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Non c’è classifica che ci sorrida

Non c’è classifica che ci sorrida

Il Sole 24 Ore

Dall’estero ci guardano. E, statistiche alla mano, vedono nero. Nella classifica Doing Business, stilata dalla Banca mondiale, l’Italia è al 65° posto su 189 Paesi. Ma è 90esima nella categoria “avviamento di un’impresa”, 109esima nella categoria “accesso al credito”, 103esima in quella del “rispetto dei contratti” e 112esima in quella “licenze e permessi”. Nella classifica dei 50 Best Countries for Business di Forbes, l’Italia è al 37° posto. Dietro non solo a Spagna, Portogallo e Slovenia. Ma anche alla Macedonia.

Nel Venture Capital & Private Equity Country Attractiveness Index, indice preparato quest’anno dall’Iese, la business school dell’Università di Navarra, l’Italia è 34esima, dietro a tutti i maggiori Paesi europei. Ancora peggiori i dati del Baseline Profitability Index, l’indice di profittabilità di Daniel Altman, economista della Stern School of Business della New York University. Qui l’Italia è al 106° posto su 112. Meglio solo di Libano, Russia, Argentina, Repubblica Democratica del Congo, Angola e Venezuela, sei Paesi al centro di guerre, disfacimento economico o sanzioni internazionali. Ma la più recente conferma della scarsa efficienza del sistema-Paese è venuta dal Letter Grading Analysis, uno studio recentemente completato da quattro professori universitari nordamericani ed europei che hanno usato un indicatore del tutto insolito: la qualità del servizio postale nazionale.

I quattro hanno spedito due lettere a un indirizzo immaginario nelle cinque maggiori città di 159 Paesi del mondo e hanno analizzato la percentuale e i tempi del loro ritorno negli Usa. «A nostro giudizio attraverso il servizio postale si può misurare l’efficienza produttiva di uno Stato, incluso fattori determinanti quali la qualità degli investimenti, della manodopera, della tecnologia e del management», hanno spiegato. Le Poste italiane sono risultate al 55esimo posto, con l’80% delle lettere rispedite negli Usa e una media di 173 giorni necessari per il loro recapito. Dietro non solo a tutti i principali Paesi Europei, ma anche al Kazakhstan (80% in 146 giorni).

Salvò un’azienda dal crac, la burocrazia lo punisce

Salvò un’azienda dal crac, la burocrazia lo punisce

Fausto Carioti – Libero

L’aula di Montecitorio, dove ieri Matteo Renzi ha promesso «una politica economica espansiva che rialimenti la fiducia tra imprese e cittadini», vista da qui è davvero dall’altra parte della Luna. Siamo a Noventa di Piave, in provincia di Venezia. Una settantina di dipendenti diretti e altrettanti nell’indotto, fatturato che dopo un periodo diflìcile è cresciuto sino a quota 20 milioni, commesse importanti all’estero, un curriculum che vanta edifici come il ponte di Calatrava, il Lingotto di Torino firmato da Renzo Piano e l’hotel Vela a Barcellona: i numeri per andare avanti ci sono, ma dinanzi un lucernario non a norma di legge valgono poco. La Simco Tecnocovering rischia di finire nel lungo elenco delle vittime dell’ottusità della burocrazia.

L’impresa progetta e applica quelle facciate di vetro e metallo diventate, grazie agli archistar, il simbolo della modernità. Il gruppo cui apparteneva, la Lorenzon Techmec System, si era trovato sul baratro quattro anni fa. Ma aveva commesse e contatti sparsi per il mondo e un know how di tutto rispetto. Così l’azienda di Noventa fu acquistata dalla Simco Tecnocovering, consociata del gruppo che fa capo al friulano Marco Simeon. Da allora ha lavorato per costruire le facciate del ministero della Difesa francese a Parigi, della torre di Telecom Maroc a Rabat, della nuova sede del Credit Agricole a Nantes e del palazzo Trebel a Bruxelles, destinato al Parlamento europeo, e in molti altri cantieri. Insomma, il lavoro non manca e i tempi brutti sembrano alle spalle.

