Edicola – Opinioni

Il rubinetto che salva le casse dello Stato

Il rubinetto che salva le casse dello Stato

Jean Marie Del Bo – Il Sole 24 Ore

Un Fisco “rubinetto”. Da aprire e chiudere a seconda di quanto è necessario far arrivare nelle casse statali. L’incubo dei contribuenti non è solo la complessità, talvolta naturale, della normativa fiscale. Ma anche la tendenza a usare la valvola tributaria come uno strumento “idraulico” da aprire o chiudere ai seconda delle esigenze dei conti pubblici. Nessuno discute le necessità che possono avere i bilanci statali e quelli locali così come il fatto che l’obbligo generale di solidarietà richieda talvolta di far fronte alle situazioni di emergenza con misure speciali. Contribuenti, imprese e professionisti hanno saputo fronteggiare in passato situazioni difficilissime. Quello che fa riflettere è, invece, la tendenza a vivere in permanenza in una situazione straordinaria, facendo dell’emergenza la regola e svuotando, così, di qualunque significato le parole. Una politica dei due tempi permanente, in cui il sacrificio di oggi si accompagna sempre alla promessa di un nuovo rapporto Fisco-contribuente da attuare domani. E la sensazione è che il domani non arrivi mai. Certo, l’alta infedeltà fiscale non aiuta chi deve muoversi all’interno del sistema fiscale per cercare di dargli ordine e di renderlo meno opprimente. Ma l’evidenza – condivisa anche dall’amministrazione finanziaria – è che serva davvero un cambio di passo. Per evitare che il Fisco sia solo un “rubinetto” che contribuisce a prosciugare le risorse.

L’acqua e le balle

L’acqua e le balle

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Ha ragione Renzi: i danni provocati dal maltempo sono da mettere in conto alle regioni. Dico di più: sono il triste epitaffio sul miraggio federalista che per oltre vent’anni ha illuso (quasi) tutta l’Italia. Il “dissesto idrogeologico” non è l’espressione della lotta tra la “natura buona” e “l’uomo cattivo” (Elefantino docet), quanto la condizione prodotta dai mancati interventi di ordinaria prevenzione del territorio (a cominciare dall’assicurazione anticatastrofale) da parte di tutti, ma che più di tutti e imputabile alle regioni. Il malinteso “decentramento”, tra l’altro inadatto all’Italia, che pretendeva di avvicinare il potere ai cittadini e snellire le decisioni, nella realtà ha aumentato gli sprechi, coltivato la già enorme diffidenza degli italiani verso le istituzioni, e, soprattutto, moltiplicato i diritti di veto che ci paralizzano.

Dietro lo psicodramma delle “bombe d’acqua” c’è, infatti, l’ennesima evidenza nella lunga storia dei fallimenti del localismo da campanile che abbiamo chiamato pomposamente federalismo. Come dice Renzi, le regioni non hanno concorso a stilare piani strategici unitari, hanno guerreggiato tra di loro e verso lo Stato centrale su competenze e poteri, hanno speso meno di un quarto dei soldi a disposizione dal 2009, avviando solo il 22 per cento delle opere programmate per la messa in sicurezza del territorio. Certo, non tutto le regioni sono uguali, ma nel complesso il risultato è disastroso. A monte c’è, ovviamente, la responsabilità di una politica nazionale debole, che ha cercato nel decentramento regionale una stampella. Per esempio, sempre per rimanere nel campo della tutela del territorio, fu una follia, anche solo semantica, la divisione delle competenze operata dal Titolo V nel 2001 tra la “tutela dell’ambiente“, affidata in via esclusiva allo Stato, e il suo “governo”, in concorrenza tra stato e regioni. E cosi, poiché ogni regione ha potuto dire la propria, le 120 “grandi opere” necessarie nel 2001 sono diventate oggi 403, con un aumento del 210 per cento dei costi e il nefasto effetto per cui, di fronte a troppe priorità, non c’è nessuna priorità. Inoltre, si potrebbe fare un lungo elenco di infrastrutture di interesse nazionale bloccate per decenni dai veti degli enti locali (di questi giorni l’assurdo diniego trentino contro la Valdastico Nord).

