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Conquistateci tutti!

Conquistateci tutti!

Marco Valerio Lo Prete – Il Foglio

«Il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia per tutto il globo terrestre. (…) Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutit i paesi. Con gran dispiacere dei reazionari, ha tolto all’industria la base nazionale». Tutto vero, solo che con gran dispiacere dello stesso Karl Marx – che questo scriveva nel 1848 – la “presa di coscienza del proletariato” non ha distrutto l’economia di mercato. Resta dunque intatto, a quasi due secoli di distanza, l’effetto trasformativo del capitalismo globalizzato, magistralmente descritto dal filosofo di Treviri, e restano gli annessi sentimenti e le resistenze di stampo “reazionario”. Lo dimostra, periodicamente, l’atteggiamento allarmistico di pezzi dell’establishment e della stampa nazionale di fronte agli investimenti esteri in Italia. Gli emiratini di Etihad mettono sul piatto 1,2 miliardi (tra capitale e investimenti) per resuscitare Alitalia, compagnia di bandiera ridotta prima a carrozzone pubblico e poi di nuovo tramortita dalla gestione privata dei “capitani coraggiosi” col passaporto italiano? Allora ecco che arriva la minaccia di veto della Cgil che non accetta esuberi di sorta (980 su oltre 12mila dipendenti) dettati dal conquistatore straniero. La scorsa settimana Indesit, azienda di elettrodomestici, viene acquistata dalla statunitense Whirlpool? Apriti cielo, ecco pronta da pubblicare la lista dei marchi che “scappano” all’estero. Al punto che il presidente del Consiglio Matteo Renzi, steccando rispetto al coro lagnoso, ha detto al Corriere della Sera: «La considero un’operazione fantastica. Perché non si attraggono gli investimenti e poi si grida “al lupo”, riscoprendo un’autarchica visione del mondo che pensavamo superata».

I “reazionari” però insistono. Perché gli investimenti esteri, escludendo i casi in cui assumono le sembianze della cannibalizzazione utile solo a preservare monopoli altrui, hanno conseguenze perfino più profonde e innovatrici di quelle solitamente messe in conto, cioè Pil e posti di lavoro aggiuntivi. Che pure, in un paese a crescita anemica e col debito pubblico in aumento – ieri è stato raggiunto il record di 2.166,20 miliardi – non sarebbe poca cosa. Gli investitori esteri, in Italia, spesso portano infatti con sé sistemi produttivi più efficienti della media nazionale, modalità di gestione d’azienda che fanno più volentieri ricorso al capitale proprio e generano maggiore redditività, per non dire dello svecchiamento delle relazioni industriali. Capitalismo e concorrenza, dunque, fuori da certi canoni cui una parte del mondo produttivo italiano si è abituata.

«Dell’investimento estero tendiamo a offrire sempre e comunque un’immagine catastrofica – dice al Foglio Giorgio Barba Navaretti, ordinario di Economia politica all’Università degli Studi di Milano, autore per il Mulino di “Fiat Chrysler Automobiles – Così guardiamo con sospetto sia la Fiat che si espande all’estero e diventa Fiat-Chrysler, sia l’italiana Indesit che viene comprata dall’americana Whirpool». Fenomeno curioso che secondo Navaretti è dovuto al fatto che «non abbiamo un’idea chiara di cosa voglia dire “competere” oggi. Diventare globali, infatti, è parte di un processo ormai normale. Piuttosto dovremmo ragionare sul fatto che le nostre aziende, per una struttura di governance che non riesce a trasformarsi da “familiare” a “manageriale”, faticano a espandersi e quindi a emanciparsi per esempio dal solo capitale bancario. Perciò tendiamo ad avere più “prede” che “predatori”».

C’era da attenderselo, in un paese che è al 65° posto su 189 nella classifica mondiale in quanto a facilità di fare impresa. Meglio di noi Spagna (52° posto), Francia (38°) e Germania (21°). Tra inefficienza del sistema giudiziario, fisco laborioso e asfissiante, burocrazia onnipervasiva gli autoctoni barcollano, figurarsi col fardello aggiuntivo della cattiva congiuntura. Gli stranieri, al netto di occasioni troppo ghiotte per rifiutarle, si tengono alla larga: comprano titoli di Stato se Mario Draghi garantisce «whatever it takes», ma poi negli ultimi vent’anni indirizzano nel nostro paese soltanto l’1,6 per cento di tutti gli investimenti esteri realizzati nel mondo, contro il 3,5 per cento della Spagna e il 5,5 per cento della Francia. E noi, quando gli investitori esteri ci sono, come li accogliamo? «Come fossero delle sanguisughe che nel migliore dei casi succhiano il nostro sangue per pagare all’estero meno tasse sugli utili», dice al Foglio l’economista industriale Riccardo Gallo. Idea sbagliata, spiega, perché «i dati raccolti da Mediobanca su un campione rappresentativo delle medie e grandi imprese a controllo estero presenti nel nostro paese dimostrano che queste imprese creano più valore aggiunto delle italiane, hanno nell’insieme una redditività positiva, hanno pagato oltre 40 miliardi di tasse negli ultimi 10 anni e continuano a rischiare più capitale proprio di quanto non facciano le concorrenti italiane. Altro che sanguisughe». E poi «basta con questo senso di avvilimento!» esclama Gallo. «È datata la visione delle multinazionali straniere che si contrappongono alle microimprese italiane. Il processo produttivo è diventato davvero globale. Oggi dunque anche una microimpresa italiana, se primeggia nel suo campo, si può aggiudicare un anello di una lunga catena di montaggio».

