Edicola – Argomenti

Quanto costa mettere il bollo al condominio

Quanto costa mettere il bollo al condominio

Raffaele Niri – Venerdì di Repubblica

E ti pareva che, nascosta tra mille codicilli, non saltasse fuori l’ennesima tassa? Parliamo dell’imposta di bollo dei condomini che passa da 34,20 euro a cento. Se poi andiamo a vedere l’intero ammontare (cioè moltiplichiamo l’aumento per il numero dei condomini, che in Italia sono 445 mila) ci accorgiamo che la cifra totale dell’aumento arriva a quota 29 milioni (la maggiore imposta di 65,80 euro moltiplicato i 445 mila caseggiati).

Ma andiamo con ordine. La legge 220/2014 ha stabilito l’obbligo del conto corrente sopra gli otto condomini, cioè quando l’amministratore è obbligatorio. In pratica, se una palazzina è composta da otto o più alloggi, non ci può essere più l’autogestione dei diretti interessati ma occorre un regolare amministratore e, di conseguenza, un regolare conto corrente intestato al condominio. E qui arriva la batosta: non solo il costo dell’imposta di bollo non è più di 34,20 euro ma di cento euro «perché i soggetti non sono persone fisiche», ma il disconoscimento della qualifica di persona fisica al condominio consente al sistema bancario di applicare commissioni sullo scoperto di conto corrente che invece non dovrebbero essere applicate.

Le interpretazioni, per la verità, sono diverse. La Corte di Cassazione ha a più riprese affermato la non riconducibilità del condominio alla stregua di persona giuridica. Ma per l’Agenzia delle Entrate il condominio non può certamente essere considerato una persona fisica. Per questo bisogna pagare i 100 euro. Senza sconti. Ad alzare la voce è l’Anaci, la maggiore organizzazione degli amministratori di condominio, che ricorda come anche la Commissione Finanze della Camera abbia protestato contro questo ennesimo «scippo».

La famiglia taglia anche la spesa

La famiglia taglia anche la spesa

Emanuele Scarci – Il Sole 24 Ore

Continua, senza soste, il lento scivolamento dei consumi in Italia. Ma, ora, a pagare il prezzo più salato della crisi è l’alimentare mentre si attenua la caduta dei prodotti non food. Le rilevazioni Istat di luglio indicano un calo delle vendite al dettaglio dello 0,1% rispetto al mese precedente e dell’1,5% rispetto a un anno fa. Spacchettando il dato però emerge che la contrazione dei prodotti alimentari è molto superiore a quella del non food: il 2,5% contro l’1 per cento. E anche le forme distributive dei beni di largo consumo risentono della divaricazione tra food e non food: le catene della gdo alimentare perdono l’1,7% su base annua mentre quelle del non food guadagnano lo 0,2%. I discount alimentari segnano una crescita dell’1,7% ma, a rete costante, il segno più si appiattisce. Il messaggio è chiaro: dopo aver eliminato gli sprechi, scoperto i discount, sostituito vari prodotti con altri meno costosi e approfittato della pioggia di promozioni, le famiglie stanno tagliando la lista della spesa. Persino la corsa degli italiani nel biennio d’oro 2012/13 verso smartphone e tablet si è esaurita: la domanda ora è in picchiata.

Dai dati Istat emerge che, su base annua, nel non food a soffrire di più sono cartoleria, libri e giornali (-3,6%), casalinghi (-2%), utensileria per la casa (-1,4%) e profumeria (-1,2%). «Il dato di luglio delle vendite al dettaglio – commenta Giovanni Cobolli Gigli, presidente di Federdistribuzione – conferma che siamo ancora lontani dall’uscita dal tunnel e che la ripresa del Paese rimane un miraggio. Poi preoccupano i dati dei consumi di prodotti alimentari: il -2,5% è il segno che le famiglie stanno cercando economie e risparmi anche nei bisogni più essenziali». Per Cobolli è impressionante il calo dell’ortofrutta, «un tipico prodotto di consumo italiano. Dopo una prima forte caduta, la discesa è proseguita: sono mutate le abitudini di acquisto e sorge il dubbio che, anche quando la ripresa si manifesterà, sarà difficile tornare agli stili di vita precedenti». Anche per Coldiretti le difficoltà economiche hanno avuto un effetto negativo sui consumi alimentari per il 47% delle famiglie,con la ricerca dei prodotti low cost e dei punti vendita meno cari. Secondo l’indagine Coldiretti nel carrello della spesa il 23% degli italiani ha ridotto i quantitativi di ortofrutta, il 21% acquista prodotti e varietà che costano meno, il 16% rinuncia a prodotti che costano troppo (dalle ciliegie ai frutti di bosco), il 13% è andato alla ricerca di punti vendita con prezzi più bassi.

