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Ministeri «pigri» sul taglia-oneri

Ministeri «pigri» sul taglia-oneri

Valerio Uva – Il Sole 24 Ore

A giudicare dai rapporti dei ministeri interessati l’anno scorso in Italia non è successo niente. Nessun nuovo onere, obbligo o adempimento burocratico è arrivato a carico delle imprese. O meglio: nonostante il corposo pacchetto di leggi varate (oltre 150) solo un nuovo onere è stato introdotto quell’anno e uno, al contrario, cancellato. Saldo zero dunque secondo la burocrazia italiana. Un risultato sorprendente. Di fatto però non ci credono neanche gli stessi burocrati che lo hanno dovuto certificare. Il fallimentare bilancio della norma taglia-oneri per le imprese e contenuto nella prima «Relazione complessiva contenente il bilancio annuale degli oneri amministrativi introdotti ed eliminati» messa punto dal Dipartimento della Funzione pubblica. E’ il primo rapporto sull’applicazione della norma taglia-oneri prevista appunto dallo Statuto delle imprese (legge 180/2011), che sulla scia di esperienze internazionali analoghe ha istituito l’obbligo per la Pa ogni anno di fare un bilancio, anche economico, degli oneri per le imprese. La Relazione arriva dopo le linee guida per stimare gli onerivarate con ilDpcm del 16 aprile 2013. 

Peraltro il bilancio si ferma a metà: la legge stessa esclude dal perimetro un settore sotto questo profilo pesantissimo quale il fisco e limita il conteggio alle sole norme di rango primario, escludendo la valanga di decreti attuativi che invece spesso sono la fonte principale di nuova burocrazia. L’anno scorso solo i 4 ministeri su 20 interessati si sono premurati di monitorare gli oneri del 2013. Ma quello che più preoccupa è che solo uno – il ministero dell’Interno – ha quantificato correttamente un onere introdotto (39mila euro) e uno eliminato (-216mila). Per gli altri, appunto, nulla sembra sia successo nel 1013. 

Ma a smentirli sono arrivate le segnalazioni delle associazioni di categoria. Confindustria, Cna, Confartigianato e Confcommercio hanno inviato al dicastero di Giovanna Madia un dettagliato elenco di nuove procedure introdotte ed eliminate: il bilancio-ombra segnala per l’anno scorso dieci nuovi oneri introdotti e otto eliminati. Quattro dei nuovi “appartengono” al ministero dell’Ambiente. una delle amministrazioni che non ha stimato gli oneri. Un pacchetto altrettanto nutrito riguarda l’energia e le fonti rinnovabili, di competenza del ministero dello Sviluppo economico che addirittura non ha trasmesso il proprio rapporto. Ma quello che la stessa Relazione definisce come «paradossale» è il fatto che le relazioni inviate «non diano conto nemmeno degli oneri eliminati». In pratica un autogol per la stessa amministrazione. Il Lavoro, ad esempio, non ha completato il bilancio, nonostante possa vantare – come segnalato dalle associazioni degli imprenditori – ben quattro cancellazioni che avrebbero fatto pendere la bilancia a suo favore. 

«Occorre prendere atto che questa norma non è stata applicata» conclude la Relazione che prova anche a capire come mai. A pesare oltre alle «resistenze culturali» e il dover rincorrere i decreti legge, anche una evidente «difficoltà per le amministrazioni di attuare le regole sulla valutazione preventiva degli oneri amministrativi», affidata solo agli uffici legislativi. Mentre le competenze richieste per la stima vanno ben oltre. Prendiamo le regole per il calcolo economico: prima va stimato un costo medio per obbligo informativo, poi va moltiplicato per il numero annuo di adempimenti, a sua volta ottenuto con il prodotto tra popolazione e frequenza. Tutti passaggi alla portata più di ingegneri che di esperti giuristi. A voler essere più maliziosi, però, non è solo colpa delle difficoltà tecniche. Lo Statuto delle imprese non si è limitato a chiedere la Relazione. Una volta individuatigli oneri e fatti i conti, se la bilancia tra quelli creati e quelli eliminati pende pericolosamente a favore dei primi la legge impone al Governo di correre ai ripari. Come? Con il pareggio di bilancio, ovvero con un regolamento sprint da fare in 90 giorni per cancellare qualche timbro, domanda o autorizzazione. E riportare la bilancia in equilibrio. Operazione che. a giudicare dai dossier delle associazioni, sarebbe assolutamente urgente.