Nelle scorse settimane Paolo Ciocca, economista di Bnl-Bnp Paribas, ha pubblicato una ricerca sulle 13.527 imprese a controllo estero residenti al 2011 in Italia (escludendo attività finanziarie e assicurative). Ha scoperto che hanno una dimensione media maggiore di quelle nazionali: 88,6 addetti contro 3,5. Che ogni loro singolo addetto crea il doppio del valore aggiunto rispetto a un addetto di un’azienda tutta italiana, il 20 per cento in più se il confronto si limita alle medio-grandi. Queste imprese poi investono in media il doppio di quelle a controllo italiano, anche in ricerca e sviluppo. Più produttività e più ricerca, nemmeno a dirlo, generano in media una redditività maggiore. Obiettivo perseguito perfino a costo di scuotere la foresta pietrificata delle relazioni industriali. «C’è il caso di Ducati che, una volta acquisita dai tedeschi, ha importato un modello più partecipativo di relazioni coi sindacati, ma anche di maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro – dice al Foglio Paolo Tomassetti, ricercatore di Adapt. E c’è il caso di Fiat che, uscendo dal contratto collettivo nazionale del settore metalmeccanico in occasione della fusione con Chrysler, ha spinto tutto l’indotto ad adeguarsi alle nuove esigenze». Nello svecchiamento delle relazioni industriali di stampo concertativo tra sindacati e Confindustria, dunque, «un effetto emulazione rispetto agli investitori esteri è sicuramente possibile». Difficile stupirsi, in definitiva, se di fronte al borghese col passaporto straniero s’ode solo la lagna dei “reazionari”.

Pagamenti alle imprese e bot, debito pubblico al nuovo record

Pagamenti alle imprese e bot, debito pubblico al nuovo record

Stefania Tamburello – Corriere della Sera

Ancora un record per il debito pubblico, che è un primatista eccezionale. Recede raramente e va sempre avanti: in maggio, secondo i dati della Banca d’Italia, è cresciuto di 20 miliardi arrivando a toccare i 2.166,3 miliardi. Una cifra altissima. Toccò la cifra di un miliardo di lire nel 1948 e dieci anni fa, a maggio del 2004, era a 1.471,804 miliardi di euro.

Fatte le riflessioni sulla pesantezza dei numeri, si deve osservare che i record, mese dopo mese, non devono sorprendere perché nella sostanza il debito si accresce perché le entrate dello Stato continuano ad essere inferiori alle sue spese facendo emergere un fabbisogno da finanziare. I titoli che lo Stato emette per raccogliere le risorse di cui ha bisogno rappresentano circa l’83% del debito e producono a loro volta interessi da pagare a chi li ha comprati che incidono sul bilancio e quindi finiscono per produrre altro debito.

In secondo luogo il dato più significativo per capire quanto il debito limiti l’azione di uno Stato è il suo rapporto con il Prodotto interno lordo che in Italia, vista la stagnazione seguita all’uscita dalla recessione, è molto alto, superiore al 132%. È questa percentuale, non il valore in assoluto, che fa dell’Italia, agli occhi degli investitori, un Paese a rischio, perché il reddito che produce non sarebbe in grado di far fronte ai debiti.
Di positivo c’è il fatto che l’Italia è un ottimo pagatore e che, se si esclude il periodo nero a cavallo tra il 2011 e il 2012, ha sempre goduto della fiducia degli investitori istituzionali e non ha problemi a collocare i suoi titoli sul mercato a costi che negli anni sono comunque diminuiti.
Come dice il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, «la via maestra per ridurre il debito è solo una crescita sostenuta». Per il resto, a meno di operazioni straordinarie finora solo immaginate, la strada per farlo calare passa necessariamente per avanzi primari di bilancio crescenti e quindi con una riduzione del fabbisogno e delle spese correnti, visto che le entrate – vedi le tasse – sono ai massimi e a loro volta frenano la crescita. Ieri la Banca d’Italia ha diffuso anche il dato sulle entrate tributarie, pari in maggio a 31 miliardi, in aumento del 2,9% rispetto allo stesso mese del 2013. Nei primi cinque mesi dell’anno le entrate sono invece cresciute dell’1,6% (2,2 miliardi).
Ogni italiano, quando nasce, ha già circa 30 mila euro di debiti. Ma chi ne è responsabile? In maggio, spiega il comunicato di Bankitalia, il debito è aumentato di 20 miliardi: l’incremento riflette per 5,5 miliardi il fabbisogno delle amministrazioni pubbliche e per 14,9 miliardi l’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro, pari a 92,3 miliardi contro i 62,4 miliardi di maggio 2013, che sono in pratica il cuscinetto di risorse che il ministero utilizza per le necessità correnti. In particolare, approfittando del buon andamento dei tassi di interesse dei primi mesi dell’anno, il Tesoro, spiegano a Via Venti settembre, ha fatto pre-funding, ha collocato cioè più titoli di quanto avesse bisogno per poter affrontare con tranquillità le più pesanti scadenze della seconda metà dell’anno. Ha messo insomma fieno in cascina per il periodo di maggior bisogno,approfittando delle condizioni favorevoli di approvvigionamento, sintetizzabili in un unico dato. Il costo medio dell’emissione dei titoli nei primi mesi del 2014 è stato pari all’1,58%, il minimo storico per l’Italia. Non per nulla la gestione dei titoli aggiunta agli effetti dell’apprezzamento dell’euro hanno contenuto l’incremento del debito per 0,4 miliardi.
Questo aumento di 20 miliardi, dice ancora il comunicato dell’Istituto di via Nazionale, è il risultato di un aumento di 20,9 miliardi del debito delle amministrazioni centrali e di una diminuzione di 0,9 miliardi di quello delle amministrazioni locali, con l’invarianza di quello degli enti previdenziali. Ma al di là della distribuzione tra centro e periferia, sul debito incidono – e la cosa è visibile nei dati definitivi del 2013 – anche il programma dei pagamenti dei crediti della Pubblica amministrazione alle imprese e la partecipazione dell’Italia ai piani di sostegno dei Paesi europei in difficoltà.