Il Titolo V ha creato terreno fertile per le gelosie e le incompetenze della politica da campanile. Già negli anni passati, i governi hanno nominato alcuni commissari, ai quali pero le regioni hanno ostacolato il lavoro. Adesso, con l’istituzione dell’Unità di Missione contro il dissesto idrogeologico e l’unifìcazione della figura del commissario con quella del governatore, stiamo assistendo a qualche passo avanti, ma eliminare solo un ramo di una pianta che è malata fin dalle sue radici non rappresenta certo la soluzione definitiva. Non è populismo anticasta sottolineare che per la “protezione della natura e dei beni ambientali” le regioni spendono quanto per le indennità di consiglieri e assessori (1,1 miliardi l’anno). Con un andamento tendenziale amaramente inverso: in 4 anni le spese per giunte e consigli sono cresciute del 26 per cento, quelle per l’ambiente diminuite quasi del 39 per cento. Le tasse regionali, poi, dal 2001 a oggi, sono passate da 47 a 81 miliardi, andando a coprire la crescita del 40 per cento della “spesa corrente”, mentre gli investimenti diminuivano dell’1l,3 per cento. Inoltre, le spese in conto capitale dei Comuni sono scese dai 44,1 miliardi del 2009 ai 27,7 del 2013 (-37,1 per cento). Per di più, le Regioni non sono in grado di garantire i cofinanziamenti necessari a liberare i miliardi dei fondi strutturali eiuopei.

Ma se oggi è il combinato disposto tra la mancata tutela dell’ambiente e il blocco delle opere, grandi e piccole, a inchiodare le Regioni a un clamoroso fallimento, tra i capi d’imputazione non è certo da meno la sanità. Perché “nonostante l’efficienza non sia aumentata. con il trasferimento delle competenze alle regioni la spesa sanitaria è esplosa” (Lorenzin dixit). Di quasi il 33 per cento per l’esattezza, pari a 56 miliardi in più in 10 anni. Se le Regioni sono in decadenza, come conferma anche la decrescente affluenza elettorale alle elezioni locali (che sarà confermata domenica in Emilia Romagna e Calabria) e le Province sono assolutamente prive di legittimità, anche i Comuni non se la passano bene, visto che degli 8.100 esistenti ben 479 hanno dichiarato il dissesto finanziario.

La lista delle responsabilità del federalismo è lunga. ll Patto del Nazareno, su cui si regge questo governo, aveva tra le sue priorità anche la Riforma del Titolo V. Oggi sarebbe sufficiente solo a rimetterci una pezza, mentre qui serve “cambiare verso”, per dirla renzianamente. Ci vuole una rivoluzione: abolire le Regioni autonome e tutte le Province; accorpare i Comuni sotto i 15 mila abitanti; cancellare i soggetti secondari, dalle comunità montane agli enti di bacino. E le Regioni? Come minimo devono ridursi a sette e perdere le competenze sanitarie. Ma non mi straccerei le vesti se si decidesse che debbano essere proprio le Regioni a dover sparire del tutto. Speriamo solo che bombe d’acqua non abbiano colpito le buone intenzioni.

Vendere, non dilapidare

Vendere, non dilapidare

Davide Giacalone – Libero

I nostri cattivi sospetti hanno trovato conferma. Ma c’è di peggio, perché il presidente del Consiglio ritiene che sia esemplare quella che, invece, a me sembra una pessima pratica. Il sospetto era che si quotasse RaiWay allo scopo di far cassa e alimentare la spesa corrente. Siamo stati i soli ad avvertire che questo era il pericolo. La macchina non si è fermata e si sono chiamati investitori esteri facendo passare per un gran successo di mercato quel che è un trasferimento di ricchezza dalle casse della Rai a quelle dei fondi acquirenti. Il cliente di Rai Way, infatti, è il proprietario. E ora sentite cosa dice il direttore generale della Rai, Luigi Gubitosi: «Dei 240-280 milioni di euro che entrano in cassa, 150 ci consentono di compensare il prelievo deciso dal governo». Esattamente quel che non sarebbe dovuto succedere: usano la vendita di patrimonio per alimentare la spesa corrente. Due terzi dell’incasso se ne vanno per finanziare un solo anno, mentre il patrimonio se ne va per sempre. Il rimanente terzo è destinato, bontà loro, a investimenti. Ma sapete in che consistono? La bonifica degli uffici di Viale Mazzini. E questo sarebbe un investimento?

