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Le riforme delle pensioni? Hanno ridotto la diseguaglianza

Le riforme delle pensioni? Hanno ridotto la diseguaglianza

di Paolo Ermano*

Analizzando i dati della Banca d’Italia sulle Indagini sui Bilanci delle Famiglie Italiane dal 1977 al 2014 è stato possibile computare l’indice di Gini per la popolazione dei pensionati (vecchiaia, anzianità e reversibilità) e confrontarla con quello della popolazione dei lavoratori. Lo scopo della ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro è quello di far emergere l’impatto del sistema pensionistico pubblico che sembra sempre più capace, grazie alle recenti riforme, di livellare le differenze di reddito all’interno della popolazione dei pensionati rispetto ai lavoratori. Contrariamente a quanto altri hanno evidenziato, e un po’ al senso comune, le recenti modifiche normative hanno reso la popolazione dei pensionati più omogenea dal punto di vista reddituale.

L’indagine

La presenza di un sistema pubblico che gestisce le pensioni di anzianità e vecchiaia rende la società più o meno diseguale? La domanda ha finora trovato poche risposte. L’anno scorso il Sole 24 Ore ha provato a misurare l’indice di concentrazione di Gini [1], la più nota misura della diseguaglianza economia, per il 2013 evidenziando come la popolazione di pensionati fosse caratterizzata da maggior diseguaglianza rispetto alla popolazione dei lavoratori. Purtroppo l’assenza di dettagli più precisi sulle modalità di calcolo utilizzate non ci ha permesso di comprendere come sia stato calcolato l’Indice di Gini da parte degli autori della ricerca pubblicata [2]. L’Istat e Banca d’Italia pubblicano studi che tengono conto dell’andamento dell’indice, non suddividendo però la popolazione indagata in sotto campioni [3].

Eppure il tema è importante per almeno tre ragioni. Innanzitutto, in Italia la spesa pubblica per le pensioni ammonta a circa €250 miliardi, di cui circa €180 miliardi sono spesi per le pensioni di anzianità, e ci si aspetterebbe che tanto denaro gestito dallo Stato sia indirizzato, fra i diversi obiettivi, anche a ridurre le diseguaglianza. Perché, se così non fosse, la gestione pubblica del sistema avrebbe una ragione in meno di esistere.

Secondo, con l’introduzione, avvenuta con la riforma Dini, del sistema contributivo nel nostro ordinamento, si sviluppa una difformità di trattamento generazionale fra vecchi e nuovi pensionati che durerà decenni, diversità che colpisce la sostanza dell’assegno pensionistico e che quindi modifica la distribuzione dei redditi della popolazione dei pensionati.

Terzo, le recenti modifiche della normativa sull’accesso alle pensioni di anzianità e vecchiaia potrebbero aver impattato sulla distribuzione dei redditi dei pensionati e conoscerne l’impatto è uno dei criteri per valutarne l’efficacia [4].

Per rispondere a questi interrogativi, il Centro Studi ImpresaLavoro ha analizzato il database della Banca d’Italia sulle Indagini sui Bilanci delle Famiglie Italiane dal 1977 al 2014. Grazie a questa preziosa e puntuale serie di dati, è possibile indagare per ogni anno il confronto fra l’Indice di Gini relativo al reddito disponibile netto e il reddito da pensione (vecchiaia, anzianità e reversibilità), dividendo il campione anche per sesso e ripartizione geografica [5].

Risultati

Dal grafico 1 possiamo già dare una parziale risposta ai quesiti appena avanzati.

Come si può osservare, il valore dell’indice di Gini misurato sul reddito delle due popolazioni, lavoratori e pensionati, evidenzia un percorso che dal 1977 al 2014 vede la popolazione dei pensionati ridurre il grado di diseguaglianza interna, passando da un valore di 0,40 a 0,30, contrariamente a quanto accade all’altra popolazione, quella dei lavoratori, per i quali l’indice cresce lievemente da 0,34 a 0,37.

Grafico 1Ermano01

Da questa indicazione possiamo affermare che negli ultimi venti anni il sistema pensionistico relativo alla vecchiaia, anzianità e reversibilità, si è rivelato capace di ridurre la diseguaglianza della popolazione interessata in maniera significativa rispetto ai lavoratori.

