Edicola – Opinioni

Da Natale a Carnevale

Da Natale a Carnevale

Davide Giacalone – Libero

Il falso in bilancio va perseguito, ma anche il bilancio falso di comunicazioni governative contraddittorie. A Natale ci hanno detto che si depenalizzano le fatture false sotto i mille euro e che la soglia di punibilità penale per l’evasione fiscale passa da 50 a 150mila euro. Poi hanno messo tutto in un inesistente congelatore, continuando il presidente del Consiglio (giustamente) a difendere il senso di quelle norme. A Carnevale ci dicono di avere trovato un accordo in virtù del quale il falso in bilancio è sempre perseguibile d’ufficio, naturalmente in sede penale. Il fatto è che la depenalizzata fattura falsa diventa reato sia che la iscriva sia che non la iscriva a bilancio, perché lo falsa in entrambe i casi. E se i soldi che la società doveva al fisco sono stati sottratti mediante maggiori iscrizioni di spese o minori di entrate (perché se i conti sono in regola, allora non è evasione, ma un errore o la mancanza di soldi per pagare, cosa che già oggi i tribunali non puniscono come infedeltà fiscale), non serve a nulla depenalizzare sotto certe soglie se poi la procura rientra in casa contestando il falso in bilancio.

Non sono questioni formali, ma due politiche opposte. Preferisco la natalizia, ma temo la carnevalata. Posto che il reato di falso in bilancio, al contrario di quanto molti ripetono, non è mai stato depenalizzato ed è rimasto un “delitto”, nel 2001 si modificarono le regole di procedibilità. La cosa non mi convinse allora, perché così come non si può essere vergini a percentuale un bilancio non può essere vero a porzioni. Ma, comunque, fino al 2001 si procedeva d’ufficio, mentre da lì in poi si è continuato a farlo per le società quotate, mentre per le altre a querela di parte. Ovvero se qualcuno si riteneva danneggiato. Oggi altro non si farebbe che tornare al regime di prima, che non ricordo come l’era dei bilanci cristallini. L’innovazione, quindi, è un ritorno al passato. Con la particolarità che non funzionava neanche in passato.

In ogni caso: sia per l’evasione fiscale che per il falso in bilancio, non c’è ragione alcuna di difendere gli imbroglioni. Che paghino. Ma chi sono, gli imbroglioni? Non sono gli accusati di evasione o falso, bensì i condannati per tali reati. Solo che il fisco frusta con gli accertamenti e punisce poco con il recupero della supposta evasione, mentre i tribunali martorizzano con il procedimento e non condannano con le sentenze. Ci stiamo prendendo in giro, perché in un Paese in cui la giustizia non funziona la giustizia non c’è, quindi invocare procedure d’ufficio e pene più alte è giustizialismo ipocrita e satanico.

Dicono: premiamo i pentiti, nel reato di corruzione. Bello, sono favorevole. Ma il migliore trattamento per chi collabora con la giustizia è già nel nostro ordinamento, da prima che molti straparlanti nascessero, mentre per sapere se un collaborante sta dicendo il vero o rintontonendo la procura occorre una sentenza definitiva. E ci rivediamo fra dieci anni. Dicono: per evitare la prescrizione allunghiamola e facciamola decorrere dal processo. La prescrizione è un pilastro di civiltà ed è ciò che distingue una dittatura dallo Stato di diritto. Ma capisco il punto di vista: per molti quindici anni di processo sono quindici anni di stipendi; per il cittadino sono quindici anni di avvocati da pagare. Se governo e legislatori danno ragione ai primi al cittadino non resta che scappare.

Renzi aveva detto che non si sarebbe fatto influenzare dalla pressioni togate. Plaudo. È andato allo scontro, con piglio guerriero, sulle ferie dei magistrati (con un testo scritto male), ma poi consegna ai magistrati le chiavi delle aziende e il potere di decidere se il falso rilevato crea, o meno, un “danno rilevante”. Così, senza null’altro aggiungere. A piacimento dell’eccellentissima corte. Come essere severi con i pargoli perché passano troppo tempo alla play station, per poi dare loro i soldi acciocché possano comprarsi lo spinello. Strani genitori. Strani governanti.

Partite Iva, politica ferma ma da loro passa la crescita

Partite Iva, politica ferma ma da loro passa la crescita

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Riflettere su professionisti, partite Iva e freelance non è tema separato da quello della crescita: è questo l’elemento che il governo e la politica faticano a capire. Torniamo a parlare di partite Iva e cominciamo a sgombrare il campo da un equivoco. Chi sostiene le loro ragioni non lo fa in nome di una rivisitazione tardiva del mito del «piccolo è bello». Non sappiamo ancora quali connotati avrà l’economia del dopo crisi ma probabilmente la polarizzazione del sistema delle imprese, oggi determinata dall’export , si accentuerà. Bisognerà quindi sostenere tutti gli sforzi per aumentare la taglia delle aziende laddove è possibile, strutturare le filiere della fornitura in maniera più moderna e spronare i «piccoli» a non proseguire nel loro tran tran, a darsi – pur nei limiti della dimensione – un orizzonte di politica industriale, ad attuare per tempo la staffetta generazionale, ad aprirsi alla collaborazione anche temporanea di manager esterni, ad affrontare la discontinuità digitale.