Una manovra di “soli” 16 miliardi il Tesoro fa i conti con la flessibilità

Una manovra di “soli” 16 miliardi il Tesoro fa i conti con la flessibilità

Valentina Conte – La Repubblica

Troppo presto per brindare, visti anche i primi malumori della Merkel. Ma l’ipotesi di una moratoria biennale sul Six pack, la possibilità cioè per l’Italia di non dover incidere brutalmente col bisturi sui conti 2014-2015, risparmierebbe al Paese di certo una legge di Stabilità lacrime e sangue. Nessuna procedura di infrazione, dunque, se il deficit strutturale non è “close to balance”, vicino allo zero, il prossimo anno. Nessuna bacchettata se il percorso di riduzione del debito pubblico parte nel 2016, dodici mesi dopo. Più margini per fare politiche espansive e provare a rianimare il paziente, dopo la cura da cavallo. E cioè a far ripartire la crescita. Insomma, anziché una maxi manovra da 25 miliardi, ad ottobre l’Italia potrebbe evitare altri tagli draconiani o maggiori tasse per 8-10 miliardi. Una cifra pari quasi al costo del bonus degli 80 euro per il 20 1 5. Non male. 

«Un accordo di questo tipo sarebbe un aiuto importante, è evidente», riflette Enrico Zanetti, sottosegretario all’Economia. «Eviteremmo i rischi di inflazione. Resteremmo sotto il 3% nel rapporto deficit-Pil. Le manovra sarebbe meno complicata, da 15-16 miliardi anziché 23-25, coperta dalla spending review. E saremmo in grado di mantenere tutte le promesse, come il bonus, oltre a scongiurare tagli alle detrazioni fiscali. Non dover fare la correzione da almeno mezzo punto di Pil aiuterebbe, certo». Fermo restando, ricorda Zanetti, che oltre alla moratoria «è anche tempo di rivedere, nelle sedi tecniche europee, il Pil potenziale dell’Italia». Così com’è – pari a zero – «ci penalizza e rende gravosi gli aggiustamenti dei disavanzi strutturali».

Per ora vediamo se l’intesa sin qui solamente abbozzata e informale tra Juncker e la commissione Ue uscente reggerà alla prova (tedesca) dei fatti. «Sarebbe però sbagliato vedere la moratoria come una concessione da scambiare ad esempio con minori tutele per i lavoratori», avverte Stefano Fassina, ex viceministro pd dell’Economia. Quell’obiettivo di riduzione dello 0,5% annuo del deficit strutturale, cioè al netto del ciclo economico avverso, «è assolutamente irrealistico, in uno scenario di recessione come l’odierno». Tra l’altro fissato con un’inflazione al 2%, mentre ora l’Eurozona si avvia alla deflazione. «Il Six pack non si applica punto. E non per concessione, ma perché il quadro è diverso». Sorpresa per la svolta europea che si prefigura, Sergio De Nardis, capo economista di Nomisma, ne soppesa però i vantaggi per l’Italia. «Una corda che si allenta, indubbiamente. Gli sforzi per l’aggiustamento del bilancio strutturale si sposterebbero al 2016. Non saremmo insomma costretti a modificare il tendenziale già ora, con la legge di Stabilità di ottobre. Un passo avanti imponente che tuttavia scavalca anche i possibili margini di flessibilità annunciati da Mario Draghi a Jackson Hole e inquadrati “nei limiti del fiscal compact”, le regole di riduzione del debito pubblico”. Qui siamo ben oltre». 

Sarà per questo che la Merkel è in ansia. «Se ci concederanno davvero questo margine, l’impatto sarà minimale sulla recessione», avverte però Luigi Guiso, economista e docente al Luigi Einaudi Institute for Economics and Finance. «Attenzione poi a non farne un uso cattivo. Il bonus da 80 euro doveva essere finanziato con tagli alla spesa. Allentare questo processo e magari usare la nuova flessibilità per coprire quello sconto fiscale potrebbe essere controproducente. Lo sconto ci toglie qualche castagna dal fuoco nell’immediato, certo non ci aiuta a uscire dalla crisi».