Che fare? «Non abbiamo segnali – commenta Mario Resca, presidente Contimprese – che facciano presagire un’inversione di tendenza delle vendite nei prossimi mesi. Settembre è iniziato a rilento, complici anche le condizioni meteo che non hanno favorito un aumento di battute di cassa. E anche il bonus di 80 euro finora è stato utilizzato dalle famiglie per pagare bollette c risparmiare». Cauto Cobolli Gigli: «Io negli 8o euro ci credo. Intanto sono stati distribuiti 10 miliardi alle famiglie più bisognose che li hanno utilizzati, parte, per i consumi alimentari e, parte, per pagare le bollette e accantonarli. Sul medio periodo sono fiducioso che l’effetto cumulo induca le famiglie a spendere di più per i consumi». Per l’ufficio studi di Confcommercio «è necessario che nella Legge di Stabilità siano inseriti provvedimenti che, ridando slancio ai consumi, creino le premesse per una vera ripresa nel 2015».

Debiti PA, si riapre la compensazione

Debiti PA, si riapre la compensazione

Carmine Fotina – Il Sole 24 Ore

Si aggiunge un nuovo tassello all’operazione pagamenti della Pa. Stavolta a intervenire è un decreto attuativo atteso ormai da diversi mesi: era previsto dal decreto legge Destinazione Italia del dicembre 2013. Il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi ha infatti controfirmato nei giorni scorsi il decreto del ministero dell’Economia che sblocca per il 2014 la compensazione di cartelle esattoriali, ovvero gli atti di accertamento, a favore di imprese titolari di crediti commerciali nei confronti di tutte le Pubbliche amministrazioni. La compensazione sarà possibile per cartelle esattoriali notificate fino al 31 marzo 2014. Si riapre, in sostanza, una possibilità che era stata riattualizzata dal decreto 35/2013 del governo Monti, ma con un preciso limite temporale: solo per cartelle notificate entro il 31 dicembre 2012.

Il decreto Padoan-Guidi consente ora la compensazione, «nell’anno 2014, delle cartelle esattoriali notificate entro il 31 marzo 2014, in favore delle imprese titolari di crediti non prescritti, certi, liquidi ed esigibili, per somministrazioni, forniture, appalti e prestazioni professionali» maturati nei confronti della Pa. Ci sono alcune condizioni da rispettare, ovvero i crediti devono essere certificati e la somma iscritta a ruolo deve essere inferiore o pari al credito vantato. I crediti che hanno queste caratteristiche possono essere portati in compensazione secondo le modalità previste da precedenti decreti ministeriali del 2012. In sostanza, il titolare del credito, acquisita la certificazione, la presenta all’agente della riscossione competente. Se la regione, l’ente locale o l’ente del Servizio sanitario nazionale non versa all’agente della riscossione l’importo oggetto della certificazione entro 60 giorni dal termine indicato, l’agente può procedere, sulla base del ruolo emesso, alla riscossione coattiva nei confronti dell’ente.

Sul tema della compensazione restano in campo anche altre proposte, spesso di complessa praticabilità. Dalla compensazione universale – per tutte le tipologie di debiti con la Pa senza distinzioni – (un’idea da sempre sostenuta da Rete Imprese), alla recente proposta di legge Ncd portata avanti da Nunzia De Girolamo. In quest’ultimo caso (l’esame in Aula della Camera non è stato ancora fissato) si punta a corrispondere all’imprenditore il 50% di quanto dovuto dall’amministrazione pubblica a fronte dell’impegno di chiedere la rateizzazione del debito fiscale. Superata questa procedura verrebbe liquidato l’altro 50%.

