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Fisco amaro: per pagare tutte le tasse servono 173 (lunghi) giorni di lavoro

Fisco amaro: per pagare tutte le tasse servono 173 (lunghi) giorni di lavoro

Massimo Fracaro e Andrea Vavolo – Corriere Economia

Nel 1990 Google non era ancora nata. Internet, in pratica, non esisteva. Uno dei primi «portatili» di Nokia pesava 800 grammi. consentiva di telefonare per poco tempo e costava migliaia di euro. Giuseppe Tornatore vinceva l’Oscar con «Nuovo cinema Paradiso». A capo del governo c’era Giulio Andreotti. Il rapporto debito pubblico/Pil era a una quota tranquillizzante: il 95%. Nostalgia per quei tempi? Sì e no, probabilmente. Ma se si guarda al fattore T, le tasse, la risposta non può che essere un sì convinto. Allora il Tax Freedom Day – il giorno della liberazione fiscale, vale a dire quello nel quale si finisce di lavorare per pagare tasse e contributi, dopo di che i guadagni sono destinati al proprio sostentamento – si festeggiava l’8 giugno. Nel 2015, invece, il contribuente tipo – un quadro con un reddito di 49.228 euro, una moglie e un figlio – dovrà lavorare, secondo l’elaborazione realizzata in collaborazione con l’Ufficio studi della Cgia di Mestre, 173 giorni per sfamare l’appetito del Fisco e degli enti locali. E si libererà dal giogo tributario solo il 23 giugno. In 25 anni – da quando il Corriere ha cominciato a determinare il Tax Freeedom Day – l’Erario si è divorato più di due settimane della nostra vita. E suscita davvero sconforto notare che nello stesso periodo, nonostante questo fortissimo aumento della pressione tributaria, il rapporto tra debito pubblico e Pil è salito dal 94,7% al 133,1%. Nel 1990 il debito ammontava a 663 miliardi. Ora supera i 2.000 miliardi.

Dal 2014 al 2015
Il giorno di liberazione fiscale resta invariato, anche se si e verificato un ulteriore, sia pure minimo, aumento della pressione tributaria: dal 47,3% al 47,5%. Va notato, però, che l’anno scorso. a gennaio 2014, avevamo stimato che sarebbero bastati 172 giorni per saldare il conto dell’Erario. Invece ne sono serviti 173 per colpa di imposte locali più salate del previsto. Il pareggio rispetto al 2014, quindi, e un po’ stentato. Va meglio. invece, all’altro contribuente – un operaio con moglie e figlio a carico e un reddito di 24.656 euro – che quest’anno si libererà dalla corvee fiscale con un giorno di anticipo: il 13 maggio invece del 14 e dopo 132 giorni di lavoro. La liberazione anticipata è dovuta al bonus Renzi, gli 80 euro in busta paga che spettano a chi ha un reddito non superiore a 24.000 euro. Il bonus quest’anno vale 960 euro, invece dei 640 del 2014 perché l’anno scorso è stato pagato solo da maggio in poi. Per entrambi i contribuenti un altro fattore positivo è dato dalla diminuzione delle accise sui carburanti. Mentre inciderà negativamente, soprattutto per il quadro, l’aumento dell’aliquota sulle rendite finanziarie, passata dal primo luglio 2014 dal 20% al 26% (con esclusione dei titoli di Stato, ancora tassati al 12,5%)

L’identikit
I contribuenti tipo utilizzati per i calcoli sono i medesimi degli anni precedenti: il reddito è stato incrementato dell’1,2% rispetto a quello del 2014 sulla base della variazione degli indici di rivalutazione contrattuali Istat. La stima dell’Iva a carico del contribuente si basa sul presupposto che questi, nelle sue abitudini di spesa, rifletta quelle medie delle famiglie italiane di tre componenti come rilevate dall’Istat nell’indagine annuale sui consumi. L’operaio, con moglie e un figlio a carico, abita in una casa di sua proprietà di 90 metri quadrati con rendita catastale di 446 euro. In conto corrente ha circa 6.000 euro. Stesso nucleo familiare per il quadro che abita in una casa di sua proprietà di 150 metri quadrati con rendita catastale di 1.100 euro. I suoi risparmi ammontano a 40.000 euro di cui 12.160 in conto corrente e 27.840 in titoli e fondi.

Motivazioni
Ma perché il giorno di liberazione fiscale si sposta sempre più in avanti? Lo slittamento è inevitabile in un sistema fortemente progressivo come il nostro. Soprattutto se si considera che gli scaglioni Irpef sono invariati dal 2007 e non hanno tenuto il passo con l’inflazione. In questo periodo sono state aumentate solo le detrazioni a favore dei redditi più bassi. Ad esempio: il nostro quadro vede crescere il suo reddito imponibile da 48.644 a 49.228 euro, ma di questi 584 incassati in più, ben 321 svaniscono tra Irpef, contributi e addizionali locali. E l’appetito del Fisco di periferia continua a crescere: nel 2015 presenterà un conto di 1.836 euro. Solo due anni fa si accontentava di 1.501 euro. E ora servono 18 minuti al giorno di lavoro per saldare il conto. E proprio qui si annidano le maggiori insidie per i contribuenti. Nei nostri calcoli sono state riproposte le aliquote utilizzate per il 2014, mancando al momento informazioni più complete. È vero che per la Tasi è stata prevista una clausola di salvaguardia, ma molti Comuni hanno ancora margini di manovra, anche sul fronte dell’addizionale Irpef. Stesso discorso può essere fatto per le Regioni. Insomma, accontentiamoci di non faticare un giorno in più per pagare le tasse. E incrociamo le dita.

