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Perdite e poltrone, la giungla delle spa locali

Perdite e poltrone, la giungla delle spa locali

Luca Cifoni – Il Messaggero

Latte certo. Ma anche formaggio, prosciutto, carne, pesce, ortaggi, vino. Si trovano più o meno tutte le eccellenze dell’alimentare italiano scorrendo le ragioni sociali delle circa 10mila partecipate degli enti locali. Regioni, Comuni e Province non si occupano solo di fornire servizi pubblici ai propri cittadini ma spaziano in uno spettro di attività amplissimo, invadendo settori che sembrerebbero avere una vocazione più spiccatamente commerciale. Negli ultimi anni il numero delle società (e di riflesso delle poltrone) è cresciuto senza freni, tanto che gli organismi a cui tocca vigilare, come la Corte dei Conti, fanno fatica a stare al passo: con criteri più restrittivi ne hanno censito 7.500, anche statali. Il compito di disboscare è ora affidato al commissario alla revisione della spesa Carlo Cottarelli, che entro fine mese deve fare una proposta al governo.

Il core business dovrebbe essere rappresentato dai cinque servizi pubblici di base: acqua, elettricità, gas, trasporto pubblico locale, rifiuti. In realtà le partecipate che si occupano di queste attività sono solo il 20 per cento, anche se valgono circa la metà del fabbisogno complessivo. Poi ci sono farmacie comunali, terme, case di riposo, enti di promozione turistica, società sportive, di gestione del patrimonio immobiliare, agenzie di viaggio. Circa 320, secondo alcune stime recenti, sono le società il cui obiettivo è produrre beni o servizi la cui natura è senza ombra di dubbio commerciale. Insomma qualcosa che lo Stato, nelle sue propaggini territoriali, farebbe probabilmente bene a lasciare ai privati.

Non è un affare

Di sicuro c’è che il capitalismo locale non è un affare, soprattutto per il contribuente che prima o poi è chiamato in una forma o nell’altra a ripianare le perdite: risulta in perita circa un terzo delle società. A volte in modo clamoroso e incomprensibile. Non ci sono solo le ex municipalizzate delle grandi città: a Oderzo, in provincia di Treviso, la Fondazione Oderzo Cultura evidenziava nel 2012 un valore della produzione di 76.286 euro e un risultato negativo di 413.000. A Busseto in provincia di Parma, terra di Giuseppe Verdi, la Busseto Servizi metteva insieme appena 598 euro di valore della produzione riuscendo ad arrivare a 10mila euro di perdita. A l’Aquila il centro turistico del Gran Sasso era in rosso di oltre un milione e mezzo su una produzione di circa 1.185.000.

Moltissime realtà appaiono più che altro inutili: anche se le verifiche sono complesse e non univoche in un settore così magmatico, si stima che circa un migliaio siano quelle in cui il numero degli amministratori supera quello dei dipendenti. Insomma, salvo forse in casi particolarissimi, veri e propri poltronifici.

D’altra parte è noto come a partire dall’inizio del decennio scorso la giungla delle spa (o srl) pubbliche, comprese quelle locali, si sia allargata in tutte le direzioni soprattutto per due esigenze. La prima era aggirare le varie norme sul blocco delle assunzioni scaricando i costi del personale su entità esterne al perimetro della pubblica amministrazione. La seconda, ancora meno nobile, era trovare un posto ai politici non più rieletti o ad altri personaggi contigui alla sfera partitica.

Accanto alla semplice esternalizzazione di attività non sono mancati gli sforzi di fantasia. Nella Provincia di Salerno opera una “Fondazione salernitani nel mondo” mentre a Oristano è stato creato dal Comune un Istituto storico arborense che si occupa di ricerche sul Giudicato d’Arborea e il Marchesato di Oristano. Le ragioni del gusto sono ben rappresentate. A Roma c’è un’enoteca regionale, a Parma un’azienda agraria sperimentale che cura anche la vendita diretta dei prodotti biologici. Accanto ai caseifici non mancano le aziende che si occupano di carne: a Fabriano ad esempio la Agricom alleva bestiame bovino e ovino, precisando che si tratta di servizio di pubblica utilità perché bistecche e costolette vanno a rifornire le mense delle scuole comunali.

Auto blu, caccia al decreto. Resta solo la slide di Renzi

Auto blu, caccia al decreto. Resta solo la slide di Renzi

Carlo di Foggia – Il Fatto Quotidiano

Nell’era Renzi, con l’annuncio il più è fatto. La distanza tra la slide e il fare è invece una questione di priorità. Quella delle auto blu in dotazione ai Ministeri non sembra esserlo molto. Come tempi d’attesa non c’è male: 76 giorni e ancora nulla. Eppure l’annuncio aveva rispettato tutti i passaggi codificati dal nuovo corso renziano: la slide («Massimo 5 vetture a Ministero»), l’annuncio in conferenza stampa in orario Tg e il tweet a effetto finale. «Direttori e sottosegretari dovranno andare a piedi o in taxi, autobus, metro, moto o bicicletta» spiegava il premier. Era il 18 aprile. Pe questo si può solo immaginare il senso di frustrazione provato al commissario alla spending review Carlo Cottarelli, costretto a chiamare il dipartimento della Funzione pubblica per chiedere conto del ritardo e sentirsi rispondere che «ci sono stati dei contrattempi». C’era la riforma della Pa da portare a casa, decine di articoli finiti in un decreto omnibus e cassati dai tecnici del Quirinale che hanno costretto gli uffici legislativi alle dipendenze del ministro Marianna Madia a riscrivere i testi e spacchettare il tutto in due provvedimenti. E quindi? E quindi «il fascicolo è finito sotto gli altri».

