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Lavoro, tutte le nuove misure (senza articolo 18)

Lavoro, tutte le nuove misure (senza articolo 18)

Lorenzo Salvia – Corriere della Sera

Quello a tempo indeterminato e a tutele crescenti sarà il tipo di contratto «privilegiato in termini di oneri diretti e indiretti». Per questo sarà possibile incentivarlo, sotto forma di taglio dei contributi o dell’Irap da quantificare successivamente con le norme attuative, in modo da renderlo più vantaggioso rispetto ai contratti a termine che altrimenti non avrebbero rivali, specie dopo la liberalizzazione di pochi mesi fa. E con l’obiettivo finale di arrivare al «superamento delle tipologie contrattuali più precarizzanti». Nell’emendamento al Jobs act , il disegno di legge delega per la riforma del lavoro sul quale oggi il Senato dovrà votare la fiducia, il governo fa qualche altro passo verso la minoranza del Pd, che però resta critica.

Licenziamenti
Dal pacchetto, otto pagine che ieri sera hanno avuto la bollinatura della Ragioneria generale dello Stato e stamattina saranno depositate formalmente in Senato, resta però fuori ogni riferimento alle nuove regole sui licenziamenti e all’articolo 18. La questione sarà confinata ad un semplice discorso che il ministro del Lavoro Giuliano Poletti farà in Aula. Dichiarazioni spontanee, nessuna votazione a seguire. Come indicato nel documento votato nella direzione del Pd, il ministro si impegnerà a mantenere il reintegro nel posto di lavoro per i licenziamenti disciplinari, quelli addebitati al comportamento del dipendente, che dovessero essere giudicati ingiustificati dalla magistratura. Ma solo in alcuni casi limite e comunque rimandando i dettagli al 2015, quando il Jobs act sarà stato approvato anche alla Camera e il governo scriverà i decreti attuativi.

La tipizzazione
A quel punto, ma solo a quel punto, il governo procederà ad una tipizzazione più stretta dei licenziamenti disciplinari ingiustificati, in modo da ridurre il margine di discrezionalità dei magistrati. E lascerà aperta la possibilità per l’azienda di scegliere comunque l’indennizzo, ma più caro, anche quando il magistrato dispone il reintegro. I decreti attuativi passeranno in Parlamento solo per un parere non vincolante, e il governo avrà gioco più facile rispetto al difficile compromesso che deve cercare adesso. Una semplice dichiarazione del ministro non è una garanzia sufficiente per la minoranza Pd, che con Cesare Damiano avverte: «La battaglia per migliorare la delega continuerà alla Camera». Ma potrebbe funzionare da scudo in futuro, se le norme attuative dovessero essere impugnate davanti alla Corte costituzionale perché vanno al di là della delega, visto che nel Jobs act manca un riferimento proprio all’articolo 18.

Mansioni e voucher
Nell’emendamento ci sono altri due passi verso la minoranza Pd. Il primo è sul demansionamento, cioè la possibilità di assegnare al lavoratore mansioni inferiori a quelle della categoria di appartenenza. L’operazione sarà possibile rispettando le «condizioni di vita ed economiche del lavoratore», il che non vuol dire necessariamente conservando lo stesso salario ma quasi. Mentre sui voucher, i buoni lavoro utilizzati per le prestazioni occasionali, resta fermo il principio di un tetto massimo al loro utilizzo, che però sarà definito sempre con le norme attuative.

Scioperi e referendum
Non ci saranno invece, salvo sorprese, le norme sulla rappresentanza, sulla contrattazione aziendale e sul salario minimo, delle quali aveva parlato lo stesso Matteo Renzi nel corso dell’incontro con i sindacati avuto in mattinata. L’obiettivo è quello di impedire scioperi e referendum quando un accordo viene firmato dal 50% più uno dei rappresentanti sindacali, limitando il diritto di veto delle sigle più piccole (leggi Fiom). Mentre il salario minimo potrebbe sostituire in parte i contratti nazionali, indebolendo anche i sindacati più grandi. Il progetto resta in piedi ma con tempi più lunghi.

Sbaglia l’Erario? Paga il commercialista

Sbaglia l’Erario? Paga il commercialista

Franco Bechis – Libero

I commercialisti e gli intermediari autorizzati come i Caf pagheranno per gli errori dell’Agenzia delle Entrate. Nonostante le richieste di modifica avanzate dalle commissioni parlamentari e le promesse avanzate negli incontri con i professionisti, il governo non modificherà la sostanza più controversa del decreto legislativo sulla semplificazione fiscale, quello che stabilisce la messa a disposizione dal 2015 della dichiarazione dei redditi precompilata.

