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Resta la deflazione e arretra il Pil

Resta la deflazione e arretra il Pil

Emanuele Scarci – Il Sole 24 Ore

L’Italia rimane in deflazione anche a settembre: -0,3% rispetto al mese precedente. E a raffreddare sempre di più i prezzi, secondo i dati dell’Istat, sono ancora l’energia, le comunicazioni e gli alimentari. A peggiore il quadro macroeconomico ieri è arrivato anche la nota mensile Istat che prevede una nuova flessione del Pil nel terzo trimestre dell’anno, un revisione al ribasso rispetto all’intervallo di +0,2%/-0,2% della precedente stima. La causa è la contrazione del Pil nel secondo trimestre dello 0,2%. Nell’area euro non è ancora scoccata l’ora della deflazione ma la debolezza della domanda ha prodotto un’altra frenata dei prezzi: dallo 0,4% allo 0,3%, vicino alla crescita zero. La stima flash dell’Eurostat individua moderati spostamenti dei prezzi per servizi, alimentari e beni industriali e un deciso arretramento dell’energia.

Tornando all’Italia, secondo le stime provvisorie dell’Istituto di statistica, l’indice nazionale dei prezzi al consumo è calato a settembre dello 0,1% su base annua, lo stesso valore toccato ad agosto quando il Paese é tornato in deflazione per la prima volta dal 1959. A settembre i cali congiunturali più pronunciati dei prezzi sono quelli di trasporti (-3%), ricreazione e cultura (-0,6%) e comunicazioni (-0,4%). Dall’altro aumenti sono stati segnati dai servizi ricettivi e di ristorazione (+0,8%), dall’istruzione (+0,6%), da alimentari e bevande analcoliche (+0,2%), dall’abbigliameno e dai mobili. Rispetto a un anno fa, i prezzi delle comunicazioni risultano in marcata flessione (-8,2%) così come sono in diminuzione i prezzi di abitazione, acqua, elettricità e combustibili (-1,2%) e quelli di alimentari e bevande analcoliche (-0,1%).

Secondo l’ufficio studi di Confcommercio «al di là degli effetti stagionali, i dati Istat riflettono le difficoltà della domanda per consumi. Nell’ultimo anno, nonostante l’aumento dell’Iva che ha coinvolto circa il 50% dei beni e servizi compresi nel paniere, in sei occasioni i prezzi hanno registrato una diminuzione congiunturale, fenomeno che appare ancora più eccezionale se si considera che non è stato determinato da crolli delle materie prime alimentari o petrolifere». Confcommercio conclude che è necessario attuare, con la prossima legge di Stabilità, «misure efficaci che, modificando favorevolmente le aspettative di famiglie e imprese, scongiurino il pericolo che la deflazione si consolidi». Per Sergio de Nardis, capo economista di Nomisma, «l’inflazione negativa influisce sulle attese future dei prezzi, aumenta i tassi di interesse reali e deprime l’economia. Serve una politica fiscale di stimolo e una politica monetaria espansiva». Coldiretti sottolinea che «gli effetti negativi congiunti di deflazione e consumi si evidenziano con il -4,4% dei prezzi dell’ortofrutta e con gli acquisti scesi ben al di sotto del chilo al giorno per famiglia, un valore inferiore a quello raccomandato dall’Organizzazione mondiale della Sanità».

Se la ripresa dei beni di consumo è una delle condizioni per superare la deflazione, qual è il quadro della domanda più aggiornato? Nelle vendite al dettaglio l’Istat segnala il -1,1% nei primi 7 mesi dell’anno mentre Iri registra un pessimo agosto nel largo consumo: -3,1% a valore, anche per il calo dei prezzi. Nell’abbigliamento e calzature, invece, Sita-Nielsen indica un -3% delle vendite da gennaio a luglio. Meno peggio dell’anno primo: -7 per cento.

Italia in recessione e senza lavoro

Italia in recessione e senza lavoro

Francesco Di Frischia – Corriere della Sera

L’Italia avrà un deficit pari al 3% del prodotto interno lordo per quest’anno e del 2,9 nel 2015. Che nel 2014 la tanto attesa ripresa dell’economia non fosse possibile, al di là di qualche piccolo segnale positivo, lo ha confermato ieri sera l’aggiornamento del Documento di economia e finanza (Def) 2014-2016, approvato dal Consiglio dei ministri. Del resto le primissime stime dell’Istat diffuse ieri indicavano un dato negativo del Pil anche per il terzo trimestre di quest’anno.

In base alle nuove stime di Palazzo Chigi, il rapporto tra debito e Pil si attesterà al 131,7% nel 2014 e al 133,4 nel 2015: il pareggio strutturale di bilancio slitta così al 2017, un anno in più rispetto alle previsioni del Def illustrate dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan ad aprile. Per quanto riguarda il Pil, il governo Renzi ipotizza nel 2014 un dato negativo (-0,3%), per poi crescere dello 0,6% il prossimo anno grazie «all’impulso positivo della Legge di Stabilità», spiega il ministro Padoan secondo il quale nel Def il tasso di disoccupazione si attesterà al 12,6% nel 2014 e al 12,5% nel 2015.

Altre cattive notizie per l’occupazione vengono dall’Istat che «nonostante qualche segnale positivo», non vede «nel mercato miglioramenti significativi». Preoccupa soprattutto il tasso della disoccupazione giovanile: ad agosto è pari al 44,2% (+ 1% rispetto a luglio e +3,6 nel confronto tendenziale), facendo così registrare il peggior risultato dal 1977. Piccolo segnale positivo arriva dal tasso di disoccupazione generale che ad agosto si attesta sul 12,3%, facendo segnare una piccola diminuzione in termini congiunturali (0,3) e rispetto agli ultimi 12 mesi (0,1): i senza lavoro sono 3 milioni e 134 mila (82 mila in meno rispetto al mese precedente). In pratica ci sono 32 mila occupati in più rispetto a luglio, fa notare il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, e il numero dei disoccupati diminuisce del 2,6%.