Le case nel labirinto dei prelievi locali

Le case nel labirinto dei prelievi locali

Raffaele Lungarella – Il Sole 24 Ore

Anche quest’anno i proprietari di immobili sono costretti ad aspettare l’autunno per sapere esattamente quanto pagheranno di imposte. Ma nelle prossime settimane potrebbero delinearsi anche diverse novità per il fisco immobiliare, destinate a riflettersi pure nel 2015.
Nel giro di dieci giorni i Comuni sono chiamati a deliberare le aliquote della nuova Tasi, l’imposta sui servizi comunali indivisibili che può colpire le prime case, ma anche – a scelta dei Comuni – tutti gli altri immobili (addossando all’inquilino, nel caso di fabbricati locati, una quota tra il 10 e il 30% del tributo).
Di fatto, poco meno di 2.200 Comuni su 8mila hanno deliberato le aliquote Tasi in tempo per il pagamento dell’acconto. Ora i Comuni ritardatari devono accelerare: entro il 10 settembre devono approvare e inviare le loro decisioni al sito internet del dipartimento delle Finanze, per consentirne la pubblicazione entro il 18 settembre e dare la possibilità ai contribuenti (che non l’hanno già fatto a giugno) di versare l’acconto entro il 16 ottobre. Il saldo, per tutti deve essere pagato entro il 16 dicembre. Termine entro il quale dovranno versare, in un’unica soluzione, l’imposta anche i contribuenti dei Comuni che continueranno a non deliberare: in questo caso per il calcolo si applicherà l’aliquota dell’1 per mille. Entro quella data dovrà essere versato anche il saldo dell’Imu (che si applica su tutti gli immobili diversi dalle abitazioni principali non di lusso).
Il prossimo 31 dicembre è una data importante per chi vuole ottenere il massimo vantaggio dai bonus sui lavori edilizi. Fino a quella data il l’ecobonus, relativo alle singole unità immobiliari, porta in dote una detrazione fiscale del 65% della spesa sostenuta; nel 2015 la percentuale passa al 50 per cento. Per le ristrutturazioni edilizie la detrazione passa dal 50% al 40 per cento. Attenzione, però: il ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, ha annunciato che con la legge di stabilità per il 2015 si lavorerà per la proroga di entrambe le misure (in un primo tempo, invece, sembrava che la proroga del 65% potesse finire già nel pacchetto “sblocca-Italia”) .
Una spinta per rimettere in moto il mercato della casa è attesa anche dalle norme annunciate che permetteranno di portare in detrazione, per alcuni anni, una parte del prezzo di acquisto di una casa nuova o completamente ristrutturata a condizione che l’acquirente la affitti a canone concordato. Se funziona si dà una mano a smaltire lo stock di appartamenti invenduti accumulato con la crisi e si aumenta l’offerta di case in affitto a canone contenuto. Molto dipenderà però dalla formulazione finale del testo di legge, che dovrà passare attraverso la conversione del Parlamento.

Pil, consumi, investimenti: il barometro delle economie

Pil, consumi, investimenti: il barometro delle economie

Chiara Bussi – Il Sole 24 Ore

L’atleta americano sembra aver ritrovato slancio. L’eterno rivale cinese continua a correre, ma non viaggia più a pieni giri come prima. L’allievo giapponese, invece, fatica a rialzare la testa. E il Vecchio continente? Arranca sotto la spinta del mix letale tra recessione, deflazione e disoccupazione alle stelle. L’economia mondiale si presenta così alla prova d’autunno, con i nuovi rischi geopolitici in Ucraina e in Medio Oriente che si sommano alle incognite già esistenti. Tanto che a fine luglio il Fondo monetario internazionale ha ridimensionato le stime per l’anno in corso: il Pil mondiale crescerà del 3,4%, appena lo 0,2% in più rispetto al 2013. Una ripresina, insomma, con una forbice che va dal 7,4% della Cina all’1,1% dell’Eurozona e dove l’Italia secondo i pronostici rischia di essere la maglia nera tra i big, con una crescita di appena lo 0,3 per cento. E non sono da escludere ulteriori revisioni al ribasso nei prossimi mesi.

Tra le tante ombre si intravedono però alcuni spiragli di luce. La settimana scorsa la raffica di dati macroeconomici provenienti dall’altra parte dell’Atlantico ha portato buone notizie. Dopo la doccia fredda del primo trimestre da aprile a giugno il Pil americano ha segnato un balzo del 4,2 per cento. Non solo: i consumatori guardano con ottimismo agli sviluppi dell’economia e i prestiti alle aziende sono in netta accelerazione. Un test per verificare se esistono davvero buone prospettive per il terzo trimestre arriverà questa settimana con l’indice di fiducia del settore manifatturierio (previsto per domani) e con i dati sulle vendite di auto, in agenda per mercoledì.

Nei prossimi mesi gli occhi dei mercati saranno comunque ancora puntati sulla Fed. A ottobre, come preannunciato, calerà il sipario sul quantitative easing, il massiccio programma di acquisto di titoli di Stato, e il focus si sposterà sulla tempistica di un possibile rialzo dei tassi atteso nella seconda metà del 2015. Il numero uno della Fed, Janet Yellen, al simposio di Jackson Hole ha però scelto la strategia della prudenza e ha chiarito che la stretta potrebbe arrivare prima solo se i dati sul mercato del lavoro registrarenno un ulteriore miglioramento.