La mutazione genetica delle famiglie italiane

La mutazione genetica delle famiglie italiane

Marco Morino – Il Sole 24 Ore

Dopo questa crisi, quando passerà, nulla sarà più come prima. Ne sono convinti anche gli esperti di consumi. Dalle ultime indagini condotte sullo stile di vita degli italiani e sulla spesa futura delle famiglie arriva un’indicazione netta: anche se ci dovesse essere una ripresa dell’economia, i consumatori non tornerebbero più quelli di una volta. Nella ricerca realizzata da GFK Eurisko per l’Osservatorio Non Food 2014 di GS1 Italy/Indicod-Ecr emerge forte la convinzione che anche se cambiasse il ciclo economico, le esperienze innescate dagli ultimi sei anni di ristrettezze e incertezze economiche avrebbero ormai lasciato un segno talmente forte da diventare parte integrante dei consumatori. Più attento alla spesa, agli sprechi, al rapporto qualità prezzo e sempre più digitale. Ecco come sarà il consumatore di domani.

La grande crisi, ma anche le nuove tecnologie hanno prodotto una sorta di mutazione genetica delle famiglie italiane. La recessione sta cambiando gli stili di consumo, all’insegna della frugalità e della condivisione, secondo il rapporto Coop 2014 “Consumi & Distribuzione”. I cordoni della borsa sono stati ristretti in quasi tutti i settori, con l’eccezione dei prodotti tecnologici e del cibo di qualità. Le speranze di ripresa dei consumi sono rimandate al 2015, anche se ci vorrà ancora molto tempo per rivedere i livelli del 2007. Dallo scoppio della crisi internazionale a oggi, infatti, il reddito disponibile degli italiani è calato di 2.700 euro. Lo studio fa luce sull’evoluzione degli stili di consumo durante la grande crisi. Si sono ridotti sensibilmente gli spostamenti, gli acquisti di abbigliamento e la spesa per il divertimento, ma non si è rinunciato alla qualità dell’alimentazione (crescono i consumi di cibo vegano e biologico) e alle ultime novità della tecnologia (in primis gli smartphone).

Tra le tendenze emergenti si segnala soprattutto il decollo della spesa via Web: ormai il 46% degli italiani utilizza Internet in mobilità, per una media di due ore al giorno, andando a caccia di occasioni in tutti i settori di consumo. E a conferma di un mutamento generale degli stili di vita arrivano anche i dati sui consumi di carburanti: nei primi otto mesi dell’anno gli acquisti di benzina e gasolio risultano in flessione dell’1,4%. Un trend negativo che inizia a pesare sul gettito nonostante l’aumento della pressione fiscale degli ultimi tempi. Per colpa della crisi dei consumi, anche il Fisco incassa meno. A conti fatti, solo i prodotti biologici sembrano non risentire della crisi. Secondo i dati elaborati da Nomisma, dal 2005 a oggi questo comparto ha fatto registrare una crescita delle vendite nell’ordine del 220 per cento. E il trend è destinato a proseguire senza flessioni anche nel 2015.

Quando la sinistra “rivoluzionaria” voleva licenziamenti più facili

Quando la sinistra “rivoluzionaria” voleva licenziamenti più facili

Carlantonio Solimene – Il Tempo

Una premessa è doverosa: cambiare idea non è un peccato mortale. Anzi, talvolta è sintomo di intelligenza e umiltà. Tuttavia, di fronte a giravolte clamorose come quelle di tanti leader della sinistra sulla riforma dello Statuto del lavoro, è fondato il sospetto che più che trattarsi di sincera convinzione ci si trovi di fronte a un mero calcolo di opportunità politica. Il tema è sempre lo stesso: l’ormai famigerato articolo 18. Che di volta in volta cambia natura. È il totem di una sinistra che vuole difenderlo a ogni costo se a metterlo in discussione è l’«altro». Oppure è il retaggio di un mondo del lavoro che non esiste più e va abolito quando si vuole trasmettere l’idea di una sinistra più moderna, «blairiana», e magari sfidare la vecchia guardia del partito.