L’anno scorso, infatti, il fabbisogno pubblico da finanziare è stato pari a 78,8 miliardi a fronte di 74,2 miliardi nel 2012. Su quella cifra, però, hanno inciso le risorse destinate al sostegno finanziario dei Paesi dell’Eurozona in difficoltà, pari a 13 miliardi (erano stati 29,5 nel 2012 e 60 miliardi dal 2010 ad oggi), e i fondi per accelerare il pagamento dei debiti commerciali delle Pubbliche amministrazioni e dei rimborsi fiscali, pari a 21,6 miliardi, ma che dovrebbero arrivare a 40 miliardi entro il 2014. Interventi e cifre, questi, che hanno dunque appesantito il fabbisogno da finanziare e quindi il debito, anche se quest’ultimo, vista la sua ampiezza, sembra poter camminare da solo. Nel Documento d’economia e finanza il governo ha previsto che il rapporto debito-Pil, pari nel 2013 al 132,6% (al 129,1% al netto del sostegno finanziario ai Paesi europei), salga nel 2014 al 134,9% proprio, prevalentemente, per effetto dell’accelerazione del pagamento dei debiti commerciali delle Amministrazioni pubbliche. Guardando al numero assoluto del debito, l’83% è rappresentato da titoli di Stato che per circa il 30% sono detenuti da soggetti stranieri, o comunque non residenti in Italia. In giugno il 65,73% dei titoli in circolazione, con una vita media residua di 6,33 anni, erano Btp, seguiti lontanissimo, con il 7,85%, dai Bot.

Lo stato ci riprova: mette in vendita palazzi ed ex conventi

Lo stato ci riprova: mette in vendita palazzi ed ex conventi

Andrea Ducci – Corriere della Sera

All’Agenzia del Demanio lo considerano un banco di prova. Il tentativo di prendere il polso al mercato immobiliare per riavviare le annunciate dismissioni di palazzi e terreni pubblici, incontrando, finalmente, l’interesse di investitori e operatori del real estate. Così, l’Agenzia, guidata da Stefano Scalera, annuncia un nuovo bando per piazzare 15 immobili di Stato con l’obiettivo di incassare almeno 11 milioni di euro. L’operazione non è nuova e sottopone al mercato un elenco di beni in parte già noti agli addetti ai lavori. Ma tant’è. L’importante è rimescolare le carte e portare a casa più soldi possibile. A ricordarlo è la legge di Stabilità del 2014, che indica un gettito derivante dalle dismissioni pubbliche di almeno 500 milioni di euro all’anno. Allo stato attuale un mezzo miraggio.

Per avvicinarsi all’obiettivo il primo lotto di immobili resterà in offerta fino al 29 settembre. All’interno del pacchetto c’è un po’ di tutto e per tutte le tasche: appartamenti, uffici, palazzetti storici, ex conventi, terreni ed ex aree militari. Il pezzo più a buon mercato è una ex caserma a Triora (Imperia), per un paio di fabbricati e il terreno annesso la base d’asta è 430 mila euro. Per poco di più (494 mila euro) è possibile presentare un’offerta per un edificio intero (15 appartamenti) in una zona centrale di Trieste. L’immobile più costoso inserito nel bando è nella periferia sud di Verona, vicino alla zona artigianale. Nel dettaglio, si tratta di un’area di 3 mila metri e di un capannone con un valore di base d’asta fissato a 1,42 milioni. In Veneto si trova anche l’ex base missilistica di Ceneselli (Rovigo), chi acquista dovrà farsi carico della bonifica dei terreni e della rimozione dei beni mobili abbandonati dai militari sul terreno. In totale l’area è grande poco più di 8 ettari e comprende 42 fabbricati. Il prezzo di partenza per aggiudicarselo è 1,35 milioni.
Al Demanio, vista la taglia e la tipologia degli immobili, confidano molto sul mercato retail puntando sul pregio storico architettonico di alcuni beni. A Firenze e a Spoleto, per esempio, finiscono in asta due palazzine ad uso ufficio mentre a Caravaggio (Bergamo) è prevista la vendita all’incanto dell’ex Casa del Fascio (tre piani per un totale di oltre 1.200 metri di superficie). Un capitolo a sé fa l’elenco degli immobili inseriti nel progetto Valore Paese Dimore. L’intento dell’operazione è valorizzare castelli, conventi e strutture di pregio creando un modello integrato di ospitalità e attività culturali con la collaborazione delle amministrazioni locali. Non a caso il progetto, oltre al Demanio, vede coinvolti Invitalia, Anci (Associazione dei comuni), Ministero dei beni Culturali e Cassa Depositi e Prestiti.