Il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, iniziato con la riforma Dini del 1995, non sembra aver modificato significativamente la distribuzione dei redditi dei pensionati. Come si può osservare dal grafico 2, dal 1995 a oggi l’indice di Gini non segnala particolari movimenti, se non dopo 2010.

Grafico 2
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Stando ai dati sulla spesa pensionistica forniti dall’Istat, dal 2010 l’importo medio annuo degli assegni di vecchiaia è cresciuto (2011-2013: +3%) per effetto dell’innalzamento dell’età pensionabile, riducendo così le differenze fra le pensioni più modeste e quelle più elevate. Questa progressione dell’importo versato ai pensionati può essere un indizio per giustificare una riduzione dell’ineguaglianza in questa popolazione.

Se questo andamento continuerà, e se la spiegazione qui avanzata si rivelerà corretta, l’effetto redistributivo del passaggio dall’essere lavoratore all’essere pensionato sarà maggiore. Inoltre, da questo punto di vista, il passaggio dal contributivo al retributivo non sembra aver influenzato particolarmente la distribuzione del reddito fra i pensionati. Se andiamo ad analizzare nel dettaglio l’indice suddiviso per sesso (grafico 3) troviamo una sostanziale parità di genere.

Grafico 3
Ermano03

L’indice di Gini, invariante per trasformazioni omogenee, non permette di evidenziare la differenza di importo fra uomo e donna: per quanto l’indice di diseguaglianza abbia valori molto simili fra i due sessi è il caso di ricordare che nel 2013 l’assegno di vecchiaia per le donne era pari in media al 60% dell’assegno per gli uomini, segnalando un’evidente disparità nei redditi percepiti.

Per valutare eventuali differenze territoriali è stato possibile computare l’indice di Gini per tre specifiche aree, seguendo la divisione usuale per l’Italia come previsto nel database originale: Nord, Centro e Sud+Isole. I risultati, come rappresentati nei prossimi due grafici (4 e 5), presentano l’andamento dell’indice di Gini dal 1977 al 2014 per i pensionati divisi per ripartizione geografica.

Per quanto l’evoluzione dell’indice nelle tre aree sia simile, come ci si aspetterebbe da un sistema pubblico che cerca di smorzare le differenze fra diverse aree economiche, appare chiaro che delle differenze esistono. Stranamente, il Sud e il Nord sembrano muoversi in parallelo fino a metà anni ’90, quando il Nord ottiene un grado di equità fra i pensionati più elevato, come confermano anche diversi studi che analizzano l’intera popolazione nazionale. Molto più erratico sembra il comportamento dei pensionati residenti in centro Italia, che sembra muoversi in senso opposto rispetto alle altre aree del Paese.

Grafico 4
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Entrando nel dettaglio degli ultimi 20 anni, osserviamo come fosse il Nord l’area con il minor grado di diseguaglianza. Non sembra esserci alcun congruenza fra l’andamento dell’indice di Gini per aree geografiche fino al 2010, quando tutte e tre le aree vedono sia una discesa dell’indice, segno di maggior eguaglianza, sia una convergenza verso un medesimo valore, 0,30.

Grafico 5
Ermano05Sembra questo, dal punto di vista dell’equità, la cifra più importante delle riforme del sistema pensionistico nell’ultimo anno.

Commento

Sembra quasi un risultato inaspettato, ma il sistema pensionistico disegnato dalle recenti riforme, in particolare quelle dell’ultimo Governo Berlusconi e della Legge Fornero, hanno di fatto restituito, più o meno volutamente, alle pensioni una dimensione fondamentale per dar valore alla natura pubblica del sistema di ripartizione: quella di esser strumento di riduzione delle diseguaglianze.

Sia ben chiaro: una popolazione che dal punto di vista del reddito percepito grazie al sistema pensionistico si trova in una situazione di maggior equità non è necessariamente una popolazione che vede il proprio benessere aumentare. Di fatto, il recente aumento dell’assegno medio per le pensioni di anzianità e vecchiaia, unito alla diminuzione dell’indice di Gini, come qui evidenziato, descrive un situazione di maggior benessere sia per il singolo pensionato, che si trova ad avere un assegno più pesante rispetto al passato, sia per la popolazione dei pensionati, più omogenea dal punto di vista reddituale rispetto al passato.