La vendetta di Ichino
Della giravolta di D’Alema ha già reso conto Pietro De Leo su Il Tempo. Ma ad andare oltre ci ha pensato Pietro Ichino, il giuslavorista ex piddino che, proprio per le sue idee troppo «aperte» sul welfare, alla vigilia delle scorse elezioni fu costretto a traslocare sotto le insegne montiane. Ora, com’è ovvio che sia, Ichino ha sposato in toto il progetto di Matteo Renzi – anche se lui direbbe che è stato Renzi a ispirarsi alle sue idee – e dal suo sito internet si è divertito a stanare uno per uno i vari esponenti Democratici che, tra il 2005 e il 2010, invocavano una riforma decisa del mercato del lavoro in chiave più «flessibile». E che, guarda caso, sono gli stessi che ora vorrebbero osteggiare in ogni modo i progetti del premier. I primi a essere inchiodati sono Cesare Damiano e Tiziano Treu. La fonte è quanto di più autorevole ci possa essere per la sinistra: un articolo de l’Unità risalente al 2005: «È la Danimarca a essere depositaria del “modello vincente”. È questo il parere di Tiziano Treu, Cesare Damiano e Paolo Ferrero nei giorni scorsi a Copenhagen in una sorta di “missione studio”». Segue una dichiarazione di Damiano: «L’entrata e uscita dal mondo del lavoro in Danimarca non è un problema perché esiste una forte protezione sociale». «La mobilità del lavoro investe circa 800mila persone su 4 milioni “ma non fa paura – continua l’esponente diessino – perché l’accesso a un altro impiego è garantito, anche grazie al ruolo attivo del sindacato nella gestione del sistema di orientamento e formazione”».

Viva la Danimarca. Anzi no
Si parla di «flexsecurity». Quel modello, cioè, che prevede minori tutele per il lavoratore – che di fatto non è protetto in alcun modo dal licenziamento – accompagnate però da maggiore attenzione nel momento della disoccupazione. Con sussidi superiori e la quasi sicurezza di potersi ricollocare in breve nel mondo occupazionale. Un modello, quello che ha visto le migliori realizzazioni in Danimarca e Svezia, che sembra piacere anche all’ex segretario piddino Pier Luigi Bersani. Stavolta la fonte citata da Ichino è un’intervista al Sole 24 Ore rilasciata da Bersani nel giugno 2009: «Non va mica bene che c’è una parte di protetti e la metà che è senza tutele. Anche perché i “tutelati” stanno andando man mano in pensione e sul mercato ci resteranno solo gli altri». L’intervistare si stupisce: «Scusi ma lei propone quel contratto unico di cui parlano anche Pietro Ichino e Tito Boeri?». Bersani risponde deciso: «Non è che mi vada bene al cento per cento. Ma la direzione è quella. Questo doppio regime nel lavoro non funziona più. E sono pronto alla battaglia con i sindacati. Perché, pure loro, si dimostrano miopi. E quando tutti i protetti andranno in pensione? Cosa rimane? Rimane il far west». Come si può leggere, colui che sarebbe diventato segretario del Pd appena quattro mesi dopo, non aveva problemi a dichiarare guerra ai sindacati su un tema così delicato. Si nasce incendiari e si finisce pompieri, recita un antico adagio, che potrebbe valere anche per Vannino Chiti, un altro degli esponenti Pd che conducono contro Renzi una lotta senza quartiere. Sulla riforma del Senato così come su quella del Lavoro. Proprio con Chiti Ichino è particolarmente velenoso: «Oggi dichiara “Rivolgo un invito al presidente del Consiglio: sulla delega per il lavoro eviti forzature e diktat (…) È senza fondamento e non accettabile per la sinistra rimettere in discussione ciò che resta dell’articolo 18″. Ma è lo stesso che nel 2009 figurava come terzo firmatario, insieme a Emma Bonino e a me, del ddl n. 1873, contenente la I edizione del Codice semplificato del lavoro con la riscrittura integrale dello Statuto dei Lavoratori (e ovviamente anche dell’art. 18)».

Il sindacato renziano
Solo gli stupidi non cambiano mai idea, va ribadito. Anche perché la «flexsecurity» non è accolta come oro colato neanche nel mondo degli economisti. C’è chi, ad esempio, sostiene che in periodi di crisi il sistema dei licenziamenti facili fa impennare il tasso di disoccupazione e indebolire la catena che porta al ricollocamento. Causando una diminuzione dei consumi e innestando la spirale della recessione. Pareri diversi, come quelli espressi da Luigi Angeletti a distanza di soli quattro anni. È il segretario della Uil l’ultima vittima della velenosa antologia di Ichino: «Oggi si affianca a Susanna Camusso accusando Renzi di “togliere protezioni a chi ce le ha”, ma è lo stesso che sul Corriere della Sera del 9 febbraio 2010, dichiara di condividere il progetto flexsecurity, ritenendolo una “soluzione intelligente e praticabile” e un’idea “moderna, che rende più efficiente il mercato e difende sul serio le persone». Considerazioni che fanno il paio con una lettera del novembre 2011 spedita a tutti gli iscritti, in cui Angeletti approva l’impostazione della legge 1.873/2009 e invita il sindacato a sostenerla. Sembra un’altra era, un altro Paese. Invece sono passati meno di tre anni.

