Edicola – Opinioni

La certezza calpestata del diritto tributario

La certezza calpestata del diritto tributario

Enrico De Mita – Il Sole 24 Ore

Lo schema di decreto legislativo sull’abuso del diritto – ora impigliato nella vicenda della contestata soglia di punibilità del 3% – porta nel titolo il riferimento alla «certezza del diritto». È stato detto che questo provvedimento dovrà lasciare all’interpretazione «uno spazio minimo quasi nullo». È un’affermazione, questa sullo spazio minimo quasi nullo, che va chiarita, perché secondo un’opinione diffusa la certezza del diritto è quella che non lascia alcun spazio all’interpretazione. Ora, il diritto tributario è un diritto come tutti gli altri. Sicché non si può stabilire a priori quanta parte di esso resti affidata alla interpretazione.

I principi sono sempre gli stessi. Il tema della certezza del diritto come tema di carattere generale è stato accantonato. Altri temi hanno preso il suo posto come quello dell’affidamento. Perciò non serve a niente scrivere in testa a una legge che essa risponde alla certezza del diritto. È solo uno slogan e il riferimento a questa esigenza può creare degli equivoci se non correttamente inteso. C’è un profilo pacifico del tema che riguarda tutte le leggi tributarie: il numero delle leggi e la loro stabilità nel tempo. Questo è il tema. La semplificazione è un metodo che vuol dire tutto il contrario di una legislazione a getto continuo. La certezza del diritto non può essere data da una legislazione che per la sua immensità è inconoscibile. C’è l’esigenza nel nostro ordinamento (come in quello tedesco) di un codice tributario nel quale le leggi siano semplici e chiare, altrimenti si resta condannati a una legislazione scritta con la mentalità delle circolari e che, per la sua minuziosità, penalizza non solo i contribuenti ma la stessa amministrazione. Ma è la prassi delle circolari che aggrava la situazione, quando introduce nell’ordinamento un’interpretazione distorta, con limitazioni e distinzioni che non hanno fondamento e che contrastano con lo spirito delle leggi. E l’emanazione di una circolare vuol dire certezza di atti d’accertamento conseguenti. Quindi l’aspirazione ad uno spazio minimo, quasi nullo per l’interpretazione, non è una prospettiva plausibile. Di fronte alla locuzione «sostanza economica», l’Amministrazione non rinuncerà a spiegare, con una circolare, che cosa si intende per sostanza economica nell’abuso del diritto. Lo slogan con cui è stata presentata la legge, la certezza del diritto, risulta vanificata dalla legge stessa.

Volendo dare un contenuto proprio alla certezza del diritto, questa vuol dire ripugnanza delle nuove regole senza abrogazione espressa delle precedenti nell’ordinamento legale. Il diritto ha il compito di garantire soprattutto comportamenti sociali rendendo prevedibili valutazioni per il futuro nel processo economico di alto valore costituito dalla sicurezza. Nel diritto tributario, con il forte prevalere delle garanzie costituzionali, perdono di autorità il metodo dell’interpretazione teleologica e della giurisprudenza degli interessi. Al loro posto è subentrata una concezione delle fattispecie legali dirette a garantire l’applicazione perequatrice delle leggi tributarie. La nostra giurisprudenza della Cassazione ha imboccato questa strada quando ha inventato la nozione di abuso del diritto con una interpretazione teleologica e perseguito in modo improprio la tutela dell’interesse fiscale. È sufficiente il provvedimento sull’abuso del diritto a neutralizzare questa tendenza della nostra giurisprudenza? Solo il tempo potrà dirlo.

Selezionare gli obiettivi per combattere la burocrazia

Selezionare gli obiettivi per combattere la burocrazia

Carmine Fotina – Il Sole 24 Ore

Poche idee ma chiare. Spesso, per quanto apparentemente banale, questa può rivelarsi la formula di maggior successo nelle policy per il supporto all’economia reale. E mai come su un argomento come quello degli investimenti esteri questa regola aurea torna limpidamente attuale. In questo campo abbiamo assistito a più di qualche errore e a un difetto generale di scarso coordinamento: troppi attori in campo e spesso tra loro concorrenti nelle decisioni. Come non pensare, a questo proposito, a grandi investimenti coccolati da membri del governo – senza distinzione tra esecutivi o schieramenti politici – nella fase di negoziazione e sgambettati nella fase decisiva da un veto locale o, peggio ancora, da un repentino cambiamento delle normative statali.

I marchi di British Gas, Ikea, Decathlon sono solo alcuni che potremmo consultare nel catalogo dei grandi investimenti bloccati, frenati o comunque rallentati dalle brutte sorprese che si sono via via manifestate nella disavventura con la burocrazia made in Italy. A tutt’altro catalogo – quello delle opportunità da presentare ai grandi fondi stranieri – si lavora ora tra Palazzo Chigi, ministero dell’Economia, ministero dello Sviluppo e ministero degli Affari esteri. La prima mossa sembra essere quella di tutelare le regole che hanno determinato la scelta dell’Italia per un grande investimento. In altre parole minimizzare i rischi regolatori che, secondo uno studio condotto dalla Camera di commercio italo-americana, frenano soprattutto gli investimenti nell’industria chimica e farmaceutica, nel settore energetico e nei servizi finanziari.

Numeri alla mano, a prescindere dalla graduatoria che scegliamo di analizzare, l’Italia è chiamata a un recupero molto impegnativo. Al 65esimo posto per il Doing Business, al 146esimo secondo il World economic forum che analizza il peso della regolamentazione assumendo come benchmark Singapore. Troppo spesso, per un Paese ad alta capacità manifatturiera e turistica, nell’ipertroia regolatoria a restare incastrati sono capitali di provenienza estera. Secondo uno studio I-Com, su oltre 33 miliardi di grandi investimenti sul territorio italiano oltre la metà è a carico di investitori stranieri, ma il 21% (quasi 7 miliardi di euro) risulta attualmente completamente arenato per ragioni amministrative. Tutti dati ed elementi ben noti a Renzi e ai suoi collaboratori, ora dall’analisi si dovrà passare ai risultati concreti.

