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Perché Berlino non fa i compiti?

Perché Berlino non fa i compiti?

Giorgio Ponziano – Italia Oggi

Non bisogna nascondere i propri problemi sotto il tappeto degli altri. Ma guardare a fondo l’economia tedesca e il sistema pubblico che la sorregge non significa cercare di autoassolversi, poiché il debito italiano rimane un moloch soffocante, può però servire per non restare silenziosi dietro la lavagna. Insomma al tavolo europeo i più bravi vanno lodati ma non debbono barare al gioco. I tasselli del mosaico che fotografa l’altra faccia della Germania provengono da analisi e studi di economisti, giornalisti, ricercatori, tra i quali Patricia Szarvas, Francesco Cancellato, un’èquipe dell’università di Linz, Lucrezia Reichlin, Mario Baldassarri, eccetera. Eccolo, il mosaico.

1. Franco Bassanini, presidente della Cdp, cassa depositi e prestiti, controllata per l’80 % dal ministero dell’Economia, ogni anno emette 320 milioni di euro di obbligazioni e il ministro Pier Carlo Padoan quei soldi li deve contabilizzare nel debito pubblico italiano. In Germania vi è un istituto fotocopia, che si chiama Kfw, Kreditanstalt für Wiederaufbau, anch’esso per l’80% appartenente al governo federale. Emette obbligazioni per finanziare i suoi interventi, l’ultimo anno ne ha emesse per 500 miliardi di euro. Ebbene, di quei 500 miliardi non c’è traccia nel deficit pubblico tedesco perché in Germania vi è una legge che esclude dal conteggio (e quindi dalle tante statistiche sul rapporto debito/pil) le società pubbliche che coprono la metà dei propri costi con ricavi di mercato. Avviene quindi che nonostante le due strutture finanziarie siano pubbliche e si tratti di risorse reperite sul mercato con obbligazioni, in un caso è considerato debito pubblico e nell’altro no. Trattandosi di centinaia di miliardi non è cosa da poco.

2. In Italia, non essendoci federalismo amministrativo, tutto finisce nel calderone della finanza pubblica. I deficit di regioni, comuni e province (finché ci saranno) vengono contabilizzati dallo Stato e formano la massa del debito, tanto che si è dovuti ricorrere alla camicia di forza della spending review per bloccare le spese dei comuni e il presidente del consiglio, giustamente, ha annunciato un maggiore controllo anche sulle spese delle regioni, che in genere continuano a sgarrare rispetto al patto di stabilità. In Germania invece c’è federalismo e quindi i 600 miliardi di debito dei länder rimangono nei loro bilanci locali. Anche in questo caso si tratta di una disparità, rispetto ai conti pubblici italiani, difficile da comprendere. È vero che Angela Merkel, comunque preoccupata per il progressivo aumento del deficit dei länder, ha imposto il dietrofront, con l’obiettivo del pareggio dei loro bilanci, ma dovranno tagliare il traguardo nel 2020 e non nel 2015 come invece viene chiesto (e imposto) all’Italia.

3. Nelle classifiche sull’occupazione, la Germania svetta col suo (solo) 5% di disoccupati ma dietro questo dato vi è quello delle persone a rischio povertà, addirittura il 24%. Perché? Perché il 25% dell’offerta di lavoro è costituita dai mini job, lavori part time a basso costo: le statistiche tedesche considerano occupati coloro che hanno un contratto di mini job, in realtà essi hanno contratti di tre mesi, senza alcuna garanzia e la media del salario è 400 euro netti al mese. In molti casi si tratta quindi di una disoccupazione nascosta. Ovvero lo scarto tra il 12,7% della disoccupazione in Italia e il 5% di quella in Germania non è veritiero, la forbice è molto più stretta.

4. L’economia sommersa è una vergogna non solo italiana. In Germania il nero è calcolato dagli economisti tedeschi nel 13% della produzione tedesca, con 8 milioni di lavoratori e 350 miliardi di euro sottratti alle casse dello Stato. Soprattutto nella capitale Berlino, trainata dal poderoso settore dell’edilizia, la diffusione del lavoro nero sembra la regola più che l’eccezione. Né il rigore né i controlli degli appositi uffici tedeschi sono riusciti a rendere meno abnorme il fenomeno. L’aggiramento della legge è uno sport non solo italico.

5. Dopo varie peripezie, in Italia il sistema bancario è oggi privato e con la svolta del Montepaschi è caduta l’ultima roccaforte dell’incesto tra pubblico e privato. Al contrario, in Germania la svolta non c’è stata, il 45 % del sistema bancario tedesco è saldamente in mani pubbliche, comprese le banche regionali, poiché ogni länd ha il proprio istituto di credito. È scontato il fatto che il sistema pubblico tedesco funziona meglio di quello italiano e che la politica è meno invasiva ma rimane da rilevare che i 637 miliardi di crediti quasi inesigibili delle Landesbanken, appunto gli istituti dei länder, sono in ultima analisi sul groppone dello Stato, così come più o meno una cifra analoga pesa sui bilanci delle banche nazionali controllate dallo Stato. Quindi il passivo del sistema bancario pubblico tedesco non compare nel bilancio generale e non concorre al deficit e al rapporto tra debito e pil, eppure si tratta a tutti gli effetti di una passività pubblica. Non solo. Questo controllo del governo sulle banche può in teoria (o in pratica) essere usato per indirizzare politiche finanziarie a favore o contro altri Paesi. Un esempio. Silvio Berlusconi, da presidente del consiglio, rivolge parole volgari alla Merkel? Le banche pubbliche tedesche vendono titoli di Stato italiani, mettono Piazza Affari sotto pressione, lanciano allarmi finanziari: lo spread sale e il paese sotto tiro va in crisi. Si tratta di un uso politico della finanza che non ci sarebbe se l’Ue imponesse la privatizzazione delle banche, com’è avvenuto per altri settori. Ma la Germania non vuole e nulla si muove, mentre l’Italia deve fare i compiti a casa.

6. Si sono svolte anche recentemente aste dei titoli di Stato tedeschi e, come a volte succede, una parte non è stata assorbiti dal mercato primario. Invece di ricorrere al mercato secondario (con tassi più alti e perdita di valore dei titoli) è intervenuta direttamente, per acquistarli, la Bunbdesbank, anche se ciò è espressamente vietato dal trattato di Maastrich. Ma chi ha il coraggio di sgridare la banca centrale tedesca? In questo modo però essa evita la crescita del debito pubblico, una sorte a cui invece vanno incontro gli altri Paesi, che rispettano il trattato.