In tutto sono circa 200 gli immobili individuati e inseriti nel portafoglio del progetto Valore Paese Dimore. Il valore aggiunto agli occhi degli investitori dovrebbe essere il corredo di «strumenti tecnici normativi e finanziari» riservato a questo genere di beni. Tradotto, vuol dire un percorso agevolato per la conversione in strutture turistiche e ricettive. È quanto previsto per il Forte Pianelloni (850 mila euro) a Lerici (La Spezia), un’ex fortificazione con tanto di terreni e antica cinta muraria, Casa Nappi (511 mila euro), un palazzetto storico nei pressi del santuario mariano di Loreto (Ancona), e l’ex convento seicentesco di S. Domenico (921 mila euro) nella città vecchia di Taranto. Nel caso di questi due ultimi immobili, però, qualcosa non ha funzionato. Tornano in asta dopo essere rimasti invenduti in occasione dei precedenti bandi.

Il debito pubblico vola a 2.166 miliardi

Il debito pubblico vola a 2.166 miliardi

Il Sole 24 Ore

Non sembra avere limiti il debito pubblico italiano. A fine maggio, secondo i dati pubblicati ieri dalla Banca d’Italia, il disavanzo ha raggiunto il nuovo record storico a 2.166 miliardi di euro, 20 miliardi in più rispetto al mese precedente. L’incremento, sempre in base a quanto riportato nel supplemento al Bollettino Statistico “Finanza pubblica, fabbisogno e debito”, riflette per 5,5 miliardi il fabbisogno delle Amministrazioni pubbliche e per 14,9 miliardi l’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro (pari a fine maggio a 92,3 miliardi e 62,4 miliardi a maggio 2013).

Nel dettaglio, e con riferimento alla ripartizione per sottosettori, il debito delle Amministrazioni centrali è aumentato di 20,9 miliardi, quello delle Amministrazioni locali è diminuito di 0,9 miliardi, mentre il debito degli Enti di previdenza è rimasto sostanzialmente invariato.

Il bilancio complessivo avrebbe potuto essere anche leggermente peggiore, perché l’emissione di titoli sopra la pari, l’apprezzamento dell’euro e gli effetti della rivalutazione dei BTp indicizzati all’inflazione (BTp-i) hanno contenuto l’incremento del debito per 0,4 miliardi.

Interessante l’analisi dello spaccato dei possessori dei titoli di Stato italiani, visto che ad aprile la quota in mano agli investitori non residenti è cresciuta a 671 miliardi di euro rispetto ai 655 del mese precedente: un’altra dimostrazione del ritorno di interesse dei fondi internazionali per i BTp di casa nostra.

Sugli stati un macigno da 100mila miliardi ma il debito pubblico può essere abbattuto

Sugli stati un macigno da 100mila miliardi ma il debito pubblico può essere abbattuto

Giovanni Marabelli – Affari&Finanza

Centomila miliardi di dollari. Una montagna immensa che sovrasta e domina le economie dei continenti. E, in molti casi, imbriglia governi e cittadini, condizionandone politiche pubbliche e scelte private. A calcolare l’entità di questo moloch è la Bri (Banca dei regolamenti internazionali), la più antica istituzione finanziaria globale, che cerca di far cooperare 57 banche centrali. Nei sette anni di crisi il debito pubblico mondiale è aumentato di oltre il 40%, salendo dai circa 70 miliardi di dollari nel 2007 ai 100mila miliardi dello scorso dicembre. E mentre la montagna si gonfiava la produzione calava, facendo impennare il rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo, che possiede un valore vincolante solo nell’Eurozona ma rappresenta un significativo indicatore finanziario. Tra il 2007 e il 2013 in Italia è schizzato dal 104 al 127%, nella Ue dal 42 al 70% e negli Usa dal 55,6 al 93,8%. In complesso, il debito pubblico mondiale vale una volta e mezza il Pil planetario. A farlo lievitare sarebbero state, secondo la Bri, proprie le politiche dei governi mondiali, intenti a salvare il sistema finanziario dal crac. Basta prendere come esempio gli Stati Uniti, dove la crisi è scoppiata, il cui debito è passato da 4,5 a 12 miliardi.

Ma esistono esempi virtuosi di Paesi che, invece, hanno aggredito e ridotto l’entità del debito pubblico nonostante la crisi? E, in alternativa, si può convivere senza traumi con questo moloch? Esemplare viene ritenuto da molti osservatori il caso del Belgio. In meno di 15 anni Bruxelles è riuscita a portare il proprio debito dal 140 all’84% del Pil nonostante i crescenti problemi politici, il rischio di uno smembramento del Paese, un anno e mezzo trascorso con un governo senza maggioranza in attesa di formarne un altro legittimato dal voto parlamentare. Nel 1995 il Belgio riconobbe come prioritario il problema del debito pubblico. Fu creato un fondo unico per governare centralmente e razionalizzare le spese sociali, decimando sprechi e doppioni. Formato un organo di controllo (Consiglio superiore della finanza) con pieni poteri sulla spesa pubblica, anche locale, che fu congelata a favore di soluzioni a costo zero. Varati piani di tagli alle spese burocratiche e amministrative. E i risultati si sono visti.