Pasticci istituzionali

Pasticci istituzionali

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Prima o poi doveva succedere. Ed è successo. Non si possono svilire procedure istituzionali fondamentali – come quella, sacra, dell’approvazione dei testi di legge, portando in Consiglio dei ministri provvedimenti non del tutto definiti o, peggio, slide di generici documenti assertivi privi di qualsiasi dettaglio – e pensare che tutto ciò non si ritorca come boomerang contro coloro che operano tali stupri istituzionali. È accaduto con il decreto legislativo sul diritto penale tributario. Sul quale governo, Parlamento e l’intero sistema-paese hanno clamorosamente perso la faccia più volte.

Primo: il provvedimento è sostanzialmente giusto, e andava difeso politicamente, non mollato al primo stormir di fronde.

Secondo: come accade spesso a Renzi, le buone intenzioni – in questo caso, emanciparsi dalla demagogia fiscale della sinistra – non sono messe in pratica nel migliore dei modi. Nello specifico, come ha spiegato molto bene il sottosegretario Zanetti, introdurre esenzioni penali (potenzialmente per milioni) sul reato di frode documentale, grave perché presuppone la predisposizione intenzionale di documenti falsi per rappresentare operazioni inesistenti, è cosa sbagliata e indifendibile, mentre è opportuno alzare le soglie di depenalizzazione dei reati tributari meno gravi, come la dichiarazione infedele, e depenalizzare completamente, ferme restando le sanzioni amministrative, le mere omissioni di versamenti dell’Iva in presenza di dichiarazioni fedelmente presentate.

Terzo: non so se c’entri o meno Berlusconi (a naso, non credo) nell’aggiunta del famigerato “l9 bis”, ma bloccare tutto per quella presunzione – passando dall’ipotesi di provvedimento ad personam alla certezza di “non provvedimento” contra personam – è demenziale. Tanto più se poi si commette l’imperdonabile errore di legare il riesame della normativa alla scelta del prossimo capo dello stato, avvalorando l’idea che si trattasse di una furbata.

Quarto: un governo non può congelare un decreto legislativo già approvato dal Consiglio dei ministri sottraendolo all’esame del Parlamento, mentre Camera e Senato (presidenti, se ci siete battete un colpo) non possono accettare che passi ad altri la prerogativa di fissare il calendario dei propri lavori. È lo stesso errore, rovesciato, commesso per il decreto attuativo delle norme sul lavoro: in quel caso, sorta la questione se i dipendenti pubblici erano o meno equiparati a quelli privati, il governo ha detto di volersi rimettere al Parlamento, cosa impossibile visto che si trattata di legge delega e dunque, come dice la parola stessa, le Camere avevano delegato l’esecutivo a prendere decisioni,

Quinto: come magistralmente sottolineato da Davide Giacalone, non si può escludere i procedimenti in corso o in giudicato dalla nuova regola (Renzi dixit) senza buttare a mare il “favor rei”, uno dei pilastri della nostra civiltà giuridica.

Ma la cosa più grave di tutta questa brutta vicenda è e resta lo svuotamento di funzioni del Consiglio dei ministri. Non è certo stato Renzi a introdurre la cattiva abitudine di testi di legge completati o modificati ex post. Ma mai in modo così smaccato. Già per la legge di stabilità erano passati nove giorni tra il testo uscito dal Cdm e quello definitivo, ma almeno il motivo era più nobile: tener conto delle obiezioni del Quirinale, della Ragioneria e, probabilmente, di Bruxelles. Ora si è passato il segno. Anche perché questa maldestra forzatura si somma con il sempre più esplosivo problema dei contrasti – prima era un braccio di ferro, ora è una vera e propria guerra – tra Palazzo Chigi e il ministero dell’Economia. Ma anche con il reiterato abuso dei decreti legge, con l’ambiguità (voluta) dei disegni di legge omnibus e le maglie troppo larghe delle leggi delega, con l’uso smodato del voto di fiducia. Solo che finora la slabbratura delle procedure aveva conferito all’esecutivo un potere sottratto all’effettivo controllo del legislativo, mentre ora aggiungiamo a questa forzatura costituzionale quella ancor più intollerabile della sottrazione del potere dei ministri (singolarmente e collettivamente intesi) a favore del premier e del suo staff.

Questa non è premiership – né nella forma del cancellierato né in quella presidenziale – ma confusione istituzionale. Ha ragione Renzi quando sostiene che la politica deve reimpadronirsi delle responsabilità che le spettano, e che per questo occorre rivedere gli assetti istituzionali. Ma non si può fare così. E neppure con riforme a spizzichi e bocconi. Al contrario, Renzi si faccia promotore della convocazione di una nuova Assemblea costituente, l’unico luogo veramente deputato a una complessiva riscrittura delle regole e rivisitazione degli strumenti istituzionali. È l’unico modo. Anche per salvare la faccia e il consenso degli italiani.

Il premier non può sequestrare un decreto legge

Il premier non può sequestrare un decreto legge

Davide Giacalone – Libero

È agghiacciante l’idea di congelare un decreto legislativo. Equivale alla demolizione delle regole che disciplinano il sistema legislativo. S’è capito che al governo non avevano capito quel che facevano o non si aspettavano di dover fronteggiare un pubblico dissenso. Due ipotesi che presuppongono ottusità legislativa o furbizia da sciocchi. Il guaio (ulteriore) è che, ad ogni parola che aggiungono, non fanno che allargare il buco e rendere multicolore la pezza. Matteo Renzi ha sostenuto che il decreto sarà congelato fino al 20 febbraio. Se ancora esistessero i presidenti delle Camere dovrebbero essere essi a fargli osservare che non c’è la possibilità di sottrarre al Parlamento l’esame di un decreto già approvato dal Consiglio dei ministri.