7. L’Italia si sta svenando per rispettare il six pack, cioè le sei direttive concordate nel 2011 che prevedono che un Paese non debba registrare un passivo superiore al 3% del pil e un surplus (export meno import) di oltre il 6%. La Germania è negli ultimi 5 anni largamente al di fuori di quest’ultima percentuale e se ne infischia. Il suo avanzo è attorno al 7% del pil e secondo il six pack avrebbe dovuto essere sanzionata, invece niente, mentre per noi il 3% è sacro e i tedeschi ce lo ripetono ogni giorno. Due pesi e due misure, che fanno crescere le ingiustizie e le differenze tra i sistemi economici degli Stati.

8. Infine l’Ocse. Avverte la Germania: oggi il vento soffia a favore (anche se da marzo si registra un rallentamento) ma attenzione al futuro. Dormire sugli allori può essere pericoloso. L’invecchiamento demografico, l’enfasi eccessiva sull’export, la bassa crescita della produttività, la scarsa concorrenza interna nel settore dei servizi, la burocrazia efficiente ma tentacolare sono nodi che la Repubblica Federale deve affrontare e risolvere per il suo bene ma anche per quello dell’Europa.

Il supplizio di Italo

Il supplizio di Italo

Il Foglio

Antonello Perricone, presidente della società privata che gestisce Italo, treno ad alta velocità, è un manager a cui certamente non mancano grande garbo e grande equilibrio. Ma l’altra sera, dopo aver ascoltato la relazione annuale dell’Autorità dei trasporti, ricca di buoni propositi e di puntuali raccomandazioni al governo, ha abbandonato per un momento il suo tradizionale aplomb e ha dettato alle agenzie di stampa una dichiarazione durissima: «A parole, in sede elettorale, tutti sono sempre a favore della concorrenza, quando però occorre dimostrarlo nei fatti arrivano i problemi». Un richiamo pesantissimo non tanto all’Authority appena istituita ma a quanti nelle istituzioni dovrebbero garantire libertà di impresa e di mercato. E come dargli torto?

La storia di Ntv, società che vede tra i principali azionisti Luca di Montezemolo e Diego Della Valle, è la storia di una lotta impari tra la concorrenza e il monopolio, tra chi ha investito un miliardo di euro per creare una nuova occasione di sviluppo e di occupazione e chi invece vuole mantenere le cose come stanno, senza nulla rischiare e nulla creare, tanto i cittadini non hanno scelta e se i bilanci traballano c’è sempre una misericordiosa mano pubblica pronta a tappare buchi e voragini, a ripianare deficit e storture.

La storia di Ntv, di fatto, è la storia di un supplizio. In due anni di vita, anziché ricevere agevolazioni e incoraggiamenti, i treni nati per sfidare sul mercato le Frecce rosse hanno dovuto superare ostacoli addirittura grotteschi, come il cancello della stazione Ostiense con il quale le Ferrovie dello Stato impedivano ai passeggeri in partenza da Roma di raggiungere i convogli targati Italo. Uno stillicidio di norme controvento che purtroppo non accenna a fermarsi. Anzi. L’ultima pena è legata all’aumento della bolletta elettrica, previsto dall’articolo 29 del decreto sulla competitività. Un aggravio di 1,20 euro per ogni chilometro percorso che, fatti i dovuti calcoli, significa per Italo una batosta pari a 20 milioni di euro l’anno. Un colpo alla nuca per la società e per gli oltre mille giovani che in questa impresa hanno trovato lavoro. Perricone non ha dubbi: se la norma non cambia, il governo di Matteo Renzi «si assume una responsabilità gravissima: cambiare, in corsa e in peggio, le regole del gioco e aprire le porte al ritorno di una situazione di monopolio». Un pessimo esempio per tutti quegli investitori stranieri ai quali chiediamo continuamente di considerare l’Italia un paese moderno, agile e produttivo.

La cautela sull’economia mostra la sfida che il premier ha davanti

La cautela sull’economia mostra la sfida che il premier ha davanti

Massimo Franco – Corriere della Sera

Il «no comment» del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, in risposta a una domanda sull’eventualità di una manovra correttiva in autunno era obbligato. La sua prudenza rispecchia l’incertezza che domina i conti pubblici e l’evoluzione della crisi finanziaria, e dunque va apprezzata. Ma gli avversari del governo hanno voluto vederci la conferma di una situazione in via di peggioramento, e una reticenza che non promette niente di buono. Forse anche per questo, nel pomeriggio Padoan è stato costretto a precisare: «Ma “no comment” non significa solo “non ho nulla da aggiungere”? Non c’è nessuna manovra in arrivo, semplicemente». L’ennesimo attacco di Forza Italia, figlio di un’opposizione «governativa» sulle riforme istituzionali e ipercritica sull’economia, tende a raffigurare Matteo Renzi sulla difensiva: cosa in parte vera, anche se ad essere realmente in panne è Silvio Berlusconi.

Il problema del presidente del Consiglio è che il fronte tedesco gli sta riservando critiche inattese. I popolari vicini alla cancelliera Angela Merkel continuano ad accusarlo di non avere voluto proporre l’ex premier Enrico Letta alla presidenza del Consiglio dell’Ue: un’intromissione che espone Renzi ma anche lo stesso Letta, indicato dal Ppe contro la candidata del governo italiano a «ministro degli Esteri» europeo: Federica Mogherini. Il risultato è un rinvio delle nomine a fine agosto. «Un rinvio estremamente pesante soprattutto per il semestre italiano», commenta preoccupato l’ex presidente della Commissione, Romano Prodi. Non solo. Il Pd appare lacerato più di quanto non sia; e, seppure supervotato il 25 maggio, è come se il suo peso politico a Bruxelles rimanesse marginale. È una difficoltà che Palazzo Chigi cerca di circoscrivere procedendo sulla riforma del Senato e soprattutto sulla politica economica.

Sa che è l’unica alla quale l’Unione Europea sia davvero attenta. Padoan ammette che la lentezza della ripresa rende i margini più stretti. «Non ci sono scorciatoie per la crescita», avverte. Ma conferma che il taglio del cuneo fiscale diventerà permanente con la legge di Stabilità. Si tratta di una marcia parallela a quella per modificare il bicameralismo. Più passano le ore, però, più diventa chiaro che la filiera degli oppositori non cederà facilmente. Ieri uno dei relatori del testo, il leghista Roberto Calderoli, ha sostenuto che non si comincerà a votare in Aula nemmeno lunedì, perché gli emendamenti sono troppi e richiedono una discussione ulteriore. La strategia del rinvio rivela anche una guerra dei nervi con il premier e con il ministro Maria Elena Boschi.

Eppure l’esito appare segnato. Gli alleati del Nuovo centrodestra insistono che bisogna far tutto prima dell’estate. E il sottosegretario a palazzo Chigi, Graziano Delrio, risponde che sulle riforme «è in ritardo il Paese, non il governo». Insomma, nonostante i malumori dell’Anci, che vorrebbe con Piero Fassino più sindaci senatori, il patto Berlusconi-Renzi dovrebbe portare all’approvazione in tempi relativamente rapidi. Resistono e fanno ostruzionismo sia una ventina di senatori del Pd, sia quanti dentro FI parlano di subalternità di Berlusconi a Renzi. E dall’esterno, costituzionalisti come Stefano Rodotà sostengono la tesi dell’«imposizione indecente, senza alcuna cultura istituzionale». Ma Renzi può replicare che la proposta è stata modificata; e reagire alle accuse del Movimento 5 Stelle sull’immunità parlamentare.