La renzinomics inciampa sul fisco, la semplificazione resta un’utopia

La renzinomics inciampa sul fisco, la semplificazione resta un’utopia

Alberto Statera – Affari & Finanza

Anche al netto dell’incredibile vicenda dell’articolo l9 bis introdotto di soppiatto nel decreto fiscale di Natale, che secondo il costituzionalista Alessandro Pace meriterebbe una mozione di sfiducia e le dimissioni del presidente del Consiglio, il governo Renzi, come e peggio di quelli che lo hanno preceduto, si sta rivelando una calamità in materia tributaria. Non c’è intervento piccolo o grande che negli ultimi mesi non abbia prodotto pasticci, guai e relative crisi depressive di contribuenti e commercialisti. Dall’incubo Imu, Tasi, Tari alla norma retroattiva sull’Irap in spregio della Statuto del contribuente, fino alla comica finale dell’Imu agricola sui terreni “ex montani “. La riduzione delle esenzioni doveva coprire 350 milioni già spesi per il bonus degli 80 euro in busta paga, ma il pagamento è stato rinviato dal 16 dicembre 2014 al 26 gennaio 2015 (data vicinissima nella quale è lecito prevedere l’ennesimo incubo) perché di fatto la nuova norma era ragionevolmente inapplicabile, oltre che esposta a ogni genere di ricorso. Dovevano pagarla i terreni ricadenti in Comuni sotto i 600metri di altitudine, ma chi conosca un minimo la geografia italiana dovrebbe sapere che l’altitudine della sede comunale non coincide quasi mai con quella dei poderi,che spesso sono molto più in alto.

Sarà per un modo di legiferare grossolano, al modo di Re Carlone dei poemi cavallereschi (da cui l’espressione “alla carlona”), sarà per inesperienza nel padroneggiare i sistemi legislativi, sara per la sindrome dell ‘uomo solo al comando attorniato da yes-men (e yes-woman). O, peggio, sarà per una strategia ambigua di stangatine per quanto possibile sotto traccia e contemporanee strizzatine d’occhio agli evasori in funzionedi futuro consenso elettorale, come fa sospettare il 19 bis che, a prescindere dall’utilità per Berlusconi, non è un condono, ma la certificazione per legge della quota che i grandi contribuenti sono autorizzati a frodare: una vera e propria licenza a delinquere. Fatto sta che la retorica del “fisco amico” e della “moral suasion” sembra annegare nell’attuazione lentissima e caotica di una delega fiscale, che rischia di scadere tra non molte settimane.

Prendiamo la promessa semplificazione, che dovrebbe essere il primo atto di un rapporto per quanto possibile meno devastante col fisco più squilibrato del mondo occidentale. Esclusa la legge di stabilità, il governo Renzi ha emanato 8 provvedimenti con 87 norme di carattere fiscale (per la serie dell’iperfetazione normativa) di cui 49 invece di semplificare complicano le ricadute burocratiche. Le sole norme che semplificano sono quelle contenute nel decreto legislativo sulle promesse dichiarazioni precompilate. Un po ‘ meglio, per la verità, della fabbrica delle complicazioni gestita dai govemi Monti e Letta (e dai precedenti), ma con un passo che promette decenni di attesa per vedere, se mai ci sarà, un’effettiva sburocratizazzione. Almeno a stare ai dati della Confartigianato, che ha calcolato in 269 ore all’anno il tempo necessario per affrontare gli adempimenti necessari al pagamento delle tasse, contro le 110 della Gran Bretagna, le 137 della Francia, le 167 delIa Spagna e le 218 della Germania.

In compenso, se fosse passata la depenalizzazione che Renzi ha attribuito alla sua stessa manina, avremmo ulteriormente migliorato, nel tempo di un Consiglio dei ministri natalizio, il nostro record europeo di mino numero di detenuti per frode fiscale: 156 (salvo che dai tempi della statistica non siano stati rilasciati con tante scuse).

Assenteismo PA, costo 3,7 miliardi

Assenteismo PA, costo 3,7 miliardi

Nicoletta Picchio – Il Sole 24 Ore

Un risparmio di 3,7 miliardi di euro, a cui si aggiungerebbe, come conseguenza, una maggiore efficienza e qualità dei servizi. È un traguardo che si potrebbe raggiungere nel settore pubblico portando l’assenteismo allo stesso livello del settore privato. Sono i calcoli di un’analisi del Centro studi di Confindustria: nel 2013, anno preso in esame, i dipendenti del settore pubblico hanno totalizzato in media 19 giorni di assenze retribuite, secondo i dati della Ragioneria generale dello Stato, 6 in più di quanto rilevato nel mondo Confindustria per un gruppo di dipendenti comparabile. L’assenteismo nel pubblico risulta quindi del 46,3% più alto rispetto ai 13 giorni di assenze retribuite rilevate dall’indagine per gli impiegati delle imprese associate a Confindustria con oltre 100 addetti (gruppo che per qualifica e dimensione è comparabile al pubblico impiego). Portarlo al livello di quello privato comporterebbe un risparmio di 3,7 miliardi, attraverso un minor fabbisogno di personale.