Altro indicatore che spinge l’Italia in deflazione è l’indice nazionale dei prezzi al consumo che a settembre diminuisce dello 0,3% rispetto ad agosto e dello 0,1 se lo si paragona a settembre 2013. In questo quadro a dir poco negativo il Cnel definisce «una ipotesi irrealizzabile» una discesa del tasso di disoccupazione ai livelli pre-crisi (7% nel 2007) perché questa operazione «richiederebbe la creazione da qui al 2020 di quasi 2 milioni di posti di lavoro».

Spesa PA, contratti al setaccio per un piano di risparmi da 7 miliardi

Spesa PA, contratti al setaccio per un piano di risparmi da 7 miliardi

Andrea Bassi – Il Messaggero

La lettera a firma congiunta inviata a sindaci e governatori dal commissario alla spending review Carlo Cottarelli e dal super-commissario anticorruzione Raffaele Cantone per segnalare gli sprechi negli acquisti è stata solo «l’antipasto». Nei prossimi mesi tutti i contratti siglati da Comuni, Regioni, Asl e da tutte le altre articolazioni della macchina pubblica, saranno messi al setaccio attraverso l’incrocio di quattro banche dati: quella dell’Authority di vigilanza sui contratti (oggi Anac), quella della Consip, la società per la razionalizzazione della spesa, il Siope e il Sicoget, che sono due database gestiti dalla Ragioneria dello Stato e registrano tutti i giorni ogni spesa pubblica. Chiunque sarà pescato a pagare un bene o un servizio più della Consip (il decreto sui benchmark è stato appena pubblicato) o ad un prezzo più alto di quello di riferimento che sarà presto stabilito dall’Anac, sarà costretto a rinegoziare il contratto e ad adeguarlo ai prezzi di riferimento. Il governo va avanti sulla strada della spending review, dalla quale conta di ricavare nel 2015 fino a 7 miliardi di euro attraverso risparmi ed efficienze. Un obiettivo possibile? «Certo», spiega a Il Messaggero Domenico Casalino, amministratore delegato della Consip, «ma ad alcune condizioni». Quali è presto detto. «Si dovrebbe introdurre una norma», dice Casalino, «che obblighi tutti gli enti ad effettuare una programmazione annua dei loro fabbisogni di acquisto di beni e servizi».

Uno dei principali problemi che si frappone alla razionalizzazione della spesa sono le continue proroghe ai contratti in essere. «Spesso sindaci e assessori, spiega Casalino, «vengono informati che un contratto sta per andare a scadenza solo pochi giorni prima che questo accada, e a quel punto l’unica strada resta la proroga». Una programmazione annuale con un piano delle gare da fare, insomma, permetterebbe di superare questo ostacolo. La seconda condizione e che «si parta subito con la riduzione delle centrali d’acquisto». Matteo Renzi ha preso l’impegno a ridurle da 32 mila a sole 35. La norma che prevedeva il taglio, tuttavia, è slittata al 2015. «Bisogna recuperare il tempo perduto», aggiunge Casalino, «il cronoprogramma prevedeva per quest’anno la riduzione delle centrali d’acquisto, per il prossimo la messa a bando delle gare e per il 2016 i risparmi». La montagna della spesa per beni e servizi (132 miliardi) è ancora alta, ma la scalata e cominciata. La Consip presidia 40 miliardi di questa spesa con 16 miliardi di gare in corso. Alla fine dell’anno riuscirà a garantire 5 miliardi diretti di risparmi, che salgono a 8 miliardi se si considerano le altre efficienze (ogni gara in meno che viene bandita da un Comune o da una Regione lo Stato risparmia tra 50 e 500 mila euro).

Intanto ieri sulla spending review è intervenuto anche il commissario Cottarelli. «Stiamo lavorando», ha detto ascoltato in audizione al Senato, per inserire in legge di Stabilità «una proposta organica di riordino delle partecipate locali». Del pacchetto delle sue proposte ancora non è certo cosa sarà inserito: la scelta, ha sottolineato, «spetta alla politica». Nel suo dossier il commissario aveva stimato risparmi possibili per 500 milioni di euro il primo anno e di 2-3 miliardi a regime nel triennio. Cottarelli ha anche proposto di mettere un limite di nove anni agli incarichi dei manager pubblici per evitare che si consolidino posizioni.

Il grande imbroglio dei signori delle autostrade

Il grande imbroglio dei signori delle autostrade

Giorgio Ragazzi – Il Fatto Quotidiano

La produzione industriale è crollata, migliaia di imprese chiudono, ma c’è un settore che non conosce crisi: le autostrade. Nel 2012-13 il traffico è diminuito del 10% ma, grazie agli aumenti tariffari, gli introiti complessivi da pedaggi sono persino aumentati. Dal 2010 i pedaggi (in media) sono cresciuti del 15%, il doppio dell’inflazione del periodo. Come si spiega?

La regolamentazione tariffaria si è sviluppata in modi contorti negli ultimi due decenni (si veda il mio libro (Signori delle Autostrade, il Mulino, 2008) con la sovrapposizione di sempre nuove norme, lasciando scegliere alla concessionaria quale sia per lei più conveniente. La convenzione di Autostrade per l’Italia (ASPI) prevede incrementi tariffari senza alcuna relazione col livello di profitto. La maggior parte delle altre concessionarie si è avvalsa della facoltà di richiedere il “riequilibrio del piano economico-finanziario”, facoltà introdotta con la delibera Cipe 39/2007. All’inizio di ogni periodo regolatorio (ogni 5 anni) si definisce, su proposta della concessionaria, un piano economico-finanziario che deve prevedere incrementi di tariffa tali da assicurare alla concessionaria, sulla base delle previsioni di costi e ricavi, una “congrua remunerazione” sul capitale investito. Lo Stato assicura comunque a queste imprese un “congruo” profitto, al riparo anche da ogni possibile “rischio traffico”. Sul capitale proprio investito il rendimento assicurato è di 4 punti sopra il rendimento medio dei buoni del Tesoro decennali: davvero ottimo, per i tempi che corrono, e a rischio zero.