Il provvedimento è uno dei fiori all’occhiello del governo Renzi, che a inizio estate aveva inviato a Camera e Senato la prima bozza di decreto legislativo sulla «dichiarazione dei redditi a casa». Molti punti però non sono piaciuti alla maggioranza che aveva inserito nei pareri votati sia alla Camera che al Senato decine di richieste di modifica. Il governo le ha quasi tutte rigettate con una procedura che non ha molti precedenti e ha inviato il nuovo testo per un parere alle commissioni parlamentari. Scelta un po’ inutile, vista l’inefficacia dei pareri precedenti, ma la forma è salva. Il decreto bis del governo non modifica il suo impianto: la dichiarazione dei redditi precompilata verrà inviata «per via telematica» ai pensionati e ai lavoratori dipendenti, e probabilmente non tutti ne ricaveranno grande vantaggio, costretti anche solo per imperizia tecnologica a rivolgersi a un intermediario come il commercialista o il Caf.

Ottenuta quella dichiarazione dei redditi precompilata i contribuenti avranno due facoltà: accettarla così come è, presentandola senza correzioni. Oppure modificarla anche solo per inserire detrazioni o deduzioni a cui si ha diritto (ad esempio le spese mediche). In tale caso la dichiarazione andrà ricompilata come non fosse arrivata dalla Agenzia delle Entrate e ogni vantaggio pratico sparirà. Ma sia nel primo caso (si rimanda indietro la dichiarazione ricevuta), che nel secondo (la si cambia inserendo deduzioni e detrazioni), l’Agenzia delle Entrate potrà effettuare un controllo formale e contestare le cifre inserite. Non lo farà nei confronti del singolo contribuente, a meno che non ci sia dolo o colpa manifesta, ma sanzionerà il commercialista o il Caf che presenta la dichiarazione dei redditi apponendovi il visto di conformità.

L’intermediario quindi dovrà controllare anche la semplice dichiarazione precompilata dall’Agenzia delle Entrate, perché se lo Stato compie errori per il difetto di incrocio delle sue banche dati (che infatti funzionano non alla perfezione), scatteranno sanzioni a commercialisti e Caf. Camera e Senato avevano chiesto di fare sparire questa norma, che sembra illogica: se lo Stato non è in grado di compilare una dichiarazione dei redditi fedele, perché mai dovrebbe essere in grado di controllare meglio un commercialista? Ma il governo è stato irremovibile: gli intermediari sono pagati per il loro lavoro, per cui debbono accettare il rischio conseguente. L’unica cosa che si concede loro è un po’ di tempo (da luglio al 10 novembre) per rettificare i dati presentati pagando una sanzione ridotta di un ottavo del minimo previsto.

Il grande gelo degli investimenti

Il grande gelo degli investimenti

Riccardo Gallo – Corriere della Sera

Il governo non ha abbastanza tempo e soldi per fare tutte le riforme necessarie. L’ideale sarebbe individuarne una che fosse tanto virtuosa da rendere le altre meno urgenti. Questo bandolo della matassa però non l’ha cercato ancora nessuno. Cominciamo col dire che ci può essere crescita economica e lavorativa solo se le imprese private tornano a investire. L’ha detto anche Mario Draghi.

In un lavoro di ricerca abbiamo analizzato dal 1992 al 2013 l’insieme delle imprese industriali censite da Mediobanca. È venuto fuori che l’anzianità dei mezzi di produzione è raddoppiata: nove anni nel 1992, undici nel 2003, diciannove nel 2013. Da tempo le imprese non rinnovano gli impianti, tirano il collo a quelli vecchi, con rischi per ambiente e sicurezza. Per ridurre i costi fissi, fanno fare sempre più cose ad altri. Il valore aggiunto, si sa, è quanto un’impresa ci mette di suo in quello che vende. Ebbene si è quasi dimezzato: nel 1992 era il 27% del prodotto, nel 2005 era sotto il 20%, nel 2013 appena il 15%. Gli impianti più vecchi sono già ammortizzati, perciò gli ammortamenti ancora da fare sono pochi e così, finché le fabbriche reggono, e nonostante il crollo del valore aggiunto, restano margini per utili incredibili.