Se non fosse per quel lucernario, di cui ha scritto ieri il Corriere del Veneto, e tutto quello che esso rappresenta. Tre anni fa Simeon aveva acquistato la sede dell’azienda dal tribunale. Decide di cambiare la distribuzione degli spazi e presenta un progetto in sanatoria. Tutto bene, tranne il torrino in alluminio e vetro che sporge di quattro metri. Si scopre che il massimo previsto dal progetto originario è ottanta centimetri. È un abuso ereditato dalla vecchia proprietà, ma alla burocrazia non interessa. Siccome il permesso di costruire dura tre anni, Simeon chiede tempo per trovare una soluzione. La risposta è un’ordinanza del Comune datata 24 aprile, in cui si obbliga alla demolizione del lucernario entro 90 giorni. Copia dell’ordinanza è inviata alla procura e «comunicata agli uffici competenti per l’eventuale cessazione delle forniture e dei servizi pubblici». Così ora l’azienda rischia di trovarsi senza acqua né elettricità e con un procedimento penale in più.

«Non manderò mai a casa i miei dipendenti», assicura Simeon parlando con Libero. «Smonterò il torrino, perché sono costretto a farlo dalla burocrazia, e andrò avanti con la mia attività». Ma questa storia è una metafora: se la racconta, spiega, e solo perché è un esempio di ciò che accade a tante altre imprese. «Stiamo parlando di una società che ha salvato il personale di quella che era fallita, ne ha acquistato i beni, è andata in giro per il mondo a vendere il suo prodotto nonostante i problemi creati dalla burocrazia, ha portato i quattrini fatti all’estero in Italia, li ha riversati sul territorio, e qui trovo chi mi intima di smontare un torrino che ho comprato dal tribunale».

Simeon comincia a capire chi va via. «I grossi gruppi come Fiat hanno iniziato a mettere le loro società fuori da questo sistema, ma sono in tanti che ci stanno pensando. Io in questo momento non ho intenzione di farlo, ma se dal punto vista fiscale e burocratico si va avanti così una simile scelta diventerà inevitabile per la sopravvivenza del nostro sistema imprenditoriale».

Orari dei negozi, l’Antitrust boccia le chiusure estive

Orari dei negozi, l’Antitrust boccia le chiusure estive

Corriere della Sera

L’autorità Antitrust ha bocciato con un’apposita segnalazione la proposta di legge Senaldi, elaborata nella commissione Attività produttive di Montecitorio, per ri-regolamentare l’apertura festiva dei negozi affidando maggiori poteri agli enti locali. Secondo il garante «la proposta viola la concorrenza» perché pone limiti all’esercizio di attività economiche «in evidente contrasto con le esigenze di liberalizzazione di cui è espressione l’articolo 31 del decreto Salva Italia» emanato a suo tempo dal governo Monti. Per di più il parere elaborato dall’Antitrust sottolinea il contrasto della proposta Senaldi con la normativa della Ue in quanto reintroduce significativi limiti concorrenziali «aboliti dal legislatore nazionale» proprio in attuazione del diritto comunitario.

Spariti i 40 milioni per le partite Iva

Spariti i 40 milioni per le partite Iva

Claudio Antonelli – Libero

Ad agosto, poco meno di un mese e mezzo fa, il governo dopo interpellanza scritta fa una promessa: troveremo i 35-40 milioni di copertura necessari per la piccola mobilità e per evitare che le partite Iva, che nel 2012 hanno fatto assunzioni agevolate fidandosi degli incentivi promessi da Monti, debbano restituire il denaro all’Inps. La data di scadenza della promessa era ieri e i soldi sono spariti. Anzi il ministero a voce dice di averli trovati. Chiede all’Inps di aspettare a mandare gli avvisi di riscossione ad artigiani, commercianti e liberi professionisti. L’Inps senza garanzia scritta di copertura deve fare rispettare le leggi. Anche se in contraddizione con leggi precedenti. E ora il rischio concreto è che per meno di 40 milioni molte partite Iva si trovino in grossa difficoltà. In un cul de sac, degna conclusione di una vicenda paradossale.