Nello studio del Csc, messo a punto da Giovanna Labartino e Francesca Mazzolari, emerge che l’incidenza delle assenze nel mondo Confindustria è in calo: il peso delle ore di assenza sulle ore lavorabili si è attestato nel 2013 al 6,5% ; 0,5% in meno rispetto al 7% dell’anno precedente. L’incidenza rimane più alta nelle imprese più grandi, 7,2 in quelle con più di 100 addetti; 4,5% in quelle fino a 15. La malattia non professionale, cioè l’influenza, è il motivo di assenza più frequente (3,1% delle ore lavorabili) seguito dai congedi parentali e matrimoniali (1,3%) e dagli altri permessi retribuiti, che includono i permessi sindacali e quelli per visite mediche o di accompagnamento parentale (un altro 1,1%). Nel settore pubblico nel 2013 ai 10 giorni di assenza procapite per malattia se ne sono aggiunti 9 di altre assenze retribuite. L’indagine di Confindustria sul lavoro nel 2013 allarga il raggio anche alla diffusione dei contratti aziendali e dei premi variabili. Nell’industria in senso stretto nel 2013 due lavoratori su tre erano coperti da un accordo aziendale; una quota che sale a 5 lavoratori su 6 nelle imprese associate con almeno 100 dipendenti. La contrattazione aziendale è meno diffusa nei servizi, dove i lavoratori coperti erano il 56,9% (68% nelle imprese più grandi).

Analizzando in particolare le imprese industriali la quota con contratto aziendale passa dal 34,4 e 34,3% del Nord-Ovest e del Nord-Est al 28,1% del Centro, Sud e Isole. In ogni caso la contrattazione di secondo livello è aumentata rispetto al 2012: in base ai dati di un campione, la quota che ha applicato un contratto aziendale è cresciuta dal 26,8% al 30,1% e la percentuale dei lavoratori coperti dal 60,5% al 62,6 per cento. Per quanto riguarda i premi variabili sono stati erogati dal 70,5% delle imprese con contrattazione di secondo livello e dal 31,7% di quelle senza. La copertura dei premi variabili cresce con la qualifica: 52,5% tra gli operai, 56,3% tra gli impiegati e 63,4% tra i quadri. L’incidenza sulla retribuzione è mediamente simile e si attesta sul 5 per cento. Tra i dirigenti, solo poco più di un quarto li riceve ma, se erogati, rappresentano mediamente il 15,6% della retribuzione media annua lorda.

Come ti prendo l’evasore

Come ti prendo l’evasore

Stefano Livadiotti – L’Espresso

La posta in palio è altissima: i 102 miliardi che, secondo i calcoli dell’Istat, ogni anno sfuggono alle casse dello Stato a causa del fenomeno dell’evasione contributiva. E la partita finale si giocherà, nelle prossime settimane, intorno a un testo di dodici righe, ben nascosto alla lettera “L” del settimo comma dell`articolo 1 del Jobs Act.

Nella delega sul lavoro affidata al governo, il parlamento ha lasciato aperte due strade contrapposte su come impostare la guerra ai furbetti dei contributi. La prima prevede un maggior coordinamento tra gli 007 del ministero del Lavoro, quelli dell’Inps e quelli dell’Inail, i tre soggetti incaricati dell’attività ispettiva a livello nazionale (insieme ad Asl e Arpa regionali). La seconda si basa sull’istituzione di un’agenzia unica, che farebbe capo al dicastero guidato da Giuliano Poletti, all’interno della quale far confluire gli ispettori ministeriali e quelli dei due enti. In questo caso, a farne le spese sarebbe (poco coerentemente) in primo luogo 1’Inps, l’istituto che proprio nei giorni scorsi ha ricevuto un riconoscimento di efficienza dal governo di Renzi, pronto ad affidargli, dopo lo scandalo dei vigili urbani capitolini, il controllo sulle assenze per malattia dei dipendenti pubblici, finora svolto con risultati assai poco lusinghieri dal circuito delle Asl.

Al di là della scelta del cappello sotto il quale far confluire gli ispettori, quella dell’unificazione sembra una via obbligata. Anche per l’ottimo motivo che i tre drappelli di segugi finiscono, spesso e volentieri, per pestarsi i piedi tra loro. Istituzionalmente hanno compiti diversi (il ministero verifica la regolarità dei contratti dei dipendenti; l’Inps il versamento dei contributi; l’Inail la sicurezza sul lavoro), ma non è certo un caso raro che si rivolgano quasi contemporaneamente a una stessa azienda, chiedendo peraltro la medesima documentazione, e finendo in questo modo per paralizzarne l’attività. «Succede regolarmente», accusa Francesco Verbaro, consulente e docente di organizzazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, già segretario generale del ministero. Conferma Enzo De Fusco, coordinatore scientifico della fondazione studi dei consulenti del lavoro. Che aggiunge: «Una banca dati centralizzata eviterebbe queste sovrapposizioni».

Di agenzia unica si parla da anni (ha iniziato Maurizio Sacconi, titolare del ministero con Silvio Berlusconi), senza che il progetto riesca a fare passi avanti. Per un motivo semplice: in ballo ci sono, oltre agli interessi degli evasori più incalliti e delle loro lobby, anche quelli dei quasi 5.000 ispettori in attività, oggi contrattualmente inquadrati (e pagati) in maniera non omogenea. Sulle dodici righe messe a punto dopo una faticosa mediazione in parlamento, dunque, sarà ancora battaglia. Oggi funziona (si fa per dire) così. Gli ispettori sono 4.800: 3.000 fanno capo al ministero di via Veneto, 1.400 all’Inps e 400 all’Inail, l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Tutti insieme, nel 2013 sono riusciti a mettere il naso nei registri di 235.122 aziende, cogliendone in fallo 152.314, scoprendo 239.021 lavoratori irregolari e 86.125 completamente in nero. Alla fine, hanno contestato omessi pagamenti per un miliardo e 471 milioni. Già così sarebbe un risultato ben magro. Ma, secondo quanto risulta a “l’Espresso”, le cose stanno ancora peggio: lo Stato, di fatto, è riuscito a incassare solo 250 milioni. I conti dunque non tornano.