Il calendario è una prerogativa del Parlamento, non del governo. E se esistesse ancora uno straccio di cultura delle regole i giornali stessi non pubblicherebbero l’annuncio di congelamento senza aggiungere che si tratta di un’idea improponibile. Attenti, non c’è solo la materia fiscale. Fin qui sono state approvate, dal Parlamento, non due riforme, ma due leggi delega: una in materia di diritto del lavoro e l’altra di diritto tributario. Un buon successo, per il governo, che deve dare attuazione alla delega. Dopo avere approvato il primo decreto legislativo (leggasi «attuativo»), in materia di lavoro, s’è aperta la discussione sul comprendervi o meno i lavoratori del settore pubblico. Non discussione teorica, ma sullo scritto: taluni vi leggevano la comprensione, altri l’esclusione.

Disse Renzi: ci rimettiamo alla volontà del Parlamento. Sbagliato, perché il Parlamento si era già espresso, aveva già delegato. Il governo doveva attuare, dando sostanza alla delega. Il delegato non può rimettersi al delegante, altrimenti è un inferno degli specchi. La faccenda è stata presto insabbiata, rinviando tutto alla (ennesima) riforma della pubblica amministrazione. Ma è poi arrivata la mostruosità del decreto legislativo in materia fiscale. Comprendendo, fra le altre cose, alcune depenalizzazioni, con aumento di ammenda, è coerente che si trovino affiancate le fatture false (sotto i 1.000 euro), alcune evasioni (sotto i 150.000) e la non penalizzazione per chi evada meno del 3% di quanto effettivamente versa. Si può essere a favore o contro (io sono a favore), ma ha un senso.

Da lì è partita una collana di bischerate. 1) Prima Renzi dice: se la cosa favorisce Berlusconi la ritiriamo (come se le regole sono buone o cattive a seconda di chi salvano o dannano). 2) Poi dice che non si farà valere la nuova regola per i procedimenti in corso o in giudicato (con pernacchie al diritto romano e a uno dei pilastri della civiltà giuridica, il favor rei). 3) Quindi interviene Graziano Delrio e afferma che il decreto va bene, ma loro sono pronti a ridiscuterlo (e con chi? con sé stessi, visto che si tratta di un atto del Consiglio dei ministri). 4) Torna Renzi e corregge: va bene il testo, ma lo congeliamo (in questo modo sovvertendo il senso della regola e umiliando non solo il Parlamento ma il banale buon senso).

Può darsi che io abbia l’epidermide troppo sensibile, adusa all’idea che il diritto non sia solo un colpo del tennis, ma mi pare sia stato superato il limite. Per meno di un millesimo, in altre circostanze, avremmo sentito il severo richiamo del presidente della Repubblica. Che è ancora incarica, benché pubblicamente dimessosi. Il governo ha solo due strade, per uscire dal pasticcio: a) confermare il testo e spedirlo subito al Parlamento; b) convocare immediatamente il Consiglio dei ministri, rimangiarsi il testo e produrne uno diverso. In nessun caso salverà la faccia, ma, almeno, avrà fatto finta di conoscere le regole.

Postilla: la Commissione europea ha già cominciato il riesame dei nostri conti, i francesi hanno chiesto una ulteriore proroga, noi no (che si sappia); senza il decreto legislativo non sono neanche ipotizzabili i suoi fantasiosi vantaggi per le casse pubbliche; il che comporta la clausola di salvaguardia: aumenta l’Iva. A quel punto non sarà la faccia il solo lato a subire qualche danno.

Con Renzi 203mila posti di lavoro in meno

Con Renzi 203mila posti di lavoro in meno

Franco Bechis – Libero

Sotto la guida di Matteo Renzi l’italia è diventato il paese con la maglia nera nell’area dell’euro per aumento del tasso di disoccupazione. A novembre 2014 il tasso di disoccupazione in italia è salito al 13,4%, che è il dato più alto della storia delle rilevazioni fatte dall’Istat. Nell’area dell’euro è il sesto tasso di disoccupazione dopo quelli di Grecia, Spagna, Cipro, Croazia e Portogallo. Ma fra i 28 paesi dell’Unione l’Italia è quello in cui la crescita della disoccupazione è stata maggiore nell’ultimo anno: un anno fa il tasso era infatti al 12,5%. Gran parte di questa variazione negativa è avvenuta proprio con il governo Renzi: a fine febbraio il tasso di disoccupazione era al 12,7%. Un dato che evidenzia l’inefficacia delle politiche economiche adottate dal governo, che hanno provocato danni e non gli attesi benefici. La perdita di occupati è legata tutta a scelte di politiche nazionali e non al ciclo economico: in 22 paesi su 28 in Europa infatti è avvenuto l’esatto contrario, e senza l’Italia il dato della disoccupazione sia nell’area dell’euro che all’interno dell’Unione europea sarebbe migliorato nell’ultimo anno (e invece è stabile). Enorme il divario con la Germania, dove il tasso di disoccupazione è sceso al 5%, meno della metà di quello italiano.

Tutti indicatori principali rivelati ieri dall’Istat sono negativi per l’Italia: cresce il tasso di disoccupazione giovanile, che tocca la quota monstre del 43,9%, dimostrando come gli effetti dell’originario decreto legge sul job act della primavera scorsa siano stati nulli. A novembre 2014 poi gli occupati erano 22 milioni 310 mila, in diminuzione dello 0,2% sia rispetto al mese precedente (-48 mila) sia su base annua (-42 mila). il tasso di occupazione, pari al 55,5%, diminuisce di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali e rimane invariato rispetto a dodici mesi prima. il numero assoluto dei disoccupati, pari a 3 milioni 457 mila, aumenta dell’1,2% rispetto al mese precedente (+40mila) e dell’8,3% su base annua (+264mila).