La formula segreta del profitto garantito

Ma come viene determinato l’ammontare del capitale proprio da remunerare? Nelle concessionarie gli azionisti non hanno mai versato capitali se non per importi irrisori: tutto è stato finanziato a debito, e i debiti sono stati rimborsati coi pedaggi. Qual è dunque l’origine e come è determinato il capitale proprio da remunerare? È un mistero sepolto nei piani finanziari, rigorosamente secretati. Le rivalutazioni monetarie effettuate ancora pochi anni addietro da varie concessionarie, in particolare quelle dell’ASTM (gruppo Gavio), vengono considerate come maggior capitale proprio investito? Pare che sia questo il motivo per il quale quelle concessionarie, richiedendo il riequilibrio economico-finanziario, hanno ottenuto elevati incrementi tariffari.

Ci dicono che il motivo principale degli aumenti di tariffa sia la necessità di remunerare gli investimenti. Dai dati risulta però che di investimenti le con- cessionarie ne hanno sempre fatti molto pochi, e con ritardi di decenni rispetto ai piani concordati. Nel 2013 le concessionarie hanno incassato 4.900 milioni per pedaggi e registrato utili di 1.100 milioni ma hanno fatto investimenti per poco più di 900 milioni. La maggiore concessionaria, Autostrade per l’Italia, ha avuto un flusso di cassa operativo di 1.230 milioni ma ha investito solo 470 milioni (dato della Vigilanza). Paghiamo un altissimo scotto sulla mobilità a fronte di investimenti modestissimi.

Vediamo comunque come vengano remunerati questi investimenti. La delibera CIPE del 2007 prevede che l’incremento di tariffa debba essere determinato in modo che “il valore attualizzato dei ricavi previsti sia pari al valore attualizzato dei costi ammessi… scontando gli importi al tasso di congrua remunerazione”. Il criterio è perfetto ma la sua applicazione discrezionale. L’eventuale incremento del pedaggio dipende dalla redditività attesa dell’investimento nell’arco della sua vita utile. Sarebbe necessario aumentare il pedaggio solo se la redditività attesa dell’investimento fosse inferiore al tasso di rendimento che si intende assicurare al concessionario. Ma, in tal caso, perché l’Ispettorato autorizza investimenti non remunerativi? Se per finanziare nuovi investimenti occorre aumentare di molto i pedaggi anno dopo anno significa che si fanno pessimi investimenti o che il ministero sbaglia i conti.

Quantificare i benefici degli investimenti è difficile. Consideriamo l’investimento più rilevante, la costruzione di nuove corsie. Le concessionarie (Autostrade per l’Italia in particolare) sostengono che questi investimenti migliorano la qualita del servizio, ma non generano apprezzabili incrementi di proventi da maggior traffico e devono pertanto essere remunerati con incrementi di tariffa. Ma su una rete già tanto congestionata come quella italiana l’aggiunta di corsie parrebbe invece essenziale per sostenere ulteriori incrementi di traffico i cui proventi vanno interamente a vantaggio della concessionaria: se si quantificasse questo beneficio potrebbe non esservi bisogno di aumentare i pedaggi. Se una nuova corsia non è in grado di ripagarsi con maggior traffico nell’arco dei quasi 30 anni di vita residua di una concessione come quella dell’ASPI, perché realizzarla? E se è in grado di ripagarsi, perché concedere incrementi di tariffa?

Chissà perché i lavori sono sempre “urgenti”

In Francia e in Spagna non sono previsti incrementi di tariffa per finanziare investimenti in nuove corsie o in migliori sistemi di esazione: la scelta di convenienza viene lasciata alla concessionaria. In Italia invece gli investimenti sono proposti dalle concessionarie ma “assentiti” dal ministero che ne garantisce quindi la redditività ex ante con incrementi di tariffa. Nella logica del sistema italiano le concessionarie hanno tutto l`interesse a sottovalutare la redditività attesa dei loro investimenti per farseli remunerare con incrementi di pedaggi, visto che se poi in futuro la redditività risulterà maggiore di quella concordata con l’Ispettorato tutto il beneficio resterà acquisito alla concessionaria stessa. Gli investimenti sono poi proposti dalle concessionarie e pertanto il sistema tende a selezionare quelli che appaiono di volta in volta più utili alle concessionarie stesse piuttosto che al paese.

Un tipico esempio storico può essere quello dell`autostrada Torino-Milano. Negli anni 90, questa autostrada aveva tre corsie con piazzole d’emergenza ed era ampiamente sufficiente per il traffico. Allargare l’autostrada e costruire una corsia d`emergenza non era certo un investimento prioritario per il Paese, ma lo era invece per la concessionaria che, proponendo questo e altri minori investimenti è riuscita a ottenere chela concessione in scadenza nel 1999 fosse prorogata prima sino al 2014 e poi ancora sino al 2026. I lavori per la corsia di emergenza non sono ancora terminati mentre i pedaggi negli ultimi anni sono addirittura raddoppiati. Parrebbe che in questo caso gli investimenti vengano pagati due volte: prima con le proroghe della concessione e poi con gli aumenti di tariffa.

Ogni concessionaria a rischio di scadenza della concessione individua nuovi lavori “urgentissimi” che ne giustifichino la proroga: nuove corsie o nuovi tratti come il prolungamento da Parma a Nogarole Rocca che ha consentito alla Cisa di ottenere una proroga della concessione dal 2010 al 2031 (oltre a forti aumenti di tariffa). Per la Serenissima (Brescia-Padova) è assolutamente necessario costruire il tratto Piovene Rocchette-Rovigo (Valdasticco nord), anche se non pare di per se né essenziale né remunerativo, perché solo cosi potrebbe ottenere anch’essa una bella proroga della concessione già scaduta ed evitare quindi il rischio da tutte più temuto, quello che si faccia una gara per il rinnovo. Per le concessionarie non esistono investimenti a rischio: la remunerazione in tariffa è garantita e c’è sempre la possibilità di richiedere il “riequilibrio” del piano economico finanziario.