Secondo l’ultimo (2013) Rapporto annuale sull’attività di vigilanza in materia di lavoro e previdenziale elaborato dal ministero di via Veneto, in Italia risultano in attività un milione e 600 mila aziende che dichiarano almeno un dipendente. Vuol dire che solo il 14,7 per cento del totale è stato oggetto di qualche attenzione da parte degli 007 di ministero, Inps e Inail. Troppo poco. E lo stesso vale per i 250 milioni che lo Stato è riuscito a incassare: rappresentano l’inezia dello 0,25 per cento rispetto ai 100 miliardi di evasione stimata. E il trend sembra addirittura in peggioramento. Il rapporto del ministero segnala infatti un calo del 3,6 per cento delle imprese ispezionate nel 2013. Un dato che i sostenitori dell’attuale regime spiegano con una sempre più efficace attività di intelligence, capace di orientare gli interventi sulle irregolarità di maggior rilevanza, quelle cioè in grado di garantire un gettito superiore. A supporto di questa tesi citano quella parte del rapporto del ministero dove si rileva un incremento della percentuale di verifiche andate a seguo, salita in un solo anno dal 63 al 64,78. Dimenticando però quanto gli uomini di via Veneto scrivono solo poche righe più sotto. E cioè che le somme contestate nel 2013 risultano inferiori del 13 per cento rispetto a quelle del precedente anno (da un miliardo e 631 milioni a un miliardo e 421 milioni). Con buona pace dell’intelligence.

Contraddizioni che non sono sfuggite alla Corte dei Conti. I magistrati contabili si sono presi la briga di verificare gli effetti del protocollo di intesa per un maggior coordinamento firmato da ministero, Inps, Inail e Agenzia delle entrate nell’agosto 2010, quando l’allora titolare del Lavoro, Sacconi, si era reso conto che il suo progetto di agenzia unica era destinato ad arenarsi una prima volta. «L’analisi dell’attività di verifica e controllo sviluppata nel periodo 2010-2013», si legge nella relazione datata 26 settembre 2014, «non consente di stabilire la misura dell’effettivo contributo derivato al sistema dalla (parziale) messa in comune delle banche dati e dalle maggiori sinergie sviluppate tra istituzioni ed enti diversi». E ancora:«Nell’istruttoria sono state segnalate criticità e diseconomie sul versante del coordinamento, con sovrapposizione ovvero duplicazione di controlli da parte dei soggetti istituzionali competenti e problemi nello scambio di dati e informazioni». Tranchant la conclusione dei magistrati contabili: «In caso di persistente inadeguatezza del complessivo sistema di controllo, la soluzione pressoché obbligata rimane quella dell’accentramento in un unico soggetto di diritto pubblico dell’attività di pianificazione e di gestione delle proiezioni ispettive nella materia giuslavoristica e previdenziale».

«In un Paese normale l’agenzia unica sarebbe una realtà già da dieci anni», dice Verbaro. Ma siamo in Italia. E anche le riforme più difficili da contestare possono arenarsi davanti alle resistenze corporative di esigue minoranze, soprattutto se ben organizzate sul fronte sindacale. Già, perché il nocciolo della questione è la retribuzione degli ispettori. Quelli di via Veneto hanno il contratto dei ministeriali, che garantisce loro una retribuzione fissa media annua di 27.710 euro e una accessoria di l.000 euro tondi. Quelli di Inps e Inail, inquadrati come dipendenti di enti pubblici non economici, godono di una paga fissa media annua leggermente inferiore (27.4-17 euro), ma anche di una accessoria che arriva a 10.538 euro. Cui si somma una fantozziana indennità di ente da 6.000 euro ogni dodici mesi. Il pallottoliere dice che la differenza è di 15.275 euro.

Se fossero messi insieme ai ministeriali, gli ispettori degli enti dovrebbero mettere in comune con gli altri il fondo accessorio e diventerebbero più poveri. Se invece fossero i ministeriali, in base al criterio del galleggiamento inventato dai sindacalisti del pubblico impiego, a essere equiparati ai parenti ricchi, lo Stato dovrebbe sborsare, tra stipendi e indennità, 45.824.608 euro in più l’anno (facendo saltare il delicato equilibrio tra entrate e uscite su cui si regge oggi il sistema della vigilanza sui contributi). Ed è intorno a questi calcoli che sta prendendo corpo una terza ipotesi, che alla fine potrebbe rappresentare una sintesi realistica. E cioè riunificare sì gli ispettori, ma all’interno dell’Inps, che già oggi vanta la struttura di gran lunga più efficiente (il confronto è improprio, ma dà l’idea: nel 2013 l’istituto affidato da pochi giorni all’economista Tito Boeri ha assicurato da solo l’84,3 per cento del totale dell’evasione contributiva accertata a livello nazionale).