Nel 2012 il governo Monti aveva annunciato sgravi biennali per la piccola mobilità. Le mini aziende, che avessero assunto dipendenti rimasti a spasso per giustificato motivo nell’ambito di attività artigianali, avrebbero usufruito di interessanti sgravi contributivi. Un costo del 10% contro il 30 normalmente previsto. A ottobre del 2013 viene emessa una circolare che in sostanza chiarisce come non sia più possibile riconoscere le agevolazioni per le assunzioni, effettuate nel 2013, di lavoratori licenziati nel 2013. «In via cautelare», si evince dalla direttiva, «deve ritenersi anticipata al 31 dicembre 2012 la scadenza dei benefici connessi». In sostanza sparisce la copertura per una norma che per legge della Repubblica avrebbe dovuto essere garantita per almeno due anni e scatta la retroattività. Non solo stop per i circa 300 euro mensili di agevolazioni. Ma ora il rischio della batosta: la restituzione di una somma che può arrivare anche a 5mila euro.

In Parlamento si era mosso il M55. La deputata veneta Gessica Rostellato ha presentato un’interpellanza in Aula sollecitando il govemo a dare risposte. «Avevamo chiesto», commenta Rostellato, «di preservare migliaia di aziende da un esborso incomprensibile, data la piena violazione del principio di irretroattività di una serie di provvedimenti talmente chiari da non lasciare dubbi. Abbiamo poi depositato una risoluzione perché il governo non obblighi molte aziende a trovarsi nella condizione di non poter ottemperare a una richiesta assurda. E poi trovarsi fuori legge – basti pensare al Durc – e rischiare addirittura il ko». Ma non finisce qui. «Adesso regna la totale incertezza. Potrebbe anche accadere che le lettere firmate dall’Inps partano ugualmente», prosegue Rostellato, «e poi se dovessero saltare fuori le coperture, gli importi non verrebbero riscossi. Creando un clima di terrore e confusione». Gli artigiani sono furibondi. «Esistono licenziati di seria A e di serie B», commenta Mario Pozza delegato alla semplíficazione di Confartigianato, «e ancora una volta vediamo che il governo tratta i piccoli come dipendenti di serie B. Basta sciacquarsi la bocca con le Pmi. Ce ne ricorderemo quando si tratterà di votare». Ora Renzi ha al massimo due giorni per risolvere l’indegno pasticcio.

Articolo 18, banco di prova di una nuova fase

Articolo 18, banco di prova di una nuova fase

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

È stato un Matteo Renzi più misurato del solito. Non il guascone che alcuni annunciavano. Ma un presidente del Consiglio consapevole del momento, che ha rinunciato – forse ben consigliato – ai toni spavaldi verso l’Europa e ha illustrato con inedito ordine il suo piano di riforme per trasformare – come è necessario – l’Italia. Sarà stata la presa d’atto del drammatico stallo dell’economia, con una crescita che il Centro studi Confindustria ieri ha confermato ben sotto lo zero; sarà stato il pressing dell’Europa, che considera scaduto il tempo delle promesse: fatto sta che Renzi ha dimostrato nel suo discorso alle Camere di avere una nuova cognizione del cambio di fase necessario e dell’obbligo di affrontare con maggior sistematicità i nodi cruciali di un rilancio economico che continua drammaticamente a slittare.

Ci si poteva aspettare di più sui tempi delle singole riforme e sul merito dei nodi politici che vanno sciolti per trasformare il riformismo d’impeto in riformismo dei fatti. Troppe poche parole, poi, sono state dedicate alla legge di stabilità. Ma la vera novità della giornata si chiama articolo 18, ovvero superamento della reintegra obbligatoria del lavoratore. Renzi ieri ha rotto gli indugi sull’ultimo dei tabù della sinistra e del mondo del lavoro. Il premier sa che su questo, su una maggiore flessibilità in uscita per i contratti a tempo indeterminato, si gioca una partita decisiva per la credibilità in Europa del suo governo e, sul fronte interno, per archiviare definitivamente ogni conservatorismo nel suo Pd.