Note: 

[1] Misura tra le più utilizzare per analizzare la concentrazione di una variabile (es.: reddito ricchezza) all’interno di una popolazione. L’indice assume valori tra lo 0, in corrispondenza di una equa ripartizione delle risorse disponibili fra tutti gli individui, e l’1 quando un solo individuo ottiene tutte le risorse disponibile;

[2] “Con la pensione la diseguaglianza cresce”, Sole24Ore, 29/4/2015 pp.21;

[3] Si veda: “Reddito e condizioni di vita”, Istat, vari anni; “Indagini sui bilanci delle famiglie italiane”, Banca d’Italia, vari anni;

[4] Già ci siamo occupati degli impatti sulla sostenibilità economica di queste manovre. Vedi: “Troppo ottimismo sul futuro delle pensioni”, Panorama, 27 novembre 2015;

[5] Specificatamente, l’Indice di Gini è stato calcolato sul campione presente nel database della Banca d’Italia “Indagini sui Bilanci delle Famiglie Italiane 1977-2014”. Abbiamo computato l’indice per il Reddito disponibile netto (escluso da capitale finanziario) e per il Reddito da Pensione (Tipo 1: vecchiaia o anzianità; Tipo 3: reversibilità);

Blasoni: Difendere la proprietà è difendere il lavoro

Blasoni: Difendere la proprietà è difendere il lavoro

di Massimo Blasoni

Pubblichiamo la prefazione di Massimo Blasoni, Presidente del Centro studi ImpresaLavoro, a “Le virtù della proprietà” di Carlo Lottieri, libro della collana “Fuori dal coro” in edicola con Il Giornale.

lottieri“Proprietà”, per alcuni, è un termine che identifica diseguaglianze ed egoismi, riecheggiando prevaricazioni antiche. “La proprietà è un furto”, diceva Proudhon. Per altri, e per fortuna sono i più, la proprietà privata è espressione del lavoro e della libertà.

Nella mia memoria, la proprietà è l’appartamentino comprato da mio padre e la sensazione di emancipazione che questo acquisto gli dava. Se vogliamo, tanto la nostra libertà trova un limite nella libertà altrui, altrettanto la proprietà rappresenta il confine che opponiamo agli altri. Un confine naturale, facendo eco a John Locke e Frédéric Bastiat, che ognuno ha diritto di difendere come la sua libertà e la sua persona. “Non è perché ci sono leggi che ci sono le proprietà, ma è perché ci sono le proprietà che ci sono le leggi”. E questo confine viene colto da molti di noi soprattutto come prodotto del lavoro. La proprietà scaturisce dal lavoro, ne è un’estensione e non è ovviamente il privilegio di un’oligarchia; anzi è la sua larga diffusione che ulteriormente la legittima e, oltre che naturale, la rende democratica.

Nel nostro Paese la proprietà non è particolarmente tutelata e indubbiamente è fortemente tassata. Questo soprattutto per la ridondante presenza della politica nelle nostre vite che trae potere dalla propria capacità di spesa. Peraltro il retaggio di una cultura di sinistra che poneva, e forse pone, al centro lo Stato è rilevante, nella storia recente del nostro Paese, sin dalla Costituente.

Certo è che nell’ultima edizione dell’Index of Economic Freedom, realizzato dal Wall Street Journal e da Heritage Foundation, alla voce “diritti di proprietà” l’Italia ha un punteggio di 50 su 100. È insomma una sorta di Paese “parzialmente represso” e si piazza mestamente in 57esima posizione dietro Paesi come Qatar, Giordania, India e Malesia.

Il livello di tassazione sulla proprietà ha raggiunto da noi livelli difficilmente accettabili. La tassazione sulla casa e quella sul risparmio sono cresciute in maniera esponenziale negli ultimi anni. E, ricordiamolo, le imposte sulla proprietà sono tasse sulle tasse, nel senso che al prelievo sul nostro reddito da lavoro si aggiunge quello sui nostri acquisti. Eppure dovrebbe essere chiaro che lo Stato è un gestore poco efficiente e, mentre tassa la case degli italiani, utilizza senza criterio il proprio patrimonio: 530.000 unità e 760.000 terreni in parte liberi, in parte affittati male.

Diversamente, è chiaro, si comporta il padre di famiglia con la sua abitazione come già Aristotele rilevava nella Politica: “Di quel che appartiene a molti non si preoccupa proprio nessuno perché gli uomini badano soprattutto alla proprietà loro”.