Più controverso è il caso dell’Islanda, che in parte ha ripudiato il debito pubblico. In realtà, dopo la nazionalizzazione del sistema bancario tramite una consultazione popolare, Reykjavik si è rifiutata di riconoscere quella parte (consistente in rapporto al suo Pil) di debito pubblico che si era accollata attraverso il fallimento di una banca privata controllata da investitori esteri. E le autorità europee, in prima istanza, hanno dato ragione all’Islanda perché il riconoscimento fino a 100mila euro pro capite ai correntisti di una banca fallita sarebbe stato introdotto in Europa dopo che Reykjavik aveva nazionalizzato gli istituti di credito dell’isola mentre in precedenza la normativa islandese non riconosceva questo indennizzo.

Diverso è il caso della convivenza con elevate quantità, relative al Pil e/o assolute, di debito pubblico. L’indipendenza tra banca centrale e governo, che nell’Eurozona è vincolante ed espressamente prevista dai Trattati, in pratica non la permette. In Italia, dove vige dal 1981, molto prima che negli altri Paesi dell’Eurozona, in compenso questa indipendenza ha contribuito all’impennata dei tassi e al pagamento di tre miliardi di interessi in meno di 35 anni. Altrove, dagli Usa al Giappone passando per il Regno Unito e la Svizzera, il rapporto è più collaborativo in quanto la banca centrale ha la possibilità di stampare moneta per acquistare il debito pubblico emesso dal Tesoro, come accadeva anche in Italia fino al 1981.

Il Giappone, nonostante il suo debito pubblico astronomico, rimane una delle primissime economie del mondo e addirittura può permettersi di finanziare il debito pubblico americano appunto perché la Banca centrale può stampare moneta per acquistare debito pubblico e perché il debito pubblico è quasi interamente in portafoglio a investitori nipponici. Questo permette di non essere tecnicamente attaccabili dalla speculazione straniera,, riuscendo quindi a tenere sotto controllo i tassi d’interesse e di alimentare un circuito di finanziamento interno. Quanto all’inflazione, incubo ricorrente per la Banca centrale europea, il Giappone dimostra che non è un rischio per chi stampa moneta allo scopo di acquistare debito pubblico. E il caso degli Usa dimostra che non fa schizzare prezzi e tariffe nemmeno stampare moneta per facilitare i consumi. Ma questa è un’altra storia. Casomai su Tokio incombono altri rischi: la demografia (il debito pubblico è nel portafoglio di pensionati o pensionandi che potrebbero decidere di volerne vendere una parte per mantenere il proprio tenore di vita) e la scarsa liquidità a disposizione degli investimenti.

Il modello americano è un caso a parte. Gli Usa hanno beneficiato per anni del ruolo del dollaro come moneta di riferimento mondiale, dopo il disancoramento all’oro, e della propria potenza politico-militare. Da alcuni lustri a questa parte è la co-dipendenza, mutualmente vantaggiosa, con la Cina a permettere il crescente indebitamento pubblico americano. Perché la Cina continua a finanziare gli Usa? Lo ha spiegato efficacemente l’economista Stephen S. Roach sr. La Cina ha riciclato il 60% della sua eccedenza valutaria di esportatore globale nel debito pubblico federale prima di tutto per limitare l’apprezzamento della sua moneta, il renminbi, che metterebbe a repentaglio competitività e crescita basata sulle esportazioni. Fino a quando Pechino baserà il proprio sviluppo sull’export, l’equilibrio dovrebbe mantenersi costante. In caso contrario, gli Usa e il mondo si troverebbero di fronte a una incognita di non poco conto.

Burocrazia ammazza imprese: 12mila euro l’anno in scartoffie

Burocrazia ammazza imprese: 12mila euro l’anno in scartoffie

Fabrizio Ravoni – Il Giornale

Un mese di lavoro per correre dietro alle scartoffie. Per rispettare gli impegni burocratici e fiscali, una piccola e media impresa dedica 30 giorni lavorativi all’anno. Ed una spesa media che oscilla fra i 7mila e i 12mila euro. E chi paga di più sono proprio le aziende di più piccole dimensioni: quelle sotto i 50 dipendenti. Per questo tipo di aziende il costo è cresciuto del 19% negli ultimi 7 anni. Per quelle con meno di 250 occupati la spesa stimata è di 7mila euro. Nel complesso, la “mano morta” della burocrazia comporta un costo complessivo a carico delle piccole e medie imprese calcolato in 31 miliardi di euro. Rispetto al 2007 la crescita del tempo dedicato a sbrigare il carico burocratico è aumentato del 26,4%. Le stime vengono dalla Cgia di Mestre. «Si pensi – spiega Giuseppe Bortolussi – che, secondo l’indagine annuale Promo Pa Fondazione, l’81% delle imprese con meno di 50 addetti è costretto a rincorrere a consulenti esterni per fronteggiare questo nemico invisibile: ovvero la cattiva burocrazia». Il 70% delle imprese deve ricorrere a professionalità esterne ad integrazione degli uffici amministrativi, e l’11% affida a terzi tutte le incombenze. «È evidente – commenta il presidente della Cgia di Mestre – che se non si mette immediatamente mano a quel labirinto di leggi, decreti e circolari varie che rendono la vita impossibile a milioni di piccoli imprenditori, corriamo il pericolo di soffocare la parte più importante della nostra economia».