Una partita difficile. Tutta ancora da giocare. Ma con i tempi stretti che l’emergenza lavoro, oltre che le attese dell’Europa, impone. Perciò ieri Renzi ha scelto di portare il suo affondo proprio sul Jobs Act, evocando anche la possibilità di un decreto. Sulla questione cruciale dell’articolo 18, però, in Parlamento si è tenuto ancora al di qua delle colonne d’Ercole. Ha incalzato sulla necessità di superare il dualismo nel mondo del lavoro, ma non ha parlato, ancora, di superamento della reintegra obbligatoria. Il dado però era lanciato. Così in serata alla direzione del partito il superamento dell’articolo 18 è stato evocato direttamente. Renzi illustrerà il suo piano a una direzione appositamente convocata per fine mese. Ma ieri sera raccontava così il progetto: «Lo Statuto del lavoro va riscritto e il dualismo tra “garantiti e non” va superato anche con una maggiore flessibilità nei contratti a tempo indeterminato, cioè con il superamento della reintegra obbligatoria prevista dall’articolo 18». Ovviamente questo deve avvenire, nel piano di Renzi, con un contestuale rafforzamento delle tutele economiche per chi perde il posto di lavoro. E qui il premier inserisce l’altra parte del discorso: «Con la legge di stabilità metteremo le risorse necessarie a rafforzare gli ammortizzatori, in questo modo anche i più scettici potranno convincersi sull’abolizione della reintegra obbligatoria».

È evidente che a questo punto un passaggio decisivo sarà proprio quello delle coperture da trovare nella legge di stabilità. Una “finanziaria” che diventa sempre più complessa, per la quantità di risorse che dovrà mobilitare. Eppure Renzi ieri alle Camere ha sorprendentemente eluso il tema della manovra di bilancio e dei tagli da 20 miliardi che serviranno in gran parte (16 miliardi) a coprire misure esistenti. Tra queste il sempre più contestato bonus da 80 euro, che da solo vale 10 miliardi. Il premier ha ribadito che non tornerà indietro. Comprensibile. Per il governo, come ha ammesso lo stesso ministro Padoan, è «una priorità politica» prima che una scelta economica. Ma con questa zavorra si riuscirà a liberare le risorse necessarie a ridurre le imposte sulle imprese e sul lavoro, vera priorità riconosciuta anche dall’Eurogruppo a Milano la settimana scorsa? E ora anche a trovare i fondi per la riforma degli ammortizzatori sociali?

Nessuno può credere seriamente che si potranno risparmiare 20 miliardi senza incidere sui grandi capitoli del bilancio pubblico, che sono le pensioni (254 miliardi, il 35% della spesa al netto degli interessi), la sanità (110 miliardi, il 14%), il pubblico impiego (164 miliardi, il 22,9%). Ma di tutto questo nel discorso di Renzi non c’è traccia. È vero che il tema dell’intervento alle Camere era il cosiddetto “piano dei mille giorni”. Ma è possibile parlare di un piano dei mille giorni senza entrare nella carne viva delle risorse necessarie a sostenere quelle riforme? È credibile un progetto di rilancio dell’economia senza delineare l’infrastruttura finanziaria necessaria a sostenerlo? Tanto più che si avvicinano le scadenze che contano. Quella della legge di stabilità, appunto, prevista tra il 10 e il 15 ottobre, ma anche quella del Consiglio europeo di fine ottobre. Per quella data l’Italia, se vorrà davvero accedere a una maggiore flessibilità sui conti pubblici, dovrà aver dimostrato di aver fatto passi avanti molto concreti sulle riforme. E su una in particolare, proprio quella del lavoro.

Perciò è davvero venuto il momento per Renzi di rompere l’ultimo dei tabù. Un’ennesima riforma del mercato del lavoro annacquata dalle tante resistenze conservatrici non serve a nessuno. Non serve certamente per dare il segnale di credibilità necessario in Europa, ma soprattutto non serve a dare all’Italia un mercato del lavoro più efficiente e più giusto. La svolta del riformismo dei fatti deve passare anche da qui.