Questo itinerario, ovvero l’evoluzione del nostro sistema manifatturiero, è destinato a incrociare la modernizzazione dei servizi, a mettere in cantiere una forte ibridazione con tutto ciò che sta a valle della produzione: di conseguenza, riflettere su professionisti, partite Iva e freelance non è tema separato da quello della crescita. Pur rispettando la differente scala di grandezza, fa parte della stessa riflessione, è l’incontro tra l’evoluzione dell’industria, le sue esigenze di ri-specializzazione e i professionisti dell’innovazione. È questo l’elemento che il governo, la politica ma anche il segmento più orientato alle riforme del giuslavorismo italiano faticano a capire. Per loro intervenire sulle partite Iva resta una misura di politica sociale, un paternalistico sostegno ai giovani.

Che questa impostazione sia riduttiva lo dimostrano tutte le indecisioni messe in mostra dallo stesso premier, che pure della capacità di scegliere ha fatto il baricentro del suo format politico. Renzi ha fatto autocritica sul nuovo regime dei minimi (che penalizza le partite Iva) ma è ancora lì a cincischiare di aliquote, tetti e forfait senza venirne a capo e con l’amministrazione finanziaria che si erge a custode di una presunta ortodossia fiscale. Non si rende conto che questi traccheggiamenti alimentano un risentimento tra i freelance che si esprime oggi, per lo più, con le campagne di tweet bombing sui social e le assemblee nei coworking ma è destinato a non fermarsi lì. Se si continua a tematizzare la questione delle partite Iva come una sorta di anomalia del sistema, una devianza rispetto al lavoro dipendente, non si va lontano e si finisce per delegare la ricognizione politico-sociologica ai fiscalisti ministeriali.

C’è un legame stretto tra la tassazione, le politiche previdenziali e il riconoscimento dello status di lavoratore autonomo della conoscenza, ma stenta a passare tra i maître à penser renziani. Eppure tutte le riviste americane di maggiore prestigio hanno pubblicato nelle ultime settimane inchieste e analisi sul boom del «nuovo» lavoro autonomo, sostenendo che lì si troveranno le maggiori (e le migliori) occasioni di lavoro e la possibilità di creare valore per sé e per il sistema delle imprese. Ecco, è questo il verso giusto: aiutare le partite Iva a crescere con politiche fiscali che non taglino loro le gambe, dotarle di un welfare che non si presenti predatorio (arrivare al 33% di contributi Inps con prospettive di pensione sotto i mille euro è francamente insostenibile) e favorirne l’inclusione nelle politiche di sviluppo. È chiaro che un simile programma non lo si centra con un ritocchino o un emendamento infilato nel Milleproroghe, ma si può dare un segnale subito (bloccare l’aumento delle aliquote previdenziali e ripristinare un regime dei minimi più favorevole) e poi costruire il nuovo.

Se la politica sta ferma il mercato si muove. Si cominciano, infatti, a registrare i primi movimenti di partite Iva e freelance verso nuove formule come le ditte individuali commerciali o le accomandite semplici perché garantiscono un regime fiscale più equo e una contribuzione previdenziale che non assomigli all’usura.

Istruttivo e distruttivo

Istruttivo e distruttivo

Davide Giacalone – Libero

Istruttivo e distruttivo, lo scontro sui contributi che le emittenti televisive devono pagare per l’uso delle frequenze digitali. È istruttivo che tutti si concentrino su quanto dovranno scucire la Rai e Mediaset (e chi se ne importa), o su quanto questo incremento sia frutto di una ritorsione politica (che neanche nella Chicago del vecchio Al). È distruttivo, invece, che nessuno faccia caso a cosa comporta una simile decisione governativa: la fine delle autorità indipendenti, la demolizione dell’Agcom (autorità per le comunicazioni). Che forse se lo merita pure, ma sarà il caso di concentrarsi sull’elefante entrato in cristalleria, non sulla scimmia sghignazzante che ha sul groppone e finge di guidarlo.

Partiamo dal conoscere, prima di giudicare e deliberare. L’autorità indipendente fu introdotta all’inizio degli anni novanta (con la legge Mammì, che, come tutti ripetono, contribuii a scrivere, ma dato che quanti dicono sono refrattari a studio e lettura, non sanno che i difetti li misi nero su bianco durante la discussione e subito dopo, perché le leggi si scrivono in Parlamento, dove si producono robe da ridere e da piangere). Fu una moda, quella delle autorità, che, anche grazie a Uolter Veltroni, furono da subito chiamate all’americana: Authority (che poi non è manco americano, perché colà al plurale fa: Authorities). A me sembrava che non potessero funzionare, in un sistema di diritto in cui esistono sedi di ricorso amministrativo. Così è stato. Ma ora siamo al salto (in basso) di qualità: è il governo a intervenire sulle decisioni dell’autorità indipendente, che così cessa di essere sia indipendente che autorità.