Tutti festeggiano, anche il Fisco. Non spendendo per nuovi investimenti, né per impianti né per acquisire aziende, la cassa è piena e serve a ridurre l’esposizione bancaria. Alla fine, anche se i prodotti continuano ad avere domanda di mercato, le imprese chiudono gli impianti vecchi. Perciò mese dopo mese la produzione e gli ordini calano, ma mica solo per congiuntura avversa. È che l’Italia si deindustrializza. Dall’analisi si vede che gli indicatori sono peggiorati un po’ dopo l’euro. Ciò fa pensare a una resa degli imprenditori per la rigidità del cambio. Tra tutti gli indicatori però ce n’è uno che fa eccezione. Il surplus di cassa (per mancati investimenti) comincia a essere evidente già nel 1999, un istante prima del debutto dell’euro. La causa originaria del declino va dunque cercata in un momento antecedente.

Qualcos’altro dev’essersi rotto nella seconda metà degli anni Novanta nel modello industriale italiano. Per cinquant’anni gli imprenditori avevano evaso il Fisco, avevano portato capitali all’estero, avevano promosso investimenti di ampliamento, avevano chiesto mutui agli istituti di credito industriale, li avevano ottenuti dopo un esame di merito, spesso a condizione che prima ricapitalizzassero la società, avevano ubbidito e avevano riportato dall’estero i capitali a casa, senza condoni, anzi orgogliosi. Quasi mai licenziavano i loro collaboratori. È stato il modello di un’Italietta irregolare che se la cavava e cresceva.

Nel 1993 il varo della banca universale ha superato la bipartizione tra banche commerciali che finanziano il breve e istituti di credito industriale a medio-lungo termine. Tra il 1994 e il 1999 le banche commerciali hanno incorporato sei istituti di credito industriale e ne hanno disperso il mestiere. A quel punto le imprese industriali non hanno più chiesto o ricevuto mutui. Nel 1992 su 100 euro di capitale di rischio ce n’erano 60 di mutuo, nel 1998 ne restavano 37. Le imprese hanno smesso di fare investimenti tecnici, poche hanno fatto shopping societario all’estero. Tutto si è ridotto al breve: magazzino, incasso dai clienti, pagamento dei fornitori. Sono aumentate le sofferenze delle banche verso le imprese più piccole. Stentano i titoli ABS, le cartolarizzazioni. Abrogato il modello dell’Italietta, non è decollato l’altro per un’Italia moderna. Può essere questo del finanziamento degli investimenti il bandolo della matassa?

Entrate, in aumento Iva e rendite

Entrate, in aumento Iva e rendite

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Nell’anno in cui il Pil registrerà una contrazione dello 0,3%, le entrate tributarie per ora mostrano una sostanziale tenuta. Stando ai dati diffusi ieri dal ministero dell’Economia, nel periodo gennaio-agosto le entrate tributarie erariali, accertate in base al criterio della competenza giuridica, si sono attestare a quota 266 miliardi, in lieve flessione dello 0,4% rispetto allo stesso periodo del 2013. Un segnale positivo si evidenzia sul fronte dell’Iva che segna un incremento del 3,1% (due miliardi in più di gettito). Nel complesso, le imposte dirette registrano un gettito di 142,6 miliardi, in calo del 3,5% (-5,1 miliardi) nel confronto con i primi otto mesi dello scorso anno. L’Irpef – rileva il Mef – presenta una leggera variazione negativa dello 0,8% (-928 milioni di euro), che riflette gli andamenti delle ritenute sui redditi dei dipendenti del settore privato (-0,8%), delle ritenute sui redditi dei dipendenti del settore pubblico (-1%) e dei lavoratori autonomi (-2,5%), parzialmente compensati dall’aumento dei versamenti in autoliquidazione (+0,8%).

Quanto all’Ires, i dati diffusi ieri evidenziano un calo del 18,7% (-3,5 miliardi), «essenzialmente riconducibile ai minori versamenti a saldo 1013 e in acconto 2014, effettuati da banche e assicurazioni a seguito dell’incremento della misura dell’acconto 2013 fissato», per questi contribuenti, al 130% nel novembre del 2013. In calo anche l’imposta sostitutiva su interessi e altri redditi di capitale (-10,3%) e sul risparmio gestito e amministrato (-26,2%). Un effetto in qualche modo “compensativo” dell’aumento della percentuale dell’acconto dovuto nei mesi scorsi. Il bollettino segnala, invece, un aumento del 110,7% (465 milioni) del gettito dalle ritenute sugli utili distribuiti da persone giuridiche: la spiegazione è riconducibile sia all’aumento dei dividendi dovuti nel 1014 sia a un primo effetto dell’aumento della tassazione sulle rendite (passata dal 20% al 26% dal 1 luglio scorso).