Dice Matteo Renzi: «Avercene privatizzazioni come Rai Way. Era stata stimata per 150 milioni e ne abbiamo incassati 250. E c’è qualcuno che protesta pure». Esatto, protesto. Intanto perché il governo non incassa un solo centesimo, visto che i soldi finiscono nella fornace Rai. Poi perché se si procede a quel modo l’Italia si troverà sempre meno dotata di patrimonio e sempre più indebitata. Ricetta assassina. Dopo di che non basterebbe certo uscire (essere cacciati) dall’euro, si dovrebbe uscire dalla ragioneria e dal pianeta. Fatta la schifezza di questa quotazione c’è solo una cosa che possa aggravarla: considerarla esemplare.

Il 2015 vedrà sul piatto la vendita di quote Eni ed Enel, oltre che la corsa perla quotazione di Ferrovie e Poste. Il problema non è solo stabilire cosa si vende e quando, decisioni da prendersi puntando al migliore incasso, ma anche fissare inderogabilmente la destinazione dei proventi. Che devono andare al Fondo ammortamento del debito pubblico, istituito nel 1993 per ritirare dal mercato quote del nostro debito, e agli investimenti veri, che non consistono nel rifare gli uffici della dirigenza ma neanche nel finanziare la spesa sociale bensì nel mettere benzina nel motore dei lavori pubblici. Più alla prima che alla seconda destinazione, comunque non alla spesa corrente.

Tutta la gnagnera della riforma elettorale e dei grandi cambiamenti nella legislazione del lavoro s’annuncia tale da lasciare le cose in grande parte come stanno. Palestre d’eloquio per politici verbosi e sbandieratori inconcludenti. Mentre le vendite sul modello Rai Way sono operazioni che vanno in ogni modo impedite. E guardate cosa tocca scrivere a chi si batte per le privatizzazioni e la dismissione di patrimonio pubblico. Il fatto è che una cosa sono le vendite e le dismissioni, tutt’altra le dissennatezze e gli sprechi, destinati a far quadrare bilanci che restano compromessi dai debiti. L’anello della nonna si vende una sola volta, quella successiva ci si vende la casa e al terzo giro si va sotto ai ponti, se i soldi precedentemente incassati li si spende per comprare la moto cromata e pagare il prezzo di una vita d’inutili vizi e smisurata incoscienza.

Vecchi e nuovi balzelli

Vecchi e nuovi balzelli

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

Che cosa rende una tassa insopportabile? In primo luogo, sicuramente il suo “peso” e qui – come sappiamo – siamo da tempo in gara per il titolo di campioni del mondo. Ma non è solo questo. Una tassa è insopportabile anche quando è complicata, quando è retroattiva e quando è assurda, quando cioè non se ne coglie la logica.

Il peso delle imposte; le complicazioni nelle regole per determinare le basi imponibili e per calcolare i versamenti; il vizietto delle novità e delle modifiche sempre a effetto retroattivo, con crescita esponenziale dell’incertezza per i contribuenti in termini di pianificazione fiscale; le difficoltà di trovare un nesso logico tra la tassa e ciò che la tassa colpisce. Sono quattro caratteristiche che appartengono da troppo tempo al nostro sistema fiscale, passate in eredità da un governo all’altro. Anzi, talvolta vien da pensare che siano proprio questi i difetti che lo contraddistiguono e che continuano a orientarlo. Infinite promesse di cambiare passo, di cambiare verso, di voltare pagina. Ma poi ci si ritrova sempre allo stesso punto.