Un rapporto di 46 pagine, messo a punto dalla Direzione centrale vigilanza, prevenzione e contrasto all’economia sommersa dell’Inps (e quindi un documento in un certo senso di parte) spiega cosa accadrebbe se si decidesse di percorrere questa terza via. Dice che il tasso di successo delle ispezioni salirebbe dall’attuale 65 per cento scarso all’81 dopo cinque anni e al cento per cento dopo dieci. E che alla fine del percorso (15 anni) si avrebbe un recupero di contribuzione evasa pari a 48 miliardi. Se i calcoli stessero davvero in piedi, allora forse per una volta il gioco di aprire i cordoni della spesa pubblica potrebbe anche valere la candela. In odio agli evasori.

L’addio al segreto, ultima possibilità

L’addio al segreto, ultima possibilità

Roberto Lugano e Salvatore Pedullà – Il Sole 24 Ore

La firma dell’accordo per lo scambio di informazioni tra Italia e Svizzera, attesa nelle prossime settimane, ha un duplice significato e lancia un importante messaggio. Nell’immediato, consente di sapere quali saranno le regole e i costi per la regolarizzazione delle attività e degli investimenti detenuti dai cittadini italiani nella confederazione elvetica. In una prospettiva più generale, le nuove regole di cooperazione in arrivo segnano probabilmente la fine di un’epoca: un’epoca caratterizzata da un lato dall’esportazione di ricchezza oltre confine e dall’altro dall’assoluta riservatezza che il sistema del segreto bancario elvetico ha fin qui largamente garantito.

Si tratta di due aspetti importanti rafforzati dal messaggio di fondo che questa nuova prospettiva di collaborazione finisce per trasmettere. Qui, probabilmente, non cade solo il segreto svizzero ma viene messa in dubbio l’idea stessa che nel mondo attuale possano ancora esistere territori sicuri dove occultare ricchezze sottratte a tassazione in Italia (o in qualsiasi altro paese). D’altra parte, l’offensiva lanciata dall’Ocse e dai maggiori Paesi per la trasparenza fiscale qualche risultato lo sta producendo. Gli accordi sottoscritti a livello internazionale spesso prevedono addirittura lo scambio automatico di informazioni. Certo, servirà ancora un po’ di tempo per mandare tutto a regime ma non si può ignorare che tra i firmatari di queste intese figurano Paesi quali il Lussemburgo, San Marino, il Lichtenstein, le isole Cayman, Hong Kong, Singapore, Monaco, la stessa Svizzera. Sono gli stessi Paesi che in questi anni hanno offerto un rifugio sicuro dai controlli del Fisco, e che oggi si dichiarano pronti a trasmettere tutte le informazioni su conti correnti e movimentazioni finanziarie.

È una prospettiva alla quale molti non credevano. Basti pensare agli scudi fiscali del 2002 e del 2009-10. Nonostante la grande convenienza alla regolarizzazione e al buon successo di quelle operazioni, molti contribuenti scelsero comunque di non aderire perché convinti che mai e poi mai i Paesi “opachi” – la Svizzera ma non solo – avrebbero rinunciato al segreto e reso di fatto trasparente il rapporto con i clienti italiani. Molti hanno scelto di continuare a rischiare e a detenere oltre confine le ricchezze senza segnalarne provenienza, proventi e consistenza nella dichiarazione dei redditi.

La legge sul rientro dei capitali sta in qualche modo accelerando un processo di per sé irreversibile. La necessità di chiudere ulteriori accordi bilaterali per lo scambio di informazioni entro 60 giorni dall’entrata in vigore del provvedimento (e quindi entro il 2 marzo) ha dato solo l’impulso per accelerare la sottoscrizione dei patti. E a ben giudicare, anche la circostanza che l’accordo con la Svizzera (senza dubbio il più importante) sia prossimo alla firma ha una valenza ulteriore, quasi a significare che si è fatto in fretta perché questa è l’unica strada percorribile in un sistema globale moderno.

La voluntary disclosure rappresenta la nuova e, presumibilmente, ultima opportunità per regolarizzare la propria posizione. Il mondo sta diventando una scatola trasparente, i pochi Stati che ancora non si sono adeguati saranno costretti a farlo, è solo questione di tempo. Scegliere oggi di mantenere le attività illegalmente in questi luoghi presenta incognite enormi: dal rischio–paese all’impossibilità pratica di recuperare le somme estere. Si può obiettare che in alcuni casi il costo della disclosure può essere elevato, ma d’altro canto non approfittarne espone a un duplice effetto negativo: perdere la disponibilità concreta dei propri mezzi finanziari ed esporsi ai sempre maggiori rischi di essere accertati e sanzionati (anche penalmente) in modo ancor più aspro.

Privatizzazioni, il mattone fa flop

Privatizzazioni, il mattone fa flop

Mauro Romano – Milano Finanza

Le privatizzazioni fanno flop anche nell’immobiliare. Il 2014, che sarebbe dovuto essere l’anno del riavvio delle dismissioni pubbliche in grande stile, sarà invece ricordato come quello del loro sonoro fallimento. Non solo infatti il governo ha dovuto fare marcia indietro sul fronte della privatizzazione delle grandi aziende, a partire da Poste ed Enav, ma ora emerge che anche per quanto riguarda il mattone di Stino le previsioni non sono state rispettate. L’obbiettivo su questo fronte era incassare almeno 500 milioni di euro dalla cessione di palazzi e terreni pubblici e, come già accaduto lo scorso anno, vista la difficoltà di venderli sul mercato, era stata chiamata in campo come acquirente la Cassa Depositi e Prestiti.