Per quel che riguarda le imposte indirette, il gettito è pari a 123,4 miliardi, con un incremento del 3,4% (+4,1 miliardi), rispetto ai primi otto mesi dello scorso anno. Il Mef conferma che per l’Iva l’andamento positivo riguarda in particolare gli scambi interni (+4,1%) mentre il gettito dell’accisa sui prodotti energetici (oli minerali) registra un incremento del 6,8%, principalmente per effetto dell’abolizione della riserva destinata alle regioni a statuto ordinario, che dal mese di dicembre 2013 viene contabilizzata tra le imposte erariali. Le entrate relative ai giochi presentano infine una lieve crescita dello 0,5% (+36 milioni di euro), mentre gli incassi da attività di accertamento e controllo risultano in crescita del 14,2% (+681 milioni di euro).

Grecia, la cura funziona: dopo sei anni di recessione il Pil riprende a crescere

Grecia, la cura funziona: dopo sei anni di recessione il Pil riprende a crescere

Tonia Mastrobuoni – La Stampa

Dopo sei anni di recessione e quattro di durissimi aggiustamenti dei bilanci, la Grecia ha presentato ieri una finanziaria che conferma una stima di crescita dello 0,6% per quest’anno e addirittura del 2,9 % per il 2015. Soprattutto, in virtù delle correzioni dei conti degli ultimi anni, il ministro delle Finanze Gikos Hardouvelis è certo di raggiungere quasi il pareggio di bilancio l’anno prossimo (un disavanzo dello 0,2%) – il primo da oltre quattro decenni. E il vero indicatore dello stato di salute delle finanze pubbliche, l’avanzo primario (la differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi sul debito), schizzerà nel 2014 al 2 e l’anno prossimo addirittura al 2,9%.

Cifre che per il governo Samaras significano che l’uscita dal programma di salvataggio Ue-Fmi potrebbe essere anticipato di oltre un anno, alla fine del 2014 invece che all’inizio del 2016. Un impegno che libererebbe Atene dalla morsa della troika Fmi-Bce-Ue ma che potrebbe costare ai greci anche 12 miliardi circa di aiuti. Il Tesoro ha intenzione, stando alla finanziaria, di emettere un’obbligazione a dieci e una a sette anni il mese prossimo, oltre ad un bond a breve (26 settimane). La scorsa settimana, dopo che la Bce ha annunciato l’avvio di un vasto programma di acquisti di titoli cartolarizzati Abs che includerà anche quelli con rating bassi, se provenienti da Paesi sotto programma come la Grecia e Cipro, i rendimenti sui bond sovrani greci sono crollati. Atene è tornata sul mercato, dopo quattro anni di assenza, all’inizio di quest’anno con un’obbligazione a sette anni.

«Il Paese sta entrando in un lungo periodo di crescita sostenibile e avanzi primari di bilancio, che daranno una spinta all’occupazione, taglieranno la disoccupazione e aumenteranno la qualità della vita a molti cittadini» ha dichiarato ieri il viceministro alle Finanze, Christos Staikourias, aggiungendo che «questo è il risultato di sacrifici senza precedenti. Faremo in modo che non siano stati vani». La disoccupazione raggiungerà quest’anno ancora cifre spaventose – il 24,5% – ed è prevista in calo l’anno prossimo al 22,5. Ma con l’aria da crisi di governo che tira ormai da mesi ad Atene, il governo Samaras ha incluso nella manovra anche una robusta riduzione delle tasse sul combustibile da riscaldamento – il 30% – e un taglio dell’imposta cosiddetta «di solidarietà» sopra i 12mila euro. Da oggi la finanziaria sarà discussa in Parlamento, venerdì è previsto il voto di fiducia ma Samaras può contare su soli quattro parlamentari di scarto rispetto all’opposizione.

Una partita sul filo del rasoio aggravata da uno scenario ancora più complesso che rischia di materializzarsi all’inizio dell’anno prossimo, quando sono previste le elezioni presidenziali. Samaras avrà enormi difficoltà a mettere insieme i 180 deputati su 300 che servono per eleggere il presidente della Repubblica. Se dovesse fallire nell’intento, la legge prevede elezioni anticipate. E i sondaggi attuali danno Syriza, il partito dell’eurodeputato Alexis Tsipras, in netto vantaggio sui conservatori: la forbice tra la sinistra radicale e Nea demokratia varia dai 2,5 agli 8 punti. Abbastanza per vincere e conquistare il generoso premio di maggioranza greco di 50 deputati, ma non abbastanza per governare da solo.

