Edicola – Opinioni

I “dettagli” che zavorrano la manovra

I “dettagli” che zavorrano la manovra

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

A quattro giorni dall’approvazione della legge di stabilità in Consiglio dei ministri, ancora nessun testo più o meno ufficiale è disponibile. Non è forse una novità, è però certamente un malcostume che non aiuta la credibilità del modo in cui in Italia si fanno le leggi. Viene da chiedersi, per dirne una, che cosa sia stato mandato a Bruxelles e che testo stiano analizzando i tecnici della Commissione in vista del giudizio di fine mese. Ieri sera da Palazzo Chigi si è fatto trapelare che per domani un testo sarà pronto per il Quirinale, non rimane che attendere. Intanto dalle bozze che stanno circolando si possono cominciare ad analizzare alcuni aspetti tecnici che dalle prime slide non erano emersi. Resta, allora, confermato il giudizio complessivamente positivo di una manovra a carattere espansivo, che dà e non toglie, in una fase di risorse più scarse che mai. Una manovra che taglia tasse e riduce (o almeno prova) spesa pubblica improduttiva. E tuttavia i nodi che meritano un approfondimento, e magari un ripensamento in Parlamento, non mancano.

Il taglio dell’intera componente lavoro dalla base imponibile Irap (che vale intorno ai 6 miliardi) è uno dei risultati più importanti di questa manovra. Impossibile sottovalutarne il peso, in termini effettivi di risparmio per le aziende e in termini di fiducia nella creazione e nella difesa di posti di lavoro. La copertura della misura è però garantita per una parte (2,1 miliardi) dal dietrofront rispetto alla riduzione del 10% dell’aliquota Irap stabilita con il decreto Irpef del maggio scorso. L’aliquota ordinaria Irap, dunque, tornerà dal 1° gennaio prossimo al 3,9% (dal 3,5%). Va anche considerato, poi, che – sempre in base alle bozze disponibili – il taglio previsto dalla Legge di stabilità si limita al costo del lavoro dipendente a tempo indeterminato, escludendo i lavori a termine e i collaboratori. Tutto questo significherà che talune aziende, quelle che non hanno o hanno pochissimi dipendenti stabili, saranno – per effetto della manovra – penalizzate. Per tutte le aziende, poi, viene meno la deduzione dell’Irap dall’imponibile Ires: questo è ovvio, ma riduce ulteriormente la portata – comunque positiva – del taglio dell’Irap.

Anche la cancellazione dei contributi per i primi tre anni per chi assume a tempo indeterminato è una misura che va nella giusta direzione di creare incentivi per le imprese a creare posti di lavoro stabili. Gli sgravi, tuttavia, valgono solo per le assunzioni effettuate nel 2015 e per chi non ha lavorato a tempo pieno nei sei mesi precedenti. Non si tratta, dunque, di una misura definitiva, mentre va a sostituire un beneficio permanente che è quello previsto dalla legge 407 del 1990, in base alla quale i disoccupati da oltre due anni potevano essere assunti a zero contributi (o con il 50%) per un triennio. Salta anche lo sconto contributivo legato alla prosecuzione di un anno dei contratti di apprendistato dopo il triennio. La cancellazione dei contributi prevede inoltre un tetto annuo di 6.200 euro. Questo significa che potranno giovarsi dell’abbattimento totale solamente i contratti che sono intorno alla soglia retributiva limite, per tutte le altre retribuzioni lo sgravio sarà parziale. Non basta. L’incrocio tra tetto e somme stanziate permette di stimare in 161mila le possibili assunzioni annue, molto meno di quelle stimate dal Governo. Senza considerare, infine, il tentativo di una parte del Pd di far inserire nel testo la clausola che, se il rapporto di lavoro si interrompe prima dei tre anni, l’imprenditore sarebbe costretto a pagare tutti i contributi arretrati. Un modo per rendere più incerto l’incentivo e ridurre la spinta che può venire dalla misura.