Si prenda il nervo scoperto della retroattività delle norme fiscali (per inciso, Il Sole 24 Ore ha calcolato che solo negli ultimi tre anni la deroga alla retroattività ha comportato maggiori tasse e/o anticipi di tasse a carico dei cittadini e delle imprese per oltre 10 miliardi di euro). Proprio ieri il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha ricordato in Parlamento che «la delega fiscale fornisce l’occasione per rivitalizzare i principi dello Statuto del contribuente, con il vincolo di irretroattività delle norme tributarie in sfavore». Bene, ma perché aspettare le delega visto che abbiamo già lo Statuto? Perché non fare subito qualcosa per evitare questa deriva? Tanto più che le ultime settimane, in questo senso, sono state pesanti. Non bastavano le invenzioni del disegno di legge di stabilità che, come sappiamo, riporta per il 2014 l’Irap all’aliquota del 3,9%; o che tassa in misura maggiorata gli investimenti dei fondi pensione o i dividendi percepiti dagli enti non commerciali o, ancora, che introduce per gli eredi una tassazione parziale per alcune tipologie di polizze vita.

L’ultima trovata – per carità, nulla di illegittimo, trattandosi di una norma di legge approvata la scorsa estate – riguarda l’Imu sui terreni nei comuni montani, che con un decreto non ancora pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale costringerà moltissimi proprietari a un tour de force per pagare entro dicembre un’imposta che nessuno aveva preventivato di dover pagare. Per non dire dei capannoni che tra moltiplicatori, aliquote dei comuni e combinazioni di imposte (Imu+Tasi) sono sottoposti a una pressione fiscale assolutamente esorbitante (con l’aggravante dell’indeducibilità dall’Irap e di una deducibilità limitata per le imposte dirette), soprattutto se si considera che si tratta di beni strumentali all’attività delle imprese. Cosa che rende ancor più incomprensibile il motivo per cui alcuni macchinari – presse, forni, magazzini automatici ancorati al suolo – debbano essere trattati alla stregua di un bene immobile assoggettato (due volte) a Imu e Tasi. Il tutto sulla base di una controversa norma che risale a 75 anni fa e che, nonostante gli sforzi di chiarezza della Cassazione, resta uno dei grandi misteri del fisco italiano.

Il fisco italiano non merita fiducia: il caso degli investimenti in ricerca

Il fisco italiano non merita fiducia: il caso degli investimenti in ricerca

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Nei paesi avanzati le norme fiscali retroattive non sono pensabili. In sistemi fiscali meno rispettosi dei diritti dei contribuenti può accadere che un contribuente scopra a fine anno che la sua fiscalità è stata modificata con effetti che si iniziano a produrre dal precedente gennaio, mai nei paese dell’Ocse. L’Italia, purtroppo, rappresenta un’eccezione anche a questa regola di civiltà.Il governo Renzi, ad esempio, con l’ultima legge di Stabilità ha modificato con effetto retroattivo almeno tre norme fiscali: quella sulla riduzione dell’Irap del 10%; quella sul regime fiscale di fondi pensione e della casse previdenziali private; quella relativa al credito di imposta sugli investimenti in ricerca. Il caso dell’abrogazione retroattiva per l’intero 2014 del credito di imposta sulle spese di R&D è, poi, perfino paradossale nella sua attuazione. Perché penalizza due volte le imprese che hanno creduto nella serietà della Repubblica italiana.

Il governo Letta aveva introdotto, con decreto legge, data l’urgenza e l’importanza della materia, un credito di imposta del 50% sugli investimenti incrementali rispetto alla media del triennio 2011/13 per l’anno 2014. Supponiamo, come è sicuramente accaduto, che un’impresa abbia investito nel 2014 in attività di ricerca 500mila euro per dotarsi di una nuova offerta per vendere all’estero, visto lo stallo della domanda interna. L’impresa, nel fare il calcolo del costo effettivo del suo investimento e del periodo di payback, ha sicuramente incluso i 250mila euro di credito di imposta (supponiamo che non avesse fatto alcun investimento in R&D nel triennio precedente). Ora, in assenza del credito di imposta, il periodo di recupero dell’investimento raddoppia e quindi la convenienza in termini di cash flow generato si riduce di molto. A fine 2014, poi, la stessa impresa ha scoperto che il governo Renzi ha abrogato retroattivamente la norma che era stata determinante per indurla a investire in innovazione e l’ha lasciata da sola nel dover fronteggiare la copertura finanziaria dei 250mila euro che mancano nel suo piano. Con l’aggravante che, avendo creduto nella serietà fiscale dell’Italia, adesso di ritrova anche 500mila euro di investimenti in ricerca che entrano nel computo del nuovo triennio di franchigia introdotto dal governo Renzi. Se investirà altri 500mila euro in ricerca nel 2015 non avrà diritto ad alcun credito di imposta, stante la legge di stabilità attuale, e per recuperare i 250mila, teoricamente a lei spettanti nel 2014, dovrà investire addirittura 1,5 milioni di euro nel 2015: il credito di imposta è stato dimezzato al 25% e va decurtata la franchigia di 500 mila euro. Insomma cornuto e mazziato. Poi Renzi non può meravigliarsi se l’Italia fa poca innovazione e il pil ristagna.