L’intervento di Cdp in soccorso delle casse pubbliche, anticipato da MF -Milano Finanza a fine settembre, però quest’anno si è fermato a circa la metà di quanto previsto dal ministero dell’Economia. Secondo indiscrezioni, la doppia vendita da parte del Demanio e di alcuni enti locali, chiusa in extremis a ridosso del 31 dicembre 2014, avrebbe visto lo stacco di un assegno da circa 250 milioni da parte di Cdp. Eppure si era lavorato per mettere la maggior quantità possibile di carne al fuoco. Basti pensare che, oltre agli immobili già in mano all’Agenzia del Demanio, sono stati venduti anche asset che erano nella disponibilità di Croce Rossa, Inail, Inps e ministero della Difesa. Non solo: fin dall’autunno il Tesoro aveva allertato gli enti locali della possibilità di prendere parte all’operazione ma sindaci e governatori regionali non si sono precipitati a sfruttare l’occasione fornita dall’ormai consueta vendita di fine anno.

Dai decreti pubblicati in Gazzetta Ufficiale a fine 2014 emerge infatti che solo la Provincia di Venezia, il Comune di Firenze e quello di Torino hanno risposto alla chiamata. mettendo a punto le delibere propedeutiche alla cessione, come pure hanno fatto l’ospedale Sant’Anna di Como e l’Asl di Milano, per essere poi autorizzati a vendere a trattativa diretta gli asset così individuati alla Cdp. La Cassa anche quest’anno dovrebbe aver acquistato gli immobili, per un valore complessivo di circa 250 milioni, attraverso la controllata Cdp Investimenti sgr, che ha già un fondo ad hoc per la valorizzazione del patrimonio pubblico: il Fiv. In particolare, questi asset, come quelli già acquistati lo scorso anno, dovrebbero essere destinati al compatto Extra, sottoscritto dalla stessa Cdp con poco più di un miliardo. Una parte di questi immobili però potrebbe presto essere dirottata nell’ultima iniziativa immobiliare messa in pista dalla spa del Tesoro, ossia la creazione di un fondo dedicato allo sviluppo del turismo per favorire la gestione di importanti asset da parte di operatori specializzati, che non necessariamente dovranno acquistarne la proprietà. Proprio qui confluiranno per iniziare quattro immobili Fiv Extra che si trovano a Venezia, Bergamo, Verona e Torino, per un valore complessivo, una volta riqualificati, di 90 milioni. Ma quest’anno che tipo di immobili sono stati acquistati da Cdp? Dai decreti pubblicati alla vigilia di Natale, che riportavano gli elenchi predisposti dai venditori, si legge che tra i papabili c’erano per esempio la Cavallerizza Reale di Torino, la caserma Mameli di Milano, l’ospedale militare San Gallo di Firenze.

Derivati di Stato, Capezzone indaga

Derivati di Stato, Capezzone indaga

Luca Piana – L’Espresso

Partirà il 14 gennaio l`indagine conoscitiva della Commissione Finanze della Camera sui derivati sottoscritti, fra gli altri, dallo Stato italiano. Lo ha promesso il presidente Daniele Capezzone, annunciando che verranno sentiti esperti e istituzioni. L’iniziativa arriva dopo l’allarme suscitato dalla notizia, diffusa a dicembre, che sui derivati in essere con le banche internazionali il Tesoro contabilizza una perdita potenziale di oltre 34 miliardi, in crescita rispetto ai 29 miliardi di un anno fa. Il calo dei tassi d`interesse, che nel 2014 ha permesso al Tesoro di collocare sul mercato 450 miliardi di Bot e Btp con un costo medio molto basso (l’1,38 per cento, ha detto Maria Cannata, capo della Direzione debito pubblico del ministero), sembra dunque aver avuto ripercussioni negative sui derivati, che forse erano stati sottoscritti per tutelare i conti pubblici da un aumento dei tassi. Certo è che la perdita, pur potenziale, si sta facendo consistente. E che, di recente. il Parlamento ha dato via libera alla legge di stabilità, che permetterà al Tesoro, nella stipula di nuovi derivati, di offrire alle banche che lo richiederanno nuove garanzie cash. La Commissione non avrà i poteri d’inchiesta che servirebbero per far davvero luce sui misteri che circondano contratti su cui le banche, in gran segreto, hanno finora fatto soldi a palate. La speranza però è che la politica, almeno, inizi a vigilare con maggiore attenzione.

Persi a novembre altri 48mila posti di lavoro

Persi a novembre altri 48mila posti di lavoro

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Secondo calo, consecutivo, del numero di occupati: a novembre (su ottobre) sono stati persi altri 48mila posti (già a ottobre, su settembre, il calo era stato di 65mila unità). Il tasso di disoccupazione è salito al 13,4%, un nuovo massimo storico, (mentre nell’area Euro, sempre a novembre, è rimasto stabile all’11,5% – peggio di noi, tra i principali Paesi nostri competitor, solo la Spagna che ha registrato un tasso di persone senza lavoro al 23,9%).

Doccia fredda anche sul fronte under25: la quota dei giovani disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca è schizzata al 43,9%, in aumento di 0,6 punti percentuali sul mese, e di 2,4 punti nel confronto tendenziale. In Eurolandia siamo quart’ultimi (dietro di noi solo Spagna, Grecia e Croazia). Le performance migliori si sono avute in Germania (7,4% di disoccupazione giovanile), Austria (9,4%) e Olanda (9,7%). Il numero complessivo di persone senza un impiego ha raggiunto i tre milioni e 457mila unità (+40mila in un mese, +264mila in un anno). Il numero persone inattive (anche perché scoraggiate) è invece in calo: 12mila unità in meno rispetto a ottobre e meno 312mila nel confronto tendenziale.