Contraddittoria con la linea affermata dal Governo nel Jobs act appare anche la scelta di tagliare 200 milioni al Fondo che incentiva la contrattazione aziendale. Sulla scarsa convenienza fiscale del Tfr in busta paga per chi ha redditi oltre i 15mila euro e sui rischi per la liquidità delle imprese è già stato detto tutto. Va però anche segnalato il rischio di un ulteriore aggravio di procedure burocratiche per le aziende, legato alla certificazione Inps e alla pratica con la banca. Sui tagli di spesa vale la pena soffermarsi. In riferimento a Regioni e Comuni non si può che essere d’accordo con Renzi: i governatori hanno tutta la possibilità di far fronte ai tagli attraverso una maggiore efficienza della spesa ed eliminando gli sprechi. Vi sono Regioni (analisi di Gianni Trovati sul Sole di ieri) che, per il proprio funzionamento, spendono 192 euro pro-capite contro altre che si limitano a 22; Regioni che hanno una spesa corrente di 619 euro pro-capite a altre che si fermano a 275; Regioni che spendono per il personale 174 euro e altre solo 12. Gli spazi per l’efficienza e i risparmi, dunque, ci sono, eccome.

Ma è sui ministeri che il Governo deve dimostrare di saper fare la propria parte. In una tabella preparatoria della manovra sono indicati tagli molto specifici per oltre 3 miliardi, missione per missione, nella logica (quasi) di una vera spending review. Nella bozza della legge a oggi disponibile, quei tagli – come hanno raccontato sul Sole Marco Rogari e Marco Mobili – si riducono a poco più di 1,4. Cosa ne è di tutto il resto? Ci si piegherà ancora una volta alla logica degli interventi lineari, limitandosi a indicare l’obiettivo del 3% di riduzione? O si recupererà quella tabella voce per voce, magari con i dovuti aggiustamenti? Tra i due metodi c’è tutta la distanza che passa tra un Governo che si prende le proprie responsabilità e uno che demanda ad altri le scelte impopolari.

Sull’azzardo di mettere tra le coperture le stime della lotta all’evasione Il Sole-24 Ore si è soffermato tante volte, ma va anche detto che il Governo questa volta ha prudentemente messo da parte una riserva di 3,4 miliardi che può tornare utile, in questo senso, anche nella trattativa con l’Europa. Sul credito d’imposta alla ricerca si parte solo da 260 milioni, una cifra certamente insufficiente e si lega l’incentivo esclusivamente agli incrementi di spesa, anziché al volume complessivo degli investimenti, come chiedevano le imprese. Viene inglobato, tra l’altro, il bonus oggi esistente per l’assunzione dei ricercatori. È francamente poco per riattivare gli investimenti privati. Lo sconto Irap, certamente, dovrebbe fare di più. Ma quello che manca del tutto in questa manovra sono gli investimenti pubblici. Gli 1,7 miliardi che (come racconta Giorgio Santilli a pagina 2) il Governo ha reso disponibili in questi giorni in attuazione dello “Sblocca-Italia” sono utili, ma sono una goccia. Laddove il mare non può che essere, per un Paese con le nostre difficoltà di finanza pubblica, un mare europeo. Renzi ha più volte invocato una maggiore concretezza per il piano Juncker. Ma anche quando si parla di investimenti europei c’è una fondamentale responsabilità nazionale, che è quella di fornire buoni progetti.

L’Italia in questi anni è mancata totalmente in questa sfida: pochi buoni progetti e pochissima capacità di trovare il matching con i finanziamenti. In questi giorni finalmente c’è un tavolo governativo (coordinato da Del Rio e Pagani per conto di Padoan) che sta lavorando con gli uomini della Bei proprio per individuare i progetti possibili. C’è da augurarsi che produca risultati concreti. Perché non c’è dubbio che – come ha sottolineato il Governatore Visco proprio ieri nel suo intervento a Bologna – il rilancio dell’occupazione e della crescita può passare solo attraverso una ripresa degli investimenti. In attesa, certo, del testo definitivo della manovra.

Le due trappole che l’Europa non vede

Le due trappole che l’Europa non vede

Paul Krugman  – Il Sole 24 Ore

Chiunque studi l’economia monetaria internazionale conosce bene la Legge di Dornbusch: «La crisi ci mette molto più tempo ad arrivare di quanto pensavate, e poi si svolge molto più in fretta di quanto avreste pensato» (lo disse in un’intervista, nel 1997, il compianto economista tedesco Rudi Dornbusch). E con l’ultima crisi dell’euro è successo esattamente questo.