Dopo la casa, il tfr: Renzi ora stritola le imprese

Dopo la casa, il tfr: Renzi ora stritola le imprese

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Qualsiasi intervento sul Tfr sarà volontario e a costo zero per le imprese. Parola del governo. Alla vigilia dell’incontro con i sindacati ai quali il premier Matteo Renzi vuol far digerire il Jobs Act mettendo sul tavolo come compensazione l’anticipo delle liquidazioni sugli stipendi, si moltiplicano i messaggi rassicuranti soprattutto alle imprese che rischiano di più da questa operazione. Così prima il ministro dell’Interno Alfano e poi il viceministro all’Economia, Enrico Morando, hanno ribadito che se l’intervento andrà in porto, verrà «fatto in modo che per la liquidità delle imprese risulti neutrale e per i lavoratori non aumenti il prelievo Irpef. E comunque sarà volontario». Tra le opzioni sul tavolo anche quella di dare una compensazione alle imprese attraverso i nuovi prestiti della Bce alle banche.

Ma al di là delle rassicurazioni, resta il sospetto che il governo voglia acquisire al fisco maggiori risorse per finanziare gli 80 euro e renderli stabili. L’esperienza della Tasi che non avrebbe dovuto portare maggior onere fiscale rispetto alla vecchia Imu e che invece si è tradotta nell’ennesima batosta, è un precedente che induce a guardare con sospetto alle promesse del governo. Dai calcoli dei Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro emerge che mettere nelle buste paga il Tfr significa per i lavoratori un maggior reddito pari a circa 40 euro al mese (in caso di Tfr erogato al 50%), circa 62 euro al mese (in caso di Tfr erogato al 75%) e circa 82 euro al mese (in caso di Tfr erogato al 100%). Il Tfr maturato ogni anno è circa 21,451 miliardi di euro. Non c’è solo il problema di privare le aziende di liquidità ma anche di asciugare la fonte principale della previdenza integrativa a cui ogni anno vengono destinati 6 miliardi del Tfr. Il dibattito si è scatenato. «La soluzione dell’anticipo del Tfr a costo zero per le aziende, paventata dal governo, è tutta da verificare» afferma il deputato di Forza Italia Luca Squeri. Per Stefania Prestigiacomo sempre di FI, «darebbe solo un colpo di grazia al Paese». Michele Perini, presidente della Fiera di Milano, lancia l’allarme: «Sarebbe un guaio grandissimo per le finanze imprenditoriali che utilizzano quella liquidità anche per far funzionare il sistema». E lancia l’alternativa: «Si può semmai discutere di Tfr futuro ma con un accesso al credito al 2,75%».

Troppe tasse, ecco la gara a demolire la propria casa

Troppe tasse, ecco la gara a demolire la propria casa

Filippo Caleri – Il Tempo

Dal valore del mattone al piccone per demolirlo. È il triste destino del patrimonio immobiliare italiano, vanto della classe media, tra le più ricche del mondo grazie all’amore, viscerale ma comunque contraccambiato per la proprietà edilizia. Un amore finito, distrutto e lacerato dalle tasse. Sì, ora per non pagare più il conto al fisco, che sulle case ha messo radici e deciso di finanziare senza pietà e a oltranza il deficit dello Stato, si ricorre alla distruzione delle abitazioni o, nell’ipotesi migliore, alla donazione allo Stato. Non è uno scherzo. Ma il risultato inatteso, o forse pianificato e inconfessabile, dei grandi economisti consiglieri dei governi che hanno puntato inopinatamente sull’equazione casa uguale ricchezza, colpendo al cuore e al portafoglio una nazione intera e il nervo portante della sua economia. Dunque la Tasi, ultima invenzione di una classe politica incapace di costruire il futuro e in cerca solo di risorse per tappare i buchi creati dai privilegi accordati nel passato, sta diventando un incubo per molte famiglie italiane. E il genio italico, che nel Dna ha la ricerca della scappatoia per fuggire alla gabella, si è messo già all’opera.