Renzi l’affamatore: aumenta anche il pane

Renzi l’affamatore: aumenta anche il pane

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Sprechi e privilegi non si toccano ma per far cassa, Renzi sarebbe pronto a colpire pane, pasta, farina, burro e olio. Insomma i beni di prima necessità che, dall’oggi al domani, alla faccia del crollo dei consumi, sarebbero rincarati. Ciò che nemmeno Monti, nella cura da lacrime e sangue, ebbe il coraggio di fare, potrebbe essere servito da Renzi. E per farci ingoiare questo ennesimo sacrificio la giustificazione è già pronta: lo vuole Bruxelles. In un documento con una sfilza di consigli, la Commissione europea scrive che «c’è il margine per spostare ulteriormente il carico fiscale verso i consumi».

Ignorando quindi i dati che continuano a registrare il crollo dei consumi, la Commissione sostiene che «è determinante una revisione delle aliquote Iva ridotte e delle agevolazioni fiscali dirette». L’aliquota minima, quella del 4%, riguarda beni di prima necessità quali pane, pasta, riso, farina, latte, burro, formaggi, olio d’oliva, frutta, verdura e patate. Verrebbe colpita anche l’editoria ce già versa in una crisi comatosa. L’Iva al 4% è infatti anche su giornali, libri e riviste. Ma è anche su occhiali, lenti a contatti, materiali terapeutici, mense aziendali e scolastiche. A rischio anche la fascia di beni con aliquota al 10%. Si tratta di acque minerali, uova, zucchero, latte conservato, pesce, carni e salumi, cioccolato, tè, marmellate, yogurt, birra. Subirebbero rincari cinema e teatri, alberghi e pensioni, tutti i trasporti (ferroviari, marittimi, aerei e autobus), l’energia elettrica, il gasolio e il gas, la raccolta dei rifiuti. Sarà più caro un pasto al ristorante e la consumazione al bar.

Al momento è solo un’ipotesi al vaglio dei tecnici del ministero dell’Economia ma il fatto che lo sponsor sia proprio Bruxelles le dà maggio forza. Perchè se Renzi davanti alle televisioni ostenta il pugno duro contro i diktat europei, in realtà è molto attento alle raccomandazioni della Commissione europea. Anzi potrebbe sfruttarle per giustificare decisioni ad alto tasso di impopolarità. Un po’ quello che è stato con la riforma Fornero delle pensioni. Ogni punto di Iva vale 4 miliardi di gettito. Una cifra da non sottovalutare per un governo con l’acqua alla gola. Tanto più che in un momento di bassa inflazione sarebbe facile da applicare. Che poi questo possa comprimere ancora di più i consumi è un problema che il governo potrebbe giustificare estendendo per un altro anno il bonus da 80 euro.

Contro l’ipotesi di un rincaro dell’Iva si è già scatenata la polemica generale. In prima fila le categorie del commercio che temono dai rincari un ulteriore crollo delle vendite. «Sarebbe davvero una follia, specie in una situazione nella quale l’Italia è già con un piede nella deflazione: anche se si trattasse di uno spostamento selettivo di beni dalle aliquote più basse, quelle del 4% e del 10%, un’ulteriore caduta dei consumi sarebbe infatti inevitabile» commenta la Confesercenti.

Le conseguenze sarebbero drammatiche: «Si sottrarrebbero una serie di beni alle possibilità di acquisto di vasti ceti popolari, con un ritorno inferiore alle attese in termini di gettito. Senza contare il raddoppio delle chiusure di imprese nel commercio e nel turismo, già oltre quota 50mila nei primi 8 mesi del 2014».