Nell’aprile del 2012, governante Mario Monti, con una maggioranza di governo che comprendeva le componenti politiche dell’attuale, un decreto legge stabilì che sarebbe stata l’Agcom a fissare criteri e quantificazione dei contributi annuali da versare per l’uso delle frequenze digitali. Nell’ottobre del 2014 (con calma), l’Agcom provvede. Nel decreto legge milleproroghe, il cui nome è un milleprogrammi, il governo Renzi incorpora quella decisione. Non pago di avere decretato d’urgenza, quindi dando vita a un atto che è già vigente e operativo, urgentemente, ma posticipatamente, decide di cambiarlo, presentando un emendamento che attribuisce al governo quella funzione. Tutti si mettono a strillare per le due ragioni sopra ricordate, ma nessuno vede lo scempio del diritto. Altro che semplificazioni e trasparenza dei testi, qui siamo all’azzeccagarbuglismo che genera un kamasutra legislativo, inducente contorsionismo regolamentare.

C’è una sola cosa da farsi, per metterci una pezza: chiudere l’Agcom. Perché se non la chiudono resta evidente che è commissariata, il che, per una supposta indipendenza, è troppo. Avvertendovi di ciò, vi metto sull’avviso di quel che si sta preparando e già praticando. Ricordate il vecchio mercato delle frequenze? Un suk inverecondo, che la legge Mammì stoppava, introducendo, dopo anni, la pianificazione e le concessioni. Peccato che provvidero a disapplicarla, dando poi le concessioni senza le frequenze, sicché il suk raggiunse ritmi e quotazioni stellari. È finito per estinzione, giacché si è passati al digitale. Bene. Peccato che ora si sia aperto il suk Lcn: vale a dire, per capirsi, della posizione di ciascuna emittente sul telecomando. Teoricamente non dovrebbe esistere, perché ad ogni autorizzazione corrisponde una collocazione. Ma praticamente è già attivo e fiorente, con soggetti che si fanno pagare milioni null’altro che il riflesso del valore di un atto amministrativo e governativo. In un Paese mezzo serio tutto questo verrebbe stroncato sul nascere, salvo il fatto che nessuno se ne occupa. Né il governo né la (non) autorità (non) indipendente. Quando qualcuno, fra qualche tempo o anno, ve lo racconterà come uno scandalo, sapete dove indirizzarlo.

Dati non dati

Dati non dati

Davide Giacalone – Libero

Cresciamo meno della metà dell’eurozona, non riuscendo a riassorbire la disoccupazione. Ciò dovrebbe imporre, a tutti, il tema di cosa fare per rimediare. Invece si cerca su chi scaricare la colpa, agevolati dal fatto che al governo hanno appena provato a prendersi il merito di dati e previsioni di pura fantasia. Nelle scorse settimane abbiamo letto di previsioni di crescita del prodotto interno lordo, per l’anno in corso, del 2,1%. Alcuni, più prudenti, supponevano un +1,6. Domandavamo: da dove arriva questa manna? Rispondevano: dal calo del petrolio e dalle politiche espansive della Banca centrale europea. Più le meravigliose riforme già fatte e che solo chi si picca di leggere i documenti non riesce a vedere.

Ora arriva la previsione della Commissione europea: 1’Italia dovrebbe crescere dello 0,6%. Dopo tre anni di recessione. L’intera zona dell’euro, noi compresi, è data in crescita dell’1,3%. Considerato che in quella media ci siamo noi, ed è già più del doppio della nostra, risulta evidente che gli altri crescono allargando il distacco. Le cose non andranno meglio nel 2016, perché è vero che noi dovremmo crescere dell’1,3, ma l’area e previsto che faccia +1,9. Lo svantaggio relativo diminuisce solo dello 0,1, mentre quello assoluto cresce. Tale crescita, inoltre, non è il frutto delle riforme che facciamo all’interno, ma del trascinamento che subiamo dall’esterno, tanto è vero che un’eventuale flessione della domanda globale è segnalata come possibile causa di problemi nei nostri conti. Sono le esportazioni a funzionare, prevedendosi un saldo attivo del 2,6 fra importazioni ed esportazioni. Ciò vuol dire che a tirare la carretta ci sono le aziende che esportano, agevolate da null’altro che dal deprezzamento dell’euro. Cioè da quel che non dipende da scelte politiche compiute all’interno dei nostri confini. Occhio a quel che segue.

Nelle stime fatte a novembre si prevedeva una crescita del nostro pil dello 0,6. Esattamente quella che si prevede ancora oggi. Ma si pensava che quella crescita avrebbe portato al 12,6% la disoccupazione, nel corso del 2015. Posto che il 2014 si era chiuso con la disoccupazione al 12,9. Ora, invece, si corregge la previsione, peggiorandola: dovremmo chiudere l’anno con il 12,8% dei disoccupati. Ovvero quelli che abbiamo oggi. Ma non ci era stato raccontato che solo a gennaio si erano creati 100mila posti di lavoro? Peccato fossero 94mila e compensassero a malapena gli occupati persi da ottobre. Nel 2016 dovremmo trovarci con il 12,6% di disoccupati, quindi con un calo dello 0,2. Nessuno, intellettualmente onesto, può sostenere che sia colpa di questo governo, visto che scontiamo una lunga e devastante perdita di competitività e crescita dei costi interni. Però nessuno, intellettualmente onesto, può continuare a vendere la balla che le riforme denominate all’inglese sono in grado di mettere al lavoro i disoccupati in vernacolo. L’Italia arranca e scivola anche perché al gran clamore delle polemiche seguono risultati striminziti e contraddittori.