Nel testo governativo non c’era, dice, facendo capire che l’avrebbero inserita altri. Sono le convulsioni che accompagnano un cambiamento storico, per quanto a dir poco controverso; e che si intrecciano con le manovre di disturbo di Beppe Grillo in vista della prossima sfida: il sistema elettorale. Il capo del M5S manda i suoi a parlarne con Renzi e il Pd. Si punzecchiano ma alla fine sembrano tutti soddisfatti. «Non siamo divisi dal Rio delle Amazzoni ma da un ruscello», commenta Renzi. Attraversarlo, però, sarà ugualmente difficile perché la sensazione di un minuetto politico è comune a entrambi gli interlocutori. Il presidente del Consiglio si chiede se Luigi Di Maio, numero due della Camera e mediatore per conto di Grillo, sia in grado di portarsi dietro l’intero movimento. Visti i precedenti, è una domanda legittima.

Costi della politica, ecco il rapporto. I tagli possibili, dalla Rai ai vitalizi

Costi della politica, ecco il rapporto. I tagli possibili, dalla Rai ai vitalizi

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

La Rai, per esempio. «A ogni cambio di governo, maggioranza e ad ogni scadenza del consiglio d’amministrazione segue normalmente un giro di nomina dei direttori dei telegiornali, i quali a loro volta nominano e promuovono 3-4 tra vicedirettori e capiredattori per governare con persone fidate. I passati capi tornano a disposizione mantenendo però stipendi, titoli e ruolo che avevano precedentemente. Il risultato è che ad esempio nel Tg1 solo un terzo dei giornalisti è un redattore ordinario e gli altri due terzi sono graduati». La mazzata alla tivù di Stato è tutta qui. Ma tremenda. E non tanto per la stoccata alla nave ammiraglia. Già un anno fa il deputato del Pd Michele Anzaldi denunciava che dei 113 giornalisti del Tg1 appena 32 erano redattori ordinari, mentre i soli capiredattori risultavano ben 34. Rapporto fra soldati semplici e graduati? Uno a 2,5.

La botta è micidiale perché nel rapporto sui costi della politica commissionato dal direttore d’orchestra della spending review Carlo Cottarelli a un pool di esperti coordinato da Massimo Bordignon, la Rai è assunta a simbolo poco edificante. L’emblema di quell’enorme indotto costituito dalle imprese pubbliche sulle quali la stessa politica scarica un peso economico non indifferente. Tanto da indurre gli autori del documento – che il governo ha deciso di rendere pubblico – a formulare una raccomandazione: quella che «le posizioni apicali nelle imprese pubbliche soggette a nomine politiche devono avere carattere temporaneo, con la previsione che la retribuzione segua la funzione effettivamente svolta». Vale per la Rai, come per tutte le altre migliaia di aziende controllate dal pubblico. Dove per pubblico si intende Stato, Regioni, Province e Comuni. E non è un caso che questo passaggio si trovi nell’ultimo capitolo, quello intitolato «Il sistema del finanziamento dei partiti», che comincia a pagina 86 del rapporto fino a ieri svanito e oggi finalmente ritrovato. Perché, come abbiamo tante volte ricordato, i canali attraverso cui la politica drena risorse pubbliche sono così numerosi da sfuggire a un calcolo preciso. Ragion per cui le raccomandazioni degli esperti di Cottarelli si sprecano. Come quella di «introdurre la massima trasparenza sui finanziamenti ai gruppi parlamentari», che nel solo 2012 hanno incassato 73 milioni: somma andata ovviamente ad aggiungersi ai rimborsi elettorali. O quella di alzare almeno al 10 per cento l’Iva sulle spese elettorali, che una legge d’altri tempi aveva fissato al 4 per cento appena: stesso livello vigente per i beni di prima necessità. Oppure quella di portare ad almeno 10 centesimi il francobollo per le lettere di propaganda politica, contro i 4 attuali. O ancora, quella di tagliare ancora del 20 per cento i sussidi alla stampa di partito. Anche se i risparmi non sarebbero certo dell’ordine di quelli che si potrebbero ottenere intervenendo sugli apparati istituzionali.

E qui viene il bello. Come abbiamo anticipato ieri, la relazione di 106 pagine consegnata nello scorso mese di marzo a Cottarelli contiene una radiografia approfondita dei costi della politica nei Comuni e nelle Regioni. Arrivando alla conclusione che su questo fronte si potrebbero realizzare economie per 630 milioni di euro l’anno oltre a quelle già portate a casa con le riforme fatte a partire dal governo di Mario Monti. Quasi metà, pari a 300 milioni e 698 mila euro l’anno, deriverebbe da interventi sulle amministrazioni comunali. Il rapporto suggerisce l’accorpamento dei piccoli Comuni (quelli sotto i 5 mila abitanti), la riduzione del 20 per cento del numero di consiglieri e assessori (oggi quasi 139 mila), l’eliminazione del trattamento di fine rapporto per i sindaci e il taglio compreso fra il 10 e il 20 per cento delle remunerazioni per il personale politico nei municipi al di sotto dei 15 mila abitanti. Tutte misure, si aggiunge nel documento, che andrebbero necessariamente estese anche alle Regioni a statuto speciale alle quali viene riconosciuta autonomia finanziaria nella gestione della finanza locale, quali Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia. Altri 330 milioni sarebbero i risparmi attesi dall’applicazione dei «costi standard» agli apparati politici regionali. Alcuni dei quali, va detto, si sono mostrati decisamente riluttanti di fronte ai tagli già imposti sull’onda degli scandali di Batman&co. alla Regione Lazio. Innanzitutto sulla trasparenza. Nonostante in seguito al decreto Monti sia stata fissata una retribuzione lorda onnicomprensiva uguale per tutti i consiglieri (11 mila euro mensili), i dati pubblicati per legge sui vari siti «non dicono», sostiene il rapporto, «quanti consiglieri cumulano all’indennità di carica le varie indennità di funzione previste, ed è dunque impossibile calcolare la retribuzione effettiva». Poi c’è il caso della Sardegna, che ha fatto ricorso alla Corte costituzionale contro il decreto Monti e non l’ha applicato, dov’è fissata «un’indennità di carica molto più alta (14 mila euro) della soglia su cui possono cumularsi le altre indennità».