Per la Confedilizia, che rappresenta una buona parte dei proprietari di immobili, sono sempre più frequenti i casi di proprietari di case che, tartassati per case ricevute in eredità e posizionate in angoli remoti del Paese, pensano di lasciare allo Stato i loro «mattoni». Una facoltà prevista dall’articolo 827 del codice civile che recita testuale: «I beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato». In linea di principio dunque basterebbe l’abbandono di fatto di una casa e la comunicazione ufficiale al comune in cui è sito l’immobile per far scattare il passaggio del bene nella disponibilità dello Stato. E la liberazione dall’Imu. Un’ipotesi che è dibattuta però tra i giuristi interrogati dall’associazione. Sì perché lo Stato potrebbe opporre che il passaggio di proprietà, anche se a titolo gratuito, non è esente dal pagamento delle tasse. In particolare potrebbe essere richiesta, se avvalorata l’ipotesi di una donazione, una quota pari all’8% del valore catastale. Se invece passasse l’idea di un trasferimento contrattuale a costo zero allora le Entrate potrebbero esigere l’imposta di registro, il 9% del valore iscritto al catasto, e la tassa catastale che è determinata in cifra fissa. Insomma nemmeno lasciando l’immobile nelle mani dell’amministrazione lo Stato si accontenterebbe. Regalo sì, ma a pagamento, dunque. Questo potrebbe essere il destino di molti italiani stanchi di pagare balzelli su case ereditate dai nonni, luoghi della memoria e dei momenti felici dell’infanzia. Immobili che si trovano, però, nelle aree interne colpite dal calo demografico, sulle quali si pagano comunque Imu (seconda casa) e Tasi esagerate rispetto al valore di mercato vicino allo zero. Tra quelli interessati alla cosiddetta «rinuncia» ci sono anche molti lavoratori con reddito decurtato dalla crisi che non riescono a più mantenere, tra imposte e costi aggiuntivi, la casa delle vacanze. Per queste, infatti, le possibilità di rivendita sono nulle visto che la crisi le ha prese particolarmente di mira.

Fin qui le ipotesi di cessione. Ma ci sono anche ipotesi più estreme. Come sempre più spesso accade nei territori collinari e montani. Lo spopolamento di queste aree ha lasciato in eredità centinaia di case nate per l’agricoltura sulle quali, a partire dal governo Monti, si pagano imposte al pari di fabbricati civili. Così alle manutenzioni si aggiungono costi fiscali insostenibili per molti. Le soluzioni anche in questo caso sono amare e violente. Molti rendono inagibile l’edificio staccando le utenze ed eliminando alcune parti come finestre e porte. Così se la casa non è abitabile ma è facilmente riattabile e l’Imu è decurtata del 50% con semplice richiesta al Comune. Ma se l’inagibilità è totale, ovvero l’immobile è a un passo dall’essere un rudere, l’Imu non si paga più. Ed è così che molti stanno distruggendo i tetti per dimostrare la non utilizzabilità del bene. Un processo che è l’anticamera della demolizione. E cioè il completo annullamento della registrazione catastale. Le pratiche di cancellazione di questo genere, lo scorso anno, sono aumentate del 20% spiega Confedilizia. Ma così, in nome del fisco e della colpevolizzazione della proprietà, si distrugge la storia di un Paese.

L’Italia non attrae lo straniero con la laurea

L’Italia non attrae lo straniero con la laurea

Rossella Cadeo – Il Sole 24 Ore

Italia poco attraente per gli stranieri qualificati: meno di uno su dieci tra quelli residenti nel nostro Paese può sfoggiare un grado di studio alto (tipo laurea). La metà ha un’istruzione bassa e quattro su dieci non sono andati oltre le superiori. In altri Paesi europei (si veda la tabella sotto), invece, la quota di immigrati laureati è decisamente più cospicua, fino a picchi del 50% nel Regno Unito e del 37% in Svezia. È questa la fotografia che emerge dalla ricerca della Fondazione Moressa, che ha analizzato i livelli di istruzione nel nostro Paese e in Europa per verificare se l’Italia sia in grado di richiamare anche profili qualificati, non solo i lavoratori cui si pensa quando si parla di immigrati.

È vero che il momento è critico da anni per tutti – almeno dal 2008 –, che il 2014 ha raggiunto le cadute più allarmanti sul fronte occupazionale, che talvolta avere un buon titolo di studio non aiuta a trovare un impiego remunerativo, ma le conclusioni alle quali giunge la ricerca non sono confortanti. «Del resto, le dinamiche migratorie generalmente riflettono la situazione interna – osserva Stefano Solari, direttore scientifico della Fondazione –. I Paesi dove i residenti autoctoni hanno alti livelli di istruzione presentano anche una popolazione straniera maggiormente qualificata, come è appunto il caso di Regno Unito e Svezia. In Italia, invece, si rileva una quota molto esigua di laureati sia tra gli immigrati sia tra gli italiani stessi. Lo studio conferma dunque la scarsa capacità del Paese di attrarre stranieri altamente qualificati. Inoltre rispetto al 2007 la percentuale di immigrati laureati è calata a differenza di altri Paesi europei».