L’episodio si è svolto mercoledì scorso, a raccontarlo è un’autorevole fonte del Tesoro – dove Cottarelli ha ancora il suo ufficio – per altro l’unico Ministero che ha ridotto le auto blu: da 24 a 12 a disposizione dei vertici, costretti a usarle solo su prenotazione. Un’operazione – spiegano nei corridoi di via XX Settembre – «avvenuta motu proprio», cioè in automatico, senza una norma che li obbligasse a farlo. Perché, per quante riforme tu possa annunciare e impegni tu possa prendere, la trafila è sempre la stessa: servono i decreti attuativi, altrimenti le norme contenute nei testi usciti dal Consiglio dei ministri rimangono semplici dichiarazioni d’intenti. Quella sulle auto blu dei Ministeri è stata inserita nel decreto Irpef – quello sui famosi 80 euro in busta paga – del 24 aprile scorso. Quel testo stabilisce che «con un decreto del presidente del Consiglio dei ministri su proposta del ministro per la Semplificazione e la Pubblica amministrazione, di concerto con il ministro dell’Economia e delle Finanze, è indicato il numero massimo, non superiore a cinque, per le auto di servizio a uso esclusivo, nonché per quelle ad uso non esclusivo, di cui può disporre ciascuna amministrazione centrale dello Stato». Ai vari Ministeri, però, quel decreto non è mai arrivato, e così le 1.599 auto blu (costo: 400 milioni l’anno) che compongono il parco macchine in uso a ministri, viceministri, sottosegretari, capi di gabinetto e di dipartimento, sono ancora tutte lì.

Come spesso succede con gli annunci renziani, i risultati ottenuti sono spesso opera dei predecessori. Nel caso specifico, a oggi l’unico taglio effettuato – per altro molto blando – è quello voluto a settembre 2011 dall’allora ministro del Tesoro Giulio Tremonti: via le auto di utilizzo esclusivo con autista – cosiddette “blu blu” – a direttori generali, capi degli uffici legislativi, delle segreterie e degli uffici stampa. Ai piani più alti hanno invece conservato quelle di utilizzo non esclusivo ma sempre con autista. Le altre 5.000 auto blu sparse per le amministrazioni periferiche sono ancora tutte in servizio e non vengono toccate dalla norma annunciata da Renzi. Norma che non riguarderà le 53.743 vetture che compongono l’intero parco macchine in dotazione alla pubblica amministrazione (49.820 appartengono alle amministrazioni locali) e che costano poco più di un miliardo l’anno alle casse dello Stato. Qualcosa però potrebbe muoversi nei prossimi giorni. «Adesso che il decreto della Pa è stato licenziato – spiegano al Mef – i funzionari metteranno mano al decreto attuativo. Che peraltro varrà per tutti i Ministeri, senza bisogno di ulteriori interventi». Bastava così poco.

La giungla delle società pubbliche produce soltanto dei buchi nei conti

La giungla delle società pubbliche produce soltanto dei buchi nei conti

Paolo Baroni – La Stampa

A prenderla larga le società controllate o partecipate dalle pubbliche amministrazioni sono più di 39mila, secondo la Corte dei Conti invece non si arriva a 7.500. C’è di tutto: si va dalle ex municipalizzate elettriche alle aziende rifiuti, dalle farmacie alle terme, dalla lavorazione delle uova alla produzione di prosciutti. E spesso hanno più consiglieri di amministrazione che dipendenti. Quel che è certo è che pesano sui bilanci dello Stato ma soprattutto di Comuni e Regioni per qualcosa come 26 miliardi di euro l’anno. Un punto e mezzo di Pil, in pratica 3 volte il valore del bonus da 80 euro. Inevitabile puntare i riflettori su questa vera e propria giungla: lo fa da anni Confindustria, che chiedeva alla politica di disboscare questo mondo ben prima che la spending review diventasse di moda («discariche per politici trombati» le aveva definite Luca Montezemolo), e lo fa ora il governo. Che punta a tagliare sprechi e a far cassa. Quella che sta per iniziare è una battaglia che vede ancora Roma contro tutti perché, come ha accertato la magistratura contabile, delle 7.472 società censite (ma solo 6.386 sono attive) appena 50 fanno capo allo Stato (e a loro volta controllano altre 526 società di secondo livello). Poi però ce ne sono ben 5.258 partecipate dagli enti locali. In totale ci sono 1.963 società per azioni, 1.235 srl, 758 società consortili, 202 cooperative, 1.019 consorzi, 561 fondazioni, 182 istituzioni, 274 aziende speciali e 178 «altre forme». E se il loro numero è «variabile» è perché queste società «sono soggette a frequenti modifiche dell’assetto», gli assetti sono spesso «mutevoli» e soggetti a vicende che i magistrati contabili definiscono «complessi». Per il loro peso finanziario e per la dimensione economica, gli enti partecipati – denunciava a inizio giugno il procuratore generale della Corte Salvatore Nottola – «hanno un forte impatto sui conti pubblici, sui quali si ripercuotono i risultati della gestione quando i costi non gravano sulla collettività, attraverso i meccanismi tariffari». Solo l’anno scorso questo sistema è costato 25,9 miliardi di trasferimenti.