Anche quando si sbagliano di molto le previsioni di costo e di traffico, come nel caso della Asti-Cuneo, ecco che viene prospettata (dalla ASTM) una soluzione facile ed anche profittevole: accorpare quella concessione ai due tronchi (Torino-Milano e Torino-Piacenza) ed ottenere pure un’altra bella proroga per quelle due concessioni che altrimenti scadrebbero prima della Asti-Cuneo. Gli ignari utenti continueranno a pagare pedaggi sempre crescenti e le concessionarie ad incassare profitti sicuri per altri decenni. Ed è proprio per agevolare questo tipo di operazioni che è stato inserito nel decreto “sblocca Italia” l’articolo 5, che prevede appunto la possibilità di unificare tratte “attigue, interconnesse o complementari” in una nuova concessione che assicurerà comunque, anche in futuro, l`equilibrio dei conti.

I cantieri infiniti per evitare le gare

Di gare per rinnovi di concessioni in Italia non si è riusciti sinora a farne nessuna e pare che il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi sia determinato a non farne neanche in futuro, cercando di ottenere dall’Unione europea deroghe all’obbligo di rimettere in gara le concessioni scadute con l’usuale appiglio del completamento di tratte, magari previste in concessioni di 40 o 50 anni fa ottenute senza gara. Con un’inflazione ormai prossima allo zero appare sempre più inaccettabile per gli utenti e imbarazzante per il governo continuare ad aumentare di tanto i pedaggi (3,91% nel 2013 e 3,9% nel 2014). Per contenere in futuro questi aumenti è stato istituito un tavolo di lavoro tra Aiscat – l’associazione di categoria dei concessionari – e governo che considererebbe interventi in quattro direzioni: 1) prolungamento delle concessioni; 2) accorpamenti di concessioni e proroghe alle scadenze più lontane; 3) maggiori indennizzi di subentro a fine concessione; 4) slittamenti, cioè riduzioni, degli investimenti previsti.

Tutte queste misure, a fronte di una eventuale moderazione degli incrementi tariffari nei prossimi anni, hanno in comune un chiaro obiettivo: prolungare sempre di più verso un orizzonte infinito la durata delle attuali concessioni, e quindi gli utili delle concessionarie e l’onere dei pedaggi, rendendo anche sempre più difficile l’effettuazione di gare a fine concessione per il crescere degli indennizzi richiesti all’eventuale subentrante. I pedaggi, introdotti all’origine per finanziare opere come l’autostrada del Sole, sono divenuti per le concessionarie una rendita pressoché perpetua sulla quale poi lo Stato carica anche l’Iva e parte dei costi dell’Anas.

Paradosso di un totem: così Pd e sindacati aggirano l’articolo 18

Paradosso di un totem: così Pd e sindacati aggirano l’articolo 18

Paolo Bracalini – Il Giornale

Col taglio dei rimborsi elettorali si taglia anche il personale in eccesso nei partiti politici. I quali hanno un vantaggio mica da poco rispetto alle aziende: possono licenziare da un giorno all’altro senza rischiare cause di reintegro davanti ad un giudice, perché il reintegro non c’è. Per i partiti l’articolo 18 non vale, ti mandano a casa e tanti saluti. E succede anche nel Pd, proprio quello della vecchia ditta che fa la guerra a Renzi per aver attentato al dogma dell’articolo 18. Così, se scaduti i due anni di cassa integrazione in cui sono stati messi nove dipendenti del Pd in Sicilia (guidato dal già bersaniano e «giovane turco» Fausto Raciti) non ci saranno più i soldi per riassumerli, scatterà il licenziamento e amen. Alcuni di loro hanno già chiesto, in via informale, tramite lettere, di essere ripresi dal Pd regionale, ma finché gli eletti – consiglieri regionali e parlamentari Pd siculi – non si decideranno a versare tutti la loro quota, e il buco nelle casse non sarà coperto, resteranno a casa. Ma qui nessun giudice può ordinare nessun reintegro, perché c’è una legge che lo dice, la 108 del 1990: l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori «non trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto».

Ne sa qualcosa il signor Carmine De Guido, funzionario assunto a tempo indeterminato prima dal Pds, poi dai Ds, quindi in forze al Pd a Taranto, e licenziato telefonicamente, nel 2012, con una comunicazione del tesoriere Ugo Sposetti, senatore non renziano del Pd. De Guido è un dipendente dei Ds, non del Pd, anche se lavora per il Pd, e i Ds non possono pagare lo stipendio a un dipendente del Pd, formalmente un partito diverso. E quindi arrivederci. Da quel giorno De Guido cerca rassicurazioni dai vertici Pd, chiama Fassina, scrive lettere a D’Alema, a Bersani. Gli arrivano conferme che tutto sarà risolto, di continuare a lavorare per il Pd, mentre i suoi stipendi non arrivano, per sei mesi. Finché il dipendente fantasma – nel senso che c’è ma non viene pagato ed è formalmente licenziato – fa causa al giudice del lavoro, per il reintegro. Non però facendo leva sull’articolo 18, che per il Pd non vale, ma sulla modalità del licenziamento, solo verbale. Il Tribunale gli dà ragione ma il partito no, e il reintegro non avviene. Anzi, impugna la sentenza. Per fortuna del Pd che lo Statuto non si applica come nelle aziende, sennò dovevano riprenderselo o indennizzarlo. Il tutto esploso durante la segreteria di Guglielmo Epifani, ex segretario della Cgil, che invece si era indignato per gli operai non reintegrati dalla Fiat a Melfi («Marchionne non può fare così. Non si gioca con la vita delle persone»).

In effetti non è solo il Pd a poter beneficiare di una zona franca per il licenziamento. Anche la Cgil della Camusso ha lo stesso privilegio. Renzi lo ha ricordato: «Il sindacato è l’unica impresa sopra i 15 dipendenti e non lo applica» (in realtà anche i partiti). E infatti licenzia, tanto che è nato un sito, «licenziatidallacgil.blogspot.it», fondato dal gruppo «Comitato dei Lavoratori Licenziati dalla Cgil». Molti si presentano con nome e cognome e licenziamento: Alma Bianco, licenziata dalla Cgil di Messina, Ivana Gazzino, licenziata dalla Cgil di Udine, Luca Paoli licenziato dalla Cgil di Firenze, Franca Imbrogno, licenziata dalla Cgil di Milano, Roberto Lisi, licenziato dalla Cgil Lazio, e tanti altri. Basta farsi un giro su quel sito per trovare decine di storie, documentate, che raccontano la faccia meno nota del sindacato, quello che impiega la gente in nero, che viene condannato per mobbing o licenzia. Tanto l’articolo 18 lì non vale. Scrive il Comitato: «Com’è possibile che dentro un sindacato accadano queste cose? Semplice: ai sindacati non si applica lo Statuto dei lavoratori. Il famoso articolo 18 considera nullo il licenziamento quando avviene senza giusta causa o giustificato motivo. La mancata attuazione dell’articolo 39 della Costituzione, che prescrive una legge che disciplini l’attività sindacale, ha permesso alle organizzazioni dei lavoratori di operare in deroga». Tradotto: di licenziare senza paura del reintegro.