Diritto abusato

Diritto abusato

Davide Giacalone – Libero

Dannato il Paese in cui si discute sempre delle stesse cose, commettendo sempre gli stessi errori e non venendone mai a capo. Nell’aprile del 2012 fummo solitari, nel denunciare i pericoli legati all’esercizio della delega fiscale e alla codificazione dell’abuso di diritto. Fino a quel punto il bislacco principio aveva una base esclusivamente giurisprudenziale, senza che vi fosse una legge che prevedesse il cittadino possa essere punito per avere applicato una legge. Non fatelo, urlammo. Inutilmente. Anzi, fecero finta che fosse una gran concessione: l’abuso di diritto non sarà un reato e non sarà contestato in sede penale.

Sono passati due anni, il governo s’accinge a dare esecuzione alla delega fiscale e leggo nelle anticipazioni che l’abuso di diritto non sarà più un reato, ma potrà dare luogo ad ammende e penalizzazioni fiscali. Ma non era già escluso, che fosse un reato? Neanche per idea, perché reato era ed è l’omessa dichiarazione dei redditi, e se tu (o una società) non l’hai presentata perché una legge ti consentiva di non farlo (come nel caso di Dolce Si Gabbana), per la via del supposto abuso di diritto s’arriva dritto al processo penale. Come prevedemmo allora. Un abominio. Nel 2013 intervenne la Cassazione, specificando che quando si contesta a un cittadino l’abuso di diritto si deve almeno avere il buon cuore di specificare quale legge gli si contesta di avere applicato e quale no. Perché, fino a quel punto, manco questo ti dicevano.

Ora, attendiamo di leggere il testo, dato che già allora escludevano quel che non si sono dimostrati capaci d’impedire. Osservo, però, che il concetto stesso di abuso di diritto dovrebbe suggerire un abuso dello Stato, che in quel modo viola i diritti forzando il diritto. Una legge c’è o non c’è: nel primo caso nessuno può contestarmi alcunché, se la seguo; nel secondo nessuno può disturbarmi chiedendomi di fare quel che non sono obbligato a fare. Del diritto può abusare lo Stato, non un individuo. Invece si è stabilito che sia condannato quale abuso di diritto l’uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, e ciò anche nel caso in cui tale condotta sia non in contrasto con alcuna specifica disposizione. Quindi, per non affogare nel sempre uguale, per non pestare l’acqua nel mortaio e l’anima ai cittadini, tornando a riscrivere quelle norme, c’è una sola cosa che possa essere seriamente e decentemente fatta: cancellare il concetto di abuso di diritto, lasciando il principio della buona fede.

Cooperative e società municipalizzate, così funziona la macchina dei voti

Cooperative e società municipalizzate, così funziona la macchina dei voti

Davide Giacalone – Libero

Per sapere che è in corso una campagna elettorale, in Emilia Romagna, devi comprare i giornali. Leggendoli scopri che si parla di tutto, a partire dai riflessi nazionali del voto, ma non di Emilia Romagna. Se giri per le strade non trovi traccia di politica. E sì che questa è la sanguigna terra di Brescello, di Peppone e Don Camillo. Che fine hanno fatto? Non credete a quelli che vi dicono esserci disinteresse e qualunquismo, è che sia la politica che i cittadini sono stati espulsi dalla competizione, ridotta ad affarismo e parolismo.