Insomma non c’è solo Renzi che vuol passare «da 8.000 a 1.000 società partecipate», c’è anche la Corte dei Conti che preme. E sollecita a sua volta «un disegno di ristrutturazione organico e complessivo che preveda regole chiare e cogenti, forme organizzative omogenee, criteri razionali di partecipazione, imprescindibili ed effettivi controlli da parte degli enti conferenti».

Il maggior numero di partecipazioni appartiene alla Lombardia (7.496 controllate), seguono Piemonte (7.061), Veneto (4.123) e Toscana (3.606). La Pa nel Lazio (che includono anche le amministrazioni centrali) sostengono un onere di quasi 9,5 miliardi. In Lombardia poco più di 5,5 miliardi. Per la Corte dei Conti circa l’80% di queste società non si occupa di servizi indispensabili alla collettività. Una indagine di Confindustria di fine 2013 si ferma a circa due terzi ed arriva a ipotizzare ben 12,8 miliardi di risparmi per effetto della cessione o della loro liquidazione. Anche per il commissario alla spending review Carlo Cottarelli, che in base a un campione analizzato dal ministero dell’Economia stima che solo le municipalizzate nel 2012 abbiano perso almeno 1,2 miliardi di euro, è arrivato il momento di «chiudere il rubinetto». Solo per le multi-utility (1.100 in tutto tra acqua, luce e gas con 40 miliardi di fatturato ed oltre 600 milioni di euro di utili nel 2013) è prevista una via di fuga. Ma dovranno comunque aggregarsi. E la Cassa depositi e prestiti ha già detto di essere pronta a finanziare le fusioni.

Pochi fondi e burocrazia, riutilizzo flop

Pochi fondi e burocrazia, riutilizzo flop

Giuseppe Crimaldi – Il Mattino

Quanto impiega un bene confiscato alla camorra a trasformarsi in un bene di pubblica utilità? Tanto, anzi troppo. Non c’è solo l’esempio del palazzo di tre piani di Cupa dell’Arco, a Secondigliano, nel quale la famiglia Di Lauro pianificava le proprie strategie di morte, oltre a quelle imprenditoriali della holding degli stupefacenti. I casi di un mancato riutilizzo di immobili sottratti alla “camorra Spa” e mai giunti in dirittura d’arrivo per quel che riguarda la destinazione d’uso con finalità sociali (e ovviamente legali) sono tantissimi.

Al termine della visita nel Casertano e a Napoli è stata la stessa presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi a sottolineare come i meccanismi di assegnazione risultino più che mai inceppati. «C’è uno scarto eccessivo tra beni sottratti e beni utilizzati – ha detto. La magistratura e le forze di polizia fanno la loro parte ma dobbiamo rafforzare la capacità delle istituzioni di assegnare questi beni. Giovedì avremo in Commissione l’audizione del nuovo direttore appena nominato e chiederemo a lui i motivi della mancata attuazione della banca dati, perché non abbiamo una tracciabilità di beni e questo vale anche per le aziende confiscate. Non possiamo permettercelo perché lì c’è il lavoro delle persone a rischio». Ancora più netta la posizione della parlamentare del Partito democratico Luisa Bossa: «Perché la legge regionale sui beni confiscati, approvata due anni fa, non trova attuazione? E perché la Regione Campania non ha chiesto e non utilizza nessuno dei beni confiscati sul territorio alla criminalità organizzata?».

La verità sta nei fatti. Ci sono voluti quattro mesi per nominare il nuovo direttore dell’Agenzia per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati (Anbsc): Umberto Postiglione, ex prefetto di Agrigento, poi di Palermo ed ex commissario straordinario per la provincia di Roma. L’ultimo atto di assegnazione di un bene confiscato risale al febbraio scroso, quando il vecchio direttore (il prefetto Caruso) ha affidato alcuni immobili al comune di Eboli, al Corpo Forestale dello Stato, ai Vigili del Fuoco e all’Arma dei Carabinieri. Da quel provvedimento ad oggi, la macchina dell’Agenzia si è fermata.

I numeri da gestire sono enormi: oltre 11mila beni immobili e 1.708 aziende confiscati direttamente. Ma il vero problema, oltre a quello delle assegnazioni e al riutilizzo dei beni, riguarda le aziende che nel 90 per cento dei casi, al momento della confisca definitiva, sono in stato di insolvenza con un grave impatto sui lavoratori e il futuro stesso delle attività. Se poi consideriamo che non esistono solo gli immobili ma anche le aziende, allora il fenomeno si trasforma in un vero e proprio caso. Cominciamo dai numeri, che già da soli indicano quanto delicata sia la situazione. Perché è tanto più cocente la delusione che deriva dal mancato reimpiego delle risorse e delle imprese che – grazie alle indagini delle forze dell’ordine e della magistratura inquirente – si riesce a sottrarre alle mafie. In Italia le aziende confiscate sono 1.708 di cui 623 sono in Sicilia, 347 in Campania, 161 in Calabria e 131 in Puglia. Circa la metà operano tra commercio (471) e costruzioni (477), seguite da quelle alberghiere e dalla ristorazione (173). Tra le imprese confiscate, 497 sono uscite dalla gestione dell’Agenzia nazionale e liquidate. Delle 1.121 ancora gestite, invece, 393 sono ancora da destinare, 342 sono destinate alla liquidazione, 198 hanno un fallimento aperto durante la fase giudiziaria e per 189 è stata chiesta la cancellazione dal registro imprese e/o dall’anagrafe tributaria. Una situazione dinanzi alla quale è chiaro che c’è bisogno di un serio intervento per garantire la continuità d’impresa e salvaguardare i lavoratori. L’eccessiva burocrazia e la crisi economica che getta tutti in uno stato d’incertezza non può essere un alibi. E se è vero che la crisi facilita l’ingresso delle mafie nell’economia sana, è vero anche che devono essere messi in campo tutti gli strumenti per cambiare lo stato delle cose.