E veniamo ai conti pubblici, dove si trova la polpetta avvelenata, fin qui nascosta agli italiani. Qui la Commissione si fa prudente, perché i conti italiani devono ancora essere rivisti. Fin qui siamo alla fede rispetto a quel che dice il nostro governo. E sentite che dice: nel 2014 il deficit è stato al 3% (che il cielo ci assista e che non si trovi nulla a farlo crescere); nel 2015 sarà del 2,6; nel 2016 del 2. Come si ottiene questo risultato? Mediante l’aumento del gettito fiscale. Avete letto bene. E io lo leggo nelle carte europee: perché aumenta la pressione fiscale. Laddove ci era stato detto che sarebbe diminuita nell’anno in corso. La verità è che rispetto ai conti a sua volta fatti dal governo italiano c’è una imponente novità, ovvero la Bce che fa scendere significatívamente il costo del debito pubblico. Bravissimi, ma com’è, allora, che tale meravigliosa cosa non produce da sola, senza tasse, la discesa del deficit? Risposta: perché non sono capaci d’imbrigliare la spesa pubblica. Vedi al capitolo Collarelli e secretazione dei suoi lavori. Saldo finale: debito pubblico che cresce al 133% del pil quest’anno e si spera scenda (si fa per dire) al 131,9 il prossimo.

Torno da dove sono partito: dobbiamo chiederci cosa fare per disincagliare l’Italia, posto che il motore produttivo funziona, come dimostrano le esportazioni. Rispondiamo: abbattimento del debito, mediante dismissioni; tagli della spesa corrente; tagli alla pressione fiscale; smantellamento della pressione burocratica. I dettagli illustrati molte volte. Ma, prima di tutto, piantiamola di prenderci per i fondelli fa soli. Operazione impossibile per la fisica, ma praticata dai parolai.

Doccia fredda sulla crescita 2015, Italia bloccata dalle tasse locali

Doccia fredda sulla crescita 2015, Italia bloccata dalle tasse locali

Oscar Giannino – Il Mattino

Le stime economiche sul 2015 diramate ieri sono una bella secchiata di ghiaccio sui recenti entusiasmi italiani. In sintesi, nel 2014 nell’euroarea solo Cipro, col suo Pil che ha segnato -2,8%, ha fatto peggio dell’Italia che ha chiuso a -0,5%. Nel 2015 l’Italia e Cipro restano i fanalini di coda, con previsioni di crescita ferme a +0,6% nel nostro caso e a +0,4% per i ciprioti. E nel 2016 Cipro ci spera, con un +1,6% rispetto al nostro +1,3%. La nostra disoccupazione non scende dal 12,8% nel 2015 e scende solo al 12,6% nel 2016. Certo, il 12,6% dell’Italia non è paragonabile al 26,6% della Grecia o al 24% della Spagna, ma in due anni in questi paesi è previsto che scenda di 4 punti. Se volete, consolatevi con fatto che la Commissione crede che il deficit italiano resterà al 2,6% del Pil, sotto il livello di guardia del 3%.

Perché restiamo in coda?
La scheda riservata all’Italia spiega esaurientemente perché Bruxelles non sia affatto convinta delle stime di crescita 2015 fino al 2% recentemente rilasciate nel nostro paese (ma attenti che Bankitalia prudentemente non si è ancora discostata dal +0,4% che risale a novembre scorso). Quel misero +0,6% attribuitoci nel 2015 dipende da consumi interni che non possono contribuire per più dello 0,3%, e per un traino dell’export che vale +0,4%, mentre le scorte hanno un effetto negativo del -0, 1%. La propensione al risparmio dovrebbe salire invece dal 12,2% del reddito disponibile al 13,1%, continuando a far arrabbiare il presidente del Consiglio e i suoi consiglieri che la considerano un «arricchimento» degli italiani. Non è cosi. Trovandosi ad aver perso il 10% del valore reale della loro ricchezza netta e con un reddito reale procapite diminuito per effetto della disoccupazione e dell’innalzamento di tasse locali e tariffe pubbliche, gli italiani mettono da parte e non consumano, perché non si fidano di aumenti ancora maggiori fiscali – previsti in legge di stabilità per decine di miliardi negli anni 2016-2018 – contributivi – scattati da inizio gennaio per artigiani, commercianti e iscritti alla gestione separata Inps – e di tariffe delle municipalizzate.

Ma il Jobs Act e gli incentivi all’assunzione?
In effetti, Bruxelles non dà il peso a questi due fattori che molti stimano invece come considerevole in Italia. L’occupazione totale dovrebbe salire solo dello 0,4% nel 2015, per la Commissione. L’impressione in Italia è che soprattutto i rilevanti incentivi monetari all’assunzione votato in legge di stabilità, a fronte di imprese che da 10 mesi tenevano il piede sul fre- no aspettando che venissero deliberati, dovrebbe portare a molti più occupati. I 94 mila aggiuntivi a sorpresa dello scorso dicembre – senza incentivi – compensavano a mala pena i 106 mila persi tra ottobre e novembre ma hanno fatto ben sperare. Vedremo. L’intera scommessa di Renzi si gioca su questo tavolo.