Se stessimo parlando di cose serie, proponendo agli elettori qualche cosa che abbia a che vedere con il futuro, i vibratori troverebbero posto solo nelle battute marginali. Invece sono lì (giacché fra le spese rimborsate ai consiglieri regionali, in questo caso Pd, a dimostrazione che oltre a fessi sono anche miserabili), ad eccitare solitari i dibattiti. Che manco si fanno. Già, perché non solo sono vuote le piazze, non solo mancano i manifesti, risultando in gran parte vuoti anche i tradizionali tabelloni, ma neanche le televisioni locali si mostrano interessate. Robetta. Normale amministrazione.

Occhio: non succede a caso. Questo effetto-sonno è voluto. Se stessimo parlando di cose serie, infatti, parleremmo delle 500 società partecipate dalla Regione, assieme a un nugolo di enti locali. Matteo Renzi disse che le 8000 municipalizzate sarebbero dovute diventare 1000. Sarebbero ancora troppe, ma, comunque, perché il Pd, in Emilia Romagna, non propone di ridurle a 62 (500 diviso 8)? Perché quelle sono rimaste l’unica ragione per votare Pd. Il tessuto del consenso s’è stracciato, come dimostra il deserto elettorale, rimane solo quello della cointeressenza. Finché regge, vincono. Un esempio? Davanti alla stazione di Fidenza si sarebbero dovute realizzare due torri, per appartamenti. Una l’hanno abbandonata, l’altra è finita, ma semi deserta. Operazione a cura del sistema cooperative, in questo caso Unieco. Operazione fallimentare e fallita. Qual è l’unico appiglio di salvataggio? Il fatto che nella torre prendano uffici il Comune, le altre cooperative, il sindacato. Soldi buttati per salvare compagni falliti. Ci hanno fatto anche un parcheggio per le biciclette, costato un milione di euro (cosa denunciata da Francesca Gamharini). Una rivisitazione neorealista, affinché i ladri non si concentrino sulle biciclette. Questo mostro da socialismo insaccato produce appalti, posti, prebende, cointeressenze. Fa da collante a ciò che s’è sfasciato. Ma impoverisce tutti. Prendete le Terme di Salsomaggiore: già solo il palazzo merita il viaggio ed è attrazione turistica, ma, gestite dagli enti locali, falliscono anche quelle. Hanno fatto vasche per ospitare meno di dieci persone. Lo hanno scambiato per il bagno di casa loro.

Dice Matteo Richetti, esponente del Pd e sfidante affondato prima delle primarie: la gente non sa perché andare a votare. Correggo: lo sanno solo quelli che ci andranno, i meno, i cointeressati. A destra ci si interessa del possibile sorpasso di Forza Italia, a opera della Lega. Ma, scusate, è già avvenuto. Guarderemo dentro le urne, ma se in una Regione così combinata chi dovrebbe rappresentare l’alternativa non ha da proporre un modello diverso, se non martella notte e dì per lo smantellamento di quelle 500 pepite di clientelismo e inciucismo, ha già perso. Anzi: s’è perso. La Lega agita problemi veri usando parole non sempre risolutive. Farà la strada che merita. Sono gli altri ad essere andati fuori strada. Il che, però, lascia orfano l’elettorato ragionevolmente convinto che il presente si debba cambiarlo senza perdere il senso del tempo e dei tempi. Restano orfani i risparmiatori che hanno messo da parte quel che serve a vivere con sicurezza e non intendono esporlo alle avventure monetarie dei propagandisti. Di vecchio e nuovo conio.

Andranno a votare in pochi perché gli altri non sono desiderati, prima ancora che interessati. Perché se andassero avotare in tanti si dovrebbero per forza fare i conti con la realtà. Mentre i militi del voto assicurano a forze spompate e idee approssimate di potere vivere ancora un poco nella realtà surreale di una politica che discuterà di percentuali, quando l’unico numero che conterà sarà quello assoluto. Dei votanti e dei voti. E perderanno tutti.