Dopo la fase del sequestro e della confisca non si può consentire che un’azienda fallisca. Quel fallimento coinvolge la credibilità delle istituzioni, il concetto di legalità nell’opinione pubblica che potrebbero ritenere la confisca come un danno più che un diritto. In quel fallimento si perdono posti di lavoro. E dire che di proposte sensate se ne fanno, e tante. Molte partono proprio dalle rete del volontariato e dell’associazionismo. Una per tutte: dare alle stesse associazioni presenti sul territorio la gestione di immobili e aziende confiscate.

Al Quirinale guadagnano il doppio della Casa Bianca

Al Quirinale guadagnano il doppio della Casa Bianca

Fabrizio Di Feo – Il Giornale

Una finestra spalancata sulle retribuzioni dei dipendenti. Un libro contabile a stelle e strisce aperto e aggiornato ogni dodici mesi. Dal 1995 la Casa Bianca è obbligata a inviare ogni anno un rapporto al Congresso e comunicare nel dettaglio l’elenco dei suoi dipendenti, il titolo e il salario. L’amministrazione Obama poi provvede a rendere disponibile online tale documento, così da tenere fede al dovere di trasparenza verso i cittadini.

I nuovi dati sono stati resi pubblici martedì. Un’istantanea che rivela la distanza siderale con il nostro Paese sia in termini di trasparenza (che da noi si trasforma spesso e volentieri in comunicazione, con la pubblicazione di dati parziali e «selezionati»), sia in termini di controllo della spesa pubblica. Il quadro per quanto riguarda la Casa Bianca è molto chiaro. Nel quartier generale di Obama lavorano 456 persone per un costo complessivo del personale di circa 38 milioni di dollari. La retribuzione media è di 83mila dollari, pari a 61mila euro. Lo stipendio massimo è di 172mila dollari pari a 126mila euro, anzi più nel dettaglio nessuno prende più di 172.200 dollari lordi all’anno, e molti devono accontentarsi di 41-42mila dollari. I dirigenti che si attestano sulla soglia massima sono 22. Barack Obama guadagna 400mila dollari, una cifra che nessun altro dipendente pubblico può superare perché nessun lavoro può essere considerato di maggiore responsabilità (il presidente della Corte costituzionale Usa guadagna 223mila dollari – 171mila euro -, il direttore dell’Fbi, 110mila euro, quello della Federal Reserve, 154mila euro). Obama, peraltro, ha deciso di ridare al Tesoro americano il 5% del suo stipendio annuale: 20mila dollari. Ciononostante negli Stati Uniti c’è anche qualche piccola polemica per un aumento medio del 5% per i dipendenti, superiore rispetto agli altri comparti pubblici.

Il paragone con il Quirinale, seppur scontato, è naturale e inevitabile. Negli ultimi anni il Colle ha iniziato un cammino verso una maggiore trasparenza e ha adottato alcune misure di contenimento della spesa, ad esempio con l’abrogazione del meccanismo di allineamento automatico delle retribuzioni del personale di ruolo a quello del personale del Senato. Nel corso del primo settennato di Giorgio Napolitano sono stati compiuti anche alcuni passi per «asciugare» l’organico, diminuito dal 31 dicembre 2006 al 31 dicembre 2013, di 507 unità. La distanza resta, però abissale.

Nella «Nota illustrativa del bilancio di previsione per il 2014», si parla di una «spesa per il personale in servizio che ammonta a 123,4 milioni di euro, in calo di 7,6 milioni rispetto al bilancio di previsione iniziale per il 2013». Nello stesso documento, al di là del «personale complessivamente a disposizione» pari a 1674 unità, si parla di 783 dipendenti come «personale di ruolo». In questo caso la spesa per dipendente si aggirerebbe sui 157mila euro.

Nell’allegato «Documento analitico» si parla, invece, di una spesa per retribuzioni pari a 105 milioni e 231mila euro, con 82 milioni per il personale di ruolo; 8 milioni e 900mila per quello non di ruolo; 10 milioni e 800mila per il personale distaccato; 2 milioni e 371mila per consiglieri e consulenti del Presidente; 147mila per collegi e commissioni; 370mila per oneri e trasferte del personale. A questi 105 milioni vanno aggiunti 9 milioni e 268mila euro di oneri previdenziali per complessivi 114 milioni e 499mila euro. In questo caso la spesa media per dipendente supererebbe di poco i 146mila euro. Non è possibile calcolare – come avviene per la Camera dove è stato compiuto un importante sforzo di trasparenza – quanti dirigenti superino la retribuzione di Giorgio Napolitano, ovvero i famosi 238mila euro fissati come teorica soglia massima da Matteo Renzi per i dipendenti pubblici (un tetto che alla Banca d’Italia viene sforato da ben 665 dirigenti). Un esercizio di trasparenza da adottare al più presto. Così da trasformare il Colle se non in una Casa Bianca in termini di costi, almeno in una casa di vetro.