La burocrazia, comunque, non colpisce soltanto le aziende ma anche i cittadini che, quotidianamente devono affrontare la fila allo sportello. Sempre la Cgia di Mestre segnala che negli ultimi 10 anni il numero di persone che attendono più di 20 minuti agli sportelli dell’ufficio anagrafe è cresciuto del 43,7%. Infatti, nel 2003 12,6 persone su 100 lamentavano tempi di attesa superiori ai 20 minuti: 10 anni dopo la coda all’anagrafe è arrivata a durare più di 20 minuti per ben 18,1 persone su 100. La soglia dei venti minuti, poi, colpisce anche il pianeta della Sanità. Se nel 2003 ben 41 persone su 100 avevano riscontrato un’attesa allo sportello dell’Asl superiore ai venti minuti, dieci anni dopo la fila si è idealmente “allungata” di 8 persone. In altre persone, nel 2013 ben 49,7 persone su 100 hanno denunciato di aver atteso più di 20 minuti di fronte agli sportelli delle aziende sanitarie locali. Condizione drammatica nel Centro Sud. La Calabria guida la graduatoria dei cittadini che restano più tempo davanti a uno sportello della Asl. Il 70% dichiara di aver atteso oltre i 20 minuti. Così come il 66,6 per cento dei siciliani e il 62,5 per cento degli abitanti del Lazio. Per le code all’anagrafe, invece, la graduatoria si ribalta. E i laziali guidano la non certo invidiabile classifica. Il 38,5% dichiara di aver atteso più di 20 minuti per un certificato. Seguono i toscani con il 22,3%. Al terzo posto i sardi. Negli ultimi dieci anni la situazione, ancorché migliorare (grazie a una più diffusa informatizzazione della pubblica amministrazione) è peggiorata. Tant’é che la percentuale di chi segnala lunghe file allo sportello è più che raddoppiata (+112;4%). «I cittadini e le piccole imprese per ottenere un certificato sono ormai sottoposti ad una vera e propria Via Crucis» commenta Bortolussi. «Per colpa – sottolinea – di leggi, decreti e circolari scriteriate e spesso in contraddizioni tra loro è aumentata la burocrazia; complicando la vita dei cittadini e, in molti casi, anche quella dei dipendenti pubblici».

Conventi e isole all’asta, ora il demanio ci riprova

Conventi e isole all’asta, ora il demanio ci riprova

Mario Sensini – Corriere della Sera

Una base d’asta per ciascun immobile, offerte segrete e vincolanti, non solo online, e tempi lunghi per la loro presentazione, con il bando che resterà aperto almeno fino a tutto agosto. “Recepite” le indicazioni del mercato e soprattutto degli operatori internazionali, che non hanno gradito la mancanza del prezzo base nelle precedenti aste, l’Agenzia del Demanio rimette in vendita cinque grandi complessi immobiliari che a marzo non avevano trovato acquirenti, insieme (sul mercato torneranno l’isola veneziana di Poveglia, il convento di San Domenico a Taranto, Casa Nappi a Loreto, il Castello di Gradisca) e altri dieci grandi proprietà, con una base d’asta che va da un minimo di 400mila euro ad un massimo di 1,5 milioni. La nuova asta, la cui data non è ancora fissata, sarà un test fondamentale per l’Agenzia del Demanio, che aveva in programma la dismissione entro quest’anno di almeno 50 grandi complessi immobiliari, ma l’operazione non è decollata. Nel 2014, con il meccanismo delle aste, ne è stato ceduto solo uno, un vecchio ospedale a Trieste, per 610mila euro. Tutti gli altri sono rimasti invenduti. O perché le offerte erano troppo basse o perché non contenevano le garanzie previste. Certo, la congiuntura del mercato immobiliare non aiuta ma gli obiettivi sono ancora molto lontani. La legge di Stabilità del 2014 varata dal governo Letta prevedeva un incasso di 500 milioni di euro l’anno dalla dismissione degli immobili pubblici. Ospedali, fari, vecchi conventi e soprattutto tantissime caserme distribuite nei centri storici delle città italiane. Quelle dismesse dalle Forze armate sono centinaia ma anche del famoso piano per la loro dismissione ormai da mesi si sono perse le tracce.

Piccole imprese di Spagna e Italia le più colpite dal credit crunch

Piccole imprese di Spagna e Italia le più colpite dal credit crunch

La Stampa

Sono le Pmi di Italia e Spagna le grandi vittime della crisi del debito sovrano che si è abbattuta sull’Europa negli ultimi quattro anni. Lo rivela, o meglio lo conferma, uno studio pubblicato dalla Bce nel suo bollettino mensile di luglio. «L’impatto della crisi del debito sovrano sui finanziamenti e sui bilanci della banche – osserva l’Eurotower – ha probabilmente avuto conseguenze più pesanti sulle aziende più piccole e che dipendono maggiormente dai prestiti bancari e sulla loro attività reale, come mostrato anche dai primi studi empirici effettuati su dati italiani». L’andamento disomogeneo in Europa dei tassi sui prestiti alle imprese non finanziarie, «soprattutto a partire dal 2011, suggerisce considerevoli differenze nei costi di finanziamento delle piccole imprese localizzate in Francia e Germania da una parte, e in Italia e Spagna dall’altra. Simili disparità riflettono probabilmente sia il contesto economico e il rischio sovrano associato sia i rispettivi costi della raccolta delle banche nazionali», spiega la Bce. In particolare, «tra le aziende spagnole e italiane non solo il livello assoluto dei tassi bancari era sostanzialmente più elevato rispetto alle imprese francesi e tedesche ma anche i maggiori premi versati alle Pmi» in termini di interessi bancari «rispetto alle grandi aziende sono aumentati considerevolmente nel 2011 e nel 2012».