In edicola con Il Giornale “Le virtù della proprietà” di Carlo Lottieri

In edicola con Il Giornale “Le virtù della proprietà” di Carlo Lottieri

È in edicola con Il Giornale il libro “Le virtù della proprietà”, scritto da Carlo Lottieri e nato da una collaborazione tra il Centro studi ImpresaLavoro e Confedilizia. Il lavoro si inserisce nella collana “Fuori dal coro”, serie di approfondimenti e inchieste sui temi caldi dell’attualità. Libri agili ed essenziali che aiutano i lettori a orientarsi sulle questioni del mondo contemporaneo, si tratti di religione, politica, economia, ambiente o società.

In un mondo di idee sempre più omologate, questo appuntamento settimanale esclusivo vuole uscire dal quotidiano per rispondere alla voglia di capire dei lettori. Un punto di vista controcorrente, libero dal pensiero dominante.

“Le virtù della proprietà”, disponibile in edicola a soli € 2.50 (oltre al prezzo del quotidiano), è un viaggio appassionante in difesa della proprietà privata, un pilastro dell’economia e simbolo della libertà personale, ma nel mirino di fisco e leggi. Da Aristotele a Einaudi sono moltissimi i pensatori che hanno visto nella proprietà il requisito fondamentale per una società ordinata e funzionante.

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Le tasse diminuiscono ma solamente a parole

Le tasse diminuiscono ma solamente a parole

«Diminuiremo le tasse», «Anzi, no: le abbiamo già abbassate!» Quante volte avete letto sui giornali queste rassicuranti dichiarazioni del governo? Capita però che studiando i dati Ocse e prendendo come indicatore il cosiddetto “cuneo fiscale” (cioè la differenza tra il lordo e il netto dello stipendio), si scopra che negli ultimi anni questo fardello è invece cresciuto in Italia del 2,57%, arrivando nel 2015 al 48,96% del costo del lavoro. Un dato in controtendenza rispetto alla media delle altre 34 economie occidentali analizzate, nelle quali il cuneo fiscale e contributivo è sceso dello 0,11% rispetto al 2007 e dello 0,72% rispetto al 2000. I Paesi che hanno scelto di rendere il lavoro più conveniente sono economie vicine a quella italiana: la Germania (-2,36%), la Francia (-1,29%) e il Regno Unito (-3,29%). Altrove il cuneo è invece aumentato, ma sempre in misura minore rispetto all’Italia: negli Stati Uniti (+0,74%), in Australia (+0,65%), in Spagna (+0,57%) e in Canada (+0,36%).

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Blasoni: Rivoluzioniamo il lavoro

Blasoni: Rivoluzioniamo il lavoro

Massimo Blasoni – Panorama

Panorama_2016-04-28Debito, deficit, scarsa crescita: sono molti i problemi che attanagliano la nostra economia. Meno trattato è il tema della produttività. Eppure, uno dei primi indici di difficoltà del nostro Paese è la capacità di produrre con efficienza, che si va riducendo. I dati Eurostat sono eloquenti. Preso a riferimento il 2010 la produttività reale per lavoratore è scesa ad oggi in Italia di 2,5 punti. Nello stesso periodo è invece aumentata di 1,7 punti in Francia, di 2,8 in Germania e addirittura di 3,9 nel Regno Unito. Negli anni Settanta l’Italia era al primo posto per crescita della produttività nell’industria rispetto alle principali economie comunitarie. Il ritmo è rallentato nei due decenni successivi ma è dal Duemila che rapidamente siamo scivolati in fondo alla classifica.

La produttività, in buona sostanza, misura l’efficienza delle aziende: più lavoro e tempo sono necessari per raggiungere un determinato risultato peggiore è la prestazione. Da cosa dipende la nostra bassa performance? Non esiste una risposta univoca e sono molti i fattori che concorrono. Quanto è complesso e costoso dare vita a una nuova azienda in Italia? Quanto tempo, sottratto alla produzione, debbono utilizzare gli imprenditori per i mille adempimenti ad esempio richiesti dal fisco? Lo ha calcolato Doing Business, il rapporto annuale della Banca Mondiale, che ci dice che un medio imprenditore deve utilizzare 269 ore all’anno soltanto per pagare le tasse. Sulla bassa produttività incidono anche le mancate liberalizzazioni e le non adeguate infrastrutture materiali. Le reti portuali, autostradali e ferroviarie non paiono certo pari a quelle dei nostri concorrenti e quanto a infrastrutture informatiche siamo 25esimi secondo la Commissione Europea. Se all’incertezza e alla lentezza della nostra giustizia si aggiunge una burocrazia tortuosa e lenta purtroppo il gioco è fatto.