Il bazooka di Draghi rischia di restare scarico

Il bazooka di Draghi rischia di restare scarico

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Il consiglio della Bce che si riunisce oggi non dovrà solo decidere se lasciare il tasso d’interesse di riferimento allo 0,05% l’anno (come appare scontato), ma anche se e in che modo verranno adottate le ‘misure non convenzionali’ (principalmente gli Abs, in quanto gli Omt appaiono accantonati, mentre una seconda asta per gli T-ltro è in calendario a fine anno). In effetti, Draghi spera di avere creato, con pazienza e perseveranza, il consenso perché nel ‘bazooka’ monetario, come lui stesso lo ha chiamato, venga messa polvere da sparo e – soprattutto – ne venga autorizzato l’uso. In una recente conversazione a Roma, Fabrizio Saccomanni, che ha lavorato a lungo su questi temi sia come direttore generale della Banca d’Italia sia come ministro dell’Economia e delle Finanze, ha sostenuto che la Germania e altri Paesi non consentiranno mai e poi mai al presidente della Bce di acquistare le munizioni e ancor meno di sparare. Quindi il ‘bazooka’ è scarico e potrebbe restare tale.

Ma riuscirebbe una manovra monetaria ‘non convenzionale’ a rivitalizzare un’economia europea stagnante (più in Italia che altrove) e travagliata da uno spread di malessere sociale uguale (se non peggiore) rispetto a quello monetario dell’estate-autunno 2011? Il recente stress test al sistema bancario ha documentato casi di cattiva gestione (e di carente vigilanza da parte delle autorità nazionali), ma non di mancanza di liquidità. Che a fare difetto sia la domanda di impieghi lo confermano conversazioni con alti dirigenti e amministratori anche di banche stressate: vorrebbero aumentare gli impieghi alla grande (è la loro ragion d’essere), ma trovano solo piccoli e medi clienti. Lo ribadiscono studi recenti: un lavoro (inedito) di Cinzia Balzan e Francesco Zen (ambedue dell’ateneo di Padova) e di Enrico Geretto (Università di Udine) propone un modello del sistema bancario italiano basato sull’’appetito di rischio’.

La conclusione è che le banche italiane sono sottoesposte, ossia hanno poco ‘appetito di rischio’ anche in quanto dopo sette anni di crisi, le imprese hanno ragionevolmente dato la priorità al sopravvivere e non alla progettazione di nuovi investimenti. In parallelo, un lavoro (anch’esso inedito) dell’Università di Leicester studia 141 banche dell’Unione europea nel 2004-2010 e conclude che la crisi finanziaria internazionale ha reso gli istituti meno efficienti e, quindi, meno pronti ad aiutare clienti nell’allestimento di piani finanziari. Infine, c’è lo spettro del ‘contagio’ che rende tutti più prudenti, come confermano studi del Cepr. Come si spiegano allora i successi della politica monetaria americana? Gli Stati Uniti non hanno solo la freccia monetaria nel loro arco, ma utilizzano pure il bilancio e il cambio.

Quel disastro statalista che suona da lezione per l’economia europea

Quel disastro statalista che suona da lezione per l’economia europea

Carlo Lottieri – Il Giornale

Le notizie (preoccupanti) riguardanti l’economia giapponese hanno fatto crollare l’indice della Borsa di Tokio e aperto una fase politica nuova. È possibile che per il premier Abe non ci siano più molte chance e che presto il Giappone volti pagina. Sono però vent’anni che quella che era la seconda economia globale è in difficoltà. Il Paese del Sol Levante adotta da tempo tassi di interesse bassissimi, talora anche nulli, e utilizza il ricorso al debito pubblico con spregiudicatezza. Lo sfascio giapponese è allora interessante perché noi ci troviamo in una situazione simile, con la Bce che adotta una strategia di espansione monetaria (tassi egualmente vicini a zero) e un debito nazionale che ormai è pari al 134% del Pil.

In questo quadro, quanto ci viene da Tokio conferma le tesi di studiosi come Mises e Hayek, e spiega in che modo una società di successo, che negli Anni ’70 sembrava minacciare il primato americano (fino a innescare spinte protezioniste negli Usa), debba fare i conti con un processo di impoverimento. La spesa pubblica abnorme, che ha generato un debito folle, e un troppo facile accesso al credito indirizzano chiunque verso cattivi investimenti: ciò produce fasi di espansione artificiosa, a cui fanno seguito aggiustamenti talora assai dolorosi. In qualche modo, l’interventismo che genera deficit e la politica monetaria espansiva sono due pilastri del keynesismo: e le difficoltà del Giappone sono la conseguenza di un’economia in cui il ruolo del privato si restringe e la moneta è manipolata dalla Banca centrale.