I dati sul lavoro diffusi ieri da Istat ed Eurostat hanno confermato tutte le difficoltà del nostro mercato del lavoro; che si è, di fatto, “allineato” con il quadro economico generale. Da febbraio, mese di insediamento del governo Renzi, a novembre, il numero di occupati è diminuito complessivamente di 14mila unità. Negli ultimi due mesi si è praticamente azzerato l’aumento di circa 100mila posti annunciato a settembre dal Governo (in parte frutto del decreto Poletti che ha semplificato i contratti a termine e, in quota minore, l’apprendistato).

Ora in campo ci sono le nuove norme contenute nel Jobs act sul contratto a tutele crescenti, l’Aspi rafforzata, e i forti incentivi sul tempo indeterminato; ma gli effetti di queste misure sull’occupazione «si vedranno solo nei prossimi mesi», hanno sottolineato i ministri Giuliano Poletti e Pier Carlo Padoan. Per questo è «ancora più urgente andare avanti con le riforme», hanno aggiunto il responsabile Economia e Lavoro del Pd, Filippo Taddei e il sottosegretario, Teresa Bellanova. Anche perché, ha spiegato il numero uno di ItaliaLavoro, Paolo Reboani, le aziende sono ora in attesa «della piena operatività» delle norme appena varate, prima di riprendere a fare nuove assunzioni (quelle stabili sono agevolate da una robusta riduzione del cuneo fiscale). Si sconta, quindi, una fase di “stand-by” che potrebbe proseguire anche nel mese di dicembre.

Dal ministero del Lavoro fanno sapere che, comunque, il «numero assoluto di occupati nella fascia d’età 15-24 anni è rimasto stabile rispetto ai mesi precedenti»; e che la crescita del tasso di disoccupazione è influenzata «dal costante aumento dei cittadini che si attivano per cercare un lavoro, tanto è vero che il numero di inattivi a novembre è il più basso degli ultimi due anni». Ma è il secondo calo consecutivo degli occupati a preoccupare gli esperti: «Ciò dimostra che la crescita dell’occupazione nei mesi precedenti ha interessato la parte marginale del mercato del lavoro, cioè soprattutto donne e giovani, che per aumentare il reddito familiare si sono rimessi in cerca di un impiego e hanno trovato soprattutto rapporti temporanei, part-time», ha evidenziato l’economista del lavoro, Carlo Dell’Aringa. Analizzando, infatti, la contrazione mensile di 48mila occupati a novembre spicca come ben 41mila di questi siano posti femminili andati persi. Il tasso di occupazione è risultato pari al 55,5%, in calo di 0,1 punti sul mese; gli under25 disoccupati sono 729mila (+18mila in un mese), e ciò dimostra tutte le difficoltà di «Garanzia giovani» a creare occupazione. La forbice con la Germania continua ad allargarsi: secondo l’ufficio di statistica tedesco a dicembre il tasso di disoccupazione è sceso al minimo storico del 6,5%.

Ecco perché, oltre agli incentivi sui contratti stabili, serve una «coraggiosa riforma della regolazione dei rapporti di lavoro», ha incalzato Maurizio Sacconi (Area Popolare). Ma la strada «non può essere quella dei licenziamenti facili», ha ribattuto Cesare Damiano (Pd), che ha ricordato come, anche, nel 2014 le ore di cassa integrazione autorizzate abbiano superato il miliardo di ore. Le tutele non vanno quindi abbassate».

Delega fiscale, in 10 mesi attuazione ferma al 15%

Delega fiscale, in 10 mesi attuazione ferma al 15%

Saverio Fossati – Il Sole 24 Ore

I tempi non ci sono proprio e una proroga sembra necessaria. Ma quello che va rivisto è il sistema della comunicazione tra Governo e Parlamento, che ha subito un evidente corto circuito e che è stato, in sostanza, all’origine del pasticcio ma anche dei ritardi. Attualmente la delega è stata realizzata al 15,5% in dieci mesi, quindi appare davvero difficile che venga completata in tempo. Più in dettaglio, solo un decreto legislativo è entrato in vigore: quello sulle semplificazioni, mentre quello sulle commissioni censuarie catastali (prodromico alla riforma del catasto) è ancora nei cassetti di Palazzo Chigi a un mese dall’approvazione definitiva; stessa sorte è toccata a quello sui tabacchi, per il quale non sono mancate le polemiche a causa di un ritocco sulle accise.

Per gli altri provvedimenti che devono dare attuazione ai principi della delega, invece, siamo in alto mare. A partire dalla riforma del catasto, il cui decreto chiave, quello sulle «funzioni catastali» che devono assicurare nuovi valori a 60 milioni di immobili, è stato elaborato dall’agenzia delle Entrate sulla base di una sconsolante considerazione: dato che non ci sono abbastanza dati per costruire una statistica territoriale, si devono ampliare a dismisura gli ambiti territoriali stessi.Tutti aspetti di cui la mini bicamerale non è stata informata ma che, al momento in cui la bozza del decreto vedrà la luce, susciteranno un vespaio. O dal principio sulla lotta all’evasione, che per ora ha prodotto solo l’obbligo (previsto in modo estemporaneo dal Dl 66/2014) di inviare un rapporto alle Camere sulle strategie adottate.