Dall’altro capo del mondo la Cina continua a correre, ma rallenta il passo. Il Pil del secondo trimestre ha segnato un rialzo del 7,5%, lo 0,1% in più rispetto ai tre mesi precedenti, ma ben lontano dalla performance a due cifre dei primi anni Duemila. L’obiettivo del governo è arrivare a una crescita «intorno al 7,5%» e puntare sui consumi interni. Nell’ultima pagella sullo stato di salute dell’economia cinese il Fmi ha però invitato il governo a evitare un eccessivo rallentamento. «L’andamento del Pil cinese nei prossimi mesi – sottolinea Ferdinand Fichtner, responsabile previsioni e politica economica del Diw di Berlino – è una delle grandi incognite per l’economia mondiale, perché non è chiaro se si tratti di un andamento pilotato o meno».

Il Giappone sembra aver definitivamente archiviato la deflazione che l’ha flagellato per una quindicina d’anni e il livello dei prezzi ha imboccato la via del rialzo. Il grattacapo principale per il premier Abe è ora la ricerca della via della crescita, dopo il segno negativo (-1,7% su base trimestrale e -6,8% annualizzzato) registrato nel secondo trimestre. Una contrazione così spiccata non si vedeva dal marzo 2011 ed è stata innescata dal crollo dei consumi di oltre il 5% scatenato dal rialzo progressivo dell’Iva. Il dato va di pari passo con una produzione industriale fiacca e investimenti in calo. Un duro colpo per l’Abenomics, l’ondata di riforme avviata da premier e Banca centrale nel 2012, con un quantitative easing su modello della Fed e numerosi propositi finora rimasti incompiuti. «L’unico modo che il governo ha per reagire a questa situazione di stallo – osserva Fichtner – è tenere la barra dritta e attuare le riforme annunciate».

In salita sarà nei prossimi mesi anche la strada della Zona euro. «Temo che dovremo convivere con la debolezza dell’area ancora per un po’», sottolinea l’economista di Diw. La spirale negativa del Pil è una minaccia sempre più concreta e nel secondo trimestre non ha risparmiato neppure la Germania. Come ridare vigore alla crescita? Fichtner non ha dubbi: «La strada è una sola: occorre ripartire dagli investimenti privati con la creazione di un nuovo Fondo europeo focalizzato sui prestiti alle Pmi, partendo dalla piattaforma già esistente alla Bei, la Banca europea per gli investimenti».

Se la mancata crescita toglie il sonno ai governi, gli ultimi dati hanno visto materializzarsi anche lo spettro della deflazione in Italia e Spagna. L’attenzione è ora rivolta alle prossime mosse della Bce e alla possibilità di un maxi-acquisto di titoli di Stato su modello della Fed. Per gli economisti di Intesa Sanpaolo la probabilità di un’azione in questa direzione resta però bassa ed è difficile che si avveri prima del nuovo anno. Ulteriori indicazioni potrebbero arrivare giovedì nella riunione dell’Eurotower. Comunque vada, in molti angoli del mondo l’autunno sarà rovente.

L’economia criminale vale 170 miliardi e non sente la crisi

L’economia criminale vale 170 miliardi e non sente la crisi

Gabriele Dossena – Corriere della Sera

C’è anche un’economia che non va mai in crisi. Anzi, è in continua crescita. Solo negli ultimi cinque anni ha fatto registrare un’impennata del 212%. Tanto da far stimare – per difetto – un «giro d’affari» che ha raggiunto i 170 miliardi di euro l’anno. Questo il valore dell’economia criminale: una sorta di «Pil» malavitoso, che deriva da attività illegali, i cui proventi illeciti si riversano poi – come reinvestimento – nell’economia legale, con il risultato di inquinare e stravolgere il mercato.

L’escalation delle attività che fanno capo alle organizzazioni criminali, emerge dal crescente numero di segnalazioni che sono pervenute all’Unità di informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia. Si tratta in pratica di tutte quelle operazioni sospette «denunciate» alla Uif da parte di intermediari finanziari: da banche nell’80% dei casi, ma anche uffici postali, società finanziarie o compagnie di assicurazione.

Se nel 2009 le segnalazioni pervenute all’istituto di via Nazionale sono state 20.660, lo scorso anno si è registrato un exploit a 64.415 (anche se la punta record è stata raggiunta nel 2012, con 66.855 segnalazioni). L’ufficio studi della Cgia di Mestre ha rielaborato a livello regionale il numero delle segnalazioni di riciclaggio avvenute nel 2013: la Lombardia risulta la regione più colpita (11.575), seguita da Lazio (9.188), Campania (7.174), Veneto (4.959) ed Emilia Romagna (4.947). Quasi il 60% delle segnalazioni di attività criminali registrate a livello nazionale è concentrata in queste cinque regioni.

Va comunque precisato che i dati prodotti dalla Uif non includono i reati violenti, come furti, rapine, usura ed estorsioni, ma solo le transazioni illecite concordate tra il venditore e l’acquirente, come il contrabbando, traffico d’armi, smaltimento illegale di rifiuti, gioco d’azzardo, ricettazione, prostituzione e traffico di stupefacenti. Solo una parte, quindi. Che però vale, da sola, 170 miliardi di euro l’anno. E che è pari al Pil di una regione come il Lazio.