Fuga dal canone TV. E la Rai in bolletta perseguita i cittadini

Fuga dal canone TV. E la Rai in bolletta perseguita i cittadini

Paolo Bracalini  – Il Giornale

Più di trecentomila disdette del canone Rai ogni anno, e in aumento: 310mila nel 2010, 328mila nel 2011, 357mila nel 2012. Una velocità di crociera inquietante per i vertici Rai, che già devono fare i conti con un’evasione del canone (la tassa più odiata dagli italiani, sondaggio dell’Anci) che la Rai stima in un 27% e un mancato introito valutato in 500 milioni di euro l’anno. Famiglie ma soprattutto imprese che secondo la Rai dovrebbero pagare il canone e invece non lo fanno, causando un buco all’azienda. Su cui poi si abbatte anche il prelievo governativo di 150 milioni di euro e il calo delle entrate da pubblicità. Il fronte “canone”, dunque, rimane quello più scoperto per viale Mazzini, a caccia di un sistema più valido per recuperare soldi anche da negozi, aziende, studi professionali, uffici, partite Iva. La legge, antiquata e ambigua, permette alla Rai di pretendere il canone anche da chi non guarda la tv o usa schermi e computer solo per lavoro, perché per far scattare l’imposizione basta il semplice possesso. L’invio in questi giorni di mezzo milione di lettere che hanno fatto insorgere artigiani e imprese va proprio in questa direzione. Ma l’effetto finora non è stato quello sperato, con l’esplosione della polemica e poi le interrogazioni parlamentari di Forza Italia, Lega e anche Ncd, che chiede un intervento del governo per fermare lo “stalking” della Rai alle imprese, mente anche il Pd in Vigilanza Rai attacca l’azienda: «Sul canone speciale hanno fatto un vero pasticcio». Ci potrebbe essere di più, persino un rilievo penale, secondo il senatore Maurizio Rossi (ex Scelta Civica) che in Vigilanza solleva il dubbio: «La condotta tenuta dalla Rai potrebbe rientrare in quella descritta nell’art. 640 del codice penale, che prevede la fattispecie della truffa quando qualcuno “con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”. Mi riservo di approfondire tali aspetti inquietanti e di trasmettere gli atti all’autorità giudiziaria» dice il senatore.

La Rai, nel frattempo, va avanti per la sua strada con la Direzione Abbonamenti che conta sulla bellezza di 380 persone (nel 2012), una mini Agenzia delle Entrate dedicata al recupero del canone Rai. Ma le cose non filano come viale Mazzini vorrebbe. Non solo aumentano le disdette ma anche i morosi, cioè iscritti a ruolo che smettono di pagare il bollettino. Un esercito: 963mila italiani. Che fare, dunque? Spedire mezzo milione di lettere del canone speciale ai titolari di attività iscritti alle Camere di commercio, e vedere l’effetto che fa. Ma non solo. Scrive la Corte dei Conti nella sua ultima relazione sulla tv di Stato (febbraio 2014) che viale Mazzini sta facendo pressing sui Comuni e sull’Agenzia delle Entrate a caccia di informazioni preziose per far lievitare gli introiti da canone, come i nominativi dei potenziali possessori di apparecchi televisivi. «Ad avviso della Rai – scrive la Corte dei Conti – tali nominativi possono essere ricavati consultando gli archivi anagrafici in possesso dei Comuni, alcuni dei quali, come evidenzia la stessa società, oppongono un netto rifiuto adducendo argomentazioni fondate su rispetto dei vincoli posti dalla legislazione in materia anagrafica e sulla disciplina della privacy». Non è come per le banche dati della Camere di Commercio, dove non c’è privacy sui titolari di ditte o partite Iva, che infatti la Rai prende in blocco per inviare le richieste di canone speciale. Per le persone, purtroppo per la Rai, c’è la privacy e quindi molti Comuni dicono no. Ma anche l’Agenzia delle Entrate non soddisfa le richieste della Rai, che «con tre successive istanze» ha chiesto di acceder ai dati personali di chi compra un televisore. Fino al 2001 era la prassi, poi il Garante della privacy ha vietato alla Rai la raccolta dei nominativi e adesso un ricorso contro il provvedimento pende in Cassazione. Nell’attesa di una sentenza definitiva, la Rai non può attivare il suo Grande Fratello fiscale. Tocca provare altre strade, tipo la pesca a strascico sul canone speciale.

Moralisti masochisti

Moralisti masochisti

Francesco Pacifico – Il Foglio

Lo Stato moralizzatore sta uccidendo lo Stato biscazziere. Già, perché il prezzo delle campagne salutiste contro il fumo, contro l’uso smodato dell’auto o contro la dipendenza dal gioco lo paga direttamente l’erario in termini di minore gettito. Lo scorso anno si sono incassati 670 milioni di euro in meno di tasse sulle sigarette. Dal capitolo carburanti manca all’appello circa un miliardo. Mentre 1,2 miliardi è l’introito perso dal gioco. In totale si sfiora un deficit di tre miliardi. Un po’ troppo per un paese che ha lanciato il lotto su scala nazionale appena due anni dopo l’Unità d’Italia, nel 1863, anche per ripagare la ricostruzione e i debiti contratti dopo le campagne sabaude.