Del resto le differenze nei costi delle assemblee, fra Regione e Regione, restano rilevantissime anche dopo la quasi generale equiparazione delle indennità. La media nazionale per consigliere «è superiore ai 900 mila euro ma Lazio, Calabria e Sicilia spendono più di un milione e mezzo mentre Molise e Marche sono attorno ai 500 mila euro», rivelano gli autori. Affermando la necessità di ridurre anche qui, ulteriormente, di 266 unità il numero di assessori ed eletti, con un risparmio possibile di 35 milioni: più altri 25 se si allineasse lo stipendio del consigliere a quello del sindaco del capoluogo. In tutto, dunque, sessanta milioni. Che salirebbero a 107 se, come propone il rapporto, si eliminasse anche il rimborso forfettario mensile. «In fondo», scrivono gli esperti di Cottarelli, «ai percettori di redditi di lavoro dipendente non è in genere riconosciuto un rimborso per le spese attinenti alla loro attività». Non si capisce quindi per quale ragione i consiglieri regionali debbano averne diritto. Altri 50 milioni di minore spesa potrebbero derivare dalla revisione dei vitalizi pagati agli ex consiglieri in base ai cosiddetti diritti acquisiti: semplicemente ricapitalizzando i contributi effettivamente versati sulla base del sistema contributivo e ricalcolando così gli assegni mensili. I vecchi vitalizi rappresentano una fetta gigantesca del costo della politica regionale: 173,4 milioni nel 2012. Che continua a lievitare. Basti pensare che nella sola Regione Lazio l’esborso è salito di oltre il 30 per cento in due anni, da 15,9 milioni nel 2012 a più di 20 quest’anno.

Un premio ai comuni “virtuosi”

Un premio ai comuni “virtuosi”

Marco Rogari – Il Sole 24 Ore

C’è un filo rosso che unisce il “vecchio” federalismo fiscale con la “nuova ” spending review. È quello dei fabbisogni standard degli enti locali. Pensati nel 2009 per mandare in soffitta la spesa storica i nuovi indicatori sulle uscite di Comuni e Province si materializzano sotto forma di banca dati unica e accessibile da subito per le amministrazioni pubbliche e, da ottobre, per tutti i cittadini. Con una precisa mission: identificare in tempo reale le aree di spreco nelle uscite locali. E con un doppio ambizioso obiettivo: riformare a partire dal 2015 il sistema di perequazione portando dal 10% attuale (rimasto però sulla carta) al 40% la quota del fondo di solidarietà ripartito sulla base dei fabbisogni standard e delle capacità fiscali dei diversi territori; superare nel giro di due-tre anni il patto di stabilità interno dopo un anno di sperimentazione nel 2015 mantenendo fermo il pareggio di bilancio obbligatorio dal 2016. Un’operazione che dovrebbe essere avviata con la prossima legge di stabilità. E che, come evidenzia il sottosegretario alla presidenza, Graziano Delrio, dovrebbe anche consentire di abbandonare l’antica prassi dei tagli lineari.

Il punto di partenza è rappresentato dalla nuova banca dati OpenCivitas presentata al ministero dell’Economia, che è stata elaborata dalla società Sose in collaborazione con il dipartimento delle Finanze, guidato da Fabrizia Lapecorella. Banca dati che contiene le spese relative al 2010 dei Comuni delle Regioni a statuto ordinario e che viene proposta dal Mef come uno strumento tecnico a disposizione delle amministrazioni comunali e provinciali per confrontare le performance di tutti gli enti locali e gli scostamenti rispetto ai fabbisogni standard. Ma il presidente dell’Anci, Piero Fassino, fa subito notare che i dati non sono freschissimi e non tengono conto della stretta patita dai Comuni per le manovre dell’ultimo triennio.
Dalla fotografia, seppure un po’ datata, di OpenCivitas emergono dati inaspettati anche per la mancata comparazione del diversi impegno di risorse da parte dei Comuni per i singoli servizi (dall’istruzione al trasporto pubblico locale). Andrebbe ad esempio a Perugia la “palma” del Comune con il più ampio scostamento negativo nel 2010 tra i fabbisogni standard per abitante e la spesa storica (-31%), seguita da Brindisi (-29%), Taranto e Potenza. Il Comune più virtuoso sarebbe Lamezia Terme (+41%) mentre tra i capoluoghi di Provincia è Torino a guidare la classifica degli scostamenti positivi (7%) preceduta da Campobasso (+15%) ma seguita da Milano (+1%). Segno negativo per Roma (-7%), Firenze (-10%), Bologna (-5%) e Napoli (-4%).
A far capire che il Governo intende accelerare il più possibile sui fabbisogni standard, attivando entro l’autunno l’ingranaggio ancora mancante del meccanismo, ovvero quello della capacità fiscale standard, è il sottosegretario all’Economia, Pier Paolo Baretta: «L’operazione che abbiamo in mente è quella di superare il patto di stabilità interno». Con l’entrata in vigore del pareggio di bilancio obbligatorio per tutti gli enti «dobbiamo studiare sanzioni per chi non lo rispetta ma – aggiunge Baretta – mantenere anche il patto di stabilità interno sarebbe una cappa inutile». Per Delrio con la banca dati parte «un’operazione di grande trasparenza che concretizza un pezzo importante di federalismo amministrativo». Il commissario alla spending, Carlo Cottarelli, definisce OpenCivitas «un esempio di best practice che molti Paesi ci invidieranno» e sottolinea che i fabbisogni standard «servono per un’operazione di efficientamento della spesa». Cottarelli conferma gli obiettivi minimi di risparmio delle sue proposte (5-800 milioni nel 2015 e 2 miliardi nel 2016) ma aggiunge che i dati possono essere aggiornati sulla base di nuove informazioni. Per Fassino il calcolo dei fabbisogni standard «è un esercizio prezioso, ma solo uno strumento tecnico che deve fare i conti necessariamente con la volontà politica».

Benvenuti al festival della spesa pubblica

Benvenuti al festival della spesa pubblica

Marco Cobianchi – Panorama

Secondo gli esperti un eccesso di informazioni può provocare ipertensione, vertigini, ansia, inappetenza. Le stesse sindromi dalle quali è affetto Carlo Cottarelli, commissario straordinario alla spending review, l’uomo chiamato a contribuire con un taglio alla spesa di almeno 14 miliardi di euro nella prossima imminente stesura della legge di stabilità 2015. Ebbene Cottarelli, si diceva, passa diverse ore al giorno sul sito del Siope, un software inventato e gestito dalla Banca d’Italia che raccoglie tutte le spese di tutti gli enti pubblici giorno per giorno. Bum! Il sogno di ogni italiano si è avverato: controllare quotidianamente come le amministrazioni pubbliche spendono i soldi delle sue tasse. L’ipertensione è garantita, ma la soddisfazione raggiunge il climax. Basta cliccare a caso e il web scodella tutte le uscite di quel giorno. Proviamo.