Confesercenti ha calcolato che portando l’aliquota dal 4% al 10% «l’aggravio per le famiglie sarebbe pari a 5 miliardi l’anno». Per la Confcommercio «sarebbe il colpo di grazia per imprese e famiglie. Verrebbero colpiti soprattutto i redditi medio bassi che hanno beneficiato del bonus di 80 euro, neutralizzandone l’effetto». Contro l’aumento delle aliquote minime anche tutti i partiti. «Sarebbe il de profundis per la nostra economia» afferma il presidente della Commissione di Vigilanza sull’Anagrafe Tributaria Giacomo Portas, eletto alla Camera nel Pd. Per Squeri di Forza Italia «è un’ipotesi suicida. Come si può parlare di crescita se si continuano ad alzare le tasse? Se la risposta del governo al Pil che affonda, al potere d’acquisto delle famiglie ridotto al lumicino e ai consumi fermi, con conseguente crisi delle attività commerciali, è il via libera all’aumento delle aliquote iva ridotte, significa che davvero si è perso il senso della realtà». Per il vicecapogruppo Ncd alla Camera, Dorina Bianchi sarebbe «un grave passo falso del governo. Ci saremmo aspettati una smentita da parte del Tesoro. Invece di cambiare davvero verso, si continuerebbe così sulla scia di politiche di austerità che tanti danni hanno procurato al nostro tessuto produttivo». «Sull’aumento dell’Iva saremo irremovibili, respingeremo pressing Ue e avvisi di ogni sorta e invitiamo Renzi a fare altrettanto», tuona Barbara Saltamartini, portavoce del Nuovo Centrodestra. E sottolinea che «con una pressione fiscale a quota 44%, anche solo immaginare un aumento dell’Iva sarebbe una scelta improvvida, che avrebbe effetti deleteri su consumi per famiglie e imprese».

Con questi dati il 3% è un miraggio

Con questi dati il 3% è un miraggio

Paolo Baroni – La Stampa

E dunque quest’anno l’Italia sarà l’unico dei Grandi paesi ancora in recessione. La nostra economia secondo l’Ocse calerà di un altro 0,4% contro lo 0/-0,2% delle ultime stime aggiornate. E poco importa se tutta Eurolandia sia in affanno, comprese Francia e Germania (che però al contrario di noi avranno una crescita positiva), perché mai come in questa occasione il detto “mal comune mezzo gaudio” non vale.

L’Italia da sempre, a causa dei suoi ritardi cronici, quando le economie tirano cresce in media la metà degli altri paesi, mentre quando va male il paese perde il doppio degli altri. Scontiamo le mancate riforme, è vero (pubblica amministrazione, giustizia, lavoro: il solito elenco infinito…). Ma il male non sta tutto qui. Scontiamo pure la scarsità di risorse messe a disposizione dei piani di rilancio, imposta da anni di politiche rigoriste, e anni di scelte non molto felice e soprattutto di non scelte dei governi che si sono succeduti.

Ora il calo del Pil previsto per quest’anno, come pure per il prossimo, tende a rendere sempre più precaria e complicata la situazione.Perchè è chiaro che se il -0,4% previsto per il 2014 non fa contento nessuno (anche se poco alla volta dopo le ultime revisioni una ragione ce la stavamo facendo), oggi è il misero +0,1 previsto per il 2015 che deve preoccupare.

Per due ragioni. La prima: con questi dati, ammesso che quest’anno si riesca a tenere il deficit entro il tetto del 3%, il prossimo anno sarà davvero proibitivo. A meno che non si rinunci a qualche intervento, aggravando però ancora di più la situazione economica, oppure che si riesca ad affondare ancora di più la lama sulla spesa pubblica, con tagli veri, pesanti che vanno ben oltre la semplice revisione della spesa. Seconda: scordiamoci di veder scendere la disoccupazione, che certamente quest’anno toccherà nuovi livelli record e che se va bene riuscirà ad invertire in maniera significativa il trend almeno con un anno di ritardo. Ma l’Italia, e il governo, possono permettersi di aspettare il 2016?

L’austerity affonda l’Italia, l’inclusione sociale è al livello di Romania e Bulgaria

L’austerity affonda l’Italia, l’inclusione sociale è al livello di Romania e Bulgaria

Andrea Tarquini – La Repubblica

In Italia la crisi economica ha raddoppiato il numero dei poveri, che sono ormai il 12,4 per cento del totale della popolazione, una percentuale allarmante e anomala per un paese industriale. E quanto a inclusione sociale, cioè alla capacità di inserire le persone nella vita sociale e lavorativa normale, il nostro paese è sceso al ventiquattresimo posto sui ventotto paesi dell’Unione. Soltanto l’Ungheria dell’autoritarismo nazionalista e darwinista del premier Viktor Orbàn, la Romania, la Bulgaria (cioè il più povero dei paesi dell’Unione europea) e la Grecia stremata dall’iperindebitamento e dalle draconiane misure di rigore imposte dalla troika, stanno peggio di noi. Lo afferma la fondazione Bertelsmann, l’influente centro studi legato alla grande azienda editoriale tedesca, nel suo rapporto pubblicato stamane.