Fino a poco tempo fa gli austeriani che dettano la politica macroeconomica della zona euro andavano in giro tronfi a cantar vittoria per una modesta risalita della crescita. Poi l’inflazione è precipitata e l’economia dell’Eurozona ha cominciato a incepparsi, e tutti sono andati a riguardarsi i fondamentali e si sono resi conto che la situazione rimaneva molto seria. Anche nell’estate del 2012 la situazione sembrava grave, e Mario Draghi, il presidente della Bce, riuscì a evitare che il vecchio continente precipitasse nel baratro. E forse riuscirà a farlo di nuovo, ma adesso il compito appare molto più difficile.

Nel 2012 il problema erano gli interessi sui titoli di Stato dei Paesi della periferia dell’euro, che in realtà, come adesso sappiamo, crescevano più per questioni di liquidità che per problemi di solvibilità. Una volta sgombrato il campo dalla prospettiva di una carenza di liquidità, il panico rientrò. Ma quello che sta succedendo adesso è ben diverso. È una crisi al rallentatore e coinvolge tutta la zona euro, che sta scivolando verso una trappola deflativa. Draghi può cercare di imprimere una spinta attraverso politiche di allentamento quantitativo, ma non è affatto scontato che possano servire allo scopo. E la politica limita i suoi margini di azione.

Un’altra cosa che mi colpisce è la quantità di confusione intellettuale che ancora c’è in giro. La Germania continua a voler vedere tutta la crisi come l’effetto di una gestione irresponsabile dei conti pubblici, e questo non solo esclude la possibilità di stimoli di bilancio efficaci, ma azzoppa l’allentamento quantitativo. E un’altra cosa incredibile è il fatto che la logica della trappola della liquidità, dopo sei anni- sei anni! -di tassi di interesse quasi a zero, continui a non essere compresa Ho letto recentemente, e non è neanche l’esempio peggiore, un editoriale su FT di Reza Moghadam, vicepresidente della Morgan Stanley, che scrive che «i salari e il costo del lavoro in generale sono semplicemente troppo alti, anche per gli standard dei Paesi ricchi e tanto più rispetto al concorrenti dei mercati emergenti». Santo cielo! Se è la concorrenza esterna che vi preoccupa allora bisognerebbe svalutare l’euro, non tagliare i salari. E tagliare i salari in un’economia incastrata in una trappola della liquidità quasi sicuramente aggraverebbe la recessione. Com’è possibile che ci sia ancora qualcuno che non lo capisce?

L’Europa ha sorpreso molte persone, me compreso, con la sua capacità di resistenza. E penso che la Bce di Draghi sia diventata un importante elemento di forza. Ma faccio sempre più fatica (come altri) a capire come andrà a finire tutta la faccenda (o meglio a capire come farà a finire in modo non catastrofico). Se trovate implausibile una storia in cui Marine Le Pen porterà la Francia fuori dall’euro e dall’Unione Europea, ditemi qual è il vostro scenario alternativo.

L’altra faccia dell’articolo 18

L’altra faccia dell’articolo 18

Eugenio Somaini – Europa

La frase di Draghi «il problema non è licenziare ma assumere» si presta a diverse interpretazioni e richiama quella della Sibilla «ibis redibis non morieris in bello», che come è noto poteva essere intesa come «andrai tornerai, non morirai in battaglia» o come «andrai non tornerai, morirai in battaglia». Non sono a conoscenza di studi approfonditi e conclusivi su quale è stato l’impatto dell’articolo 18 sull’occupazione, mi limiterò quindi a qualche considerazione di buon senso.