Giusto un mese fa Renzi aveva provato a leggere in altro modo dati che già allora erano negativi, sostenendo: «I dati della disoccupazione ci preoccupano. Ma il dato degli occupati in realtà sta crescendo. In Italia ci sono più persone che lavorano rispetto a quando abbiamo iniziato l’esperienza di governo. «Ci sono più di centomila posti di lavoro in più», aveva assicurato il premier, pur ammettendo «non basta: siccome negli anni precedenti si è perso un milione di posti di lavoro, per riuscire a recuperare c’è ancora tanto tanto lavoro da fare. Non bisogna negare l’evidenza dei problemi – sottolinea il premier – ma neanche guardare solo il bicchiere mezzo vuoto». Ottimista era stato anche il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, che aveva rilevato un dato degli occupati a settembre che avrebbe evidenziato «82mila posti di lavoro in più ed è il miglior dato da inizio 2013. È un bel risultato perché è un segno di speranza». Allora entrambe sembrarono ad economisti e osservatori posizioni ottimistiche un po’ forzate. Oggi la fredda verità dei numeri svela la propaganda utilizzata e per settimane propagata ad ampie mani in ogni dibattito e tweet dai Renzi boys.

Da febbraio 2014, quando Renzi ha preso le redini del governo il tasso di disoccupazione generale è salito di 0,7 punti percentuali, quello della disoccupazione giovanile è cresciuto di 1,6 punti dal 42,3 al 43,9%, quello della disoccupazione femminile è lievitato di 1,1 punti percentuali passando dal 13,5 al 14,6%. In quello stesso arco di tempo, durante il governo Renzi il numero di occupati è sceso di 14 mila unità (e non aumentato di 100 mila, come disse il premier con una bugia), passando da 22 milioni e 324 mila occupati a 22 milioni e 310 mila occupati di fine novembre. Al contrario il numero totale dei disoccupati è salito da 3 milioni e 254 mila a 3 milioni e 457 mila unità: sotto il governo Renzi 203 mila disoccupati in più. La variazione è stata negativa sia per la disoccupazione giovanile (54 mila disoccupati in più in soli nove mesi) che per la disoccupazione femminile, cresciuta nello stesso periodo di 145 mila unità, passando da 1 milione e 452 mila a 1 milione e 597 mila disoccupate.

Sotto il governo Renzi dunque i disoccupati in totale sono cresciuti del 6,23%, e all’interno di questo drammatico dato i più penalizzati sono state proprio le categorie più deboli che secondo la propaganda dell’esecutivo sarebbero dovuti essere i beneficiari del cambio di verso nelle politiche economiche. Quei giovani cui era stato indirizzato il primo job act si sono trovati con l’8 per cento di disoccupazione in più. Ma il dato che sorprende rispetto alla vulgata governativa è stata la crescita straordinaria della disoccupazione femminile: +9,98%. Sarà anche vero che al governo le renziane hanno ottenuto un numero di poltrone di primo piano che non aveva precedenti, come vero che qualche donna vip ha ottenuto uno strapuntino di rilievo nelle poltrone di sottogoverno: è innegabile però che a tutte le altre italiane che non facevano parte della corte con il govemo Renzi è andata peggio come mai era accaduto nella storia.

Non fermate Draghi

Non fermate Draghi

Stefano Lepri – La Stampa

È facile prendere la disoccupazione a un nuovo massimo in Italia, a un nuovo minimo in Germania, come simbolo di ciò che non va nell’area euro. Difficile davvero sarà far capire ai tedeschi che non possono più dire agli altri Paesi «imitateci e starete meglio». Nelle condizioni straordinarie di oggi, rivelate dai prezzi che scendono, la ricetta tedesca offre solo altri anni di sofferenze. La Germania deve il suo successo all’essere arrivata alla crisi del 2007 con salari frenati rispetto alla. La Germania deve il suo successo all’essere arrivata alla crisi del 2007 con salari frenati rispetto alla produttività e conti pubblici in ordine. A noi, come ai francesi, tocca interrogarci su che cosa sbagliò chi governava allora. Ma nel frattempo il mondo è cambiato. Dalla bassa crescita l’Europa non può uscire stringendo la cinghia per esportare di più. Il crollo del prezzo del petrolio indica sfiducia che esistano al momento forze capaci di dare un impulso significativo all’economia dell’intero pianeta; non basta che negli Stati Uniti la ripresa si consolidi se la Cina rallenta. Il nostro continente non può affidare le sue speranze ad altri, o i suoi equilibri politici saranno travolti ove dalla xenofobia, ove dal massimalismo di sinistra.

Ci chiamerà alla prova la Grecia. Gli eccessi di debito sono caratteristici di un mondo globalizzato dove i capitali sono cresciuti più dei redditi; si formano in mercati finanziari volubili dove il credito un giorno facile (i Btp decennali ieri rendevano l’1,9%) a un cambio degli umori può venire a mancare (ì decennali greci hanno superato il 10%). Ad Atene occorre districare le due facce di un fallimento. Da una parte il governo uscente ha mancato nelle riforme di struttura (liberalizzazioni, privatizzazioni, efficienza amministrativa) dall’altra ha invece realizzato senza ricavarne vantaggi visibili l’unica «riforma» davvero caldeggiata dal potere economico tedesco, ridurre i salari. Ora anche Berlino dietro le quinte si prepara al negoziato. Non preoccupa più di tanto l’improvvisa simpatia mostrata dall’economista di riferimento della destra tedesca, Hans-Werner Sinn, per il leader dell’estrema sinistra greca Alexis Tsipras (nella speranza che un’uscita della Grecia dall’euro metta i brividi a Italia e Francia).

