volendo avere un visione d’insieme dettagliata per categoria il panorama non è certo più confortante. Interessati dal calendario fiscale sono tutti i contribuenti ma soprattutto i titolari di partita Iva. Nel dettaglio: imprenditori, artigiani, commercianti si troveranno di fronte 119 scadenze. Va un po’ meglio ai professionisti: ne avranno 117. Per le società di capitali ne sono previsti 100, mentre dipendenti e pensionati che se la caveranno con «soltanto» 51 scadenze.

Ma non finisce qui. Non bisogna dimenticare infatti che gli stessi contribuenti dovranno anche fare i conti con altre scadenze non fiscali, dunque non ricomprese nell’elenco pubblicato nel sito dell’Agenzia delle Entrate. Basti ricordare il versamento dei contributi previdenziali per lavoratori dipendenti, artigiani, commercianti, collaboratori, lavoratori domestici in scadenza il 16 novembre e il 16 dicembre. Dunque mettetevi una mano sul cuore (e una sul portafoglio) e preparatevi a un sereno fine anno con il Fisco.

Bomba Tfr nascosta nei conti pubblici

Bomba Tfr nascosta nei conti pubblici

Filippo Caleri – Il Tempo

C’è una bomba a orologeria sarebbe piazzata nella legge di Stabilità. Si tratta della riforma del Trattamento di fine rapporto (Tfr) che consentirà, a provvedimento approvato, di ottenere mensilmente in busta paga il tradizionale accantonamento fatto dalle aziende e da corrispondere a fine vita lavorativa. Se messo nel salario la somma che si percepisce sarà sottoposta a tassazione ordinaria, e non con le aliquote ridotte come quando viene liquidato alla fine della carriera lavorativa.

Sulla base di questo maggiore gettito registrato nella legge di Stabilità presentate dal governo Renzi e che rappresenta coperture per la rifduzione della tasse, la Confesercenti ha fatto due conti e, sulla base di un sondaggio affidato alla Swg, ha stimato che coloro che usufruiranno della facoltà concessa sono molti meno rispetto alle stime dei tecnici del Tesoro. Per questo basandosi sulla proiezione dei dati, l’associazione dei commercianti ha stimato che il gettito Irpef generato dalla maggiore tassazione sarebbe di un miliardo di euro, circa 1,5 miliardi in meno di quanto previsto dalla relazione tecnica alla Legge di Stabilità. Insomma a conti fatti il buco che si potrebbe aprire nei conti pubblici se il comportamento dei salariati replicherà le intenzioni espresse nell’analisi, sarebbe proprio di circa un miliardo. Somma che a quel punto dovrebbe essere recuperata con maggiori tagli alla spesa, difficili da portare a termine, oppure con nuove tasse. Si tratta di un rischio non ancora evidente, che si concretizzerà solo nel 2015, cioè a partire dal prossimo primo gennaio quando la scelta sulla destinazione del proprio accantonamento sarà possibile.

L’analisi delle risposte date dagli intervistati non lascia, però dubbi su quali siano le intenzioni dei lavoratori. Secondo il sondaggio delle Confesercenti solo il 18% dei dipendenti privati italiani, dunque circa due su dieci, sceglierà di avere il Tfr in busta paga, a fronte del 67% che invece continuerà a lasciare accumulare il suo trattamento di fine rapporto nell’impresa in cui lavora o nei fondi negoziali di categoria quando le pianta organica supera la soglia dei 50 dipendenti. Un segnale che dimostra, anche nella recessione, il rapporto di fiducia che intercorre tra i lavoratori dipendenti e le loro imprese. Infine 15% di dipendenti, invece, ancora non ha deciso. Non mancano i timori delle imprese. Il 64% degli imprenditori teme che, se tutti o la maggior parte dei dipendenti scegliessero di avere il Tfr su base mensile, l’azienda avrebbe difficoltà con la liquidità disponibile, a fronte di un 36% che, invece, non avrebbe problemi. Gli ostacoli sembrano nascere dagli impedimenti che le imprese incontrano nell’ottenere prestiti e finanziamenti dal canale bancario, segnalati dal 66% degli imprenditori.

Hanno già scelto di usufruire della possibilità introdotta dalla legge di stabilità soprattutto le persone di età compresa tra i 35 e i 44 anni (21%), seguiti dai giovani fra i 18 ed i 24 (19%). Lo lasceranno in azienda, invece, soprattutto le persone più vicine alla fine del rapporto lavorativo: non lo toccheranno principalmente coloro tra i 55 e i 64 anni (72%) e tra i 45 ed i 54 (70%). Tra i lavoratori che hanno intenzione di richiedere il Tfr su base mensile, la maggior parte è ancora incerta su come utilizzare la liquidità in più (44%). Le indicazioni del sondaggio della Swg-Confesercenti lasciano poco spazio alla tesi che l’effetto espansivo sui consumi del Tfr, ottenuto dai dipendenti, possa consentire allo Stato di recuperare il prevedibile gettito perso grazie alla tassazione indiretta, e cioè l’Iva, sui maggiori acquisti indotti dall’aumento delle disponibilità finanziarie nelle tasche dei lavoratori. Se nel 2015 le indicazioni date dagli intervistati dovessero rimanere invariate, l’Ufficio Economico Confesercenti stima un effetto espansivo modesto sulla spesa, con un incremento, a fine 2015, di 380 milioni, pari allo 0,1% dei consumi commercializzati. Troppo poco.