La prima è che l’esiguo numero dei casi in cui l’articolo 18 è stato invocato e applicato non prova di per sé l’irrilevanza dei suoi effetti concreti: è possibile, e direi addirittura probabile, che la lunghezza dei tempi di decisione dei tribunali e l’incertezza degli esiti della cause abbia dissuaso molte imprese dall’effettuare licenziamenti che avrebbero potuto risultare impossibili e costosi, sia in termini di soldi, sia ancor più in termini di reputazione e di clima sui luoghi di lavoro.
I licenziamenti che l’articolo 18 impediva e che la sua abolizione consente sono quelli che da un lato non hanno giusta causa e dall’altro non hanno carattere discriminatorio o serie motivazioni disciplinari.

Ciò che dovrebbe d’ora in avanti essere possibile è licenziare chi lavora poco e male e sostituirlo con chi lavora di più meglio: si tratterebbe di licenziamenti che non avrebbero nulla a che vedere con l’arroganza padronale, le “braghe bianche” evocate da Scalfari con una vena demagogica che finora non gli avevamo conosciuto (che sia un sintomo del populismo dilagante?) e sarebbero dettati solo da ragioni di efficienza e dalla ricerca di una maggiore produttività, qualcosa che andrebbe senz’altro ascritto a merito di un imprenditore. Licenziamenti di questo tipo sarebbero necessariamente accompagnati da assunzioni sostitutive e da guadagni di competitività per le imprese che potrebbero indurre a espansioni della produzione e a nuove assunzioni, questa volta aggiuntive e non meramente sostitutive.

I guadagni di produttività potrebbero anche essere maggiori di quelli immediatamente derivanti dalla sostituzione di un lavoratore scarsamente motivato con uno più capace e motivato ed essere dovuti al fatto che la licenziabilità per scarso impegno o scarsa produttività dovrebbe determinare in tutti reazioni che vanno nel senso di una maggiore produttività, tali effetti potrebbero prodursi anche senza alcun licenziamento, in quanto la licenziabilità dovrebbe indurre molti a mutare la propria condotta e ad abbandonare comportamenti che prima non erano soggetti a sanzioni ma che nel nuovo regime potrebbero portare alla risoluzione del rapporto di lavoro (ovviamente con il pagamento del dovuto risarcimento).

In sostanza è plausibile supporre che l’abolizione dell’articolo 18 produca col tempo effetti benefici attraverso due canali: quello della sostituzione, con licenziamento, di lavoratori poco produttivi con lavoratori più produttivi, e quello dell’incentivo a una maggiore produttività, che non potrebbe non trovare riscontro anche in un aumento delle retribuzioni. L’inconsistenza dei timori talvolta espressi che l’abolizione dell’articolo 18 porti allo scatenamento di impulsi antioperai del padronato risulta evidente alla luce del fatto che i licenziamenti da essa consentiti comportano oneri significativi in termini di risarcimenti che equivalgono alla retribuzione di lavoro che non viene prestato, una circostanza che dimostra come il problema del licenziamento sia ancora considerato soprattutto dal punto di vista del lavoratore.

Un ulteriore effetto positivo potrebbe riguardare l’immagine che gli stranieri hanno del mercato del lavoro e della giustizia italiana in materia di lavoro, un’immagine che per certi versi è probabilmente caricaturale e che può essere dissipata solo da misure che abbiano anche una valenza simbolica, valenza che, a torto o a ragione, l’articolo ha certamente acquisito anche grazie alla strenua e demagogica difesa che ne viene fatta, una difesa che sembra fatta apposta per dare a quella caricatura una credibilità che altrimenti le farebbe difetto.

Renzi, il premier carro armato

Renzi, il premier carro armato

Bruno Vespa – Il Mattino

Sempre contro le istituzioni, sempre con l’opinione pubblica. Matteo Renzi è fatto così. Per istituzioni qui si intendono i poteri pubblici e privati costituiti e riconosciuti. Il vecchio Pd, il seminario economico di Cernobbio, l’assemblea di Confindustria, la Cgil. E adesso le regioni e le province. Ieri mattina ho provato a chiedere alla radio se avesse ragione Renzi a chiedere tagli alle regioni o le regioni a protestare. Un diluvio (quasi) a favore del presidente del Consiglio. «Quando il mio capo ha scoperto che cercavo su internet un fornitore di apparati sanitari più conveniente dei soliti mi ha bloccato». «Ho fatto uno stage in un Comune e ho visto tanti sprechi che lei non può immaginare». «Lavoro nell’edilizia e per fissare a terra tre panchine sono venuti tre operai comunali per tre giorni». «Giro per conto di un’azienda farmaceutica e non le dico quel che vedo». E così via.