Da parte nostra dobbiamo tenere presente che una eventuale ristrutturazione del debito greco costerà, dati i tassi di mercato, più cara all’Italia che alla Germania dove molti sono pronti a strillare alla rapina. L’accordo da cercare con il nuovo governo di Atene comporterà rinunce per tutte le parti; occorrerà saperlo orientare verso un migliore coordinamento tra le politiche di tutti. Gia le elezioni greche rischiano di far slittare di un mese e mezzo, a inizio marzo, le prossime misure anti-deflazione della Banca centrale europea. Sarebbe grave, perché sono già in ritardo, come mostrano i dati di ieri sui prezzi. E sul ritardo contano i dottrinari tedeschi per giudicarle poi inutili (dopo aver volta a volta tentato di dimostrarle pericolose o illegali).

È vero che l’acquisto massiccio di titoli da parte della Bce ha controindicazioni. Può ad esempio gonfiare i valori di Borsa assai più che dare impulso reale all’economia: in altre parole, mettere più soldi in tasca ai ricchi invece di dare lavoro. Ma nelle condizioni in cui si trova l’Europa (anche al

di là dell’area euro), tutto va tentato. Era in linea di principio giusto chiedere alla Grecia di restituire i debiti contratti dai suoi cattivi governi. Ma imporle tempi stretti ha condotto attraverso la depressione economica all’effetto opposto, l’impossibilità a pagare per intero. Occorre concluderne, per tutta l’area euro, che il «Fiscal Compact» è inapplicabile finché dura la deflazione.

L’euro trattato come la Grecia

L’euro trattato come la Grecia

Davide Giacalone – Libero

In Grecia non si parla di uscire dall’euro e il leader del partito di sinistra, dato in vantaggio dai sondaggi, si dichiara sostenitore della moneta unica. Fuori dalla Grecia tutti parlano dell’uscita ellenica, valutandone le possibili conseguenze negative. Per gli altri. Una scena surreale. Come in una stanza in cui tutti urlano, nessuno ascolta e non si capisce niente. Certo che tutto è possibile, in queste condizioni. Perché sono irrazionali.

Uscire dall’euro, per i greci, sarebbe un suicidio. Potrebbero vedere aumentare i turisti, visto che la svalutazione violenta potrebbe indurre più stranieri a visitare le isole e mangiare feta a basso prezzo. Ma solo a patto che quei turisti desiderino vacanzeggiare in un Paese che non potrebbe più permettersi di importare le medicine e dove la povertà sarebbe crescente. Roba per stomaci forti. A parte i turisti, in ogni caso, uscendo dall’euro le banche greche salterebbero tutte. Per non chiuderle si dovrebbe nazionalizzarle, così prendendo sulle spalle un costo superiore a quello del mantenimento del debito. Non è un caso che Alexis Tsipras certe cretinerie non le dice. Ne diceva altre, a cominciare dall’idea di non pagare i debiti. Ora, però, mano a mano che si avvicina il giorno in cui potrebbe trovarsi al governo, ha corretto il tiro, intendendo rinegoziare le condizioni degli aiuti (leggi: soldi) ricevuti. Il che sembra ragionevole. Si sarebbe fatto in ogni caso. Quindi lasciamo i greci al loro voto.

Usiamo la memoria. Chi ha prestato soldi alla Grecia già subì un taglio dei propri crediti, ma solo se si trattava di privati. Prima di quella decisione, però, le banche che avevano in pancia titoli del debito greco, quindi prevalentemente banche tedesche, seguite dalle francesi, se ne liberarono, cedendoli alla Banca centrale europea e, quindi, non subendo il taglio. Bene ricordarsene, per non cadere nella somaresca trappola di ritenere bravissimi quelli che copiano il compito in classe. Varando il programma europeo di aiuti ciascun Paese s’impegnò a prestare soldi alla Grecia, in ragione della propria potenza economica. Dettaglio: siccome i tassi d’interesse praticati erano di favore è successo che chi attingeva soldi, dal mercato, ad un tasso inferiore, come la Germania, ci ha guadagnato, mentre chi li prendeva a un tasso superiore, come l’Italia, ci ha rimesso. Siamo noi che abbiamo finanziato i greci, mica i tedeschi.

Quei debiti vanno rinegoziati e allungati nel tempo, in modo che siano sostenibili. Ma, ed è questo il punto, ciò non può riguardare solo i greci, perché altrimenti va a finire che conviene essere sull’orlo della bancarotta, visto che i greci, già oggi, pagano (in rapporto al pil) i debiti meno degli italiani. Il tema del debito non può che essere unico e generale, nell’area dell’euro. Altrimenti non è la Grecia a uscire dall’euro, ma l’euro dalla storia. Ciò perché il senso della moneta unica è quello di rendere eguali, nei diritti e nelle opportunità, i cittadini che vi abitano. Se da una parte è giusto che chi si è indebitato, dilapidando in spesa inutile, paghi; dall’altra è evidente che tale condizione non può trasmettersi sui posteri, altrimenti replicando lo schema della schiavitù. C’è un solo modo per conciliare l’etica del debitore con l’equità della cittadinanza: che oltre alla moneta si abbiano anche debito comune. Ciò, però, comporta che ciascuno non possa fare di testa propria e a spese altrui.

In Grecia e in Spagna è la sinistra (detta estrema) a suonare la musica antirigorista. In Francia e Italia è la destra (detta estrema). Il che rende tutto estremamente confuso. È di destra o di sinistra, il rigore? Tutto sta a capirsi: quei debiti nazionali (il nostro compreso) non sono sostenibili senza sviluppo; ma se la spesa pubblica diventa all’istante spesa corrente e sostegno ai consumi (come gli 80 euro), anziché investimenti, non cresce la ricchezza, ma la zavorra. Al tempo stesso la possibilità di alimentare l’economia con credito al sistema produttivo e agli investimenti è come la carne per i debilitati: il minimo per non morire di anemia. Le due cose devono andare assieme.