L’ambizioso obiettivo di impiegare un solo anno per rinnovare il sistema fiscale italiano aveva trovato da subito l’assist dei presidenti delle commissioni Finanze della Camera e Finanze e Tesoro del Senato, che avevano costituito una mini bicamerale informale con i rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari. Questo organo ha il compito di esaminare le bozze dei decreti legislativi in via preventiva e di farne emergere le criticità prima che arrivino all’esame ufficiale delle Commissioni, in modo che il Governo possa poi contare su un’approvazione senza problemi. Il meccanismo ha funzionato a fasi alterne per i primi quattro provvedimenti, suscitando anche malumori per il modo approssimativo in cui a volte le bozze venivano portate alla bicamerale. Ma, in sostanza, il meccanismo di filtro è servito. Tranne che nel caso del decreto sulle commissioni censuarie catastali, che ha visto due ribattute di ping pong sulla questione della rappresentanza obbligatoria delle associazioni di categoria del mondo immobiliare: il Governo non voleva garantirla ma le commissioni parlamentari hanno tenuto duro. Del resto i tempi sono lunghi anche perché è proprio la delega a prevedere un parere parlamentare delle commissioni competenti entro i 30 giorni della trasmissione del decreto e un eventuale secondo parere qualora il Governo decida di non conformarsi alle indicazioni arrivate dalle Camere.

Le reazioni dei presidenti delle commissioni parlamentari sono diversi nel tono. Daniele Capezzone (Camera) in una lettera aperta ha invitato il premier «a riprendere il meccanismo informale ma di grande buon senso, che era stato politicamente accettato dal Governo e che era stato rispettato per i primi tre decreti, a indicare un cronoprogramma preciso e far sapere alla commissione e al Parlamento se il Governo intenda avvalersi delle proposte di proroga della delega che sono state presentate». Mauro Marino (Senato) ribatte che «Capezzone sbaglia nel definire deludenti i decreti delegati già in Gazzetta ma ha ragione nell’invocare la continuità del metodo della consultazione informale sugli schemi di decreto legislativo in preparazione»; e sulla proroga invita a a una valutazione «solo dopo aver vagliato l’adeguatezza dei tempi necessari al completamento della delega».

Pugno di ferro con i medici complici dei fannulloni

Pugno di ferro con i medici complici dei fannulloni

Gaetano Ravanà – Il Giornale

Come si fa a farsi riconoscere la legittimità del ricorso alla legge 104 (quella che regolamenta i permessi retribuiti per l’assistenza a un familiare) con la complicità di un medico? Per la procura agrigentina basta una spirometria realizzata dallo stesso medico che soffia nello strumento clinico in assenza del paziente, in modo da fare apparire una patologia in realtà inesistente. Oppure, dare dei consigli prima di una radiografia per la postura da assumere al fine di fare emergere difetti che non ci sono.

Questo è quello che per gli inquirenti si è verificato in decine e decine di casi nella provincia agrigentina. Oltre 150 persone, dietro il pagamento di tangenti, avrebbero ottenuto il riconoscimento della 104. Un’inchiesta che ha portato all’emissione, nel settembre dello scorso anno, di diverse ordinanze di custodia cautelare. Le manette ai polsi sono scattate per medici e intermediari. Oltre cento persone sono finite nel mirino della magistratura, ma l’inchiesta è andata avanti e la magistratura agrigentina, con in testa il procuratore Renato Di Natale e l’aggiunto Ignazio Fonzo, ha puntato l’attenzione sul mondo della scuola, dove il fenomeno ha assunto connotati molto sospetti. È stato un comitato spontaneo di insegnanti che si è costituito per fronteggiare il fenomeno della 104 a presentare una denuncia al Tribunale agrigentino. Diversi docenti non riuscivano mai ad ottenere il trasferimento, pur avendo i numeri, perché proprio per l’autorizzazione all’utilizzo della 104 ad altri colleghi venivano di fatto, ogni anno, scavalcati nella graduatoria.

Analizzando le carte che il Provveditorato agli Studi di Agrigento ha consegnato agli agenti della Digos, sono saltate fuori un paio di situazioni ritenute coincidenze «strane» e necessarie di approfondimento. Nella città di Sciacca, in particolare, su 140 tra docenti, impiegati in segreteria e operatori scolastici, 90 hanno la 104, circa il 70 per cento. In un’altra scuola, sempre nell’Agrigentino, su un organico di undici bidelli, tutti quanti hanno beneficiato della legge 104, vale a dire il cento per cento. Ma da quanto trapela da ambienti investigativi e anche da quelli di Provveditorato e Inps, ci sarebbero tante altre situazioni «sospette». La procura ha già anticipato un nuovo filone che potrebbe portare a un numero di indagati da capogiro. Per iniziare sono 280 le persone, in gran parte insegnanti, ma ci sono anche dipendenti e funzionari di altre pubbliche amministrazioni, che risulterebbero indagate. Si scopre che altri certificati medici sarebbero stati costruiti ad hoc per ottenere il trasferimento a casa.

Questo nuovo scandalo va a sommarsi alla vicenda della malattia di massa dei vigili urbani di Roma e dei netturbini di Napoli nella notte di Capodanno. La complicità dei medici sta alla base del tutto e, proprio per questo motivo il Governo entro febbraio modificherà le norme del lavoro nel pubblico impiego. I controlli sui certificati di malattia verranno potenziati e non verranno più assicurati dalle Asl ma direttamente dall’Inps. La stessa procedura dovrebbe essere estesa anche all’iter per il riconoscimento della legge 104.