Di solito, gli economisti consigliano di tagliare i costi fissi per riequilibrare i ricavi. Lo Stato invece persevera nella direzione opposta, un brutto vizio. Siccome gli italiani comprano marche di sigarette meno note pur di risparmiare, il governo si accinge a riequilibrare il sistema delle accise nella parte fissa, con il risultato che le cosiddette “nazionali”, le bionde a buon mercato, potrebbero costare da ottobre anche un euro in più. Questo almeno prevede la delega fiscale, alla quale è legata anche la proposta di un balzello fisso di 6,5 euro sulle ricariche di nicotina liquida per le sigarette elettroniche. Al riguardo i produttori dell’Anafe (Associazione nazionale produttori fumo elettronico) hanno fatto notare che ogni confezione costa 6 euro, ergo il costo complessivo raddoppierebbe. E se per la benzina si attende di capire cosa dirà l’Europa, la delega porterà in autunno l’esecutivo ad aumentare la tassazione sui giochi per finanziare un apposito fondo contro la ludopatia. Intanto i sempre litigiosi Federvini, Assodistil, l’Istituto nazionale grappa e Assobirra si sono unite per bloccare le nuove accise sui lieviti e fermentati, che entro il 2015 dovrebbero salire del 30 per cento.

Carlo Lottieri, filosofo libertario che in “Credere nello Stato?” (Rubbettino) ha analizzato tutti i limiti del centralismo e della regolamentazione statuale sorda e settaria, vede qui «un’applicazione pratica della curva di Laffer (che arriva a un punto morto quando una tassa non produce più il gettito sperato, ndr.). Ma oltre a disincentivare i consumi, lo Stato, con la sua ipocrisia, prova anche a dissimulare i suoi veri obiettivi. E non lo fa soltanto con la leva più pratica, quella delle accise. Vedi ad esempio la campagna per portare al 20 per cento la percentuale di succo concentrato nelle bibite a base di arancia, campagna concretizzatasi con un primo passaggio parlamentare in queste settimane. La motivazione non è tutelare la salute dei bambini, perché assumono poche vitamine, ma assecondare le lobby dei produttori di agrumi» dice Lottieri al Foglio. Più che la vicenda in sé, quello che irrita Lottieri è «la scarsa considerazione dello Stato verso i suoi cittadini: cosa credono, che gli italiani sono così stupidi che quando comprano la Fanta pensano poi di bersi una spremuta di arance fresche?». Gli italiani forse saranno meno sensibili dell’allievo prediletto di Sergio Ricossa e Gianfranco Miglio. Certo è che hanno risposto all’elevata pressione fiscale dello Stato nella maniera più aggressiva a loro disposizione: complice la crisi, hanno smesso (o quasi) di fumare, prendono i mezzi pubblici o fanno lunghe camminate per risparmiare carburante, o hanno iniziato a diffidare della potenza del Superenalotto.

La deriva della clandestinità, secondo l’Ibl

Il fallimento delle campagne moralizzatrici, come detto, è tutto nei numeri. Lo scorso anno gli ex fumatori sono saliti a quota 6,6 milioni, anche perché circa mezzo milione è passato alle sigarette elettroniche. Risultato? Nonostante Iva e accise coprano il 76,5 per cento del prezzo totale di un pacchetto, l’erario ha incassato 670 milioni in meno rispetto all’anno precedente. Una perdita alla quale va aggiunto lo smacco subìto dopo che il Tar del Lazio ha bloccato la maxi aliquota del 58,5 per cento sulle sigarette elettroniche, con la quale lo Stato pensava di incassare un miliardo di euro. Sono diminuiti anche il consumo di benzina (meno 5,7 per cento) e quello di gasolio (del 4,7 per cento), facendo crollare di un miliardo il prelievo fiscale e dell’11 per cento il fatturato del settore. Uno stato di cose che ha spinto grandi famiglie del settore come i Garrone a riconvertirsi alle energie rinnovabili. Sul versante del gioco soltanto il Poker online mantiene alto (87 miliardi di euro) il livello delle entrate. Ma gli economisti Andrea Giuricin e Lucio Scudiero in un focus scritto per l’Istituto Bruno Leoni, think tank torinese di stampo liberista, sostengono che «ulteriori incrementi delle imposte potrebbero nuovamente rendere attrattivo il gioco illegale». Qualcosa del genere sta già accadendo con il contrabbando di sigarette.

Fare la guerra al fisco paga. Per oltre la metà degli importi è il contribuente a vincere

Fare la guerra al fisco paga. Per oltre la metà degli importi è il contribuente a vincere

Federico Fubini – La Repubblica

Lo Stato ha sempre ragione, salvo quando ha torto. E gli succede di aver torto molto spesso quando accusa un’impresa, specie se piccola, di evadere le tasse: più di un euro su due, in caso di contenzioso legale, risulta reclamato dall’Agenzia delle Entrate o dalla Guardia di Finanza al contribuente in modo illegittimo. I numeri pubblicati alla fine di giugno dal ministero dell’Economia rivelano tutta l’intensità della battaglia fra gli uffici del fisco e le imprese. Solo nei primi tre mesi di quest’anno si sono conclusi con un esito completamente favorevole ai contribuenti dei contenziosi tributari per un valore di 3,6 miliardi. Una somma maggiore rispetto a quella per la quale la vittoria in tribunale è andata agli uffici dello Stato, che è di 3,5 miliardi. Anche quando alla fine i giudici le danno ragione, episodi del genere non sono affatto facili da affrontare per un’azienda. Lo stesso ministero dell’Economia calcola come in media, quando è trascinato nella lite fiscale, l’imprenditore deve combattere con tribunali e parcelle degli avvocati per 865 giorni. Specie nelle piccole imprese, è tutto tempo sottratto alla produzione, alla ricerca e allo sviluppo di nuovi prodotti o all’apertura di nuovi mercati. E nella società italiana si tratta di un fenomeno endemico: solo l’anno scorso gli imprenditori hanno presentato più di 250mila ricorsi fiscali perché si sentivano ingiustamente accusati di evadere qualcosa come 35 miliardi di tasse reclamate dallo Stato. In questo momento, le cause di natura tributaria aperte in Italia sono oltre 650mila: un’impressionante drenaggio di risorse, di tempo e denaro dalla produzione alle dispute su conti bancari, fatture e cartelle esattoriali.