Una “spirale velenosa” s’aggira per l’Eurozona

Una “spirale velenosa” s’aggira per l’Eurozona

Alessandro Merli – Il Sole 24 Ore

Sepolta sotto una montagna di debito che, invece di diminuire, aumenta, l’economia mondiale rischia una nuova crisi dopo quella gravissima della fine del decennio passato. C’è una «spirale velenosa» fra l’alto livello del debito pubblico e privato e la bassa crescita nominale, avverte l’ultimo Rapporto di Ginevra, pubblicato ieri dal Centro internazionale di studi bancari e monetari. Fra gli autori, Lucrezia Reichlin, della London Business School e già capo della ricerca della Banca centrale europea, e Luigi Buttiglione, ex Banca d’Italia ed economista di uno dei più grandi hedge fund macro, Brevan Howard. Il circolo vizioso fra alto debito e bassa crescita, spiega Buttiglione, è evidente nell’eurozona più che altrove e, all’interno dell’eurozona, nel caso dell’Italia.

Il Rapporto smentisce anzi tutto la convinzione che il mondo stia attraversando una fase di deleveraging dopo la crisi del 2008-2009: anzi, il debito pubblico e privato (con l’esclusione di quello del settore finanziario), che era attorno al 60% del prodotto interno lordo all’inizio del decennio passato, è balzato al 200% nel 2009, dopo lo scoppio della crisi, e ha toccato il 212% nel 2013. Con una differenza fondamentale, che prima della crisi l’accumulazione di debito è avvenuta soprattutto nei Paesi avanzati, dove si è ora stabilizzato più o meno ai livelli del 2009. Dopo la crisi, invece, si assiste a un balzo del debito soprattutto nei Paesi emergenti, in particolare in Cina, il punto più fragile assieme all’eurozona, dove le autorità dovranno scegliere fra un rallentamento della crescita per frenare l’aumento del debito totale (che si è impennato dal 140% del pil del 2001 al 240% attuale) o un pericoloso aumento continuo del debito per continuare ad alimentare la crescita su ritmi vicini a quelli degli anni scorsi. Il rischio di una prossima crisi è reale, secondo il Rapporto, ed è particolarmente vivo in quei Paesi che non hanno fatto i conti del tutto con quella precedente, come quelli della periferia dell’eurozona, fra cui l’Italia.

La risposta della politica economica è decisiva. Il Rapporto di Ginevra mette a confronto quella delle autorità di Stati Uniti e Gran Bretagna con quella europea. Nel primo caso, si è scelta la strada di una forte espansione del bilancio della banca centrale (soprattutto da parte della Federal Reserve) attraverso il quantitative easing. Al deleveraging del settore privato e in particolare del sistema finanziario, ha corrisposto un aumento dell’indebitamento pubblico. L’uscita è in corso adesso, con la cessazione del Qe, e dovrà avvenire in modo graduale per non produrre nuovi sconquassi, ma ha evitato, dopo la crisi, una ricaduta nella recessione e una paralisi del credito. Cosa che è avvenuta invece in Europa, dove un possibile Qe è ancora oggetto di discussione e di forte opposizione e i vincoli anche politici dell’unione monetaria, dove ogni intervento diventa anche un trasferimento da un Paese all’altro, hanno frenato la risposta nei tempi e nei modi, anche se è stato evitato il collasso, grazie all’azione della Banca centrale europea.

L’Europa ha puntato sulla riduzione prima del debito pubblico, attraverso l’austerità fiscale e non ha ricapitalizzato il settore bancario. A differenza che negli Stati Uniti, il debito totale dell’eurozona resta oggi una percentuale più alta del pil rispetto a prima della crisi, mentre la perdita di reddito è del 5% circa negli Stati Uniti e quasi il doppio per l’eurozona. La revisione ormai ultimata dei bilanci delle banche europee, bassi tassi d’interesse e il possibile varo del Qe (che il Rapporto suggerisce) possono essere d’aiuto, ma il «veleno» del mix di alto debito e bassa crescita nominale appare più pericoloso nell’eurozona che altrove.

Col Tfr in busta paga mezzo stipendio l’anno in più per le famiglie

Col Tfr in busta paga mezzo stipendio l’anno in più per le famiglie

Marco Sodano – La Stampa

Il governo pensa di anticipare parte del Tfr in busta paga: quanto può valere?
Il Tfr (il trattamento di fine rapporto) accumulato equivale alla retribuzione annua divisa per 13,5. Si tratta, insomma, di una mensilità. Si è parlato di anticipare il 50% del Tfr maturato per un periodo di un anno almeno (valutando anche l’ipotesi di estendere l’anticipo per tre anni), mentre non è ancora chiaro se il governo ha intenzione di metterlo in busta spalmato sulle tredici mensilità oppure in una volta sola. Comunque sia, si tratta di una cifra che equivale grosso modo a metà dello stipendio.

Le imprese non sembrano entusiaste: perché?
Perché parte di quel denaro lo custodiscono loro e dovrebbero sborsarlo subito. Nelle pmi sotto i cinquanta dipendenti, il Tfr di chi non ha scelto un fondo pensione dopo la riforma del 2006 (ovvero la maggior parte dei lavoratori italiani) resta in azienda. Le imprese usano questo denaro per finanziarsi. L’ammontare totale annuo accumulato dagli italiani vale circa 24 miliardi (su 326 miliardi di retribuzioni). Di questi il 40% matura nelle pmi, 10,8 miliardi. Tornando all’ipotesi di mettere in busta metà della liquidazione, nelle casse – già esauste – delle piccole imprese si creerebbe un buco da 5 miliardi e mezzo. Così, se il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi è freddo e parla di «manovra molto complessa», le piccole imprese parlano di misura «impensabile. Per i lavoratori – ricorda il presidente di Rete Imprese Merletti – il Tfr è salario differito, per le imprese debito a lunga scadenza. Non si possono chiamare le imprese ad indebitarsi per sostenere i consumi dei propri dipendenti». Tanto più in un momento in cui ottenere credito è sempre meno facile.