Matteo Renzi ha sotto il letto due fantasmi pronti a venir fuori. Uno si chiama Franco Fiorito, il Batman di Anagni, già potentissimo capogruppo del PdL al consiglio regionale del Lazio. L’altro è Filippo Penati, potentissimo presidente della provincia di Milano, poi assistente a Roma di Pierluigi Bersani: esempio classico, con il «sistema Sesto», della continuazione nelle relazioni oblique tra costruttori e politici, anche «rossi»›, dai tempi di Tangentopoli alla Seconda Repubblica. Condannato a tre anni e quattro mesi e a restituire un milione 90mila euro, Fiorito disse in una memorabile trasmissione di «Porta a porta» poco prima che l’arrestassero (e continua a dire tuttora): «Non ho rubato nulla, quei soldi mi sono stati assegnati con regolari delibere». Nel senso che i capigruppo in consiglio regionale potevano amministrare, diciamo così, discrezionalmente, i fondi ad essi assegnati. Penati se l’è cavata con la prescrizione: era accusato di concussione perché il «sistema Sesto» che ruotava intorno al risanamento dell’area Falk-Marelli di Sesto San Giovanni era il modo esemplare di gestione affaristica del Pci-Pds-Ds. Renzi ha eliminato i consiglieri provinciali elettivi: da 2600 li ha portati a poco meno di mille, senza retribuzione aggiuntiva perché sono consiglieri regionali o comunali. Ma la corsa avvenuta tra il 26 settembre e domenica scorsa per accaparrarsi posti in cui si lavora gratis è stata così forte che il governo ha chiuso i rubinetti togliendo un miliardo alle province contro i quattro chiesti alle regioni.

È evidente che queste misure vanno amministrare con saggezza: qualcuno dovrà pur provvedere le scuole e le strade in carico alle province, mentre sarebbe grave se i tagli alle regioni si ripercuotessero su sanità e servizi. Quattro miliardi sono meno del 3 per cento della spesa regionale, assorbita in larghissima parte da stipendi e sanità. Quanto si può tagliare sulla sanità senza penalizzare uno dei migliori servizi del mondo? Basterebbe imporre sul serio i costi standard ed eliminare le anomalie ancora visibili nel Sud, ma non solo. Resta incomprensibile perché dal rispetto dei costi standard sono escluse le cinque regioni a statuto speciale per un patto del febbraio 2011. Non credo che l’autonomia etnica verrebbe compromessa da un adeguamento alla linea nazionale di risparmio. La Lega, che pure era al governo, non protestò. Se Matteo Renzi riuscisse a togliere anche questa anomalia, farebbe cosa buona e giusta.

L’autogol delle Regioni sui tagli

L’autogol delle Regioni sui tagli

Gaetano Pedullà – La Notizia

Le Regioni presenteranno le loro controproposte, ma il solco tracciato col Governo è ormai troppo largo per chiudere la polemica degli ultimi giorni a tarallucci e vino. Renzi – è l’accusa dei suoi sempre più numerosi detrattori nel Palazzo – si sta cercando ogni giorno un nuovo nemico (sindacati, magistrati, lobby, enti inutili come il Cnel, ecc.) per accreditarsi elettoralmente come l’uomo che vuol cambiare il sistema. E in questo calderone adesso sono finiti i governatori. Quello che nessuno può negare è che però tutti questi bersagli del premier sono ciascuno per la propria parte strenui difensori dei loro privilegi, e soprattutto sono ormai colossi dai piedi d’argilla.

Il consenso sociale attorno a questi totem di un’Italia piegata è ormai bassissimo. Senza i pensionati i sindacati avrebbero meno iscritti di un club della bocciofila. E il prestigio delle Regioni, come quello purtroppo di molte altre istituzioni, è ai minimi. Di chi è la colpa: di Renzi o dei governatori che di fronte ai tagli del Governo minacciano di sacrificare sanità e trasporti invece di tagliare consulenze e clientele? Il premier dunque farà pure i suoi calcoli, ma se gli elettori lo seguono non è solo merito suo.