Il 12 marzo 2014 il premier annuncia la vendita su eBay delle auto blu, peraltro un flop con poco più di 20 vetture passate ai privati. Il giorno dopo lo Stato ha speso 5.170 euro in carburanti saliti a 6.200 il giorno dopo. Poco? A marzo in benzina se ne sono andati 4,2 milioni di euro. Sempre il 14 marzo lavanderia e pulizia sono costati 536mila euro, le armi leggere 65mila euro, i mobili per ufficio 180mila, la cancelleria 163mila e (tenersi forte) il vestiario addirittura 12,2 milioni.

Continuiamo, anche se l’ipertensione sale. Uno dei pezzi forti della spesa pubblica sono le consulenze. Secondo la Uil i professionisti dei quali si avvale lo Stato sono 545mila. Lo ha detto il 16 dicembre 2013 e, proprio quel giorno, se ne vanno 9.700 euro in consulenze giuridiche, 125mila per consulenze tecnico-scientifiche, 1,1 milioni in consulenze informatiche e 767mila in «altre consulenze». Il giorno dopo per consulenze giuridiche sono stati pagati 130mila euro, 228mila per quelle tecniche, 4 milioni per quelle informatiche e 1,1 milioni per «altre consulenze». Sempre quel 16 marzo 2013 Matteo Renzi dà del «buffone» a Beppe Grillo perché il leader del Movimento 5 Stelle non vuole votare le riforme istituzionali e intanto dalle casse dello Stato escono 9,2 miliardi tra cui: 40,8 milioni per aerei da guerra, 22 milioni per navi da guerra, 1,6 milioni per mezzi terrestri da guerra, 562mila per armi pesanti e 877mila per armi leggere. Sembrerebbe che l’Italia si stesse preparando a un’invasione e invece tutti i giorni lo Stato spende queste cifre in armi. Per esempio: il 2 maggio 2013, mentre Berlusconi e Renzi litigano sull’Imu, lo Stato paga 5,1 milioni per la manutenzione delle caserme oltre a 3 milioni per contenziosi verso i fornitori e perfino 103 euro per «Iscrizione ordine professionale», che dovrebbe pagare chi si iscrive, non lo Stato.

Ma il bello deve ancora venire. Vogliamo parlare dei sussidi alle imprese? Il 16 agosto 2013 debutta il redditometro che permette di incrociare le spese di ogni italiano e scovare gli evasori, ed esattamente quel giorno lo Stato versa alle imprese 5 milioni in sussidi, altri 2,4 due giorni dopo, 1,8 arrivano il 22 agosto e così via per tutti i giorni dell’anno, di tutti gli anni. Il totale è impressionante: nel 2013 i sussidi andati alle imprese sono stati 15,7 miliardi, e per fortuna che non c’erano i 25 milioni versati l’anno prima alla società Grandi stazioni che è controllata al 60 per cento dalle Fs ma il 40 è di soci privati (Benetton, Pirelli e Caltagirone).

Basta aggirarsi per qualche minuto per scoprire spese incredibili. Il 23 agosto l’allora ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni avverte che non ci sono i soldi per abolire l’Imu e proprio quel giorno lo Stato non solo spende 1 milione per i fabbricati militari ma soprattutto 128mila euro per «animali» che ci sono costati più di 1 milione in tutto il 2013 e sempre l’anno scorso un altro milione se n’è andato in «strumenti musicali»; 104 milioni in «vestiario»; 1,6 in assistenza «psicologica, sociale e religiosa»; 197 milioni in affitti; 51 milioni in bollette dei cellulari; 409 in pulizia e lavanderia; 127 milioni in traslochi e, soprattutto, 418 milioni sono serviti a pagare i premi del gioco del Lotto. Poi ci sono le bollette: uno si aspetta che la più alta sia quella per la fornitura di elettricità e invece è quella per l’acqua: 3,4 miliardi di euro nel 2013.

Tagli? Quali tagli? Risparmi? Quali risparmi? Stando al Siope, il Quirinale è costato esattamente la stessa cifra – 228,2 milioni l’anno – dal 2009 al 2013. E tale rimarrà fino al 2016 perché il presidente Napolitano ha rifiutato un adeguamento all’inflazione da 10 milioni di euro. Come dire, un risparmio percepito.

Meglio scendere dal Colle. Il 14 aprile di quest’anno il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio annuncia che quando sarà il momento di nominare i dirigenti delle aziende pubbliche il governo punterà alla parità tra uomini e donne e, proprio quel giorno, lo Stato stacca un assegno da 422mila euro per affitti di immobili. L’8 aprile Matteo Renzi presenta il Def (che prevede una crescita dello 0,8 per cento nel 2014: pura fiction) e quel giorno lo Stato paga 347mila euro in benzina, trasferisce 33 milioni alla presidenza del Consiglio (cioè a Renzi stesso) e compra 3,6 milioni in francobolli. Il 17 febbraio del 2012 l’Istat rivela che in 9 mesi si sono persi 90mila posti di lavoro e quel giorno lo Stato spende 44mila euro in «accessori per uffici». Il primo giugno 2012 il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, dice che in Italia le tasse sono troppo alte e mente lo dice lo Stato versa 316 milioni alle imprese pubbliche. Il 29 marzo del 2013 si scopre che le fatture non pagate dallo Stato alle imprese private valgono 90 miliardi e intanto 2,5 milioni se ne vanno in traslochi dei dipendenti statali, 900mila in affitti e 27 milioni alle «unioni di Comuni».

Ma più dei carri armati, del vestiario e delle bollette, ciò che pesa sul bilancio pubblico è l’Europa, i cui versamenti seguono un crescendo rossiniano: 15,4 miliardi nel 2008, 15,8 nel 2009, 15,5 miliardi nel 2010, 16,7 miliardi nel 2011, 16,4 miliardi nel 2012 e (record) 17,6 miliardi nel 2013. Per avere un’idea di cosa si sta parlando basta dire che sempre nel 2013 i trasferimenti alle famiglie sono stati appena 2,5 miliardi. E il 2012? Anno da incorniciare: oltre alle spese (diciamo) normali, abbiamo pagato 5,7 miliardi per garantire la «stabilità finanziaria dell’area euro» e 1,1 miliardi per salvare la Grecia ma abbiamo anche speso 93 milioni a favore dei «soggetti danneggiati da complicanze dovute a vaccinazioni obbligatorie ed emotrasfusioni» e 66 milioni per lo smantellamento di sommergibili nucleari, mentre per altri 82 milioni «non si dispone di sufficienti informazioni». Tradotto: nessuno sa dove siano finiti.