Italia nella doppia morsa di deflazione e recessione. E i disoccupati salgono ancora

Italia nella doppia morsa di deflazione e recessione. E i disoccupati salgono ancora

Lucio Cillis – La Repubblica

Lo spettro che si aggirava sul Paese, ieri si è materializzato. L’Italia è caduta in deflazione. Come non accadeva da esattamente 55 anni. Era infatti il settembre del 1959 quando fu registrato un segno negativo dell’1,1% sull’andamento tendenziale dei prezzi. Ma quella era la vigilia del boom economico. Mentre oggi la tenaglia della crisi stringe anche sulla recessione accompagnata da una disoccupazione che arriva al 12,6% con quasi mille posti di lavoro bruciati ogni giorno a luglio.

Ma non basta: il tasso di disoccupazione della fascia compresa tra i 15 e i 24 anni, resta il più duro da digerire e risolvere in breve tempo, visto che la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca di lavoro in questa forbice di età sfiora ormai il 43%.

Sono dati pesantissimi e molto preoccupanti sui quali, secondo il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi. «Occorre – dice riflettere per trovare la capacità di ricreare lavoro. E questo può venire solo dalle imprese…». L’inflazione vira verso una contrazione dei prezzi che rispetto all’agosto del 2013, sono diminuiti dello 0,1%. I dati dell’Istat certificano che l’indice al lordo dei tabacchi, è cresciuto rispetto al mese di luglio dello 0,2% e mette per la prima volta il segno meno dal 1959. Il crollo dei listini, secondo la stima provvisoria, è dovuta alla flessione anno su anno dei prezzi dei beni energetici, in particolare di quelli non regolamentati che dal più 0,4% di luglio passano al segno meno (dell’1,2%), e al parallelo rallentamento della crescita tendenziale dei prezzi dei servizi. Andamenti, questi, solo in parte controbilanciati da una frenata nella discesa dei prezzi degli alimentari non lavorati passati a meno 1,7% dal meno 2,9% messo a segno a luglio.

Da notare che anche la cosiddetta inflazione core, o “di fondo”, ritenuta un termometro efficace dello stato dell’economia e delle prospettive, calcolata al netto degli alimentari non lavorati e dei beni energetici, scende anch’essa: dallo 0,6% di luglio allo 0,5%. Ma nel corso dei prossimi mesi, secondo quanto lo stesso istituto di statistica anticipa nelle sue analisi, i dati macroeconomici non potranno che peggiorare: con ogni probabilità, la ripresa non arriverà nemmeno nel corso del terzo trimestre. Anzi, le previsioni dell’Istat sottolineano addirittura il rischio di un ulteriore arretramento dello 0,2% del Prodotto interno lordo o, comunque, di una sostanziale stagnazione del quadro macroeconomico.

Sono dati questi, che fanno riflettere per le conseguenze in Italia ma che dovrebbero aprire un nuovo scontro in Europa dove, però, si è levata per prima la voce del ministro delle Finanze tedesco, il falco Wolfgang Schauble secondo cui «la Bce non ha più munizioni per combattere la deflazione». E questo nonostante il dato sull’inflazione, reso noto a livello europeo ieri, si sia collocato a quota +0,3%. Un livello pericolosamente vicino al baratro della deflazione e molto lontano dal target europeo fissato al 2%. La parola, ora passerà alla riunione di metà settimana della Bce e alle mosse di Mario Draghi.

Salta il taglio delle partecipate locali

Salta il taglio delle partecipate locali

Marco Rogari – Il Sole 24 Ore

Salta l’operazione in due tappe per il disboscamento della giungla delle partecipate. Tutto il piano di riorganizzazione delle municipalizzate scatterà con la prossima legge di stabilità. In extremis, infatti, sono usciti dalla versione finale dello Sblocca-Italia i primi interventi per incentivare la quotazione in Borsa e la privatizzazione di aziende in house di trasporto locale e rifiuti in cambio di un allungamento della concessione fino a 22 anno e sei mesi. Ed è stata congelata per qualche settimana la cancellazione delle 1.250 municipalizzate che risultano non operative ma con i loro dirigenti ancora in carica. 

In due fasi potrebbe invece essere sviluppato l’intervento per utilizzare una parte della dote Inail destinata a investimenti immobiliari pubblici per l’immediato completamento di opere di pubblica utilità. Il decreto varato ieri prevede che vengano impiegati già nel 2o14 2oo milioni (fino ieri senza “mission” precisa) a disposizione dell’ente e altri 6-7oo nel biennio successivo. La prossima “stabilità” potrebbe rendere permanente questa misura facendo salire a quasi 3 miliardi nei prossimi tre anni la dote Inail spendibile per opere di pubblica utilità. 