Così a scuola può aiutare l’occupazione

Così a scuola può aiutare l’occupazione

Walter Passerini – La Stampa

Bastano alcuni dati per capire quanto pesa la scarsa comunicazione tra la scuola e il lavoro. In Italia solo il 4% dei ragazzi tra 15 e 29 anni riesce a integrare studio e lavoro (il 22% in Germania); l’abbandono scolastico è al 17,6% (in Europa al 12,6%); solo quattro imprese su dieci hanno frequenti contatti con la scuola (il 70% in Germania) e quando cercano personale lamentano una difficoltà di reperimento di figure tecniche che supera il 40%. C’è da chiedersi che cosa aspettiamo per mettere in comunicazione questi mondi. L’andamento della consultazione on line sulla buona scuola, che scade tra pochi giorni, conferma invece che i principali temi di accesa discussione sono quelli che stanno «dentro la scuola» e non «tra scuola e realtà» circostante. E’ importante parlare di insegnanti, graduatorie, supplenze e risorse, ma al tema scuola-lavoro viene riservata scarsa attenzione. Del resto nell’agenda proposta dal ministero solo due punti su 12 riguardano la scuola e il lavoro. Ci ha provato anche Confindustria con le sue «100 proposte per la scuola» di cui una trentina riguardano il rapporto scuola-lavoro, ma l’uscita pubblica non ha ancora trovato un’adeguata attenzione. Colpisce sul tema il silenzio dei sindacati. Il dialogo tra sordi deve essere sostituito da una più stretta collaborazione.

La disoccupazione giovanile (44,2%) ha molto a che fare con la scarsa comunicazione tra i due mondi. L’Europa ci chiede di lavorare sulle quattro priorità della Vet (Vocational educational training): alternanza, apprendistato, istruzione tecnica e professionale, autoimprenditorialità. Ma noi sembriamo ancora fermi alla vecchia triade della vita: prima si studia, poi si lavora, poi si va in pensione; sappiamo bene quanto sia cambiato il nostro piccolo mondo antico. Eppure le migliori pratiche dei nostri concorrenti dovrebbero guidarci. Sono almeno dieci le proposte attuabili. Innanzitutto un piano di orientamento nazionale, dalla scuola media, per accompagnare le scelte e rafforzare le iscrizioni alle discipline tecnico-professionali. Va resa obbligatoria l’alternanza scuola-lavoro obbligatoria negli ultimi tre anni delle superiori. Anziché soffocarlo, l’apprendistato avrebbe bisogno di un rilancio sia per l’acquisizione di qualifiche sia per l’alta formazione (modello duale).

Gli imprenditori che svolgono attività di formazione per i giovani vanno incentivati e premiati. L’offerta formativa dopo il diploma dovrebbe arricchirsi di un nuovo ordinamento aggiuntivo, oltre all’università, attraverso l’istruzione tecnica superiore, sul modello tedesco. L’inefficacia della formazione in Italia dipende anche dalla frammentazione in 20 sistemi regionali, per i quali andrebbe prevista una regia e un coordinamento nazionale. Stage e tirocini dovrebbero diventare obbligatori sia negli istituti tecnici che nei licei con una durata almeno doppia. Ogni istituto superiore dovrà dotarsi di ufficio placement e banche dati per favorire i contatti con il mondo produttivo. Per ovviare alla carenza di risorse si possono usare i laboratori aziendali aprendoli alle classi. Infine, è tempo che le scuole si colleghino in rete ai fabbisogni e ai monitoraggi nazionali e territoriali, per legare più strettamente la domanda e l’offerta di lavoro.