Concentriamoci infine sull’aspetto forse più rilevante: il lavoro. Il nostro tasso di occupazione è dieci punti sotto la media comunitaria. Malgrado il Jobs Act è difficile assumere, premiare il merito e restano estremamente complesse le relazioni sindacali. Secondo il rapporto annuale del World Economic Forum ci collochiamo al 126esimo posto per efficienza del mercato del lavoro, dopo Paesi come la Grecia e il Marocco. Ci penalizzano la scarsa flessibilità nella determinazione dei salari, il loro scarso legame con la produttività e l’enorme tassazione. Inoltre si fa pochissima formazione e il numero di laureati è il più basso d’Europa. Nel nostro Paese resta troppo forte l’idea della job property, cioè del posto fisso immutabile in un medesimo contesto e i contratti, troppo rigidi, disciplinano la quantità di tempo impiegata dal lavoratore e non il numero e l’efficienza delle prestazioni rese in quel medesimo tempo. Il mondo intorno a noi è ben più competitivo che solidale. Solo se sapremo riconsiderare il nostro modo di lavorare e drasticamente innovare il sistema di regole e di reti che condizionano le nostre aziende avremo una possibilità. Il punto è ineludibile.

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Il manuale per tagliare gli sprechi dello Stato

Il manuale per tagliare gli sprechi dello Stato

cop_pennisi_def2Gianfranco Fabi – Il Sussidiario

Si sente sempre più spesso ripetere, anche da parte di illustri esperti di economia, che l’attuale crisi economica è il frutto di un liberalismo senza limiti e di quello che viene chiamato il fallimento del capitalismo. Una tesi certamente affascinante anche basata su di una visione strettamente ideologica più che fattuale. Infatti, prima di accettare supinamente questa analisi, ci potremmo chiedere in primo luogo se l’Italia sia un Paese a economia di mercato e in secondo luogo se i capitali possono fare veramente il bello e il cattivo tempo. E allora si potrebbe osservare che la metà più uno (il 51%) del Pil italiano è puramente e semplicemente intermediato dallo Stato e che la moneta sia nella sua quantità, sia nel suo prezzo (il tasso di interesse) è totalmente controllata da una entità extra-nazionale come la Banca centrale europea.

Se quindi è certamente vero che una finanza fuori controllo ha innescato negli Stati Uniti quella progressiva sfiducia che ha bloccato le decisioni economiche, è altrettanto vero che in Italia il sistema finanziario ha tenuto testa alla crisi e ha trovato e trova la sue maggiori difficoltà non nella corsa ai derivati e ai titoli speculativi, ma nel rallentamento dell’economia reale. Sono state infatti le difficoltà e talvolta purtroppo i fallimenti delle imprese a far aumentare oltre il livello di guardia le sofferenze bancarie. In questa realtà allora il ruolo dello Stato appare fondamentale. In primo luogo, come regolatore, perché se i mercati non funzionano spesso è più colpa delle regole che non frenano gli abusi e non colpiscono gli speculatori. In secondo luogo, perché attraverso la spesa pubblica, come insegnava il grande Keynes, si può tentare di accelerare nei momenti di difficoltà attraverso la leva degli investimenti.

Se sulle regole bisogna tener conto che molto ormai dipende dalle esigenze di armonizzazione dell’Unione europea, sul fronte della spesa pubblica la responsabilità è quasi completamente nazionale. E qui l’Italia ha molte colpe da farsi perdonare. Sia per il livello della spesa, sempre più destinata alla copertura degli impegni correnti e sempre meno al finanziamento degli investimenti, sia per la qualità degli interventi, spesso decisi al di fuori da una razionale procedura di valutazione sulla loro valenza economica e sull’efficienza dal profilo del miglioramento della dotazione di infrastrutture del Paese.