Ma la situazione dell’Europa e in particolare dell’Italia è simile, così che sul disastro di quella che era un’ economia potentissima bisognerebbe riflettere attentamente. Ogni società cresce se quanti producono ricevono indicazioni corrette dall’ambiente in cui operano. Per ragioni diverse ma convergenti, la dilazione del settore pubblico estranea a logiche economiche e tassi che non riflettono le vere esigenze dell’economia, finiscono per indurre anche i soggetti privati a comportamenti poco responsabili. Esaltato dagli economisti della sinistra nostrana, il Giappone è allora oggi in ginocchio perché i suoi responsabili politici hanno intralciato il libero mercato e hanno distorto i prezzi. Le conseguenze le vediamo. In effetti, lo statalismo impedisce ai prezzi di trasmettere le informazioni corrette: come constatammo bene quando, in assenza di ticket, i farmaci erano gratuiti e assistemmo a un sovraconsumo irragionevole. Lo si è visto anche nella crisi Usa dei sub-prime, quando interessi artificiosamente bassi hanno spinto ad acquistare una casa pure quanti erano privi di adeguati redditi. La crisi giapponese mostra dove conduce lo statalismo. C’è da sperare che qualcuno, da noi, apprenda la lezione.

L’impossibile impresa di semplificare l’Italia

L’impossibile impresa di semplificare l’Italia

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Semplificare, semplificare, semplificare. Da anni non sentiamo parlare, da parte di chi sta al governo, che di «semplificazioni». Dal berlusconiano ministero «per la semplificazione normativa» al montiano decreto «semplifica Italia», al renziano dicastero per la «Semplificazione e la pubblica amministrazione». Ma quando i poderosi apparati semplificatori passano dalle parole ai fatti la musica è, ahinoi, assai diversa. Prendete lo «sblocca Italia», un provvedimento appena approvato dal parlamento, che nonostante il proposito di rendere la vita più facile per la realizzazione delle opere pubbliche contiene un guazzabuglio di norme scritte talvolta in modo così astruso da risultare incomprensibili, ne abbiamo la certezza, perfino ai mandarini che devono averle scritte.

Prova ne sia un fatto che in qualunque altro Paese europeo avrebbe dell’incredibile. Lo stesso giorno che la legge di conversione dello «sblocca Italia» viene pubblicata sulla Gazzetta ufficiale , l’11 novembre, ecco che compare sempre sulla medesima Gazzetta un decreto legge intitolato «Nuove norme per le bonifiche dei siti inquinati» che modifica due norme dello stesso «sblocca Italia» reperibile qualche pagina prima. Inutile leggerlo, se non siete ipertecnici: non ci capirete un’acca.

Ma quello che c’è dentro qui importa poco. È il fatto in sé: ricorda da vicino quello che accadde a Natale del 2006, quando si stava approvando la prima legge finanziaria del secondo governo di Romano Prodi. Un altro guazzabuglio condensato in un unico articolo di quasi 1.400 commi, nel quale si scoprì una norma che mirava a tagliare le unghie alla Corte dei conti.

Quando lo seppe, il giorno prima dell’approvazione, Prodi intimò di toglierla dal testo. Ma era stata scritta in modo talmente indecifrabile che la cercarono tutta la notte ma non riuscirono a trovarla. E il giorno dopo, mentre il Parlamento votava la finanziaria con dentro quella irreperibile norma avvelenata, il governo fu costretto a fare in fretta e furia un decreto legge per abrogarla. Pagò il funzionario che era stato inutilmente incaricato di scovarla, rispedito dal Tesoro agli uffici di provenienza. L’autore del comma incriminato era un senatore, Pietro Fuda, eletto in Calabria nella lista appoggiata dai movimenti dei consumatori. In quel momento, per ironia della sorte, aveva l’incarico di presidente della commissione parlamentare per la Semplificazione normativa.