Il fisco “pulisce” l’anagrafe tributaria

Il fisco “pulisce” l’anagrafe tributaria

Marco Mobili e Giovanni Parente – Il Sole 24 Ore

Il Fisco punta a “ripulire” l’Anagrafe tributaria. Meno duplicazioni e più qualità dei dati disponibili. E allo stesso tempo si studia una sorta di raggruppamento delle informazioni attraverso un progetto di «Vista unica del contribuente» utilizzabile sia dall’amministrazione e sia in futuro dagli stessi cittadini per controllare la propria posizione. Sono le indicazioni arrivate ieri dal direttore dell’agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, nell’audizione davanti alla commissione bicamerale di vigilanza sull’Anagrafe tributaria.
Una ricetta che suona come una risposta ai problemi sollevati alla fine della scorsa legislatura dalla precedente commissione di vigilanza, soprattutto in relazione al proliferare delle richieste di informazioni e alla difficoltà di incrociarle perché spesso disallineate. Nel documento conclusivo dell’indagine svolta i parlamentari avevano segnalato come attualmente le banche dati disponibili da tutti gli organismi dell’amministrazione sono 128. Orlandi ha citato gli obiettivi da raggiungere per evitare duplicazioni e sovrapposizioni anche nei confronti di soggetti e categorie chiamate all’invio delle comunicazioni al Fisco. Nell’audizione, il neodirettore delle Entrate ha presentato il progetto di Anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr) che costituirà una sorta di base comune a tutte le pubbliche amministrazioni.

Le tappe per la precompilata
Un’operazione di “ripulitura” che viaggia in parallelo con il debutto della dichiarazione precompilata per la quale arriveranno le certificazioni dei redditi dai sostituti d’imposta e i dati su alcune spese che danno diritto a detrazioni e deduzioni. E proprio in vista del 730 a domicilio Agenzia e Sogei hanno definito un calendario serrato: entro ottobre saranno pronti i tracciati telematici che banche, assicurazioni e enti previdenziali dovranno utilizzare per trasmettere alle Entrate i dati su oneri detraibili e deducibili; entro novembre saranno definiti modello 730/2015 e modello di certificazione unica 2015 con relative istruzioni; entro i primi mesi del 2015 Sogei predisporrà i software per certificazioni dei sostituti d’imposta e dichiarazioni precompilate a dipendenti e pensionati, sostituti d’imposta e intermediari (Caf e professionisti). Orlandi ha ribadito che «eventuali interventi normativi di fine anno con effetti sul 2014 rischiano di compromettere il buon esito dell’intero progetto».

Sommerso e contanti
Oltre a questo, l’obiettivo di fondo è quello di aggredire la cifra «precoccupante» dell’economia sommersa in Italia che vale tra il 16,3% e il 17,5% del Pil, ossia tra i 255 e i 275 miliardi. Una delle strade per farlo è un maggior impulso alla tracciabilità dei pagamenti. «I tempi sono maturi – ha sottolineato il direttore – per l’utilizzo della moneta elettronica. La strumentazione a disposizione per l’estensione totale dei pagamenti elettronici a tutte le transazioni commerciali è già disponibile e in fase di grande diffusione sul mercato». Tuttavia il contante nel nostro Paese rappresenta ancora l’82% del numero e il 67% del valore totale delle transazioni. Tutto ciò ha anche un costo stimato in «4 miliardi l’anno per il settore bancario – ha detto Orlandi – e in 8 miliardi di euro per il sistema Paese».

Il ruolo dei Comuni
Un’altra leva su cui puntare nel contrasto al sommerso è l’alleanza con gli enti locali. Dal febbraio del 2009 allo scorso agosto – ha segnalato il direttore – sono state trasmesse all’agenzia delle Entrate più di 66mila segnalazioni da oltre 900 Comuni. Di queste circa 12mila sono state trasfuse in atti di contestazione con 226 milioni di maggior imposta accertata. Ogni segnalazione ha mediamente consentito di accertare più di 19mila euro di maggiori imposte. E quasi la metà delle segnalazioni ha riguardato fenomeni di evasione relativi agli immobili.