Gli italiani poveri, cioè costretti a pesanti privazioni materiali, scrive il rapporto, sono quasi raddoppiati dall’inizio della crisi economica, passando dal 6,8 per cento della popolazione nel 2007 al 12,4 nel 2013. Lo studio pone l’Italia, appunto, al poco invidiabile 24esimo posto per inclusione sociale. Nella Ue stanno peggio di noi soltanto un paese relativamente industrializzato ma certo non come i big dell’eurozona, cioè l’Ungheria di Orbàn, e due Stati in crisi acuta, cioè la poverissima Bulgaria, la Romania e la Grecia. Ai vertici della classifica sono invece paesi del Nordeuropa, cioè Svezia, Finlandia e Danimarca. Il rapporto della fondazione Bertelsmann è stato compilato tenendo in considerazione diversi parametri, tra cui i metodi e politiche di prevenzione della povertà, l’inclusione nel mercato del lavoro, l’equo accesso all’istruzione e la giustizia nel rapporto tra le generazioni. Il documento sottolinea comunque che in generale la situazione è in peggioramento nell’intero vecchio continente.

In particolare, “le rigide politiche di austerità portate avanti durante la crisi, e le riforme strutturali miranti alla stabilizzazione economica e dei conti pubblici, hanno avuto nella maggior parte dei casi, nei paesi in cui sono state varate, effetti negativi sulla giustizia sociale”. Il rapporto suona tra l’altro, a livello politico, come una implicita ma durissima critica e sconfessione della politica della priorità al rigore a tutti i costi e al consolidamento dei bilanci sovrani, che la Germania governata da Angela Merkel in grande coalizione con la Spd e gli altri paesi “falchi” dell’Eurozona continuano a tentare di imporre a governi e opinioni pubbliche del resto dell’Unione.  

Riforma pensioni, il libro “scomodo” per Renzi

Riforma pensioni, il libro “scomodo” per Renzi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

All’Ecofin di Milano si è trattato estesamente di “riforme strutturali” che i singoli Stati dell’Unione europea, in particolare quelli dell’eurozona, dovrebbero intraprendere perché l’aumento della liquidità, l’abbassamento dei tassi d’interesse e le stesse misure “non convenzionali” che dovrebbero essere adottate tra breve dalla Banca centrale europea abbiano il risultato di rianimare l’economia di un continente all’apparenza sempre più vecchio. Si sono toccati molti temi relativamente all’insieme dei Paesi Ue (mercati del lavoro, dei beni e dei servizi, rafforzamento della concorrenza), nei riguardi di alcuni (ad esempio, della Francia) si è posto l’accento sul sistema previdenziale. Tuttavia, non sono le pensioni italiane uno dei temi che preoccupano il resto dei nostri partner europei.

Siamo stati, con la Svezia, i primi a effettuare , circa venti anni fa, una riforma strutturale, anche se (su richiesta di categorie molto sindacalizzate) abbiamo previsto un periodo di transizione di diciotto anni (a differenza di quello di tre anni della riforma svedese) e, successivamente, abbiamo più volte rimaneggiato la riforma (anche in barba delle sentenze della Corte Costituzionale). Abbiamo, in breve, messo in atto un sistema che Banca mondiale, Fmi, Ocse e, quindi, anche Ue considerano esemplare (nonostante le disfunzioni, peraltro, temporanee causate dal lungo periodo di transizione).

Ciononostante, pure negli ultimi giorni si sono levate voci perché si rimetta mano alle pensioni in essere al fine di evitare riduzioni di spesa in altri settori (quali i costi della politica e il finanziamento, ancora in atto, ai partiti e alla loro stampa). Queste voci – lo abbiamo detto in altre occasioni – preoccupano l’Ue per due ordini di motivi: a) la certezza del diritto in Italia; b) le implicazioni verso quella “unione europea delle pensioni”, essenziale per fare funzionare il mercato unico e l’unione monetaria.