In effetti, anche limitando il confronto agli “autoctoni”, l’Italia non è messa bene: insieme alla Spagna ha la più alta percentuale di soggetti dotati solo di licenza media inferiore (oltre il 40%, contro una media Ue del 27%). La Spagna però ha uno scatto nella fascia dei laureati (il 32,4%), mentre l’Italia resta in coda alla classifica: in media (con scostamenti poco significativi sul territorio) meno del 15% degli italiani ha concluso un corso universitario, quando la media Ue supera il 25 per cento. Speculare il ritardo se si guarda la popolazione immigrata: nella Ue a 28 uno straniero residente su quattro ha in tasca un diploma di laurea (con i picchi, appunto, di Regno Unito e Svezia, dove la quota di chi ha conseguito un degree supera persino quella degli autoctoni), mentre in Italia non si arriva al 10% (siamo alle spalle della Grecia, che si ferma all’11%, e ben lontani anche da altri Paesi sotto la media, come Germania, Austria o Spagna).

Nel nostro Paese la situazione – rileva ancora la ricerca – è andata peggiorando. Dal 2007 al 2013 in Italia la quota di stranieri laureati è calata di oltre un punto, mentre nella Ue è aumentata: circa cinque punti in più sia tra gli stranieri sia tra gli autoctoni, per non parlare del Regno Unito dove tra gli immigrati è cresciuta di ben 20 punti. E un ulteriore doppio primato (negativo) spetta all’Italia: abbiamo le percentuali più alte di Neet (15-24enni che non studiano né lavorano), il 21,2% fra gli italiani (il doppio che nei dieci Paesi considerati) e il 31% fra gli stranieri.

Le mani dei sindacati sul Tfr

Le mani dei sindacati sul Tfr

Sandro Iacometti – Libero

Un flusso annuo di 4,2 miliardi che va ad alimentare una massa di risorse gestite che si aggira sugli 85 miliardi di euro. È questo, sostanzialmente, il Tfr che interessa ai sindacati. E pure alla Confindustria. Quello per cui entrambi sono saliti senza esitazioni sulle barricate, accanto ad artigiani e piccoli imprenditori, per difendere la liquidazione dei lavoratori dal progetto di Matteo Renzi di metterne una parte subito in busta paga.

L’interesse vitale delle Pmi è chiaro e solare. Dei 22-23 miliardi che compongono la torta complessiva annua del Tfr circa 11 miliardi restano in azienda. Liquidità preziosa, che la mossa del governo potrebbe dimezzare da un giorno all’altro. Ma i sindacati, sempre così attenti al rilancio del potere d’acquisto dei lavoratori, perché si scaldano tanto? E perché sbraita anche Confindustria, la cui maggioranza delle aziende rappresentate (sopra i 50 dipendenti) già versa il Tfr al fondo di tesoreria istituito presso l’Inps (per un totale annuo di 6 miliardi)? La chiave di volta per comprendere tanta attenzione si chiama previdenza complementare. Di quei 22-23 miliardi di Tfr che ogni anno maturano i lavoratori italiani, infatti, 5,2 miliardi finiscono in pancia ai fondi pensione. Di questi, secondo gli ultimi dati della Covip, circa 800 milioni vanno ai fondi aperti e ai Pip (piani individuali pensionistici) gestiti solitamente da professionisti del settore (sgr, banche, assicurazioni), 2,7 miliardi vanno invece ai fondi chiusi o negoziali e altri 1,5 ai fondi preesistenti (nati prima della riforma del 1993).