Naturalmente l’evasione resta un’emergenza del Paese: secondo le stime più accettate, ogni anno vengono sottratti al fisco circa 120 miliardi ed è dunque evaso un euro ogni quattro pagati (come documentato da Repubblica il 18 aprile 2014). Ma gli ultimi dati pubblicati dal Tesoro sullo stato del contenzioso tributario obbligano a chiedersi se la strategia del fisco stia funzionando. Non ci sono solo i numeri a farne dubitare, benché questi siano di per sé già eloquenti. L’anno scorso il 45% dei ricorsi con esito di merito si è concluso a favore del contribuente, contro il 41% a favore degli uffici pubblici. Soprattutto nelle cause fiscali fino a 20mila euro, quelle che riguardano piccole o minuscole aziende familiari in lotta per sopravvivere, quasi una volta su due lo Stato alla fine risulta aver torto. Ma appunto, non ci sono solo i numeri. Alla radice di questa endemica litigiosità tributaria nella società italiana ci sono metodi che spesso rischiano di accomunare una democrazia del gruppo dei paesi industrializzati ad uno Stato autoritario. Con l’effetto di erodere la base fiscale, perché le imprese colpite dagli accertamenti chiudono anziché far emergere gli abusi. Negli ultimi anni, fin da quando Giulio Tremonti era ministro dell’Economia, le agenzie dello Stato si sono dotate di strumenti di potere assoluto. Oggi è possibile reclamare versamenti al fisco sulla base di presunzioni astratte: la Guardia di Finanza o l’Agenzia delle Entrate, a sorpresa, possono chiedere a un’azienda di giustificare tutti i movimenti bancari di molti anni prima entro due settimane e, se mancano le carte, mandare subito una cartella esattoriale. Se l’imprenditore è in regola, potrà poi vincere il contenzioso all’ultimo grado di giudizio in Cassazione. Ma intanto avrà pagato, sostenuto le spese legali e riavrà indietro il proprio denaro in media dopo dieci anni. Non sempre le regole sono simmetriche. Quando è l’ufficio pubblico a vincere la causa in tribunale, ha diritto a un terzo della somma in gioco subito, a un terzo dopo il primo grado e al saldo in appello. Al contrario, l’imprenditore inizierà a essere rimborsato solo dopo aver vinto in Cassazione.

C’è poi una norma, introdotta sotto Tremonti, che continua a provocare la chiusura di un gran numero di imprese. Lo Stato può imporre un sequestro preventivo dei beni dell’impresa anche se presume l’evasione senza indizi specifici e vi aggiunge un’ipotesi di reato penale. Basta una notifica della Guardia di Finanza o dell’Agenzia delle Entrate a una Procura. In quel caso scattano i sigilli sull’azienda, l’imprenditore è già un presunto colpevole e subito le banche ritirano i finanziamenti perché mancano le garanzie. La società di conseguenza chiude i battenti, licenzia e non produce più un solo euro di tasse negli anni seguenti: un’iniziativa dello Stato che mirava a far emergere del gettito fiscale finisce per far inaridire e distruggere posti di lavoro.

Non che poi presentare ricorso sia così semplice. Per fare causa allo Stato su un contenzioso fiscale si doveva pagare una tassa di circa 150 euro fino a pochi anni fa ma ora è diventata un “contributo unificato” da 4.500 euro. L’evasione in Italia resta dunque una piaga, ma a volte una cura sbagliata può anche aggravare la malattia.

Antitrust: le lobbies ostacolano la crescita

Antitrust: le lobbies ostacolano la crescita

Roberta Amoruso – Il Messaggero

Soltanto la concorrenza, quella basata sui meriti e non sulle rendite di posizione, può salvare la crescita. Ma va eliminato il nemico peggiore, mette subito in chiaro il presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella, presentando al Senato la relazione annuale dell’Authority: va «scardinato» quel capitalismo di relazione fondato su «alcuni grandi poteri economici», sui «rapporti privilegiati con gli apparati pubblici», sulle lobbies ma anche sulla protezione dai concorrenti, compresi quelli esteri. Pitruzzella ce l’ha con gli ex-monopolisti, con quei «privilegi» tutt’ora sanciti da norme di legge e da atti amministrativi e con quei meccanismi complessi che favoriscono «intrecci perversi tra pubblico e privato». Gli interessi dei «cacciatori di rendite» allargano le disuguaglianze e sono responsabili della crescita del debito pubblico e di pesanti «danni» all’economia, per il numero uno dell’Antitrust. Certo, «un cambiamento significativo è in atto», ammette Pitruzzella. Ma è inutile farsi «illusioni»: le politiche di stimolo fiscale non bastano, non funzionano «per uno Stato debitore». Soltanto riforme strutturali e liberalizzazioni possono spingere su competitività e crescita. E se poi ci sono dei costi sociali da pagare (questa è la principale critica) per la concorrenza, ci pensi un welfare migliore a tamponarli, dice a chiare lettere l’Antitrust. Che poi insiste ancora: energia, trasporti, servizi, comunicazioni elettroniche, commercio online e servizi finanziari sono i settori più controllati dai «poteri forti» e anche quelli con maggiori potenzialità di crescita. Nel dettaglio. il Garante della concorrenza e del mercato punta il dito sul capitalismo municipale che blocca la crescita delle utilities. Ecco perché è necessario un riordino «radicale» delle società pubbliche, con tanto di dismissioni da mettere in calendario o comunque con lo stop «al rinnovo degli affidamenti per le società che registrano perdite o forniscono beni e servizi a prezzi superiori a quelli di mercato». Nello stesso tempo, sembrano «maturi i tempi per inserire nell’agenda delle riforme la disciplina dei servizi pubblici locali». Il modello generale andrebbe «superato» con l’elaborazione «di discipline particolari adeguate alla natura dei diversi servizi, in modo da aprire spazi alla concorrenza in quegli ambiti in cui non trova giustificazione tecnica il mantenimento di diritti di esclusiva». Per il resto, Pitruzzella è convinto che sia arrivato il tempo di una riforma della legge sul conflitto di interessi ma anche del mercato della Rc auto, visto che «i prezzi pagati dai consumatori sono tra i più alti d’Europa». Sul fronte bancario, rescindere «i legami personali» tra diversi istituti rimane una missione. Ma va anche «rafforzata» la separazione tra Fondazione e banca conferitaria, estendendo il divieto di detenere partecipazioni di controllo in società bancarie anche ai casi in cui il controllo è esercitato, di fatto, congiuntamente ad altri azionisti. Un punto molto caro anche al governatore di Bankitalia Ignazio Visco. Quanto alle Fondazioni, anche qui va introdotto il divieto di sedere in diversi cda degli stessi enti.