Tutta la costruzione che stanno faticosamente mettendo in piedi il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia e delle Finanze si basa sull’aumento della credibilità internazionale dell’Italia. Spetta ad altri, per il momento, decidere se tale credibilità internazionale sia vera o fittizia. Una nuova riforma della previdenza che sconvolga la certezza dei diritti di chi ha già maturato la pensione, oltre a mettere repentaglio la situazione sociale interna e a colpire – come dimostrato da studi Censis ed Eurostat – i giovani (i quali spesso sono mantenuti agli studi grazie alle pensioni dei nonni) più che gli anziani – è la prova del nove che l’Italia della certezza delle regole se ne impipa ed è pronta – unico Paese al mondo (secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro) a fare una riforma della previdenza l’anno spesso solo per la vanagloria di chi vuole associare a essa il proprio nome. Tutto ciò è segnale di poca serietà. Anche in materia di impegni economico-finanziari e di riforme strutturali.

Inoltre, la proposta dell’Eiopa – European Insurance and Occupational Pensions Authority, acronimo poco conosciuto nella galassia delle sigle europee – sta facendo strada: la si può leggere per esteso, nei suoi dettagli tecnici, scaricando il relativo documento. È un testo importante che merita di essere divulgato e discusso: nel futuro dell’Ue, perché l’unione monetaria riesca a funzionare, devono funzionare, a livello europeo, anche i mercati delle merci, dei servizi e dei fattori di produzione (quindi anche quello del lavoro).

Oggi il buon funzionamento del mercato del lavoro è ostacolato non solo da rigidità interne ai singoli Stati Ue, ma anche dalle difficoltà di mobilità poste da profonde differenze nei sistemi previdenziali. La proposta Eiopa, peraltro ben delineata, consiste nel fare confluire contributi pubblici e privati in Personal pension plans uniformi per tutti i lavoratori europei che potrebbero scegliere se utilizzare questa strada o sistemi previdenziali nazionali. In pochi mesi, si è fatto molto più lavoro di quanto si sarebbe immaginato come dimostra questo volume Bce.

È incomprensibile che in un Governo che vuole fare della trasparenza il proprio vessillo il lavoro Bce non sia stato divulgato (se possibile in traduzione come fatto in altri Paesi Ue) e venga quasi considerato un “testo all’Indice dei libri proibiti”), peraltro abolito da anni. Pare sia chiuso a quattro mandate nei cassetti dell’Inps e del ministero del Lavoro. Dal volume, che merita un dibattito approfondito, si deduce che l’Italia è indietro, soprattutto in materia di “seconda gamba” di un eventuale sistema previdenziale europeo (i fondi pensione occupazionali). Ed è questo il tassello su cui puntare. Perché in materia i sindacati non cominciano ad agitarsi?

Occupazione, il mercato italiano 136esimo per efficienza

Occupazione, il mercato italiano 136esimo per efficienza

Il Mattino

Il mercato del lavoro italiano è ultimo per efficienza in Europa e 136esimo su 144censiti nel mondo. In termini di efficienza ed efficacia si situa infatti a un livello leggermente superiore a quelli di Zimbabwe e Yemen ed inferiore a quelli di Sri Lanka e Uruguay. Lo rivela un’elaborazione del «Centro studi ImpresaLavoro» sulla base dei dati pubblicati dal World Economic Forum. Rispetto al 2011 retrocediamo di 13 posizioni a livello mondiale in termine di efficienza generale del nostro mercato del lavoro e soprattutto perdiamo 19 posizioni con riferimento alla collaborazione tra impresa e lavoratore così come altre 15 per la complessità delle regole che ostacolano licenziamenti e assunzioni. L’unico settore in cui non si registra un arretramento dell’Italia è quello relativo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro: conserviamo infatti la comunque assai deludente 93ma posizione che avevamo raggiunto nel 2011. Tra i Paesi delI’Europa a 27 siamo ultimi per la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Austria e Olanda). E siamo terz’ultimi per flessibilità nella determinazione del salario.