Il premier ha parlato di usare i soldi della Bce per garantire il credito, però.
Vero: la liquidità garantita dalla Banca centrale europea deve andare alle imprese per definizione, un impiego del genere rispetterebbe lo spirito delle iniezioni decise dall’Eurotower. Bisognerà poi vedere, però, se il credito verrà concesso alle singole imprese, che andranno a chiedere il denaro in banca: visto com’è andata negli ultimi anni è legittimo che gli imprenditori abbiano qualche dubbio sugli strumenti che dovrebbero sconfiggere il credit crunch. Fino ad oggi hanno fallito tutti, nonostante ci abbiano provato in mezzo mondo.

Non è la prima volta che si parla di un anticipo del Tfr. Poi non se ne fece nulla: perché?
Nell’agosto del 2011 fu l’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti sondò questa possibilità. Alla fine fu scartata perché troppo complicata: come fare con chi versa il Tfr in un fondo complementare per irrobustire la pensione? E gli Statali? Nel pubblico impiego chi è stato assunto prima del 2001 non riceve il Tfr ma il Tfs (trattamento di fine servizio): l’80% dell’ultima retribuzione moltiplicato per gli anni di servizio. Fino al pensionamento non è possibile sapere quanti soldi ha diritto di ricevere ogni lavoratore.

E i lavoratori? È un affare ricevere il Tfr in anticipo?
Dal 2007 – grazie a una riforma molto discussa – i lavoratori possono scegliere di non accumulare più il Tfr in azienda e di farlo confluire nei fondi pensione. Questo perché il passaggio dal sistema pensionistico retributivo (pensione calcolata sull’ultimo stipendio) a quello contributivo (calcolata su quanto accantonato nel corso della vita lavorativa), è diventato chiaro che chi è al lavoro adesso avrà pensioni molto più basse di quelle attuali: ai fondi toccherà il compito di integrare gli assegni. Un po’ di denaro disponibile subito fa comodo: ma bisogna avere ben chiaro che quei soldi non ci saranno più al momento del pensionamento. Insomma: non sono soldi in più, sono soldi in anticipo. Finiremmo con lo spendere oggi le ricchezze di cui dovremmo disporre domani: è lo stesso meccanismo del tanto vituperato debito.

Ma questi soldi in più come sarebbero tassati?
Anche qui per ora non è chiaro il meccanismo pensato dal governo: al ministero chiariscono che «non c’è ancora un piano». Sul Tfr si paga un’aliquota fiscale agevolata, più bassa di quella normale pagata sul reddito (sullo stipendio). Sull’anticipo si rischia di pagare di più: non è un affare. Tra l’altro non sarebbe neppure corretto pagare su questo denaro – che è frutto di un accumulo a scopo previdenziale – la parte di tasse che va alla previdenza.

Tenetevi forte, arrivano nuove tasse

Tenetevi forte, arrivano nuove tasse

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Alla vigilia della presentazione della Nota di aggiornamento del Def (il Documento di economia e finanza) con i nuovi dati su pil e deficit, Padoan delinea un quadro preoccupante con investimenti calanti, disoccupazione molto elevata e un andamento dei prezzi che prefigura rischi. In sostanza la crescita «è stata spostata». E la conseguenza immediata è una manovra correttiva ben più pesante di quanto era stato preventivato. Il ministro dell’Economia, intervenendo alla Camera, non riesce a nasconderlo. Parlando alla conferenza interparlamentare sul fiscal compact Padoan spiega che l’Europa oggi si trova in una situazione di «semi stagnazione» e inflazione «decisamente troppo bassa». In questo contesto «tutte le manovre sono più difficili». Il rischio di deflazione «potrebbe essere in aumento». Ma a questo punto la politica economica europea dovrebbe essere aggiornata. Il fiscal compact che è stato concepito in un quadro macroeconomico più favorevole, «dovrebbe tenere conto delle difficoltà e delle circostanze eccezionali soprattutto di alcuni Paesi». Questo strumento, dice Padoan, «va reso più potente e orientato alla crescita». Serve quindi un approccio «nuovo, non solo basato sull’austerità».

Oggi il Consiglio dei ministri esaminerà la Nota di aggiornamento del Def sul quale verrà costruita la prossima legge di Stabilità (che sarà varata entro metà ottobre). Il premier Renzi ha sottolineato che sarà rispettato il vincolo del 3% quale rapporto tra deficit e pil anche se «le motivazioni di quel parametro sono basate su un mondo profondamente diverso». Però il mancato rispetto porterebbe «a un danno reputazionale più grave dei vantaggi che si potrebbero avere». Ormai viene data per scontata anche dallo stesso ministro una nuova revisione a ribasso della stima del pil per quest’anno che dovrebbe collocarsi fra il -0,2 e il -0,3%. Una previsione molto inferiore rispetto alla più ottimistica stima del +0,8% del Def di aprile. La crescita dovrebbe invece tornare positiva dal 2015 (nelle vecchie previsioni l’anno prossimo il Pil cresceva dell’1,3%). Anche il deficit-Pil pur restando sotto il 3%, dovrebbe peggiorare e passare dalla previsione del 2,6% per quest’anno al 2,8% per rimanere sugli stessi livelli il prossimo anno.