La dimostrazione sta tutta nel libro “La buona spesa, guida operativa dalle opere pubbliche alla spending review” di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo (Ed. Centro studi ImpresaLavoro, pagg. 194). Pennisi, economista con una lunga esperienza all’estero e collaboratore, tra l’altro, de “Il Sussidiario” e Maiolo, anch’esso economista, docente a Tor Vergata, compiono un viaggio attraverso norme, procedure e regolamenti per mettere a fuoco una realtà disarmante: “Nel nostro Paese  – come si afferma nell’introduzione – imprese, lavoratori, cittadini sono penalizzati a ragione del pessimo stato delle infrastrutture e dalla mancanza d finanziamenti per realizzarle, nonché dalla carenza di strumenti operativi per valutarne effetti e redditività finanziaria e sociale”.

Riforma pensioni: cosa c’è in cantiere

Riforma pensioni: cosa c’è in cantiere

di Giuseppe Pennisi*

Come preconizzato sin dall’aprile scorso dal Centro Studi Impresa Lavoro in una tavola rotonda organizzata presso il CNEL, il Governo ha riaperto il cantiere sulle pensioni. L’Esecutivo sta pensando ad un mix di interventi da includere in settembre nel prossimo disegno di legge di stabilità per rendere più flessibile l’accesso alla pensione. Al centro resta l’ipotesi di una pensione a partire dai 62/63 anni con una penalità tra il 2 % ed il 3% per ogni anno di anticipo dell’uscita rispetto all’età della pensione di vecchiaia, cioè 66 anni e 7 mesi. Resta da comprendere il destino dei lavoratori precoci cioè coloro che vantano una lunga carriera contributiva: questi lavoratori chiedono un tetto a 41 anni di contributi per la pensione anticipata senza alcuna penalità sull’assegno.

Per i disoccupati il governo starebbe poi vagliando la possibilità di ritoccare la riforma degli ammortizzatori sociali, varata nel 2015 con l’obiettivo di prolungare di uno o due anni la copertura garantita oggi dalla Naspi, che dura al massimo 2 anni, per “accompagnare”, con una contribuzione figurativa, questi lavoratori alla pensione. Ciò consentirebbe di dare una risposta al superamento, dal 1° gennaio 2017, dell’indennità di mobilità e al gran numero di lavoratori disoccupati senior cioè con età superiori a 60 anni senza occupazione e senza più alcun sostegno al reddito.

Accanto a queste misure ci sarebbe un terzo canale di anticipo del pensionamento per i lavoratori coinvolti in processi di ristrutturazioni aziendali o per svecchiare la forza lavoro i cui oneri sarebbero, questa volta, posti a carico prevalentemente delle imprese con il coinvolgimento eventuale delle banche. Molte però le altre opzioni sul tavolo, compresa una revisione della normativa per i lavori usuranti, modifiche fiscali alla previdenza  complementare per rendere più appetibile il ricorso all’assegno integrativo e, in particolare, sull’utilizzo del TFR che potrebbe essere destinato ad arricchire l’importo dell’assegno erogati proprio dai fondi complementari.

In questo contesto, due lavori analitici recenti possono essere utili alle riflessioni di Governo e Parlamento. Il primo è un duro attacco ai sistemi previdenziali su base retributiva ed a perimetri troppo ampi della spesa pubblica. Ne è autore Daniel Smyth del Johnson Center della Troj University ed è intitolato Breaking Bad: Public Pensions and the Loss of that Old-Time Fiscal Religion. La prima parte del lavoro non riguarda direttamente la previdenza ma l’economia keynesiana e la “tendenza ad accumulare debito pubblico ed a promuove sistemi previdenziali non sostenibili”.  La seconda riguarda la poca trasparenza e le fuorvianti ipotesi attuariali dei sistemi previdenziali a benefici definiti “che hanno stimolato i legislatori a porre i costi delle pensioni sui contribuenti del futuro”. “Far transitare (come ha fatto l’Italia) le pensioni pubbliche da sistemi retributivi a sistemi contributivi può essere un passo verso la riduzione della sfera pubblica”.

Il secondo è un lavoro di tre docenti dell’Università di Padova: Marco Bertoni, Giorgio Brunello e Gianluca Mazzarella. Lo ha pubblicato il principale istituto Tedesco di economia del lavoro, l’IZA come Discussion Paper No. 9834. Il documento rafforza la tesi presentata il 5 aprile in questa rubrica sulla base di uno studio comparato della London School of Economics: ritardare, entro certi limiti, l’età della pensione, fa bene alla salute. Il lavoro analizza i cambiamenti dell’età minima per andare in pensione introdotti in Italia nel decennio 1990 -2000 e dimostra che gli italiani di genere maschile tra i 40 ed i 39 anni hanno risposto aumentando le attività fisiche, riducendo il fumo ed il consumo di alcolici ed adottando diete più salubri.