E il bonus petrolifero?
È vero, il barile è sceso dai 114 dollari di giugno 2014 ai 51-53 attuali. Ma primo nessuno si sente di scommettere che resti davvero a questa soglia (nelle ultime 2 settimane è salito da 41 a 50). E secondo l’Italia può prendersela solo con se stessa: nel nostro caso si trasferisce solo una minima parte del minor costo industriale alla tasca di famiglie e imprese, perché lo Stato si piglia per se più del 60% del costo finale tra accisa e Iva.

E il Qe della Bce?
Anche il minor costo del credito per effetto degli acquisti di titoli – per 1,1 trilioni di euro tra marzo 2015 e autunno 2016 – decisi dalla Bce si trasferirà in minima parte ad aziende nostrane e italiani, se non si risolve in qualche modo l’ostacolo di 180 miliardi di sofferenze e 150 miliardi di incagli in pancia alle banche italiane. Dopo 3 anni di ritardo, finalmente il governo Renzi sta pensando a una bad bank di sistema per sgravarne le banche almeno di una metà a condizioni vantaggiose. Ma siamo ancora a caro amico, perché i problemi tecnici da risolvere sono tanti, per evitare l’accusa di aiuti di Stato e tentare di coinvolgere capitali privati oltre alla garanzia di Cdp. Siccome i tempi sono lunghi, per il momento l’unico a beneficare di Francoforte sarà sempre lui, lo Stato italiano che risparmierà interessi sul debito pubblico.

Ma se il deficil risale?
Questo è l’unico aspetto da non temere più. Non solo Bruxelles stima molto generosamente un deficit pubblico italiano in discesa, mentre molti osservatori italiani – vista la legge di stabilità approvata dal Parlamento sforbiciando i tagli di spesa inizialmente previsti – sono disposti a scommettere che anche nel 2015 rischiamo di sforare il 3%. In realtà, con i recenti nuovi criteri di interpretazione del Patto di stabilità e crescita europeo diramati dalla Commissione, non rischiamo certo anche nel caso di sforamento del 3% niente di particolarmente grave, si aggiusterebbe tutto con 4 miliardi di aggiustamento da decidere a dicembre.

Conclusione
Sono tutte previsioni che non tengono in considerazione né un trauma sistemico all’eurozona se la situazione greca sfugge di mano, né una fiammata d’instabilità internazionale dovuta alla drammatica guerra alla svalutazione delle valute in atto in tre quarti del mondo, che espone molti paesi non più velocemente emergenti a trovarsi impiccati a debiti in dollari che salgono di valore. Ma detto questo, inutile illudersi. Se cresciamo così poco, è perché un paese impiccato ad alte tasse, a credito asfittico per la condizione delle sue banche, e a così forte disomogeneità tra Sud desertificato e Nord quasi-europeo, ha dentro di sé, nei propri errori e nel proprio modello distorto, le ragioni e le colpe dei propri guai.

Scacco ai burocrati

Scacco ai burocrati

Bruno Villois – La Nazione

Capita a tutti di dover avere bisogno di un elettricista, idraulico, meccanico e decine di altre figure indispensabili alla vita quotidiana di tutti noi. Ebbene, questi professionisti vi racconteranno che il loro impenetrabile e insuperabile nemico è la burocrazia. In media gli artigiani e i commercianti, dedicano un quinto della giornata a risolvere le infinite pastoie burocratiche, e altrettanto ne perdono per la parte contabile e fiscale. Su una media di 50 ore settimanali, 15-20 volano via per far fronte alla burocrazia, finora inossidabile e inattaccabile da ogni governo. Oltre al 30-40% del tempo per gli adempimenti, ci sono oneri finanziari, bolli, raccomandate, consulenti amministrativi e contabili. Eppure sono decenni che ogni politico, nazionale o locale, mette al primo posto il problema burocrazia per poi dimenticarsene in corso di mandato. Risolvere il problema con le ‘lenzuolate’ di liberalizzazioni o pseudo tali, non fa null’altro che aumentare il peso della burocrazia fissando, in nome e per conto delle liberalizzazioni, nuove astruse e complicate regole che nessuno è in grado di interpretare e che invece impongono più scartoffie e oneri consulenziali.

Il Governo pensa ad eliminare o a ridurre pesantemente il ruolo delle Camere di Commercio e dei corpi intermedi, che sono gli unici supporter dei piccoli imprenditori. Il loro indebolimento produrrà importanti problemi alle partite Iva, che vedranno ridursi i servizi, e rafforzerà la burocrazia. Chi rischia e lavora in proprio e dispone di risorse finanziarie limitate, da anni guadagna sempre meno e rischia sempre di più: togliergli i corpi intermedi significa abbandonarlo a se stesso. Renzi e il suo governo si dichiarano paladini della modernizzazione: se è vero, invece di abbattere i corpi intermedi, annientino la burocrazia. L ‘informatica e Internet sono un caposaldo per riuscirci; la riduzione del numero degli adempimenti e delle scadenze, da concentrarsi in un massimo di 2 o 3, è un secondo, punto fermo; l’abolizione dei doppioni, Stato, Regioni, Comuni, enti vari, che impongono, moltiplicandoli, gli stessi adempimenti, è il terzo perno. Così si modernizza il paese e si evita di far disperdere tempo e risorse a e piccole imprese.