Le tasse dei politici e quelle di chi lavora

Le tasse dei politici e quelle di chi lavora

Nicola Porro – Il Giornale

Una pena è giusta se proporzionata al reato commesso. È un principio banale, che gli italiani hanno insegnato al mondo, ma che da anni dimenticano alla ricerca del gesto esemplare. Ciò avviene per due spinte contrapposte: quella dei cosiddetti conservatori, poco indulgenti verso i reati comuni, e quella dei progressisti, assatanati (forse per reazione) per i crimini dei colletti bianchi. Entrambi gli schieramenti si trovano però insieme nella legislazione di emergenza: succede un qualche disastro e i nostri eroi rispondono con pene esemplari alla ricerca del capro espiatorio e per allontanare da sé l’ombra della responsabilità e dell’inattivismo.

In Italia una bottega del barbiere rischia di essere sottoposta alla stessa disciplina di uno stabilimento dell’Eni nello smaltimento dei propri rifiuti. Una piccola impresa deve seguire le stesse procedure sulla sicurezza di un’industria siderurgica. Ovviamente per rispondere a disastri ambientali del passato e a fobie ambientaliste del presente. O per contrastare morti sul lavoro sull’onda di un fatto di cronaca. Oggi l’emergenza sono i nostri conti pubblici in rosso che si ritiene siano dovuti agli evasori fiscali (una favola), giù quindi a bastonare i presunti tali con norme micidiali. I politici, inoltre, si considerano dei fenomeni, stanno lì sui loro banchi e pensano che cittadini e imprenditori non possano sbagliare una virgola: applicano ai più piccoli il rigore che si ritiene dovuto ai più grandi che, proprio per le dimensioni, si possono (ancora per poco) permettere uffici e staff che controllano la correttezza burocratica e cartacea di tutto.

Vedete, questa settimana non si è parlato d’altro che del codicillo introdotto nella delega fiscale e che prevedeva la non procedibilità penale per chi commettesse evasioni fiscali inferiori al tre per cento dell’imponibile. Una norma ispirata al buon senso. Così come tutta la legge resta di buon senso, con numerose depenalizzazioni.

La legge delega approvata dal Parlamento prevedeva appunto un ritorno alla proporzionalità tra illecito e sanzione. Un certo eccesso di delega si può senz’altro riscontrare, poiché la previsione del tre per cento si applica anche alle frodi realizzate con la predisposizione di documenti falsi. E nell’articolo 8 della legge sembra proprio che questa previsione non sia contenuta. Resta il punto di sostanza. Si pensi al caso in cui un’azienda commetta un errore di competenza economica, o si deduca costi non inerenti (la questione come ben sanno le mini partite Iva è sempre opinabile) o ancora dichiari un reddito inferiore a quello contestato sulla base di una interpretazione diversa dell’amministrazione, ma anche al caso di omessa dichiarazione di redditi conseguiti in tutti questi casi, le polemiche apparse in questi giorni sono assurde, visto che dimenticano che l’evasore che viene pizzicato paga le imposte, gli interessi e le sanzioni amministrative. Questo famigerato articolo l9bis prevede addirittura, con una norma assai severa, che le sanzioni amministrative siano raddoppiate nei casi in cui opera la non punibilità penale. Il rischio, semmai, è che non si vada in galera, ma al tribunale fallimentare.

È fuori luogo parlare di un’area di impunità. C’è chi ad esempio fa il parallelismo con il rapinatore che sarebbe autorizzato a derubare senza sanzione penale se il bottino non fosse superiore al 3 per cento della cassa: ci si dimentica però che per la rapina, a differenza dell’evasione, non c’è una sanzione pari ad un multiplo del bottino (di regola da una a due volte le imposte evase), multiplo che l’articolo 19 bis prevede espressamente di raddoppiare (da due a quattro volte). Cosa è peggio per un presunto o potenziale evasore? Sapere che dopo qualche anno potrebbe finire per qualche mese in carcere o vedere sequestrati, in attesa di giudizio,i proventi dei suoi illeciti con gli interessi?Ma, soprattutto, cosa fa più comodo alle casse dello Stato, che tutti dicono di volere risanare?

Su questa norma è nato un putiferio legato alla questione Berlusconi, che se ne avvantaggerebbe. Sono fatti che «inzigano» i retroscenisti politici. Quello che qui vogliamo sottolineare è il riflesso condizionato dei nostri politici. Che non si rendono conto di come il mondo per gli invisibili sia diverso da come se lo raccontano loro. L apiù straordinaria è la deputata civatiana (sì, esistono anche loro) Lucrezia Ricchiuti, che ha subito proclamato: «In pratica questo codicillo ha detto che più sei ricco e più puoi evadere». Ma questa parlamentare sa che già oggi ci sono delle soglie di non procedibilità penale? E lei, come i tanti che le si sono associati, sa che anche per una piccola impresa avere accertamenti superiori al 3 per cento del proprio imponibile, purtroppo non è cosa rara?

Ps: si dice nei tam tam del Palazzo che tutta la delega fiscale, una corposa normativa, sia stata concordata con l’Agenzia delle entrate. E quest’ultima ha fatto subito sapere che alcune norme di depenalizzazione non le piacciono. Viene da chiedersi se sia così assurdo prevedere nel futuro che le leggi fiscali siano fatte dai politici con il consenso, la consultazione e le legittime pretese dei contribuenti e non dei loro esattori. Il governo deve seguire i desiderata delle sue agenzie prima di fare le norme o le richieste dei cittadini-contribuenti-elettori? Che ne pensa ad esempio di ciò l’onorevole, sottosegretario all’Economia, Zanetti, che nella sua passata vita da commercialista ha fatto tante rigorose battaglie contro i pregiudizi degli uffici governativi e fiscali?