La forbice tra piccole e grandi aziende si spiega in due modi: le Pmi si finanziano quasi esclusivamente attraverso prestiti bancari e l’assenza di canali di finanziamento alternativi le rende più vulnerabili; le piccole aziende dipendono dalla domanda interna più delle grandi (che invece riescono a spalmare il rischio su più mercati) e dunque i loro bilanci hanno sofferto maggiormente all’apice della crisi, soprattutto in Paesi come Italia e Spagna. Le Pmi italiane e spagnole insomma si trovano a dover fronteggiare una situazione molto più complicata delle loro concorrenti tedesche e francesi. Oggi per ottenere un credito a breve termine (inferiore a un anno) per un importo superiore al milione di euro una Pmi spagnola paga un tasso d’interesse medio del 5%, una italiana del 4,3%, una tedesca del 3% e una francese del 2,3% circa. La situazione è migliorata solo in minima parte nell’ultimo anno. Il tutto in un contesto congiunturale che stenta a migliorare. I dati negativi della produzione industriale in Italia, Francia e Germania a maggio fanno pensare a una frenata del Pil nell’area euro nel secondo trimestre dopo il già non esaltante +0,2% del primo trimestre. «I rischi geopolitici nonché l’andamento dei Paesi emergenti e nei mercati finanziari mondiali – afferma la Bce – potrebbero influenzare negativamente la condizioni economiche, anche tramite effetti sui prezzi dell’energia e sulla domanda mondiale di beni e servizi provenienti dall’area euro». Secondo l’Eurotower «un altro rischio è connesso a riforme strutturali insufficienti nei Paesi dell’area».

Così la Thatcher ha cambiato verso alla lagna sui “giovani penalizzati”

Così la Thatcher ha cambiato verso alla lagna sui “giovani penalizzati”

Luciano Picone – Il Foglio

Uno Stato leggero e un sistema di mercato non eccessivamente gravato da vincoli di ogni tipo, che premia il merito e non ostacola la concorrenza, favorisce soprattutto i giovani. Un recente studio dell’Office for National Statitics, l’Istat britannico, sui “Salari nel Regno Unito negli ultimi quattro decenni”, mostra con estrema chiarezza gli effetti di lungo periodo sugli stipendi della “rivoluzione liberale”, nel paese che negli anni 80 è stato il laboratorio mondiale della riscossa “neoliberista”. Nell’immaginario collettivo i baby boomers, i nati nel Dopoguerra rappresentano la generazione più fortunata, quella che ha beneficiato della crescita economica e dell’aumento dei consumi, incappando nella Grande depressione soltanto subito prima o subito dopo la pensione. Secondo i dati elaborati dall’ufficio di statistica inglese, le cose non stanno proprio così. Quelli che in Gran Bretagna hanno iniziato a lavorare nel 1975, sotto il governo laburista di Harold Wilson e nell’apogeo dello Stato assistenziale beveridgiano, hanno guadagnato in termini reali molto meno dei loro coetanei che hanno iniziato a lavorare nel 1985 e nel 1995, durante e dopo il ciclone Thatcher. Chi ha trovato la prima occupazione nel 1995 guadagna il 40 per cento in più rispetto ai suoi genitori in 18 anni di lavoro: «Questa differenza di retribuzione – scrive l’Ons – significa che coloro che hanno iniziato a lavorare nel 1975 devono lavorare tre-quattro anni in più di quelli che hanno iniziato a lavorare nel 1985 e 5-6 anni in più di coloro che hanno iniziato a lavorare nel 1995 per accumulare la stessa ricchezza». Sempre al netto dell’inflazione, lo stipendio mediano di un lavoratore del 1975 era di 6,17 sterline l’ora, mentre nel 2013 è di 11,56 sterline, circa il 90 per cento in più. E se nel 1975 lo stipendio più alto nella carriera professionale di una persona era di circa 7 sterline l’ora, la somma è raddoppiata nel 2013. Una tendenza opposta a quella italiana. Nel nostro paese ricchezza e redditi più alti sono appannaggio dei più anziani, mentre scendono le retribuzioni dei più giovani. Secondo la Banca d’Italia, dal 1991 al 2012 il reddito è salito sia per gli over 55 (dal 104 al 122 per cento rispetto alla media generale) che per gli over 65 (dal 95 al 114 per cento), «per le classi di età più giovani, invece, il reddito equivalente diminuisce significativamente rispetto alla media generale: il calo è di circa 15 punti percentuali per le persone fra 19 e 34 anni e di circa 12 punti percentuali per quelli tra 35 e 44 anni». La crisi dell’Eurozona non ha mutato il trend.