Tornando alle partecipate, il rinvio del primo pacchetto sarebbe dovuto alla necessità di calibrare meglio con i Comuni l’operazione e di valutare tutte le soluzioni per scogliere il nodo del personale delle società oggetto di chiusura. «La parte municipalizzate sarà affrontata organicamente nella legge di stabilità», ha detto il sottosegretario alla presidenza, Graziano Delrio, confermando il rinvio delle prime misure preparate per lo Sblocca-Italia. La partita insomma resta complessa. Con i Comuni che vogliono dire la loro nell’affinamento del piano tracciato nelle scorse settimane dal commissario per la spending review, Carlo Cottarelli, e con i sindacati pronti a dare battaglia sulla questione del personale. Di qui la rinuncia all’operazione in due tappe. A questo punto nella “stabilità”, che prevederà i nuovi dispositivi per favorire le cessioni e gli accorpamenti delle partecipate non di pubblica utilità o pesantemente in perdita, confluiranno anche le misure messe a punto per il Dl varato ieri.

Con la legge di stabilità dovrebbe anche diventare permanente il meccanismo che lo Sblocca-Italia al momento attiva in via temporanea per destinare una fetta consistente della dote a disposizione dell’Inail per gli investimenti immobiliari al completamento di interventi di pubblica utilità. Si tratterebbe di circa 900 milioni ricavati dagli oltre 1,3 miliardi di risorse per il triennio 2014-2016 solo già in parte programmate dall’Inail per interventi immobiliari. Risorse già disponibili che, se non venissero subito impiegate, rischierebbero di restare senza destinazione. Con il Dl sono subito impiegabili 200 milioni nel 2014 non per la realizzazione di grandi opere ma per un’ampia gamma di interventi di pubblica utilità: dagli ospedali alle scuole. A individuare le opere da finanziare prioritariamente con urgenza con la dote Inail sara un apposito Dpcm. Questo intervento potrebbe essere esteso nel tempo dalla “stabilità” anche tenendo conto dei fondi per interventi immobiliari previsti dal piano triennale Inail 2o15-2017. Tra l’altro dal 2015 l’Inail non dovrebbe più destinare parte degli investimenti indiretti a operazioni per immobili pubblici tramite Invimit, la società del Tesoro, alla quale nel 2014 sono stati “girati” oltre 1,3 miliardi.

Ma industria e agricoltura resistono ancora

Ma industria e agricoltura resistono ancora

Cristina Casadei – Il Sole 24 Ore

Osservati dal punto di vista dell’industria i dati Istat non presentano un quadro drammatico perché nell’industria in senso stretto torna a crescere l’occupazione: +2,8% rispetto a un anno prima, pari a 124,000 unità, sia tra i dipendenti sia tra gli indipendenti. Se ci spostiamo e li guardiamo dal punto di vista dell’agricoltura, ancora una volta, il segno è positivo: il numero di occupati in agricoltura aumenta rispetto a un anno prima (+1,8%, pari a 15.000 unita) e riguarda soltanto i dipendenti (+5,6%, pari a 22.000 unità), a fronte di un calo degli indipendenti. È quando i dati vengono osservati dal punto di vista delle costruzioni e del terziario che la situazione diventa pesantemente drammatica. Prosegue per il quindicesimo trimestre, la flessione degli occupati nelle costruzioni (-3,8%, pari a -61.000 unità), concentrata soprattutto nel CentroNord. L’occupazione si riduce su base annua anche nel terziario (-0,6%, pari a -92.000 unità). La diminuzione, diffusa territorialmente, interessa principalmente gli occupati nel commercio e nei servizi di credito e assicurazioni, mentre si riscontra un aumento nella sanità e nei servizi alle famiglie. 

«I settori più ciclici, come appunto le costruzioni e il terziario, che risentono maggiormente dell’andamento del ciclo economico, sono in forte sofferenza. Però non ci si può aspettare una ripresa dell’occupazione con tassi di crescita vicini allo zero negativo. Se il paese non cresce, l’occupazione non cresce». Il ragionamento del professor Marco Leonardi che insegna Economia Politica alla Statale di Milano è lineare, non è il risultato di complesse equazioni perché la realtà che ci presentano i dati Istat è semplice e allo stesso tempo non consente vie d’uscita simili al passato. «Abbiamo avuto negli anni passati un aumento dell’occupazione in assenza di crescita economica grazie alla diffusione rapida dei contratti a termine – continua Leonardi -. Ormai però abbiamo raggiunto un livello dei contratti a termine fisiologico, in linea con la media europea. Se l’Italia non riprende a crescere, la disoccupazione non scende». Anche l’arma dei contratti a termine appare spuntata. Mentre gli interinali rappresentano numeri ancora piccoli nel nostro paese, comunque non tali da poter incidere visibilmente sugli andamenti. Secondo gli ultimi dati di Assolavoro, fermi a maggio di quest’anno, il monte retributivo dei lavoratori in somministrazione cresce del 9,8% rispetto allo stesso mese del 2013. La variazione congiunturale è pari a -1,5% contro il -2,3% di maggio 2013. Il numero medio mensile di occupati registra un +12% su base annua, i lavoratori occupati sono 278 mila. A maggio, le ore lavorate sono 28,9 milioni circa (+5,8% su base annua), mentre il rapporto fra somministrazione e occupazione totale passa dall’1,14% di maggio 2013 all’1,24% dello stesso mese del 2014.