Col 730 a casa meno rimborsi fiscali

Col 730 a casa meno rimborsi fiscali

Antonio Castro – Libero

Una dichiarazione dei redditi semplificata per 20 milioni di contribuenti? Non proprio, visto che – stimano preoccupati commercialisti, consulenti del lavoro, tributaristi e Caf – circa l’85% delle dichiarazioni che l’Agenzia delle Entrate (non) preparerà dovranno essere integrate. E qui salta fuori il dubbio: l’innovazione della dichiarazione precompilata, fortemente voluta dal governo, quest’anno non prevederà tutta una serie di detrazioni e deduzioni che contribuiscono (al 19% delle spese sostenute), ad alleggerire il carico fiscale. Ogni anno (dati relazione Vieri Ceriani sull’Erosione fiscale), ben 14.150mila contribuenti (circa uno su tre dei 40 milioni di contribuenti censiti), portano al commercialista, al consulente o ai Caf spese mediche e sanitarie. Ebbene quest’anno (2015, redditi 2014), queste spese non saranno calcolate dal fisco ai fini di conteggiare l’eventuale detrazione che spetta ad ognuno di noi.

In media ogni anno ciascun italiano – inserendo nella dichiarazione dei redditi scontrini di farmaci, visite mediche e fatture per prestazioni sanitarie – ottiene uno sconto di 166 euro. Un rimborso fiscale esiguo, certo, che però moltiplicato per 14 milioni e rotti di contribuenti fa la bellezza di oltre 2,3 miliardi che l’Erario non in cassa (e che il sostituto d’imposta il luglio successivo deve restituire). Il governo ha spiegato che quest’anno, visto che il 730 precompilato è stato lanciato con cosi poco preavviso, non saranno calcolate le eventuali detrazioni spettanti per spese mediche e sanitarie, spese funerarie e erogazioni a onlus e associazioni benefiche. Il grande fratello fiscale non sarebbe in grado di calcolare l’esatto ammontare delle detrazioni spettanti perché se è vero che conosce dalle farmacie (scontrino elettronico farmaceutico) i nostri acquisti con codice fiscale, non ha invece una banca dati delle altre spese sanitarie. Visite specialistiche, terapie odontoiatriche, presidi medici (occhiali o protesi), non vengono censiti anche se fatturate elettronicamente e quindi l’incrocio telematico di dati non è oggi possibile. Se è vero che la fattura del cardiologo o del dentista non è quasi mai telematica, gli scontrini della farmacia però risultano all’Agenzia, che monitorizza (con Sogei) tramite il codice fiscale l’andamento della spesa, salvo poi tirarsi indietro quando si tratta calcolare e riconoscere automaticamente le detrazioni spettanti (l9% di quanto speso), al contribuente.

Ma c’è dell’altro: l’introduzione della precompilata prevede che il contribuente che accetta, senza modificare o integrazioni, la dichiarazione abbia una sorta di immunità. Insomma, chi accetta quanto scrive l’Agenzia non verrà sottoposto a eventuali controlli e accertamenti ex post. Chi invece volesse integrare la dichiarazione rientrerà nel potenziale bacino dei controlli automatici. Se invece si accetterà la dichiarazione ma si apporteranno delle modifiche «che incidono sulla determinazione del reddito o dell’imposta, il contribuente non beneficierà dell’esclusione dai controlli». Tradotto: se si accetta per buono la dichiarazione delle Entrate, si ha “l’immunità fiscale”. Se invece si integra, magari chiedendo la detrazione del 19% delle spese me- diche sostenute, il fisco continuerà a controllare. Considerando il rimborso fiscale medio – 166 euro, stimato dal ministero dell’Economia – c’è da chiedersi quanti saranno gli italiani che per pochi spiccioli rinunceranno a chiedere il rimborso pur di evitare di finire nel calderone dei controlli postumi.