Al di fuori degli ambiti tradizionali di azione dell’Antitrust c’è poi un altro insidioso mondo sul quale la vigilanza non può mollare: l’e-commerce, dove si annidano nuove forme di «sfruttamento del consumatore». Internet, insomma, per l’Antitrust non può essere un Far West. Più in generale, però, l’apertura del mercato nazionale è «insufficiente», avverte l’Antitrust, se non inserita in un quadro europeo. Insomma, se l’Italia fa la sua parte l’Ue non può tirarsi indietro, dice Pitruzzella. Lo stesso che, non a caso, ha appena aperto un’istruttoria su Google, Apple, Amazon company.

Tutti i numeri dello stato famelico

Tutti i numeri dello stato famelico

Pierluigi Battista – Corriere della Sera

Sì, certo, avere speranza, l’Italia può uscire dalla palude, uno sforzo tutti insieme, e va bene. Ma poi i numeri di un’invadenza statale asfissiante e senza limiti uccidono senza speranza. E allineare le cifre dell’oppressione statalista raccontate da Paolo Bracalini nella “Repubblica dei mandarini” pubblicata da Marsilio toglie il fiato. Non per le tante bizzarrie surreal-burocratiche che fanno dell’Italia un Paese bellissimo, un Paese ridicolo. Ma per la scientifica e pervicace volontà di mortificare, di soffocare gli spiriti animali del mercato, ogni desiderio di fare, ogni audacia, ogni energia imprenditoriale, ogni voglia di uscire dal pantano.

«Lo Stato parassita è vorace quando deve incassare, ma lentissimo quando deve pagare». Se sei in credito con lo Stato, mettiti in fila e aspetta 450 giorni, la media del tempo che ci vuole per farsi restituire i propri soldi. Se invece paghi in ritardo anche di un solo giorno, il Moloch pubblico, l’aguzzino fiscale ti sequestra i beni, guadagna indebitamente sull’«aggio» e sbaglia addirittura nel 48,3 per cento delle volte in cui i tartassati fanno ricorso. Il giurista Sabino Cassese calcolò in circa 150mila leggi l’abnorme carico di regole che paralizzano l’Italia, contro le circa 10mila di Francia e Germania: e ogni volta si chiedono in aggiunta «nuove regole». Per aprire un negozio devi adempiere per legge a 118 procedure. Una nuova manifattura, tra autorizzazioni, concessioni, «subingressi», comunicazioni richiede soltanto 84 obblighi di legge da rispettare. Nella giustizia civile bisogna attendere in media 1.210 giorni per recuperare un credito. Le imprese sono costrette a 15 pagamenti annui che richiedono mediamente 269 ore l’anno per «inghiottire», annota Bracalini, il 65,8 per cento dei profitti. Per complicarci ancora più la vota dal 2008 al 2013 «sono state approvate ben 491 norme fiscali, di cui 288 con impatto burocratico sulle imprese». Per gli adempimenti tributari è necessario ogni anno un tempo pari a 36 giorni lavorativi.

A Firenze un mercato dell’Esselunga ci ha messo 44 anni per aprire. Il titolare dell’omonimo pastificio, Giovanni Rana, ha raccontato che per aprire uno stabilimento a Chicago ci ha messo un settimo del tempo impiegato in Italia, sette anni, per dare lavoro a centinaia di persone. La British Gas, dopo undici anni di paralisi e di attese inconcludenti, ha rinunciato al progetto di rigassificatore di Brindisi: 125 milioni di euro buttati, un migliaio di posti di lavoro anch’essi buttati. Con le tasse occulte la pressione fiscale raggiunge quasi l’80 per cento: leggete bene le bollette e ve ne accorgerete. E vi accorgerete che catastrofe è stato il discredito verso un’espressione ormai sputtanata, «rivoluzione liberale», ma che era l’unica speranza di mettere a dieta uno Stato prepotente e oppressivo, l’unica speranza di ripartire davvero, l’unico modo per uscire dal pantano. Chissà come, oramai. Chissà quando.