Il buco nero dei debiti dello Stato? E’ nella sanità

Il buco nero dei debiti dello Stato? E’ nella sanità

Paolo Baroni – La Stampa

I debiti arretrati della Pa? Al 23 settembre fa sapere finalmente il Tesoro, aggiornando i suoi dati, sono stati pagati 31,3 miliardi su 38,4 già erogati e le risorse stanziate (57 miliardi) «sono più che sufficienti a smaltire il debito patologico». In realtà, sul fronte dei pagamenti, restano molti buchi neri, a cominciare dalla sanità.

Tra gennaio e luglio infatti, secondo i dati elaborati da Assobiomedica, la federazione di Confindustria che raggruppa i fornitori di apparecchiature, una Asl su tre, ovvero 69 aziende su 226, i tempi li ha addirittura allungati. Il record spetta all’Azienda Sanitaria Mater Domini di Catanzaro, che a gennaio pagava in 1301 giorni e a luglio era arrivata a 1401 (+100) conquistandosi così il primato nazionale di peggior pagatore nel campo della sanità. Alle sue spalle si piazzano l’Azienda provinciale di Cosenza che paga in 1025 giorni, l’Azienda pugliese Ciaccio (907), l’Azienda regionale di Campobasso (833) e l’Asl Napoli 1 che paga in 855, ma che però da inizio anno è riuscita a tagliare ben 234 giorni. Meglio ha fatto solo l’Ospedale San Sebastiano di Caserta che di giorni ne ha recuperati addirittura 314 ed è sceso a quota 443. In tutto sono 20 le aziende che in questi ultimi mesi hanno ridotto i tempi di pagamento in maniera significativa (da 3 a 8 mesi), tra queste 4 aziende della capitale (Roma B, Roma E, Gemelli e Sant’Andrea), il Cardarelli di Napoli e l’ospedale di Careggi. Anche l’Asl di Rimini è riuscita a «buttar giù» 90 giorni, passando da 133 a 42 giorni e stabilendo così il miglior risultato assoluto. Le situazioni più pesanti riguardano le regioni commissariate, col Molise che ha una media di 862 giorni, la Calabria di 841, la Campania di 341. Al Nord la Lombardia paga invece in 92 giorni, l’Emilia in 152, il Piemonte in 243.

Nel campo della sanità il meccanismo della certificazione dei crediti avviato dal Tesoro serve, ma non risolve. Perché, ad esempio, ben 1,39 miliardi di crediti sui 3 che in totale spettano alle imprese che producono i dispositivi medici non possono essere certificati perché i debiti delle Regioni commissariate sono esclusi dal meccanismo. «È assurdo che questo che rappresenta il pregresso più antico, debba essere saldato chissà quando», protesta Stefano Rimondi presidente di Assobiomedica. Che segnala pure problemi col sistema bancario, con istituti «che impongono tassi anche superiori» all’l,6% fissato dal Tesoro.

Secondo Luigi Boggio, amministratore delegato della filiale italiana della B Braun, una multinazionale tedesca del settore da 5,1 miliardi di fatturato, la piattaforma informatica del Tesoro «non è uno strumento utile». «È complicato – spiega – non consente un caricamento massivo delle fatture, ma bisogna inserirle una per volta e ad ogni anomalia la fattura viene sospesa. Molto meglio fare da soli: noi sul recupero crediti investiamo molto di nostro, abbiamo 8 persone che girano l’Italia, visitano i clienti, e ci consentono di sbloccare molte situazioni». In questo modo la «B Braun» riesce a incassare in 158 giorni contro una media nazionale di 201. «Ma la Romania per pagarci impiega 70 giorni in meno, l’Ungheria 50, la Bulgaria 40, Spagna e Russia 30. Perché? Perché – risponde Boggio – da noi c’è tutto un sistema informatico-amministrativo che non funziona. Senza contare che in certe regioni del Sud se non chiedi le fatture se le tengono nel cassetto ed è come se non esistessero».