Sui settori incombono diversi fattori. Di lungo periodo come per esempio «il fatto di essere pur sempre un paese manifatturiero importante – interpreta Leonardi – L’industria italiana, soprattutto quella che esporta, tiene. La crescita del pil è trainata dalla manifattura esportatrice». Poi però ci sono anche fattori strutturali come per esempio «i servizi che funzionano meglio che in altri paesi». Il momento pero è delicato, siamo infatti in una fase in cui «rischiamo di perdere gli elementi di ripresa e di uscita dalla crisi che si potevano intravedere».

Ora diamoci un taglio

Ora diamoci un taglio

Maurizio Maggi – L’Espresso

Duemilacentosessantotto miliardi di curo. È il debito pubblico-monstre accumulato dall’Italia. Una zavorra, in costante aumento, pronta a raggiungere a fine anno, a bocce ferme, l’impressionante livello del 135 per cento rispetto al prodotto interno lordo, cioè al totale della ricchezza prodotta dall’intero Paese. Economisti e commentatori invitano l’Italia ad affrontare sul serio il tema della riduzione dell’indebitamento, ma l’argomento non pare in cima ai pensieri del governo guidato da Matteo Renzi. Da anni piovono sul tappeto le ricette taglia debito e, anche se l’impressione è che l’esecutivo non abbia intenzione di intervenire nel breve, prima o poi anche chi sta a Palazzo Chigi e chi comanda al ministero dell’Economia il nodo dovrà provare a scioglierlo. I suggerimenti, anche fantasiosi, fioccano, però si sa che l’Italia è riottosa quando è il momento di mettersi a tagliare. “Il Sole 24 Ore”, il quotidiano della Confindustria, a metà agosto, è salito in cattedra e di proposte ne ha addirittura avanzate tre.

Le strade maestre per alleggerire il debito sono tre: tagliare la spesa, per avere meno bisogno di emettere nuovi titoli pubblici; vendere società e immobili controllati dallo Stato; consolidare-ristrutturare il debito pubblico esistente. Quest’ultima strada la si imbocca riducendo le cedole, oppure allungando la scadenza dei Btp e degli altri titoli del Tesoro e degli enti locali in circolazione, ma è politicamente la più sensibile. La necessità di intervenire alla svelta sul debito è il cavallo di battaglia di Lucrezia Reichlin. Docente alla London School of Economics, già direttore della ricerca alla Banca Centrale Europea, Reichlin dice che la limatura andrebbe fatta in seguito a un’intesa a livello europeo, certo, ma anche che l’idea che uno Stato possa non pagare una parte delle proprie obbligazioni non dev’essere ritenuta un tabù. Lo ha dichiarato tre mesi fa a “l’Espresso” e lo ha ribadito qualche giorno fa a “la Repubblica”. Giacché, sostiene, «acquistare un titolo di Stato comporta dei rischi, è una leggenda metropolitana che il capitale sia garantito». D’altronde Daniel Gros, che dirige il Centre for European Policy Studies di Bruxelles, a “Class Cncb” ha sottolineato come il rapporto debito-Pil pericolosamente vicino al 140 per cento sia una mannaia che per ora resta sospesa ma è pronta ad abbattersi non appena il mercato dovesse volgere al brutto. Da questo orecchio, però, il governo non ci sente. Il viceministro dell’Economia e delle Finanze, per esempio, di ristrutturazione proprio non vuol sentir parlare: per Enrico Morando, infatti, le conseguenze sarebbero peggiori del problema che si intende risolvere. Meglio puntare, eventualmente, sulla cessione di una fetta del patrimonio immobiliare pubblico.