*Presidente del board scientifico del Centro Studi ImpresaLavoro

Sacconi (Ncd): “Dopo la fase degli incentivi ridurre strutturalmente il costo indiretto del lavoro”

Sacconi (Ncd): “Dopo la fase degli incentivi ridurre strutturalmente il costo indiretto del lavoro”

Maurizio Sacconi*

La rilevazione dell’Ocse conferma l’abnorme dimensione del cuneo fiscale e contributivo sui redditi da lavoro in Italia. Superata la fase di straordinaria incentivazione del contratto a tempo indeterminato, si tratta ora di prevedere la riduzione strutturale del costo indiretto di tutti i rapporti di lavoro agendo tanto sui contributi quanto sulle tasse. In particolare, occorre rimuovere la penalizzazione della parte aggiuntiva di salario che il lavoratore realizza attraverso lo “straordinario” o i premi aziendali in conseguenza delle applicazione delle aliquote marginali. La stessa detassazione del salario secondo l’aliquota definitiva del 10 per cento dovrebbe diventare strutturale in modo da offrire certezze tanto ai lavoratori quando alle imprese incoraggiando gli incrementi di produttività e i comportamenti che li consentono.

* Presidente della Commissione Lavoro al Senato

Damiano (PD): “Diminuzione del cuneo fiscale diventi permanente”

Damiano (PD): “Diminuzione del cuneo fiscale diventi permanente”

Cesare Damiano*

“L’audizione, sul Def, alla commissione bilancio della Camera del vice direttore di Bankitalia Federico Signorini, offre spunti interessanti di riflessione sul Jobs Act. Il riconoscimento del fatto che i rapporti di lavoro stabili abbiano effetti benefici sull’accumulazione del capitale umano e sulla produttività dell’impresa, pone fine alla mistica della flessibilità/precarietà del rapporto di lavoro come elemento decisivo per il successo delle aziende. Piano piano si esce dalla logica tutta liberista della competitività basata esclusivamente sul costo della manodopera che ha creato gravi disastri sociali e occupazionali e contribuito alla distruzione di una parte del tessuto produttivo del nostro Paese”. Lo dichiara Cesare Damiano (Pd), presidente della commissione lavoro alla Camera.

“Scommettere sul contratto a tutele crescenti – spiega – che rappresenta il perno del Jobs Act, per le assunzioni aggiuntive e per le trasformazioni dei rapporti di lavoro flessibili in contratti a tempo indeterminato, significa consegnare ai lavoratori una dote sociale di enorme valore. Questa dote sociale fa la differenza e conferisce qualità al lavoro perché significa disporre di una rete di tutele sconosciuta al lavoro precario: tutele per malattia, maternità e infortunio; retribuzione, inquadramento professionale, percorsi di carriera, scatti di anzianità e ferie, disciplinati da un contratto nazionale di lavoro; tredicesima mensilità, trattamento di fine rapporto e, nel caso di imprese che abbiano un accordo sindacale aziendale, un premio di risultato”.

“Il secondo aspetto interessante evidenziato dal vicedirettore di Bankitakia, che condividiamo – conclude Damiano – è la necessità che la diminuzione del cuneo fiscale diventi permanente. Questo requisito, accanto alla limitazione della super precarietà rappresentata dai voucher, diventa un elemento chiave per il successo del Jobs Act”.

* Presidente della Commissione Lavoro alla Camera dei Deputati

Cuneo fiscale: durante la crisi in Italia cresce di più che in tutte le altre economie avanzate

Cuneo fiscale: durante la crisi in Italia cresce di più che in tutte le altre economie avanzate

Continua a crescere l’impatto del fisco sui salari italiani: è questo il risultato di un’analisi del Centro Studi ImpresaLavoro che, rielaborando dati Ocse, segnala come il cuneo fiscale (la somma delle imposte: dirette, indirette o sotto forma di contributi previdenziali) per un lavoratore dipendente  (“single e senza figli”) è cresciuto negli ultimi anni del 2,57%, arrivando nel 2015 al 48,96% del costo del lavoro. Un dato in controtendenza rispetto alla media dei paesi dell’Ocse: nelle altre 34 economie internazionali monitorate, infatti, il cuneo fiscale- contributivo scende dello 0,11% rispetto al 2007 e dello 0,72% rispetto al 2000.