Pagamenti a quota 31 miliardi

Pagamenti a quota 31 miliardi

Carmine Fotina – Il Sole 24 Ore

L’obiettivo di pagare tutti i debiti della Pa entro il 21 settembre, il fatidico giorno di San Matteo, non è stato centrato. Lo confermano gli ultimi dati pubblicati ieri dal ministero dell’Economia, sebbene si sottolinei come l’ammontare accumulato a fine 2013 sia inferiore alle precedenti stime (50 miliardi anziché i 60 miliardi più volte citati) e nonostante si ricordi che le imprese possono cedere i loro crediti alle banche secondo le regole del decreto 66/2014.

I numeri, alla fine, dicono che su poco meno di 57 miliardi stanziati sono stati erogati 38,4 miliardi agli enti debitori e di questi solo 31,3 miliardi sono finiti nelle casse dei creditori (il 55% delle risorse effettivamente disponibili). In particolare, 17,9 miliardi sono stati pagati ad imprese e professionisti che vantavano crediti nei confronti di Regioni e Province autonome; 7,7 miliardi sono andati a fornitori di Province e Comuni e 5,7 miliardi a quelli dello Stato (ma in questo caso, per 5,2 miliardi , si parla di rimborsi fiscali e non di crediti commerciali).

Il Mef mette comunque in evidenza il forte incremento dell’erogazione (+27%) e dei pagamenti (+20%) rispetto alla precedente rilevazione del 21 luglio scorso e ridimensiona l’intero fenomeno. Limitandosi al debito “patologico”, dunque scaduto e non oggetto di contenzioso, la massa da aggredire si ridurrebbe a 50 miliardi e dunque «le risorse fin qui stanziate sembrano essere più che sufficienti». È vero, ammette il Mef, che non è stato già pagato l’intero importo stanziato ma le ragioni vanno ricercate a livello locale. Molti Comuni hanno rallentato la richiesta di risorse perché hanno smaltito la gran parte degli arretrati mentre le Regioni sono fermate dal patto di stabilità interno, hanno problemi di contabilizzazione nei bilanci o non riescono a predisporre piani di pagamento dettagliati. Tra settembre e novembre, comunque, dovrebbero essere erogati dal Tesoro agli enti debitori altri 9 miliardi.

Un’analisi completa dell’argomento pagamenti della Pa richiede però una distinzione tra spese correnti e spese in conto capitale. Mentre sulle prime il governo può procedere senza remore, nel secondo caso – relativo agli investimenti – restano grosse criticità per il rischio di sforare i vincoli dell’indebitamento netto (per il governo sarebbero incagliati solo 2-3 miliardi, per i costruttori dell’Ance le cifre sarebbero sensibilmente superiori). E non è l’unico aspetto meritevole di approfondimento. Dal mondo sanitario, altro grande universo dei creditori della Pa, giungono diverse obiezioni. Assobiomedica sottolinea che, su oltre 3 miliardi di scoperto, 1,4 miliardi «non possono essere restituiti perché i debiti delle Regioni commissariate sono esclusi dal sistema di certificazione del ministero dell’Economia».

Il punto di soddisfazione reciproca, tra governo e imprese, appare dunque ancora lontano. Continuano ad esempio le segnalazioni su ritardi di pagamento relativi ai nuovi contratti. Su questo punto però il governo rilancia, promettendo «la riduzione generalizzata a 30 giorni» grazie all’introduzione della fatturazione elettronica e alle nuove regole di contabilità per le pubbliche amministrazioni.

Nuovo balzo dei fallimenti: +14% nel secondo trimestre

Nuovo balzo dei fallimenti: +14% nel secondo trimestre

Francesco Antonioli – Il Sole 24 Ore

È ancora buio. C’è una nuova impennata dei fallimenti: tra aprile e giugno più di 4mila imprese hanno aperto una procedura fallimentare, registrando un incremento del 14,3% rispetto allo stesso periodo del 2013. La crescita a doppia cifra porta i default oltre quota 8mila se si considera l’intero semestre, +10,5% rispetto al livello già elevato dell’anno precedente e record assoluto dall’inizio della serie storica dal 2001. «Stiamo vivendo una fase molto delicata per il sistema delle PMI italiane – commenta Gianandrea De Bernardis, amministratore delegato di Cerved -: la nuova recessione sta spingendo fuori dal mercato anche imprese che avevano superato con successo la prima fase della crisi e che stanno pagando il conto al credit crunch e di una domanda da troppo tempo stagnante».