Il buco e la pezzaccia

Il buco e la pezzaccia

Davide Giacalone – Libero

Non è una svista, ma un errore accecante. Era già capitato con il trattamento fiscale delle partite Iva, approvato di notte e la mattina dopo Matteo Renzi già diceva che si doveva correggere. E’ capitato con uno dei decreti legislativi relativi sul lavoro, che taluni consideravano valido anche per il pubblico impiego e altri no, tanto che Renzi disse di rimettersi al Parlamento, dimenticando che era il Parlamento ad essersi rimesso al governo. Ma sulla delega fiscale si esce dalla farsa e si entra nella tragedia. Per tre ragioni: di merito, di metodo legislativo e di ordine politico.

1. Nel merito credo abbia ragione Vincenzo Visco, quando osserva che considerare non perseguibile penalmente una frode fiscale entro il 3% dell’imponibile pagato non è diverso dal considerare penalmente esenti le fatture false entro i 1.000 euro e la soglia di non punibilità penale che passa da 50 a 150.000 euro evasi. A me sembrano provvedimenti accettabili, sebbene oscuri nel funzionamento (la fattura è esente se resta unica o può esistere una cartiera che ne produce in serie? perché cambia, e non di poco). A Visco sembrano abomini. Ma sono perle della medesima collana. Se si cancella il 3% per ragioni morali, perché mai si dovrebbe mantenere la non penalità per le fatture false, che sono strumento evidente di frode fiscale? E’ ragionevole che si possa essere favorevoli o contrari, non lo è che si faccia uno spezzatino e si mastichino alcuni bocconi sputandone altri. Questa faccenda, per le evidenti implicazioni politiche, finisce con l’oscurare tutto il resto. Che non manca di guai grossi. Avevo avvertito che la formulazione dell’abuso di diritto porta con sé un abuso di giurisdizione, nel senso che si passa palla e potere ai giudici. Ovvero l’esatto opposto della certezza del diritto, che dovrebbe essere chiaro prima. Leggo che Alessandro Giovannini, presidente dell’associazione docenti di diritto tributario, pensa la stessa cosa. Ma nessuno se ne occupa.

2. Il metodo legislativo è raccapricciante. L’idea che il Consiglio dei ministri approvi roba che non legge, o che al momento dell’approvazione non è scritta (perché questo credo sia successo), è già imbarazzante. Se poi parte la gara a dissociarsi, vuol dire che il governo è in disfacimento. Essendo decreto legato a una legge delegante la sola cosa da accertarsi è se il suo contenuto sia conforme, o meno, alla delega. Posto che un decreto non si “ritira”, qui si sta correndo a scriverne un altro senza che si sia detto se il punto contestato è o no coperto da delega. Non sto a descrivere il perché tale punto è rilevante, con entrambe le ipotesi inquietanti.

3. Se quel 3% era una furbata pro-Berlusconi era da rincretiniti supporre che sarebbe sgusciata nel silenzio. Passi per il Natale, ma prima o dopo qualcuno avrebbe letto. Se non lo è, nel senso che non è un codicillo oscuro della “pacificazione”, allora è allucinante che una norma sia ritirata (non essendo ritirabile) sol perché potrebbe giovare a uno. Con tanti saluti alla Costituzione e alla presunta eguaglianza dei cittadini innanzi alla legge. Renzi se ne è assunto la responsabilità perché s’è reso conto che raccontare come sono veramente andate le cose (ammettendo che la macchina legislativa di Palazzo Chigi è fuori controllo, o eteroguidata di soppiatto) sarebbe stato più dannoso che prendersi la colpa. Non s’è reso conto della conseguenza: se ripiega braghe in mano dopo la malaparata si trova nella medesima condizione in cui si trovò il governo Amato quando il decreto Conso dovette essere stoppato: finito. Prendere l’aereo di Stato per andare a sciare e poi scivolare su una roba simile significa avere perso lucidità. Infine, dire che della materia si riparlerà dopo l’elezione presidenziale non solo ha un vago sapore ricattatorio, destinato ad avvalorare l’idea che fosse una furbata, stupidamente organizzata, ma dimentica che la delega fiscale scade il 28 di marzo. Posticipare è suicida, perché incita l’esercito dei franchi tiratori a dilatare i tempi quirinalizi, talché la delega fiscale vada a farsi benedire. Si dirà: così, però, essi danneggerebbero gli interessi nazionali. Sicuro, ma non è che i protagonisti di questa storiaccia si siano distinti per l’opposto.

P.S. La pezza si fa sempre più colorata, talché il buco risulta sempre più evidente. Leggo (Il Messaggero) che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, sostiene essere normale che un testo licenziato dal Consiglio dei ministri sia diverso da quello entrato. Come dire: il dibattito è vero e i partecipanti non sono delle comparse. Sarebbe bello, ma non è così. I provvedimenti esaminati dal Consiglio vengono prima studiati e preparati in un pre-consiglio, cui partecipano capi di gabinetto e/o i capi degli uffici legislativi. Questo per fare in modo che all’esame dei ministri non giungano questioni che poi daranno luogo a discussioni tecniche. Il punto è: visto che il 3% del dovuto al fisco, quale soglia al di sotto della quale l’evasione non fa scattare l’azione penale, non era nel testo entrato in Consiglio è evidente che non è mai stata esaminata dal pre-consiglio. Il che non è affatto normale. Quando, poi, dovessero sorgere discussioni politiche, dubbi o posizioni diverse, delle due l’una: o il presidente del Consiglio pone ugualmente il provvedimento in votazione, chiedendone l’approvazione, oppure, più frequentemente, rinvia la discussione al Consiglio successivo, in modo che ci sia tempo per appianare i contrasti e fornire i chiarimenti. Sul 3% non è successo nulla di questo.