Poi ci sono le spese dei Comuni e qui c’è da perdersi, anzi, da svenire, soprattutto se si pensa che nell’era di Internet il Comune che si autopromuove il più moderno d’Italia, Milano, è riuscito in sei anni a raddoppiare le spese postali, passate da 14 milioni nel 2008 a 31 nel 2013. Certo, le spese per convegni sono passate da 22,2 a 3 milioni ma la spesa pro capite per i consumi intermedi (quelli che servono a far funzionare la macchina pubblica) sono, a Milano, non solo più alti della media delle grandi città italiane, 1.300 euro rispetto a 955, ma anche di Roma (1.089), Napoli (1.088) e Palermo (587). Poi c’è il capitolo tasse. Chi vive nei grandi Comuni paga mediamente 750 euro ma i milanesi versano 785 euro, i torinesi 766, i romani 729, i catanesi 655 e i fiorentini 847. A proposito: tra il 2009 e il 2013 Firenze è stata una delle pochissime città che ha aumentato il proprio budget, passato da 746 a 840 milioni. Il premier che ora vorrebbe tagliare la spesa pubblica è quello che a Firenze ha aumentato le spese correnti da 485 a 593 milioni riuscendo anche nell’impresa di triplicare le uscite per liti giudiziarie, che sono passate 493mila del 2009 a 1,4 milioni nel 2013 mente le sentenze avverse al Comune sono costate 866mila euro dagli 8.600 del 2009: sono centuplicate. Nel 2013 Renzi ha anche speso 3mila euro per animali, 165mila euro per vestiario e oltre 4 milioni in francobolli (oltre 5,5 milioni di lettere ai 350mila fiorentini?). Stando alle fatture pagate, i dipendenti pubblici di Bologna sono i più eleganti d’Italia: 430mila euro, anche se il budget è calato da 641 a 590 milioni. Un bilancio ridicolo di fronte a uscite per l’incredibile cifra di 6,3 miliardi di Roma, che nel 2013 ha speso 98 milioni in consulenze; 11 milioni in convegni, 56 milioni di francobolli (erano 11 nel 2012) e 115 milioni in affitti (107 nel 2012).

Probabilmente Cottarelli sarà iperteso, ansioso e inappetente e soffrirà di vertigini. Perché si è reso che per tagliare la spesa pubblica non bastano le forbici. Ci vuole una motosega.

Meno vincoli ai Comuni, “Patto di Stabilità da cancellare il 3 anni”

Meno vincoli ai Comuni, “Patto di Stabilità da cancellare il 3 anni”

Il Messaggero

È lo spauracchio di molti amministratori locali, ed anche un bersaglio polemico nelle controversie con lo Stato centrale. Ora il governo annuncia che tra due-tre anni il Patto di stabilità interno potrebbe essere solo un ricordo. È toccato al sottosegretario Pierpaolo Baretta dare questa indicazione, proprio mentre al ministero dell’Economia veniva presentata la nuova banca dati sui fabbisogni standard dei Comuni. Come ha spiegato Baretta, una volta in vigore le nuove e più stringenti regole di bilancio, che a partire dal 2016 impongono anche agli enti locali l’obbligo del pareggio (sia pure con alcune parziali eccezioni) non avrebbe più senso lasciare in vigore un’ulteriore strettoia, appunto il Patto di stabilità interno.

Questo strumento è stato utilizzato dalla fine degli anni Novanta, quando è apparso chiaro come a fronte degli obblighi assunti dall’Italia a livello europeo fosse necessario tenere sotto controllo anche i bilanci di Regioni, Comuni e province. In realtà la formulazione tecnica è cambiata più volte nel corso degli anni: sono stati applicati vincoli sia sulla spesa che sui saldi, e il Patto è stato lo strumento con cui di fatto lo Stato ha chiesto alle amministrazioni territoriali di partecipare alle varie manovre di risanamento dei conti impostate nel corso degli anni. Ma molti amministratori, in particolare sindaci, hanno lamentato le conseguenze paradossali di questa “gabbia”: in particolare il fatto che ne risultino penalizzati proprio gli enti locali virtuosi. Quelli cioè che avrebbero in bilancio risorse da spendere, ottenute con il contenimento dei costi oppure con proprie entrate, ma non lo possono fare per il vincolo generale imposto a tutti, in particolare sulle uscite. In questo modo sono stati bloccati anche cantieri che avrebbero potuto essere mandati avanti, non per mancanza di soldi ma per un obbligo di legge. Nel tempo sono state quindi proposte – e in piccola parte concesse – deroghe per interventi di particolare urgenza.

Questa logica ora dovrebbe essere superata: saranno previste sanzioni per Regioni e Comuni che non si adeguano al principio del pareggio, impegnandosi a rientrare in caso di disavanzo, ma gli amministratori virtuosi dovrebbero avere la possibilità di spendere le risorse disponibili a beneficio dei cittadini.

L’inutile addio al Registro imprese

L’inutile addio al Registro imprese

Sergio Luciano – Panorama

La Madia lo fa, la Guidi non lo sa. Ma Renzi sì. Si parla del Registro imprese, che un disegno di legge delega allo studio della presidenza del Consiglio su proposta del ministero per la Semplificazione e per la Pubblica amministrazione (gestione Marianna Madia) intende sottrarre alle Camere di Commercio, cui è oggi attribuito da una legge del ’93, e trasferirlo al Mise, il ministero per lo Sviluppo economico (gestione Federica Guidi). Al Mise spetta già la vigilanza del sistema camerale ma per ora nessuno sa nulla di ufficiale su questo trasloco del registro. Surreale, ma c’è di più. Il cosiddetto “Decreto P.A.” si è già occupato del Registro imprese per disporre il dimezzamento, da subito, della tassa annuale che oggi le imprese pagano alla Camera di Commercio. E così il presidente dell’Unioncamere Ferruccio Dardanello si è presentato l’8 luglio alla commissione Affari costituzionali della Camera per chiedere una gradualizzazione del taglio al diritto annuale. Già: ma nel frattempo Palazzo Chigi lavora per sottrarre del tutto il Registro alle Camere, altro che dimezzare la tassa. Un po’ di caos tra Palazzi, insomma. E a favore di chi? Chi, cioè, si avvantaggerebbe del trasferimento del Registro? Al Mise non sarebbero attrezzati per sbrigarsela da soli: non hanno strutture informatiche né reti sul territorio idonee. Un appaltatore esterno scelto a gara? Ovvio. Ma una prospettiva del genere scatena le dietrologie. E c’è chi parla di una cordata confindustriale desiderosa di spolpare l’osso delle Camere di Commercio, scippandogli i flussi di cassa del Registro. Un complotto alla Spectre, ma con una sceneggiatura alla Brancaleone: per ora, soprattutto, uno dei sintomi dello iato che c’è tra l’attivismo del governo e la capacità realizzativa dei suoi esponenti…

Supermunicipalizzate e pochi investimenti, così sta morendo il capitalismo italiano

Supermunicipalizzate e pochi investimenti, così sta morendo il capitalismo italiano

Federico Fubini – La Repubblica

Cambia il controllo di Frette, il produttore di biancheria di lusso che fornì le lenzuola all’Orient Express e al Titanic, ma la notizia non è che ora apparterrà a un investitore straniero. Era già così. L’antica casa milanese viene infatti ceduta da un fondo di San Francisco a uno di Londra. La notizia è che non c’era un investitore italiano disposto o capace di presentare un’offerta o un progetto industriale migliori.