L’incremento più sostenuto si osserva tra le società di capitale, la forma giuridica in cui si concentrano i tre quarti dei casi, che superano nel primo semestre quota 6mila. Minore invece l’incremento del fenomeno tra le società di persone (+5,9%) e tra le altre forme (+1,8%). L’analisi condotta da Cerved, primo gruppo in Italia nell’analisi del rischio del credito e una delle principali agenzie di rating in Europa, mostra come i fallimenti riguardano indistintamente tutta la Penisola. «I tassi di crescita – prosegue De Bernardis – sono ovunque a doppia cifra ad eccezione del Nord Est, in cui si registra un incremento del 5,5%, il livello più basso di tutto il territorio. In crescita del 14% rispetto al primo semestre 2013 i fallimenti nel Mezzogiorno e nelle Isole, del 10,7% nel Nord Ovest e del 10,4% nel Centro».

A livello settoriale, la maglia nera spetta ai servizi che contano un aumento del 15,7%, in netta accelerazione rispetto al primo semestre del 2013. Continuano, anche se con dei ritmi più lenti, le procedure nelle costruzioni e nella manifattura: i fallimenti di imprese edili crescono nei primi sei mesi del 2014 dell’8,2% (+12,8% nel 2013), mentre per le imprese manifatturiere l’aumento è del 4,5% (+10,5% nel primo semestre dello scorso anno). Tra aprile e giugno, con i correttivi legislativi, crollano le domande di concordato in bianco: sono state 665 (-52%); ne è conseguenza una diminuzione dei concordati comprensivi di piano (-12,3% nei primi sei mesi del 2014).

Deficit sotto il 3% con il Pil allargato

Deficit sotto il 3% con il Pil allargato

Lorenzo Salvia – Corriere della Sera

Non siamo più ricchi ma una piccola buona notizia c’è. L’Istat ha ricalcolato anche per il 2013 il Pil, il Prodotto interno lordo, secondo le nuove regole europee che fanno entrare nel conteggio anche un pezzo dell’economia illegale come la droga e la prostituzione. Rispetto al vecchio metodo di calcolo, il Pil italiano guadagna in un colpo solo 59 miliardi di euro, il 3,8%, arrivando a 1.618,9 miliardi di euro. Non si tratta di una crescita vera e propria ma di una semplice illusione statistica. Il giro d’affari dell’economia illegale va aggiunto anche al Pil degli anni precedenti e alla fine viene fuori che la recessione è sempre la stessa: Pil nuovo o Pil vecchio, il calo resta dell’1,9% rispetto al 2012.

Il ricalcolo dell’Istat, però, ha un effetto positivo su due indicatori tenuti sotto stretta osservazione da Bruxelles. Il primo è il debito pubblico, che in termini reali continua a volare sopra la soglia dei 2 mila miliardi di euro. Ma che in rapporto al nuovo Pil scende dal 132,6%. al 127,9%. Una diminuzione virtuale che però renderebbe meno pesante un eventuale percorso di riduzione. Il secondo indicatore è il rapporto tra deficit e Pil, che scende al 2,8% dal 3%, il limite massimo consentito dall’Unione Europea. Se la tendenza fosse confermata anche per l’anno in corso, l’Italia potrebbe spendere uno 0,2% aggiuntivo del Pil (3 miliardi di euro) senza subire una nuova procedura d’infrazione. Una piccola flessibilità regalata dalle nuove regole sugli swap, gli strumenti derivati, che dicono di non conteggiare come passività gli interessi che il Tesoro paga per coprirsi dai rischi sui cambio sui tassi di interesse.

Per effetto del ricalcolo cambiano anche un’altra serie di indicatori: la pressione fiscale scende dal 43,8 al 43,3% del Pil. Mentre aumenta dello 0,6% il peso economico dell’agricoltura, per effetto di modifiche attese da tempo, come il conteggio in questo comparto di alcune attività legate alle energie rinnovabili e un monitoraggio più attento dell’Iva. Un’altra illusione statistica, insomma.

Purtroppo ieri l’Istat ha diffuso anche altri numeri. Qui non c’entra il ricalcolo del Pil ma l’andamento reale del nostro settore industriale. E in quelle tabelle ci sono soltanto segni meno. A luglio il fatturato è sceso dell’1% rispetto al mese precedente e il dato in arrivo dal mercato estero, finora ancora di salvezza delle nostre aziende, è andato peggio di quello nazionale. In calo anche gli ordinativi totali, meno 1,5%.