Dice Delrio, in tal modo confermando la procedura e questa seconda ipotesi, che non c’è nessuna manina che abbia cambiato il testo, essendo stato licenziato quel che il Consiglio ha discusso e approvato. Benissimo. Poi aggiunge. Ma siamo pronti a cambiarlo. Malissimo. Se è quello che avete discusso e approvato, perché poi volete cambiarlo? Solo per le reazioni esterne? Ma, allora, sbaraccate il Consiglio dei ministri, rottamate la parte della Costituzione che ne regola funzioni e poteri, e abbandonatevi ai sondaggi. Perché vi accorgete che è un errore? Allora licenziate gli uffici legislativi e fate penitenza. Aggiunge ancora: “non credo che ci sia nessun problema a tenere aperto il provvedimento fino a quando non si trova un equilibrio che possa evitare qualsiasi cattiva interpretazione”. Ci sono eccome, i problemi. Primo: dove pensa di trovarlo, l’equilibrio? All’interno del Consiglio, dove hanno già approvato, nel partito, nella coalizione, in televisione? La Costituzione prevede solo il primo caso, il resto non è fantasia, ma rottamazione costituzionale. Secondo: si tratta di un decreto legislativo, già approvato, la cui delega scade il 28 di marzo, se lo tengono sospeso si brucia tutto. Terzo: si rendono conto del precedente che creano? Da ora in poi il Consiglio approva, poi si attende di vedere l’effetto che fa, indi si stabilisce se procedere o ritirare. Posto che la procedura di ritiro non esiste. Il buco non è bello, ma la pezza è terribile.

Se Atene piange, Roma può ridere?

Se Atene piange, Roma può ridere?

Giuseppe Pennisi – Formiche

Quali effetti avrà la situazione politica in Grecia (mancata elezione del Capo dello Stato, elezioni politiche il 25 gennaio, da qui ad allora una campagna senza esclusione di colpi), in cui gli euroscettici sembrano brillare nei sondaggi? Nonostante il 30 dicembre l’Istat abbia diramato un bollettino congiunturale mensile pieno di perplessità, le dichiarazioni di esponenti politici (in gran misura con il sapore di precotto e riscaldato in quanto dense di giudizi ottimistici ma prive di numeri), danno l’idea che si sia aspettando la Befana. Tuttavia, ne ‘La Dodicesima Notte’ (quella tra il 5 ed 6 gennaio, ‘dodicesima’, per l’appunto, da quella di Natale), William Shakespeare ci avverte di una nottata “più di intrighi che di magia”. Quindi, più che sperare nei doni della vecchietta a cavallo della scopa, occorre guardarsi da possibili congiure a danno delle già malconcia Italia (quale documentato dal bollettino Istat).

Qual è la congiura che può preoccuparci di più? Non è una complotto in senso stretto ma unicamente l’applicazione del “principio di precauzione” all’Italia, data la situazione creatasi in Grecia, situazione che minaccia di aggravarsi man mano che la campagna elettorale diventa più accesa. Lo si avverte a Francoforte, sede della Banca centrale europea (Bce), più che a Roma. Non tanto all’Eurotower, piena di scatoloni perché è già in corso il trasloco nei nuovi locali nell’area del vecchio mercato generale. Il luogo dove meglio si percepiscono gli orientamenti in atto è l’elegante ristorante in stile belle époque di quella che viene chiamata la Alte Oper, il vecchio e glorioso teatro dell’opera, distrutto dai bombardamenti e riaperto una ventina di anni fa come sala da concerto contornata da locali di lusso.

È al ristorante della Alte Oper più che al Frankfurter Hoff, l’albergo di gran lusso della città, che si va se si vuole un tavolo tranquillo dove parlare indisturbati. Con l’accesso della Lituania all’eurozona, ed il cambiamento del metodo di voto, il cambiamento all’interno della Bce è stato più profondo di quanto non si pensi. Il Presidente e l’Esecutivo dell’istituto cercheranno di giungere a decisioni “per consenso”, ossia senza doversi contare. Ma nel consenso, pesano di più gli Stati membri “cauti” di quelli “avventurosi”. Oggi le strategia di Quantitative Easing, OMTs, Abs e simili sono più difficili (da fare approvare dagli organi di governi della Bce) di quanto non lo fossero prima degli ultimi avvenimenti in Grecia. Si era pensato – e così avevano scritto giornalisti italiani di stanza a Francoforte – che parte di queste misure, rinviate da oltre un anno, sarebbero state adottate, almeno in fase iniziale, dal Consiglio Direttivo il 7 od il 22 gennaio.

Ma, come illustrato su Formiche.net del 30 dicembre, il piano di Tsipras fa venire “il pianto greco” anche alla Germania. Quindi, pare inevitabile un rinvio. E dato che si rinvia, la tesi dominante è, comunque, è saggio aspettare ‘la stagion dei fiori’ quando si saprà qualcosa di più dei conti pubblici e della crescita economica di Belgio, Francia ed Italia. È soprattutto a Roma che si guarda. A Francoforte circola un documento della Banca d’Italia su cui è marcato in neretto “strictly confidential” e “do not circulate”, ossia proprio le frasi che più attirano l’attenzione.Riguarda il passato, non il futuro, ma sostiene che la crisi del debito sovrano (inaugurata proprio ad Atene) ha avuto implicazioni disastrose sulla crescita potenziale dell’Italia. Un’altra crisi greca potrebbe farci diventare la pedina debole dell’ingranaggio: la prima ad essere contagiata e tale da contagiare, a sua volta, Paesi in difficoltà.