Insanità regionale

Insanità regionale

Davide Giacalone – Libero

Posto che la pressione fiscale generata dagli enti locali è aumentata dell’80 per cento in quattordici anni, senza che sia diminuita quella nazionale, posto, quindi, che da tre lustri gli italiani s’impoveriscono e perdono competitività anche per finanziare enti la cui utilità è nota più che altro a chi li abita, è facile capire il perché non si trovi divertente la polemica fra il governo e le regioni. Oltre tutto giocata usando il linguaggio della più sciatta demagogia: “spreconi”, da una parte, “affamatori”, dall’altra. I governatori regionali, abituati a batter cassa presso il governo, non s’aspettavano di trovarsi di fronte chi usa la cassa per battergliela in testa. Molti di loro sognarono il partito di “lotta e di governo”, eccoli serviti: salvo che usa la lotta demagogica contro di loro.

Piuttosto che l’opera dei pupi, però, si possono fare operazioni interessanti: chiudere la tragica storia della sanità regionalizzata, che con la riforma Bindi, del 1999, elevò a sistema la militarizzazione partitocratica dell’amministrazione, e con la riforma costituzionale del 2001 stese una pietra tombale sull’idea che la salute e la sanità fossero questioni di competenza nazionale. Due operazioni “Made in left”, così anche i newcomers capiscono. Contabilizzati i disastri è ora di farla finita.

Inutile continuare a polemizzare sul costo delle siringhe. Anche stucchevole e oltraggioso, perché sentendolo ripetere da anni, da governi e governanti di ogni colore, il cittadino si chiede: ma a chi lo stanno dicendo? Se il sistema fa così schifo, e lo fa, lo cambino. La soluzione non è che le tasse per coprire quei costi siano a cura degli enti locali anziché dello Stato, dato che a pagare sono i medesimi italiani. Semmai si deve avere il coraggio di spiegare perché il politico regionale nomina i capi dell’amministrazione sanitaria e perché l’organizzazione che presiede alla difesa della mia salute debba essere regionale. Non saprei spiegarlo, perché lo considero sbagliato.

Fin qui ci si è trastullati con le siringhe e i costi standard, che già di loro sono un non senso: se l’acquirente compra molto materiale sanitario e molti farmaci, bandendo una gara fra fornitori, è ovvio che riesce a spuntare un prezzo migliore rispetto a venti acquirenti che comprano un ventesimo e bandiscono centinaia di gare. Oggi le regioni ricevono un rimborso, dallo Stato, pari alla media dei tre migliori prezzi. A parte che il prezzo adottabile dovrebbe essere il più basso, non una media, quando comprano pagando più degli altri generano nuovo debito, che si somma a quello immenso, già esistente. Quando, sventuratamente, negli anni 70, si chiusero le mutue queste lasciarono un immenso patrimonio immobiliare, avendo fornito assistenza a tutti i mutuati. Oggi ci sono solo deficit e debiti. Cosa serve di più per capire che la regionalizzazione è una follia?

Senza mai dimenticare che la qualità media dell’assistenza sanitaria, in Italia, è ottima. Purtroppo con vergognose sperequazioni interne (ulteriore conferma della pessima regionalizzazione), ma mediamente fra le migliori al mondo. Il che dimostra, se ve ne fosse bisogno, che il nostro problema non sono i medici, ma gli amministratori. Ed è questo il lato positivo: per formare buoni medici ci vogliono anni, per mandare a casa cattivi amministratori, protettori di amministrativi nullafacenti, soci di sindacati corporativi, ci vogliono, a saperlo e volerlo fare, un paio di mesi. A patto di non perderli in battibecchi degradanti e di utilizzarli per fare vere e sane riforme.

Non è un delitto tagliare del 2%

Non è un delitto tagliare del 2%

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Facciamo davvero fatica, e tanta, a comprendere il lamento delle Regioni dopo che il governo di Matteo Renzi ha chiesto loro di tagliare 4 miliardi. Il sacrificio equivale a circa il 2 per cento di una spesa pubblica regionale che da quando nel 2001 è stato approvato il nuovo Titolo V della Costituzione è andata letteralmente in orbita. In un solo decennio la crescita reale, depurata cioè dell’inflazione, è stata di oltre il 45 per cento. Con una qualità dei servizi che certo non ha seguito lo stesso andamento. I presidenti delle Regioni minacciano ripercussioni sulla Sanità. Argomento cui si ricorre spesso quando viene paventato un giro di vite, nella speranza di conquistare il sostegno dei cittadini. I quali però avrebbero anche diritto di conoscere le cifre.