Colpire la flessibilità illudendosi di creare lavoro

Colpire la flessibilità illudendosi di creare lavoro

Giuliano Cazzola – Il Garantista

I decreti attuativi del jobs act Poletti 2.0 stanno spargendo sale sulla ferita aperta all’interno della maggioranza dopo le vicende che hanno accompagnato l’elezione del Capo dello Stato. Il Nuovo centro destra teme che l’intesa ritrovata all’interno del Pd sulla candidatura di Sergio Mattarella prefiguri uno stravolgimento del sistema delle alleanze che hanno sorretto fino ad ora i processi riformatori, a partire da quello riguardante il mercato del lavoro. Non è infondata la preoccupazione che la ritrovata intesa in casa democrat vada a scapito di quelle politiche del lavoro, ferocemente contrastate dalla sinistra e difese dall’Ncd e da Sc, a giustificazione della loro partecipazione ad una coalizione “predominata” da un debordante presidente del Consiglio.

Mentre è ancora in ballo (insieme a quello, un po’ sbiadito, sugli ammortizzatori sociali) lo schema di decreto sul contratto a tutele crescenti (con annessa nuova disciplina del recesso per i neoassunti), il ministro Giuliano Poletti ha esposto le linee generali dei provvedimenti che dovrebbero riguardare la contropartita promessa dal Governo alla sinistra: la “potatura” delle forme contrattuali – considerate spurie e precarie dalla gauche – allo scopo di “promuovere il contratto a tempo indeterminato come forma comune di contratto di lavoro, rendendolo più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti ed indiretti”. A quest’ultimo proposito, ricordiamo per inciso che la legge di stabilità ha steso un tappeto rosso davanti al contratto di nuovo conio (con tutele più sostenibili in tema di recesso) accompagnandone l’entrata in vigore a braccetto di un regime di robusti incentivi che, in pratica, consentirà alle imprese di accollare allo Stato la retribuzione di un intero anno (sui tre previsti) per gli assunti nel 2015. La c.d. semplificazione delle forme contrattuali – raccomandata dalla Cgil e dalla sinistra del Pd – non convince gli altri diretti protagonisti del confronto in corso: Maurizio Sacconi del Ncd e presidente della Commissione Lavoro del Senato e Pietro Ichino, il quale, prima ancora di essere un senatore di Scelta civica, è certamente uno degli ispiratori delle politiche prefigurate nel jobs act.

La delega, in modo esplicito, accenna soltanto al “superamento” dei contratti di collaborazione, ma è evidente l’intenzione, radicata in certi ambienti, di arrivare ad una sorta di resa dei conti con la legge Biagi, in nome della “mistica” del precariato; come se, a produrre quegli effetti, fossero state le norme che hanno cercato di definire delle regole e riconoscere dei diritti a quanto stava avvenendo in un mercato del lavoro alla ricerca di quella flessibilità che poteva consentire alle aziende di “tirare il fiato” e continuare ad assumere. Sarebbe sempre opportuno ricordare – anche al compagno Poletti – quanto scriveva Marco Biagi nel Libro Bianco del 2001: “I mutamenti che intervengono nell’organizzazione del lavoro e la crescente spinta verso una valorizzazione delle capacita dell’individuo stanno trasformando il rapporto di lavoro. Ciò induce a sperimentate nuove forme di regolazione, rendendo possibili assetti regolatori effettivamente conformi agli interessi del singolo lavoratore ed alle specifiche aspettative in lui riposte dal datore di lavoro, nel contesto d’un adeguato controllo sociale”.

Quelli che con sufficienza vengono chiamati i “contratti atipici”, puntigliosamente regolati nella legge Biagi, non sono regali alle imprese, ma soluzioni normative mirate a situazioni specifiche che non troverebbero una risposta adeguata se venissero incluse forzatamente nelle fattispecie “comuni” del contratto a tempo indeterminato o a termine. Corre voce, per esempio, che vi sia l’intenzione di eliminare la tipologia dell’associazione in partecipazione, nonostante le regole pressoché proibitive introdotte dalla legge Fornero? Non ne vediamo l’utilità. Allo stesso modo, consigliamo tanta prudenza nell’affrontare il tema del “superamento” dei rapporti di collaborazione. Si tratta di centinaia di migliaia di contratti, molti dei quali già arrivati a scadenza e non rinnovati (anche in conseguenza del giro di vite a cui li aveva sottoposti la legge 11.92 del 2012) in attesa di quanto sarebbe stato disposto nei decreti attuativi del jobs act. Esiste forse qualcuno che ritenga possibile trasformare d’acchito questi rapporti in contratti a tempo indeterminato di nuovo conio, mediante un semplice e banale intreccio di norme di legge? Purtroppo, la sinistra non rinuncia a delle soluzioni illusorie, tutte incentrate sul contrasto delle “norme maledette“ della più recente legislazione del lavoro. Dimenticando, però, che sono stati proprio quei provvedimenti a consentire – prima della crisi e in corrispondenza di incrementi modesti del Pil – otto anni di crescita ininterrotta dell’occupazione fino a tutto il 2007, i cui esiti non sono stati completamente cancellati, nonostante i salassi degli ultimi tempi.