Parla l’economista Francesco Daveri

«La realtà è che la crescita dei salari è legata alla produttività, che da noi è rimasta inchiodata», dice al Foglio Francesco Daveri, docente di Economia politica all’Università di Parma, tra gli animatori del sito Lavoce.info dove ha tentato un bilancio della leader conservatrice in campo economico. «I britannici, nonostante una crisi finanziaria che in teoria avrebbero dovuto pagare più di noi, hanno visto crescere costantemente i loro salari. Uno può dire che si tratta di una bolla, ma è una bolla che dura da oltre 30 anni». Per far ripartire la produttività è necessario riformare un sistema incrostato che ostacola la crescita e l’innovazione. «Le Istituzioni contano – prosegue Daveri – e in Italia è più conveniente far parte delle categorie protette, quelle fortemente sindacalizzate, dove si possono far crescere i salari più della produttività ma alla lunga si perdono posti di lavoro». Più o meno la situazione inglese negli anni 70: un’economia fortemente ingessata, condizionata dalle grandi aziende di Stato e dominata dai sindacati. «La Thatcher ha gettato le basi di un sistema di mercato su cui negli anni 90 si è innescata la rivoluzione tecnologica, le sue riforme economiche fatte in anticipo hanno permesso di cogliere le nuove opportunità» dice Daveri. L’Italia si trova in una posizione difficile, con una mobilità del capitale simile a quella americana e inglese ma con istituzioni che corrispondono ad un modello manifatturiero superato, in cui sono contrapposti capitali e lavoro: «Nell’epoca di Internet e dell’Ict abbiamo conservato istituzioni di un’epoca precedente, non adatte a un’economia di servizi. Un modello che pensa di conservare con la baionetta posti di lavoro destinati a scomparire». E la globalizzazione che poteva un’opportunità si sta trasformando in un boomerang. «Ora le obiezioni non sono solo al mercato – conclude Daveri – ma anche alle nuove tecnologie che necessitano del libero mercato. Ma se prevalgono le forze che resistono al cambiamento il rischio è quello di subire solo i lati negativi della globalizzazione».

“Un po’ per cosa e senza studi precisi così in un’ora inventai il limite del 3%”

“Un po’ per cosa e senza studi precisi così in un’ora inventai il limite del 3%”

Anais Ginori – La Repubblica

Si sente in colpa? «Per nulla. Anzi, orgoglioso». L’uomo a cui dobbiamo Finanziarie lacrime e sangue, innumerevoli salassi e i nostri mali europei, è seduto in una brasserie del quinto arroundissement. Si chiama Guy Abeille, meglio conosciuto come “Monsieur 3%” perché rivendica di aver ideato la discussa regola del 3% di deficit sul Pil, croce di tanti governanti dell’Ue. Nessuno conosce il suo nome, tutti conoscono e temono invece la sua invenzione. «Fu una scelta casuale, senza nessun ragionamento scientifico» confessa adesso l’economista matematico di 62 anni. Anche se la Francia è tra i paesi meno rispettosi del limite imposto nel Patto di Stabilità (quest’anno il deficit è al 3,6%), la norma-faro è nata a Parigi otre trent’anni fa. Abeille, oggi in pensione, allora lavorava al ministero delle Finanze.

Come si arriva a questo numero simbolico?

«Quando François Mitterand venne eletto nel 1981scoprimmo che il deficit lasciato da Valery Giscard d’Estaing per l’anno in corso non era di 29 ma di 50 miliardi di franchi. Sembrava anche difficile fermare l’appetito dei nuovi ministri socialisti. Avevamo davanti uno spauracchio: superare 100 miliardi di deficit. Mitterand chiese all’ufficio in cui lavoravo di trovare una regola per bloccare questa deriva».

Perché proprio il 3%?

«Avevamo pensato in termini assoluti di stabilire come soglia massima 100 miliardi di franchi. Ma era un limite inattendibile data l’alta fluttuazione dei cambi e le possibili svalutazioni. Quindi decidemmo di dare il valore relativo rispetto al Prodotto interno lordo che all’epoca era di 3.300 miliardi. Di qui il fatidico 3%. Qualche mese dopo, Mitterand parlò ufficialmente della regola per il controllo dei conti pubblici. La Finanziaria si chiuse con uno squilibrio di 95 miliardi. Ma Laurent Fabius, allora premier, anziché dare la cifra parlò di un deficit pari al 2,6 del Pil. Faceva molta meno impressione. Così è cominciato tutto».

All’inizio era soprattutto uno slogan?

«L’obiettivo principale era trovare una regola semplice, chiara, immediata, per contenere le spese dei ministeri. Ma dovevamo anche farci capire dall’opinione pubblica francese e dai mercati internazionali, non tanto per i tassi di interesse quanto per i rischi della speculazione sulla moneta nazionale. Oggi che esiste l’euro pochi lo ricordano ma all’epoca era quella la minaccia che faceva tremare gli Stati».

Come si è arrivati a farne una regola per gli altri paesi europei?

«La regola aveva funzionato bene negli anni Ottanta: i governi francesi non hanno sfiorato il 3%, tranne nel 1986. È stato Jean-Claude Trichet, allora direttore generale del ministero del Tesoro, a proporre questa norma durante i negoziati per il Trattato di Maastricht. Per paradosso, la Germania ha adottato la norma del 3% di deficit sul Pil fino a farne uno dei punti centrali del Patto di Stabilità. Trovo divertente che questa regola nata quasi per caso e oggi imposta dai tedeschi sia nata proprio in Francia».

Davvero non c’erano grandi teorie economiche dietro al 3%?

«Dovevamo fare in fretta, il 3% è venuto fuori in un’ora, una sera del 1981. Qualche anno dopo ho lasciato il ministero delle Finanze per lavorare nel settore privato. Immaginavo che ci sarebbero stati degli studi più approfonditi. In particolare quando il parametro è stato esteso all’Europa. E invece il 3% rimane ancora oggi intoccabile, come una Trinità. Mi fa pensare a Edmund Hillary che quando gli chiesero perché aveva scalato l’Everest rispose: “Because it’s there”. Da quella sera del 1981 in cui il 3% è uscito fuori un po’ per caso, è diventato parte del paesaggio delle nostre vite. Nessuno più che si domanda perché. Come una montagna da scalare, semplicemente perché è lì».