Il sensibile balzo in avanti dell’Italia è un’eccezione tra le grandi economie avanzate:  negli Stati Uniti (+0,74%), in Australia (+0,65%), in Spagna (+0,57%) e in Canada (+0,36%) la crescita del cuneo fiscale – pur superiore alla media Ocse – è contenuta in variazioni inferiori al punto percentuale. Mentre in Francia (-1,29%), Germania (-2,36%) e Regno Unito (-3,29%) il carico fiscale è diminuito.

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La situazione non cambia se si prendono in considerazione nuclei familiari più complessi. Tra le coppie sposate con due figli in cui lavora solo uno dei due genitori, per esempio, il cuneo fiscale in Italia è cresciuto del 4,14% rispetto al 2007. Tra le economie avanzate, quella italiana è nettamente la performance peggiore. Giappone (+2,99%), Australia (+2,88%), Stati Uniti (+1,47%) e Spagna (+0,92%) hanno comunque visto un incremento del cuneo al di sopra della media Ocse (+0,49%). Mentre in Canada (-0,90%), Germania (-1,49%), Francia (-2,00%) e Regno Unito (-2,04%) il carico fiscale è diminuito rispetto alla situazione pre-crisi.

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Lo scenario è leggermente migliore, per l’Italia, prendendo in considerazione le coppie sposate con due figli in cui lavorano entrambi i genitori.  Anche in questo caso, il cuneo fiscale italiano è cresciuto rispetto al 2007, ma con un incremento dell’1,55% la performance del nostro Paese è migliore di quella di Giappone (+3,16%) e Australia (+2,79%). Meglio di noi, invece, fanno Stati Uniti (+1,03%), Spagna (+0,59%), Francia (-1,85%), Germania (-2,24%) e Regno Unito (-3,76%).

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Rispetto agli anni pre-crisi, insomma, nelle tre tipologie di nuclei familiari prese in considerazione, l’Italia vede sempre aumentare l’incidenza del cuneo fiscale con tassi di crescita sensibilmente più elevati di tutte le grandi economie europee. Questo incremento si è sommato ad un quadro di partenza già di per sé preoccupante. E così in Italia nel 2015 si rileva un cuneo fiscale tra i più alti al mondo.  Nel caso del nucleo familiare “single senza figli” il nostro Paese (48,96%) è in quinta posizione (su 34) dietro soltanto, tra le economie avanzate, alla Germania (49,44%) che però, come abbiamo visto, negli ultimi anni sembra avere decisamente invertito la tendenza. Meglio di noi, invece, fanno Francia (48,46%), Spagna (39,56%), Giappone (32,22%), Stati Uniti (31,66%), Canada (31,63%), Regno Unito (30,83%) e Australia (28,35%).

Tra le coppie sposate con due figli in cui lavora solo uno dei due genitori, l’Italia è addirittura terza (su 34) con il 39,87%, dietro a Francia (40,49%) e Belgio (40,41%). Molto distanti Germania (33,97%), Spagna (33,78%), Giappone (26,81%), Regno Unito (26,31%), Stati Uniti (20,71%), Canada (18,84%) e Australia (17,82%).

Il nostro Paese, infine, è in terza posizione (sempre su 34) anche per quanto riguarda le coppie sposate con due figli in cui lavorano entrambi i genitori.  Peggio di noi, con un cuneo fiscale del 42,70%, anche in questo caso soltanto Belgio (48,13%) e Francia (43,08%). Tra le economie avanzate, invece, meglio di noi Germania (42,33%), Spagna (36,37%), Giappone (29,16%), Canada (26,89%), Stati Uniti (26,61%), Australia (26,25%) e Regno Unito (26,18%).

Il tema della riduzione delle tasse sul lavoro è stato recentemente affrontato anche dal Cnel che nelle sue “Osservazioni e proposte” al Def (e relative audizioni) ha posto l’accento sull’esigenza di una adeguata e coerente politica per le famiglie a fini di crescita ed equità. Politica che, necessariamente, richiede una seria e profonda revisione del cuneo tributario-contributivo.

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