Invisibili trame contro l’euro

Invisibili trame contro l’euro

Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

La simpatia che il nuovo governo greco suscita in molti, la condiscendenza verso un Paese le cui condizioni sociali sono da alcuni anni drammatiche rischiano di farci cadere in una trappola che potrebbe portare dritti alla fine dell’euro. La Banca centrale europea con la mossa di ieri sera, e cioè con la sospensione del finanziamento diretto delle banche greche, ha mostrato di essere ben conscia dei rischi che si stanno correndo. La vittoria elettorale di Alexis Tsipras e il suo annuncio che non intende rispettare gli impegni assunti dal precedente governo erano stati accolti in modo diverso in Germania. Da Angela Merkel e dal suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, con grande preoccupazione. Dagli oppositori dell’euro con comprensione. Costoro vedono nel risultato delle elezioni greche un’occasione per criticare il modo in cui la Merkel ha finora gestito la crisi di Atene. Auspicano una revisione del programma di salvataggio concordato con la troika (Fondo monetario internazionale, Ue e Banca centrale europea) e ascoltano con attenzione le nuove proposte della Grecia per una ristrutturazione dei suoi debiti.

Critiche legittime e programmi ragionevoli, ma che nascondono un comportamento strategico. Il loro vero obiettivo è spingere la Bce ad accettare una ristrutturazione dei titoli di Atene che essa acquistò nel 2010 nell’ambito del Securities market programme, circa 31 miliardi di euro. Ma se lo facesse, la Banca violerebbe i trattati europei, che impediscono di finanziare debiti pubblici stampando moneta. I governi sono liberi di condonare anche tutto il debito greco, ma la Bce (che peraltro fino ad ora ha ottenuto un buon rendimento da quell’investimento) non lo può fare.

Non solo la Bce non può accettare perdite sui titoli pubblici che ha acquistato: non può neppure accettare, come garanzia nelle operazioni di finanziamento delle banche, titoli di un Paese che ha abbandonato il programma concordato con la troika. Un programma che, come ha rivelato ieri sera la Bce, è già di fatto violato. La sospensione del finanziamento delle banche è un primo passo nella direzione che potrebbe portare alla uscita della Grecia dall’Unione monetaria. L’obiettivo strategico di chi oggi è così accondiscendente verso Tsipras era dare scacco matto alla Bce, costringendola a violare apertamente i trattati. Indirettamente, bloccare il cosiddetto Quantitative easing, il programma di acquisto di titoli pubblici che la Bce ha annunciato il 22 gennaio. Eliminare quindi il paracadute per l’euro e mettere a rischio l’intera architettura dell’Unione monetaria. Ma da ieri i nemici dell’euro devono sapere che Francoforte rimane il presidio della moneta unica.

Fede fiscale

Fede fiscale

Davide Giacalone – Libero

Attenzione alla mala fede della (presunta) buona fede. Il fisco è già materia dolorosa e ingarbugliata, sicché non si sente alcun bisogno d’imbrogliarla ulteriormente. Per giunta con la pretesa di semplificarla. Sono stato fra i pochissimi che hanno difeso il senso del decreto legislativo approvato dal governo a Natale. Pur inorridendo per il successivo congelamento e trovando raccapricciante che alcune norme siano state inserite dopo il consiglio dei ministri, rendendo falso il verbale. Difendo la soglia del 3%, al di sotto della quale non scatterebbe il procedimento penale. Ma lo faccio senza ipocrisie e senza birignao inconcludenti: ha un senso se serve ad evitare il proliferare di processi in gran parte inconcludenti, spingendo il contribuente a pagare subito il dovuto. Ora, però, il presidente del Consiglio dice che varrà solo per chi evade in buona fede. Non ha alcun senso: chi è in buona fede, ovvero commette un errore, già oggi non viene punito penalmente. Il fatto è che se distinguo fra buona e mala fede occorre che ci sia qualctrno preposto a giudicare se quel singolo contribuente, per quel singolo importo non versato, si trova nella prima o nella seconda condizione. Quindi ci vuole il giudice. Quindi non c’è nessuna innovazione, perché è già così. L’innovazione sarebbe: sotto una certa soglia non me ne importa nulla se tu sei in huona o cattiva fede, paga (ammesso che tu debba pagare, perché se non è così farai ricorso avverso l’ingiunzione).

Questo è un favore a Silvio Berlusconi? Questa è una convenienza collettiva, perché diminuisce il contenzioso penale, noto per la sua lentezza, e potenzialmente aumenta il gettito fiscale. Se è un favore a qualcuno in particolare, semmai, è a quanti si ritrovano quel tipo di procedimenti penali da affrontare (e ci sono bei nomi), non a chi avrà già scontato la pena. (A proposito, e fra parentesi, quando Matteo Renzi dice, a Rtl 102.5, che solo poche decine sono gli italiani condannati a pena per questioni fiscali, si rende conto di solidarizzare con quanti sostengono essere anomala quella condanna, per giunta dopo l’assoluzione di chi stilò e firmò i bilanci incriminati?). E, comunque, se anche fosse: ma vi pare il modo di legiferare? Pro o contro che siano, le leggi per un solo caso sono riprovevoli. Aggiungono, dal governo: non si può depenalizzare la frode. Ma lo sanno che nel medesimo decreto sono depenalizzate (entro limiti) le fatture false?