Ogni anno l’Agenzia delle Entrate invia ben 900mila richieste di chiarimento in merito alle dichiarazioni dei redditi consegnate da altrettanti contribuenti. La precompilata dovrebbe servire per abbattere questo carteggio. O meglio: le richieste di chiarimento giungerebbero solo ai professionisti e ai Centri di assistenza fiscale. Ma nel caso in cui non si accettasse la dichiarazione compilata dal fisco, allora resterebbe valida la facoltà di controllo. Sorge il sospetto che escludere l’automatismo di calcolo per le spese mediche (così come per quelle funebri, le donazioni o le spese di istruzione), e introducendo contestualmente “l’immunità dai controlli” per chi accetta passivamente la dichiarazione preparata dall’Agenzia delle Entrate, sia un modo per contenere e ridurre le richieste di rimborso, vista anche l’esiguità degli importi. E così lo Stato eviterebbe di restituire – nel luglio dell’anno successivo – le eventuali maggiorazioni d’imposta già pagate. Il vantaggio per le casse dello Stato sarebbe più che simbolico. Milioni di contribuenti che non reclamano rimborsi si traducono in miliardi di maggiore disponibilità per il bilancio pubblico. Non è proprio un taglio delle detrazioni vigenti – come ipotizzato già nel 2013 – ma gli assomiglia molto…

In Italia il divario coi maschi vale quanto una busta paga

In Italia il divario coi maschi vale quanto una busta paga

Giacomo Galeazzo – La Stampa

Mezzo secolo di ritardo: di questo passo per arrivare alla parità di stipendio, secondo le ultime statistiche, bisognerà aspettare il 2058. E così nel 2014 il gap con i colleghi maschi costa alle lavoratrici italiane una busta paga. In Europa la differenza retributiva penalizza in media le donne del 16% (in Estonia il 27%), in Italia la distanza scende al 6,7% solo perché la proporzione di donne che lavorano è più bassa e nel Mezzogiorno solo due giovani su dieci hanno un impiego.

Il tasso di occupazione delle italiane è appena del 46%. Perciò il campione delle donne che lavorano, per le quali quindi si osservano i salari, comprende in misura relativamente maggiore donne laureate ed esclude quelle che, sulla base delle loro caratteristiche, avrebbero prospettive di remunerazione più basse. «In passato le italiane non lavoravano per un ritardo culturale, oggi invece si scoraggiano prima degli uomini nella ricerca di un salario e ripiegano sugli impieghi domestici – spiega a La Stampa il sociologo del lavoro Domenico De Masi-. Quando un’azienda deve ridurre la manodopera, si libera prima delle donne». E gli stipendi più bassi dipendono da «una questione contrattuale», cioè «il datore di lavoro tende a pagarle meno e loro accettano di guadagnare meno perché altrimenti non vengono prese», precisa De Masi. Quindi «incide molto la maternità: se resta incinta l’imprenditore continua a pagarle una parte dello stipendio (l’altra la paga l’Inps) senza poter contare su di lei per un lungo periodo». Negli Stati Uniti, «la gravidanza viene trattata come una malattia e indennizzata per settimane non per mesi come nel nostro Welfare». Insomma, in Italia la proporzione delle donne nel mondo del lavoro è nettamente inferiore che in altri Paesi, dove guadagnano meno degli uomini, ma almeno riescono a lavorare. Molte italiane, o non entrano affatto nel mondo del lavoro o ne escono presto.

L’Institute for women’s policy research attesta che «l’altra metà del cielo» rappresenta quasi la metà della forza lavoro, quattro volte su dieci è capofamiglia, e più istruita degli uomini eppure continua a guadagnare meno. In Gran Bretagna il divario salariale è del 19,1%, nella Germania della cancelliera Angela Merkel arriva addirittura al 22,4%, in Francia al 14,8%. La differenza di stipendio è maggiore negli inquadramenti medi e bassi. Tra gli impiegati raggiunge il 15%, in ambito operaio si ferma al 10%. Mentre dirigenti e quadri si attestano al 10% e 6%. Secondo l’ultimo rapporto Almalaurea, in Italia a un anno dal titolo gli uomini guadagnano in media il 32% in più delle loro colleghe (1.194 euro contro 906). A cinque anni dalla laurea, il divario passa al 31% (1.587 contro 1.211).

Da quando, nel 2011, è stata inaugurata la Giornata europea per la parità, il divario salariale fra uomini e donne in Europa è passato dal 17,5% al 16,4. Ma la differenza grava come un macigno e si può tradurre in giorni di lavoro extra. In Italia ne servono trentasei alle donne per riempire il gap nel settore dei servizi, quello più «rosa»›, dove si concentra un terzo delle occupate (segretarie, impiegate, assistenti). La retribuzione oraria netta parla chiaro. In agricoltura ci vogliono due mesi per arrivare alla parità, in banca e nelle compagnie assicurative 59 giorni, nella pubblica amministrazione 39. «Al momento di assumere un dipendente il datore di lavoro tiene conto del percorso lavorativo futuro- osserva De Masi-. Nella programmazione di un imprenditore non è la stessa cosa prendere in azienda una ventenne o un coetaneo maschio». Sono 702mila, infatti, le occupate con figli minori di otto anni che hanno interrotto temporaneamente l’attività lavorativa per almeno un mese dopo la nascita del figlio più piccolo: il 37,5% del totale delle madri occupate. L’assenza temporanea dal lavoro per accudire i figli continua a riguardare solo una parte marginale di padri. Anche il congedo parentale è utilizzato prevalentemente dalle donne, riguardando una madre occupata ogni due, a fronte di una percentuale del 6,9% dei padri.