È già successo negli ultimi anni, in vari settori. Dall’alimentare con Parmalat acquisita dai francesi di Lactalis, alla Ducati passata al gruppo Volkswagen, alle conquiste del gruppo transalpino Lvmh su Bulgari, Loro Piana o la pasticceria Cova, fino alla recente cessione del controllo di Indesit agli americani di Whirlpool. Difficile spiegare ai dipendenti delle società vendute che ciò sia un male, se ora vedono più investimenti, nuove competenze e la conquista di mercati prima irraggiungibili. Per loro la sicurezza del posto in futuro fa premio sul prefisso telefonico dell’azionista di controllo. Per i neolaureati che adesso possono mandare un curriculum nella speranza di una vera chance, ancora di più. Resta giusto un dubbio sull’asimmetria. Il valore delle fusioni e acquisizioni nel mondo quest’anno è già a 1.500 miliardi di dollari e forse il 2014 batterà il record del 2007. Dalla farmaceutica all’energia, da Pfizer e General Electric, tornano le offerte per creare i cosiddetti Mammuth. Ma l’Italia è molto più preda che predatrice. Le sue imprese non sono quasi mai alla testa ma schiacciate in mezzo alle catene di fornitura dei milioni di componenti che generano aerei, auto o gadget elettronici; dunque per lo più vengono acquistate, ma molto di rado acquistano le altre.

Una ricerca di Roland Berger Italia per Repubblica fa capire perché: dal fondo della crisi globale nel 2009 il made in Italy manifatturiero ha sì abbozzato una ripresa ma non riesce a produrre la cassa necessaria a preparare il futuro. Quella che crea basta a fatica a sostenere i debiti del passato. Da quando l’economia italiano crollò del 5% subito dopo il crac di Lehman, gli investimenti industriali in Italia sono addirittura scesi di un altro 9%: difficile restare competitivi così, se non cambia il modo di finanziamento e con questo la struttura stessa delle imprese. I dati della Roland Berger, il gruppo di consulenza, mostrano come questa crisi stia portando con sé la fine del capitalismo all’italiana fondato sulle medie imprese familiari che restano indipendenti e si finanziano in banca. Non un male, se sarà sostituito con un modello più adatto ai tempi. «Ci sono molte medie aziende per le quali nuova finanza è pronta ad arrivare dai fondi esteri o italiani o da grandi investitori istituzionali» dice Andrea Marinoni di Roland Berger Italia. «Ma solo a patto che ci siano fusioni, spacchettamenti di settori e filiere produttive, progetti fra più gruppi. Non più ognuno per sé come in passato».

Certo come oggi non può continuare. Non è più sostenibile, per esempio, il peso predatorio delle municipalizzate sul sistema produttivo. La Roland Berger mostra che dal fondo della crisi nel 2009 il settore il cui fatturato è cresciuto di più in Italia, da 44 a 72 miliardi, è quello delle società partecipate dagli enti locali che forniscono servizi come acqua o elettricità. Il loro giro d’affari è esploso nel 63%, pesa dieci volte più del settore auto in Italia e almeno il doppio rispetto a qualunque comparto leader del manifatturiero, dalla meccanica all’alimentare. Vista così, il settore trainante del Paese sembra il parassitismo delle mille piccole Iri di provincia. Un gigante sostenuto dagli aumenti continui delle tariffe, che tuttavia fatica a stare in piedi: malgrado il boom delle rendite estratte dal mondo produttivo, la redditività delle municipalizzate non cresce e i loro investimenti addirittura cadono. Questa tassa impropria sul resto dell’economia a sua volta alimenta, ma non determina da sola, le difficoltà del manifatturiero. Non che tutto vada male, perché un po’ di ripresa c’è stata. Dal punto basso del 2009 al 2012 il fatturato del settore alimentare è salito da 24,6 a 26 miliardi, quello del settore auto (molto più piccolo) da 6,3 a 7,1 miliardi. E cresce la meccanica, con un aumento delle vendite da 24 a quasi 33 miliardi. In calo ulteriore del 17% dopo la frana del 2009 risulta solo il comparto tessile e abbigliamento, che nel 2012 ha fatturato appena un terzo del settore alimentare. Il problema dunque non è la capacità di queste imprese di vendere i loro prodotti nel mondo, ma quella di guadagnare denaro facendolo. Il carico fiscale, il costo dell’energia, la burocrazia e gli interessi sui forti debiti bancari erodono sempre più il margine operativo lordo. Nell’alimentare è caduto del 6%, nel farmaceutico del 10%, nel tessile e abbigliamento del 37%. Meglio solo la meccanica dove sale al 2,7% del fatturato, anche e resta ridotto quasi all’osso. Non stupisce che in praticamente tutti i settori industriali italiani (meno l’abbigliamento) gli investimenti calino in proporzione al fatturato persino rispetto al nadir del 2009. In sostanza le aziende industriali d’Italia, il Paese che si gloria di essere il secondo produttore manifatturiero d’Europa dopo la Germania, non guadagnano abbastanza per preparare il loro futuro. I loro concorrenti esteri investono di più.

Per capirlo la Roland Berger ha esaminato un campione di 590 imprese italiane con un fatturato di più di 200 milioni di euro (di queste, circa due terzi sono manifatturiere). Vengono fuori le differenze con le loro avversarie nel resto d’Europa. Nel made in Italy tra aziende su quattro vedono nelle banche le loro fonti di finanziamento più importanti (in Europa solo la metà), eppure il credito allo sportello è in continuo calo e non dà segnali di inversione. Significa che il mondo produttivo non può più andare avanti come prima e forse è alla vigilia di una svolta. «Le imprese devono aprirsi al capitale da nuove fonti e di conseguenza cambiare la loro struttura di controllo» nota Marinoni. Se possibile, senza continuare a pagare il pedaggio alla municipalizzate.

Giro di vite su Regioni, Comuni e stipendi

Giro di vite su Regioni, Comuni e stipendi

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

La prudenza. La necessità di non incattivire i rapporti con le Regioni mentre si ammorbidisce il Titolo V della Costituzione. O la voglia di non farsi altri nemici. Di ragioni per giustificare che il rapporto sui costi della politica sia in un cassetto anziché sul web come vorrebbe Carlo Cottarelli, ce n’è un migliaio: magari plausibili. Ma non accettabili. Non sono ragioni accettabili da un governo che ci ha promesso trasparenza assoluta e annunciato guerra agli sprechi. Anche perché se quella roba non diventa di pubblico dominio è come se non fosse mai esistita.