Con questo quadro economico diventa indispensabile una manovra da 20 miliardi. Al ministero dell’Economia si stanno mettendo a punto le ipotesi di intervento. Renzi e Padoan continuano a ripetere che non ci saranno nuove tasse. Non potendo aumentare ancora una pressione fiscale che è a livelli record, cercheranno di camuffare la manovra con una operazione di perequazione sociale. Il che vuol dire un taglio delle detrazioni fiscali che è a tutti gli effetti un aumento della pressione fiscale. Si comincerebbe con l’abolizione delle detrazioni al 19%. Tra queste ci sono anche quelle sanitarie. Infatti nel nuovo modello 730 con la dichiarazione precompilata dal Fisco non saranno indicate le spese sanitarie, suscettibili di detrazione.

Nell’elenco delle detrazioni fiscali, oltre agli sconti fiscali sulle spese sanitarie, ci sono quelli sui mutui e su molte altre voci: dalle palestre alle spese funerarie. Valgono in tutto 5,4 miliardi. Un’ipotesi sul tappeto è di legare lo sconto fiscale al reddito. La detrazione del 19% resterebbe piena fino a una certa soglia (per esempio 30 mila euro), per poi decrescere fino ad annullarsi. Un altro meccanismo, simile, agirebbe invece sulle franchigie, legando anche queste al reddito e ponendo un tetto massimo di detrazione. Allo studio anche un possibile aumento della tassa di successione e dell’Iva sui bene di prima necessità, come il pane (ora al 4%). Non è escluso che venga riproposto lo sfoltimento delle partecipate statali, da quelle in mano al Tesoro alle migliaia di municipalizzate sulle quali finora non si è fatto nulla perché significa mettere a rischio tante poltrone legate alla politica.

Tanti minibond, pochi investimenti

Tanti minibond, pochi investimenti

Alessandro De Nicola – Affari & Finanza

Un proverbio inglese ricorda che puoi portare un cavallo alla fontana, ma non puoi costringerlo a bere. Questa chicca di saggezza popolare ben si adatta agli sforzi che legislatori e autorità monetarie compiono per superare il credit crunchche attanaglia l’Italia e di cui la storia della giovane coppia che gira 12 banche e non riesce ad ottenere un mutuo, pubblicata venerdì scorso su Repubblica, ne é l’esemplificazione. Il primo esempio di cavallo che beve in modo strano lo si trova nel mercato dei minibond. Questo strumento é stato introdotto ormai più di due anni fa. È stato poi man mano affinato, soprattutto allo scopo di finanziare i piani di sviluppo delle Pmi. Invece che sottostare alla rigida normativa societaria e fiscale applicabile alle emissioni di obbligazioni, le imprese che decidono di quotare in un mercato regolamentato i propri titoli di debito ottengono la piena deducibilità fiscale degli interessi e non devono rispettare i limiti di proporzione tra debito e patrimonio netto previsti dal codice civile.

Il governo Monti e successivamente quello Letta avevano voluto aprire un nuovo canale di approvvigionamento di risorse per le aziende innovative senza necessariamente far ricorso al credito bancario. L’esperimento sta riuscendo discretamente bene, in quanto sono stati finora emessi minibond per 1,2 miliardi di euro ed il mercato è in sicura crescita. Tuttavia il cavallo-impresa non ha bevuto esattamente l’acqua che si aspettava il legislatore. Infatti, secondo una ricerca della società di consulenza Crescendo che ha esaminato le 36 emissioni obbligazionarie fin qui effettuate, sono emersi dati curiosi. Del miliardo e 200 milioni raccolto sul mercato, solo152 sono serviti a finanziare progetti di sviluppo (il 13% del totale) cui possiamo forse aggiungere altri 150 milioni raccolti da società municipalizzate venete per le reti idriche. Il resto o è stato collocato da società quotate per le quali la procedura minibond non era necessaria (73 milioni), oppure per rifinanziare il debito bancario (818 milioni). Insomma, l’eterogenesi dei fini, di cui lo Stato non tiene mai conto, ha funzionato in questo caso a meraviglia, sopperendo sì ad un bisogno, ma non quello che si era immaginato l’estensore della legge. In futuro è possibile che la situazione si riequilibri, ma ad oggi il cavallo ha fatto di testa sua. E qui arriviamo ad un’altra fontana, la BCE, la quale, pur avendo offerto alle banche italiane una quantità enorme di denaro perché queste potessero utilizzarlo per gli impieghi delle imprese, si è trovata di fronte ad un’inaspettata flebile richiesta. Secondo il programma Tltro ( Targeted Longer Term Refinancing Operations) a settembre erano disponibili per gli istituti di credito italiani ben 75 miliardi di euro, ma i primi 10 di loro ne hanno richiesto solo 23.

Ma come, le nostre aziende lamentano il prosciugamento del credito, la Bce mette a sul piatto a tassi di interesse infimi una quantità enorme di denaro e il cavallo bancario non si abbevera? Anche in questo caso le spiegazioni potrebbero essere molteplici. Una, contingente, é che le banche sono in attesa degli stress test (o, se si preferisce, valutazione dei bilanci) che la Bce sta conducendo e quasi completando. Si vorrebbero attendere gli esiti della valutazione prima di decidere se indebitarsi troppo. Tuttavia, nei mesi scorsi il sistema bancario ha già restituito in anticipo una parte sostanziosa del denaro che era stato precedentemente preso a prestito dalla Bce e questo indicherebbe che la questione principale non è la mancanza di liquidità. Piuttosto, il sistema creditizio italiano è assediato dalle sofferenze e perciò in ogni caso le banche sono riluttanti a concedere mutui. Le imprese che non esportano non offrono probabilmente sufficienti garanzie, di conseguenza i tassi che vengono applicati sono tuttora alti o addirittura non si eroga il credito.

Il problema è circolare: finché c’è la crisi non è prudente aprire la borsa del credito, ma senza liquidità diventa più difficile uscire dalla crisi. Ecco dunque che i due cavalli, quello del minibond e quello del Tltro si ricongiungono: i soldi per lo sviluppo sono molto meno utili fino a quando non ci saranno le condizioni che favoriscono la crescita. E quali sono queste condizioni? Il pagamento dei crediti della PA é certamente uno, la riduzione del debito pubblico e un ulteriore abbassamento dello spread, in modo da rendere i BTP meno attraenti per le banche un altro. Inoltre, l’indebolimento dell’euro (facilitato dalle manovre della BCE) potrà aiutare. Ma il fattore principe sono le riforme invocate dallo stesso Draghi: sinché il mercato del lavoro, quello delle professioni e quello dei servizi non saranno liberalizzati, la giustizia non sarà efficiente, le tasse e le spese tagliate, il peso della burocrazia ridotto, la PA sottoposta a criteri meritocratici, inondare di liquidità il mercato avrà effetti limitati. I due cavalli, che siano imprese o banche, arrivati alla fontana chiedono dunque all’unisono una cosa sola: riforme, riforme, riforme.