Le ultime due categorie di fondi, che ogni anno incamerano 4,2 miliardi dei nostri Tfr, hanno una caratteristica comune: sono gestiti per legge in forma paritetica da rappresentanti dei lavoratori e delle aziende. In altre parole, Confindustria e sindacati si spartiscono le poltrone nel cda. Gli incarichi sono solitamente retribuiti in maniera modesta, ma le somme amministrate sono spaventose. La riforma del 2007, che ha fatto schizzare le adesioni introducendo l’automatismo del conferimento del Tfr al fondo di categoria, non ha prodotto i risultati allora sperati dal governo, ma ha comunque fatto raddoppiare gli iscritti, con un colpo di acceleratore proprio dei fondi negoziali, che rappresentano il fortino della triplice sindacale. Metà di quelli preesistenti, infatti, appartiene al mondo della finanza, dove tengono banco le sigle autonome, mentre buona parte dell’altra metà è rappresentata da fondi dedicati ai quadri e ai dirigenti. Alla fine del 2013, secondo i dati Covip, gli iscritti complessivi ai fondi pensioni ammontano a 6,2 milioni. Di questi circa 2 milioni aderiscono ai fondi negoziali e 655mila a quelli preesistenti. I flussi annui di risorse (comprese quelle volontarie extra Tfr) hanno prodotto gruzzoli non indifferenti. I negoziali hanno in pancia 34,5 miliardi, i preesistenti (più vecchi) circa 50 miliardi. A gestire gli investimenti di queste risorse non ci sono manager esperti di finanza, ma vecchie volpi del sindacato che spesso collezionano più di un incarico.

Uno dei fondi negoziali più grande è quello dei metalmeccanici Cometa: masse amministrate 8,1 miliardi. Ebbene nel cda siedono Roberto Toigo, segretario nazionale Uilm e Francesco Sampietro, sempre della Uil. Giancarlo Zanoletti e Roberto Schiattarella, della FimCisl. Il sindacato autonomo Fismic ha invece nominato il broker assicurativo Luca Mangano, mentre la Cgil ha piazzato alla vicepresidenza il professor Felice Roberto Pizzuti, vicinissimo alla Fiom nonché candidato alle europee per Tsipras. Stessa solfa per Fonchim, altro colosso con 4,2 miliardi di risorse gestite. Anche qui la vicepresidenza è Cgil, con Roberto Arioli della Filctem. Poi ci sono Paolo Bicicchi e Mariano Ceccarelli della Femca Cisl, Salvatore Martinelli e Massimiliano Spadari ancora della Filctem, Eliseo Fiorin, segretario nazionale Ugl tessili e Fabio Ortolani, segretario confederale Uil.

In cinque anni pagheremo oltre 45 miliardi di tasse in più

In cinque anni pagheremo oltre 45 miliardi di tasse in più

Il Giornale

«Oltre 45 miliardi di euro di tasse in più in cinque anni. Le entrate tributarie nel nostro Paese correranno molto più del Pil e aumenteranno, complessivamente, tra il 2014 e il 2018, di 45,7 miliardi di euro». La previsione deriva dal rapporto del Centro studio di Unimpresa, basato sulla nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza. Il gettito raggiungerà quota 487,5 miliardi alla fine di quest’anno e crescerà costantemente, negli anni successivi, fino a raggiungere i 531,6 miliardi del 2018.

Già dalla fine di quest’anno, infatti, lo Stato incasserà 1,6 miliardi in più da imprese e famiglie, «un incremento lieve – sottolinea Unimpresa – lo 0,34% in più, ma che va nella direzione opposta rispetto all’andamento dell’economia, prevista in calo dello 0,3% secondo il Def approvato dal governo». Una doppia velocità che si registra costantemente anche nelle previsioni degli anni successivi. Nel 2015 tasse in crescita dell’1,27%, mentre il Pil dovrebbe salire solo dello 0,5%; nel 2016 rispettivamente tasse +2,68% e Pil +0,8%; nel 2017 gettito tributario in aumento del 2,19% e prodotto interno lordo in crescita dell’1,1%. Chiude il conto il 2018, quando le tasse saranno in aumento del 2,42%,mentre il Pil sarà ben più lento (+1,2%). In tutto, secondo il rapporto, nel quinquennio 2014-2018, le tasse pagate dai contribuenti in Italia arriverebbero a toccare 2.540,1 miliardi di euro.

«Ci sentiamo presi in giro, come imprenditori e come cittadini» afferma il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi. «Si è perso tempo – aggiunge – avevamo segnalato subito, dopo la nascita di questo altro esecutivo delle larghe intese, la necessità di intervenire sul fisco: l’alleggerimento dei tributi è cruciale per sperare di portare il Paese fuori dalla recessione». Invece «i dati dimostrano che il dibattito sulle tasse è solo propaganda», commenta Longobardi, il quale conclude: «In questi giorni ascoltiamo esponenti della maggioranza e del governo di Matteo Renzi avanzare ipotesi di abbattimento del cuneo fiscale, ma il peso delle tasse è destinato a salire e le misure varate in questi ultimi mesi non hanno fatto altro che incrementare il carico sulle famiglie e sulle imprese».