Ma cosa c’è in quel documento pronto da quattro mesi e ancora misteriosamente ignoto, come ha denunciato ieri con irritazione su questo giornale da Riccardo Puglisi, uno del gruppo di lavoro coordinato da Massimo Bordignon che l’ha curato? Per esempio, il fatto che il problema principale, come molti del resto ormai sostengono, è rappresentato dalle Regioni. Da qui la proposta di allineare il costo degli apparati politici regionali a parametri standard. Il che non significa soltanto gli stipendi degli eletti, ma anche il loro numero e quello del personale che gli ruota intorno, con tutte le spese relative. Garantirebbe un risparmio di almeno 300 milioni l’anno, e sarebbe un’operazione di puro buonsenso. Portata alle conseguenze più radicali potrebbe anche modificare la geografia politica. Un esempio? Secondo il rapporto la Regione Molise non avrebbe ragione di esistere. Ancora: chi ricopre un incarico pubblico ed elettivo non può avere uno stipendio e una pensione o un vitalizio, o magari addirittura due, come non raramente capita. Il tutto accompagnato anche da un articolato di legge bell’e pronto messo a punto con la collaborazione del predecessore del commissario alla spending review Cottarelli, Piero Giarda.

Il gruppo di lavoro incaricato di mettere a nudo gli aspetti più delicati (e scabrosi) di un sistema impazzito segnala circostanze incresciose nelle quali sono state rifiutate loro le informazioni. Il che tuttavia non ha impedito di scoprire come in molti casi norme moralizzatrici quali quelle del decreto Monti del 2012 sono state aggirate con autentiche furbate che hanno limitato la riduzione dei consiglieri prevista dalla legge, fatto rientrare dalla finestra spese uscite dalla porta, vanificato l’innalzamento dell’età pensionabile. Un fatto, quest’ultimo, clamoroso: Monti aveva previsto che dal 2012 in poi nessun consigliere regionale avrebbe più intascato il vitalizio prima di 66 anni, e ancora oggi alla Regione Lazio è invece possibile incassarlo a 50 grazie alla sopravvivenza delle vecchie regole. Per non parlare della Sardegna, dove l’ex presidente dell’assemblea regionale Claudia Lombardo, di Forza Italia, percepisce da pochi mesi un vitalizio da 5.129 euro all’età di 41 anni.

Il rapporto scomparso non risparmierebbe nemmeno i Comuni (un mondo da cui proviene il premier Matteo Renzi e alcuni dei suoi collaboratori più stretti a cominciare da Graziano Delrio) per i quali stima un minore esborso annuale di qualche centinaio di milioni grazie a una rigorosa politica di accorpamenti per quelli al di sotto dei 5 mila abitanti, i quali assorbono il 54 per cento della classe politica locale. Numerosissima, stando ai dati contenuti nella relazione della Corte dei conti sul rendiconto dello Stato, pubblicata qualche settimana fa. I politici comunali sono 138.834: uno ogni 427 cittadini italiani. Tanti. Troppi, anche se il loro costo unitario non è paragonabile a quello delle altre istituzioni. Con qualche significativa eccezione. Il documento cita il caso del Trentino Alto Adige, per sostenere la necessità, anche qui, di allineare gli esorbitanti stipendi dei suoi sindaci a quelli del resto d’Italia: considerando che il primo cittadino di Merano guadagna 3 mila euro al mese più di quello di Milano, città 35 volte più popolosa.

Per la Corte dei conti gli apparati politici comunali costano 1,7 miliardi l’anno, contro il miliardo e mezzo circa di Camera e Senato, che hanno 945 onorevoli più i senatori a vita, e il miliardo delle Regioni, dove si contano 1.270 fra eletti e assessori. Solo per pagare stipendi e pensioni di deputati e senatori si sono spesi nel 2013 ben 447 milioni, con un aumento di 8 milioni sul 2012. Ciò esclusivamente a causa della crescita della spesa per i vitalizi, pari ormai a metà del totale (220 milioni). Compresi gli europarlamentari e gli apparati provinciali, i politici italiani sono in tutto 145.591. Uno ogni 407 residenti nel nostro Paese. Il che la dice lunga sul peso della politica in Italia. I magistrati contabili riconoscono che nonostante l’aumento dei vitalizi le spese di Camera e Senato nel 2013 si sono ridotte rispettivamente del 5 e del 4 per cento. Inoltre il taglio dei vertiginosi stipendi del personale delle due Camere (arrivati a superare la media per dipendente di 150 mila euro l’anno) sarebbe ormai avviato. Mentre mancano pochi giorni alla rescissione dei costosissimi affitti dei palazzi Marini dell’immobiliarista Sergio Scarpellini, resa possibile da una legge voluta dal Movimento 5 stelle, che farebbero risparmiare a Montecitorio fra 32 e 37 milioni l’anno. Al netto s’intende, delle inevitabili cause giudiziarie che saranno intentate contro questa decisione. Vedremo. L’impressione è che per allineare davvero le uscite di Camera e Senato a quelle degli organismi equiparabili di altri Paesi la strada sia ancora lunga e insidiosa.

E se «il costo relativo al 2013» del Quirinale è stato di 228 milioni di euro, cioè «pari a quanto speso l’anno precedente», la Corte dei conti non manca di sottolineare che nel 2013 la presidenza del Consiglio ci è costata 458 milioni, con un aumento dell’11 per cento, e che gli apparati politici dei ministeri «hanno comportato una spesa di oltre 200 milioni». Le sforbiciatine saranno state dunque volenterose, ma di sicuro non sufficienti considerando la mole delle uscite delle sole strutture politiche istituzionali: 6 miliardi. Lo scorso anno le quelle centrali (Camera, Senato, Quirinale, Palazzo Chigi…) sono costate circa 3 miliardi, con un calo del 4 per cento sul 2012. Altri 3 miliardi sono stati spesi per mantenere quelle locali, giunte e consigli di Regioni, Province e Comuni: in flessione, secondo i magistrati contabili, del 5 per cento. Troppo poco, dopo un’indigestione di quella portata. I costi della politica «rappresentano una voce di spesa significativamente maggiore rispetto a quella sostenuta nei paesi demograficamente confrontabili con l’Italia, quali Germania, la Francia, la Gran Bretagna, la Spagna. Ne consegue l’esigenza, non ulteriormente procrastinabile, di un’adozione di misure contenutive coerenti», conclude la Corte dei conti. Senza citare, per carità di patria, l’indotto. Innanzitutto quello dei partiti: sul quale si è fatta fin troppa melina. Tanto per dirne una, aspettiamo ancora la famosa legge attuativa dell’articolo 49 della Costituzione, quella che dovrebbe regolamentare dopo quasi settant’anni natura e funzioni dei partiti. E la legge che ha riformato il finanziamento pubblico continua a suscitare perplessità. Non a caso quel rapporto svanito propone di anticipare l’abolizione dei rimborsi elettorali…