Burocrazia e tasse vecchi mali del Paese, così la competitività resta una chimera

Burocrazia e tasse vecchi mali del Paese, così la competitività resta una chimera

Giovanni Marabelli – Affari & Finanza

Il dato è impietoso, quasi brutale: 49esimi nel mondo per competitività. Ma, frugando tra le 116 tabelle che lo determinano, c’è da farsi venire i brividi. La fotografia dell’Italia scattata come ogni anno dal World Economic Forum di Ginevra nel Rapporto sulla competitività mondiale 2014 non fa sconti al nostro Paese. Forse lo staff della Sda “Bocconi”, che ha effettuato le valutazioni in Italia, sarà stato più rigoroso di altri “esaminatori”. O forse il campione di imprenditori ed executive che ha assegnato i voti è, come da tradizione della classe dirigente nazionale, ipercritico e un pizzico esterofilo. Ma la realtà rimane tutta in un numero: il 49. E 49esima è la posizione dell’Italia su 144 Paesi complessivamente presi in considerazione, lontanissima dal podio, occupato da Svizzera, Singapore e Usa nell’ordine, seguiti da Finlandia, Germania, Giappone, Hong Kong, Olanda, Regno Unito e Svezia. L’Italia è 49esima come nel 2013, a dimostrare plasticamente la sua immobilità. Dopo essersi inabissata perdendo posizioni su posizioni negli anni scorsi. Nel frattempo, anche in Europa, qualcosa si è mosso: il Portogallo (passato dal 51esimo al 36esimo posto) e la Lettonia (salita dalla 52esima alla 42esima posizione) hanno scavalcato l’Italia. E tra quanti già la precedevano, la Germania si è migliorata di un posto, la Danimarca di due, Lussemburgo e Irlanda di tre, la Lituania di sette e la Repubblica Ceca di nove. I “grandi frenatori” di quanti vogliono fare impresa in Italia, per il campione del Rapporto, nell’ordine sono: burocrazia inefficiente (19,9% degli interpellati), peso della tassazione (18,7%), credito (16,1%), regole del lavoro restrittive nei confronti delle imprese (11,1%), farraginosità delle disposizioni fiscali (8,6%), corruzione (7,2%), instabilità politica (5,8%), infrastrutturazione inadeguata (5,5%), insufficiente capacità innovativa (2%), criminalità (1,7%).

Il nostro Paese, beninteso, conserva punti di forza: è il primo della classe per inflazione sotto controllo (prima che si trasformasse in deflazione) e stato di salute dei distretti, che negli anni pre-euro avevano fatto la fortuna dell’industria tricolore. E si piazza solo poco più in basso per aspettativa di vita e tariffe commerciali, un altro indicatore, questo, a doppio taglio: senza reciprocità, fa vincere il crescente protezionismo altrui. All’opposto, il nostro Paese deve ringraziare il Sudamerica e, se non ci fosse, inventarlo. Solo l’Argentina e il Venezuela, infatti, due volte ognuno, salvano l’Italia dall’ingloriosa maglia nera di 144esimo Paese in quattro indicatori. Vale a dire: efficienza nel dirimere le controversie legali, trasparenza delle scelte governative, effetti della tassazione sugli investimenti, effetti della tassazione sul lavoro. Preoccupanti sono anche altri risultati, francamente imbarazzanti per un Paese che rimane tra le economie mondiali più significative. Scontato, purtroppo, il 139esimo posto per rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo, l’Italia risulta 139esima per fiducia nei politici; 134esima per total tax rate sui profitti; 134esima per formazione continua; 138esima per impatto di leggi e regolamentazioni sull’attrazione di investimenti dall’estero; 139esima per facilità di accedere al credito; 130esima per acquisti da parte delle pubbliche amministrazioni di prodotti tecnologicamente avanzati.

L’indagine del Wef si basa su 12 pilastri, a loro volta divisi in settori, che prendono ciascuno in considerazione l’efficienza di diversi indicatori: istituzioni, infrastrutture, sviluppo macroeconomico, sanità ed educazione primaria, educazione superiore e formazione, mercato delle merci, mercato del lavoro, mercato finanziario, disponibilità tecnologica, dimensione del mercato, sviluppo del business, innovazioni. La faccia migliore dell’Italia, nel complesso, si mostra nella sanità e l’istruzione primaria, che rappresentano autentiche eccellenze, ma una buona posizione è meritata complessivamente anche da educazione superiore e formazione, dimensione del mercato e sviluppo del business. I pilastri più “cedevoli” (per il numero di volte in cui l’Italia finisce dopo la 100esima posizione) sono quelli delle istituzioni, con 11 posti critici, del mercato del lavoro (8) e del mercato delle merci (7), anche se in proporzione a fare peggio è il mercato del lavoro, con 8 indicatori su 10 oltre quota 100. Sul fronte delle istituzioni l’Italia sconta anche la proverbiale (e talvolta comoda) incomunicabilità tra cittadini e istituzioni. Gli italiani lamentano le disfunzioni della giustizia e la scarsa trasparenza del governo, non hanno fiducia nei politici e li accusano di sperperare il denaro pubblico, pensano che le decisioni politiche siano adottate per favorire amici, parenti e sodali e si sentono soffocati dalla criminalità organizzata. Nel mercato del lavoro, bocciano, oltre al peso della tassazione, la disciplina di assunzioni e licenziamenti (per efficienza al 141esimo posto nel mondo), il rapporto tra produttività e retribuzioni, la mancanza di flessibilità nel determinare gli stipendi, le relazioni tra datori di lavoro e dipendenti, la capacità del Paese di attrarre cervelli stranieri e di evitare la fuga all’estero degli italiani più dotati intellettualmente.