Rischiano di riprodurre l’errore del Jobs Act: per i licenziamenti, si torna sempre dal giudice per sapere se sono legittimi o meno. Come oggi, tale quale. Mentre principi come il no al reintegro e il risarcimento crescente o il no al procedimento penale obbligatorio se hai pagato il 97% del dovuto, cambiano la realtà. Senza regalare nulla a chi viola le regole. Mentre supporre che sia severo chi vuole il penale e accondiscendente chi pretende la pecunia, significa non sapere nulla, ma proprio nulla, della giustizia italiana. Le imprese estere che vogliono investire in Italia sono spaventate dalla malagiustizia, mica dall’idea che non si possa evadere (in quel caso vanno a investire nei paradisi, non negli inferni fiscali).

Renzi ammise l’errore sulle partite Iva (con la triplicazione dell’aliquota sui minimi), che ha colpito proprio i giovani spinti fuori dal lavoro dipendente e stangati perché autonomi. Dice che il 20 sarà corretto. È lecito sapere come? Perché è perverso farti sapere cosa devi fare la sera prima di quando lo devi fare. Se non il giorno dopo. In questo senso l’abuso di diritto e la dichiarazione precompilata stanno trasformando i commercialisti da professionisti pagati dai clienti per far da esattori dello Stato in esattori e accertatori al servizio del fisco. Il tutto cambiando le norme mentre sono chiamati ad applicarle. Una condotta inaccettabile, certo non accompagnata da alcuna buona fede. Semmai da incapacità e dipendenza dalla cultura della burocrazia fiscale.

Se l’incertezza diventa la regola

Se l’incertezza diventa la regola

Enrico De Mita – Il Sole 24 Ore

Il 20 febbraio il Consiglio dei ministri esaminerà un pacchetto di provvedimenti attuativi della delega fiscale. Il tema della certezza del diritto è destinato, dunque, a rimanere all’ordine del giorno. Non stupisce, dunque, che il Consiglio nazionale dei commercialisti, nei giorni scorsi, sia intervenuto stigmatizzando «il susseguirsi di riforme che pongono la professione davanti a situazioni nelle quali incertezza interpretativa e stretti tempi di attuazione delle norme, spesso addirittura retroattive, rendono difficile l’attività di consulenza». Questa è una delle cause della incertezza che caratterizza il sistema tributario.

Ma il quadro delle incertezze (come condizionamento esterno della legislazione) è molto più ampio. Lo ha tracciato Antonio Berliri, uno studioso attento alla pratica. Ricorso eccessivo alla decretazione d’urgenza, anche quando manchi l’urgenza. Susseguirsi a breve distanza di norme che modificano le precedenti. Il contribuente ha tempo per conoscere la nuova legge. Scadente tecnica legislativa, con leggi che poi vengono precisate nelle circolari. Esempio di questa tecnica è il richiamo, vietato nello Statuto del contribuente, a leggi precedenti mediante numeri e date dai quali è difficile ricostruire la nuova normativa. Mancato coordinamento fra norme, quindi contraddizioni e incertezze che regolarmente vengono riempite dalle circolari. Norme restrittive e interpretazione autentica di leggi tributarie. Vi sono sentenze della Consulta nelle quali si afferma che l’interpretazione autentica non può violare il principio di affidamento.

Eccessivo numero delle circolari. È pur vero che la Cassazione sostiene che le circolari non hanno efficacia legislativa e che quindi non vincolano nessuno, neppure la stessa amministrazione. Questo in teoria, ma in pratica il diritto vivente lo fanno le circolari. Davanti al giudice si discute la legge interpretata dalle circolari. E quando dall’inosservanza di un obbligo viene fatta discendere una sanzione penale il contribuente preferisce pagare per evitare il processo penale e propone domanda di rimborso: rivive la regola del solve e repete. Bisognerebbe, come ha proposto Capaccioli, che l’emanazione di una circolare puntualizzi l’interesse a ricorrere con l’accertamento negativo da parte del giudice tributario. Ma l’incertezza più rilevante introdotta dalle circolari si ha quando l’amministrazione cambia opinione su una legge, proponendo la tassazione che in un primo momento aveva escluso. Qui viene in discussione il principio di buona fede.

Impossibilità per contribuenti e amministrazione di assicurare il tempo necessario per assimilare le disposizioni che sono chiamati ad applicare. Imperfetto coordinamento fra Governo e Parlamento che non presenta emendamenti migliorativi ma solo dilatazione della legge per interessi corporativi. Scarsa efficienza dell’amministrazione. È un punto rilevato fin dalla riforma del 1971. In sintesi, c’è confusione fra Governo e amministrazione. Il Governo come guida della legislazione non esiste, perché non esiste una politica tributaria. Poche cose vengono proposte dal Governo, alcune sacrosante perché attendono alle grandi linee della politica tributaria. Ma la legislazione ordinaria, quella diretta a combattere l’evasione, viene fatta dall’amministrazione con leggi che sono per lo più inasprimento della tassazione. Ma il vizio principale dell’amministrazione è culturale, quel vizio di interpretare solo in un senso la legge, l’ostinazione fiscale anche in presenza di una legge non favorevole al fisco. Il Governo si limita a interventi propagandistici come gli 80 euro e la dichiarazione precompilata che non sarebbe stata approvata da Vanoni per la responsabilità che il contribuente deve assumere di fronte allo Stato.