Gira e rigira, si va sempre a finire lì, sulle taumaturgiche doti del mattone di Stato da vendere. «L’idea di costruire un fondo è in pista da molti anni, ma non sboccia mai e l’esperienza delle cartolarizzazioni targate Giulio Tremonti è stata un fiasco», commenta Emilio Barucci, economista del Politecnico di Milano e figlio di Piero, ex ministro del Tesoro. Sul fronte delle privatizzazioni di società pubbliche, poi, secondo Barucci non è rimasto granché da fare. «Anche cedendo quote di Eni ed Enel, o privatizzando le Poste e le Ferrovie, operazioni peraltro assai complicate, al massimo si può sperare di incassare 10 o 20 miliardi». Inoltre, aggiunge Tito Boeri, prorettore alla Ricerca della Bocconi, già consulente di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale, «con il calo del costo al servizio del debito, anche cessioni che erano vantaggiose fino a un anno fa ora non lo sono più, visto che i rendimenti offerti dai titoli di Stato risultano sensibilmente inferiori ai rendimenti delle partecipazioni in Eni ed Enel». Per Boeri, bisognerebbe riuscire a vendere non solo i pezzi pregiati – come ha fatto il Milan con Mario Balotelli, esemplifica l’economista da grande tifoso rossonero deluso – ma cercare di alienare tutte le società dove si annida l’inefficienza, che abbonda nelle partecipate e nelle municipalizzate. «Temi», dice Boeri, «su cui ha lavorato molto il commissario Carlo Cottarelli e che dovrebbero rappresentare buona parte della politica di spending review». Per il banchiere Gianluca Garbi, amministratore delegato di Banca Sistema, il mirino va puntato proprio sulle municipalizzate e bisogna far di tutto, intanto, perché il debito smetta di crescere: «Nel decreto Salva Italia c’era una norma perfetta, che andrebbe immediatamente resa operativa. In sintesi: se perdono, le municipalizzate vanno cedute e per gli stessi servizi il Comune si rivolgerà ad altri. Così pagando ciò che gli serve, senza avere una struttura inefficiente sulle spalle. Non dimentichiamoci che l’Argentina è fallita a causa dei debiti locali, non di quelli statali». Sulla vendita degli immobili, invece, Garbi è perplesso: «I prezzi del mattone sono già bassi e le compravendite languono: se lo Stato aumenta l’offerta di immobili in assenza di domanda, la situazione non può che peggiorare».

Barucci, Boeri e Garbi, come tanti altri esperti di finanza e conti pubblici, si schierano senza se e senza ma contro qualsiasi gioco delle tre tavolette, come il passaggio delle passività dall’Esfs (il fondo europeo di stabilità finanziaria) all’Esm (il meccanismo europeo di stabilità, noto come fondo salva Stati). Un trasferimento che permetterebbe di far uscire dal debito pubblico italiano una quarantina di miliardi. «Parliamo di operazioni puramente contabili e l’Italia non deve convincere l’Europa ma i mercati, che certo non si farebbero ingannare da soluzioni non in grado di risolvere i problemi reali», è il monito di Boeri. Il quale, in realtà, è convinto che il debito non sia in cima ai pensieri del governo e neppure delle autorità europee: «Credo che a Bruxelles diano per scontato che l’Italia non riuscirà a raggiungere gli obiettivi sulla riduzione del debito». C’è da sperare che il governo non lo prenda come un via libera alla galoppata dell’indebitamento pubblico. Altrimenti, quando mai dovesse arrivare, la ristrutturazione del debito sarà ancora più dolorosa di quanto sarebbe adesso.

Dalla Tasi meno incassi rispetto alla vecchia Imu

Dalla Tasi meno incassi rispetto alla vecchia Imu

Antonio Pitoni – La Stampa

Per carità, il dato e ancora parziale e riguarda solo 2.178 comuni italiani. Circa un quarto del totale. Ma dopo le polemiche che avevano investito la transizione dalla vecchia Imu alla nuova Tasi è certamente sorprendente. Perché nelle amministrazioni che hanno già deliberato (entro la prima scadenza del 23 maggio) l’aliquota del nuovo tributo, il gettito stimato a fine 2014 sulle prime case è di 1,2 miliardi di euro, il 29,3% in meno rispetto agli 1,6 miliardi del 2012, ultimo anno in cui si pagava ancora l’Imu. Mentre i versamenti sulle seconde case e sugli «altri immobili» fanno registrare una sostanziale stabilità, con una crescita dello 0,15% (11 milioni). Insomma, almeno per ora, chi aveva ventilato il rischio di rincari e nuove stangate con il passaggio alla Tasi, sembra essere stato smentito. Ma è bene precisare che si tratta, per adesso, solo di una tendenza. Dal momento che mancano ancora all’appello i dati dei restanti Comuni (circa i tre quarti del totale). Quelli che, verosimilmente, aumenteranno le aliquote per far quadrare i bilanci. Ed è molto probabile che il gettito complessivo torni a salire compensando parte di quel gap di quasi il 30% che oggi separa, per difetto, gli introiti della Tasi rispetto all’Imu. Insomma, una buona notizia per i cittadini, certamente meno per le amministrazioni.