Nel 2000, prima dell’entrata in vigore del famoso Titolo V che ha esteso in modo scriteriato le autonomie regionali, la spesa sanitaria era di poco superiore a 70 miliardi. Nel 2015 ammonterà invece a 112 miliardi. L’aumento monetario è del 60 per cento, che si traduce in un progresso reale del 22 per cento.Si potrà giustamente sostenere che in quindici anni sono cambiate molte cose: la vita media si è allungata e la popolazione è più anziana. Per giunta, la Sanità italiana è considerata fra le migliori d’Europa, al netto delle grandi differenze territoriali al suo interno che si traducono in un abisso del diritto fondamentale alla salute tra il Nord e il Sud: altro effetto inaccettabile del nostro regionalismo.Resta il fatto che nel 2000 la spesa sanitaria pro capite era di 1.215 euro e oggi è di 1.941, con un aumento monetario del 59,7 per cento e reale del 26,7. La differenza di qualità del servizio è tale da giustificarlo?

Con un documento di qualche settimana fa il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti ha spiegato che in un anno è riuscito a ridurre di 181 milioni la bolletta sanitaria senza colpo ferire: solo razionalizzando acquisti e spesa farmaceutica. Dal canto suo la Consip, la società statale che gestisce gli acquisti della pubblica amministrazione, ha fatto risparmiare 100 milioni su 320 soltanto con la fornitura centralizzata delle strisce per la misurazione della glicemia, comprate a un prezzo unitario di 19 centesimi mentre prima si andava da un minimo di 45 centesimi a un massimo di un euro e 10. Tanto basta per far capire quanto grasso ci sia ancora nei conti della Sanità. Ma il grasso della Sanità è niente rispetto al resto. Il fatto è che la riforma del Titolo V ha scatenato un terremoto molto più dirompente di quanto non fosse prevedibile a causa della maggiore autonomia concessa alle Regioni. Queste hanno cominciato subito a comportarsi come piccoli Stati indipendenti i cui amministratori, ribattezzati pomposamente «governatori» con la colpevole complicità della stampa, non avevano però il dovere di rispondere agli elettori, visto che i soldi venivano pressoché tutti distribuiti attraverso lo Stato centrale.

Una sindrome dagli effetti sconcertanti, come dimostra la costosissima proliferazione di sedi estere, da Bruxelles al Sudamerica alla Cina: come se ogni Regione dovesse avere una sua politica internazionale. Si è arrivati perfino a creare strutture come il Centro estero per l’internazionalizzazione piemontese che ha come obiettivo quello di «rafforzare il made in Piemonte». Mentre la vicina Regione Lombardia lanciava il progetto «made in Lombardy».Le conseguenze sono state nefaste. Al Nord come al Sud. I rigagnoli di spesa si sono moltiplicati, diventando fiumi in piena. Gli organici sono stati gonfiati a dismisura. Sul totale di 78.679 dipendenti regionali (Sanità esclusa), la Confartigianato ha calcolato esuberi teorici del 31 per cento: 24.396 unità. Ipotizzando un risparmio annuo possibile di 2 miliardi e 468 milioni. Il record spetta al Molise, con esuberi teorici del 75,4 per cento, seguito della Valle D’Aosta (71,2).

Le cronache offrono casi formidabili. Nella Calabria dove ci sarebbero 1.184 dipendenti di troppo, l’ispettore spedito dal Tesoro, come ha raccontato sul Corriere di Calabria Antonio Ricchio, ha scoperto cose turche. Per esempio 1.969 promozioni in un solo anno (il 2005 delle elezioni regionali) da lui ritenute illegittime, al pari degli aumenti di stipendio retroattivi assegnati a 85 impiegati dei gruppi politici. Nel Lazio, invece, per tutti gli anni Duemila si è registrata un’impennata pazzesca del personale dei parchi: nel 2009 erano 1.271. Di cui 99 dirigenti. Per non parlare delle società controllate e partecipate. La Corte dei conti ha appurato che quelle della sola Regione Siciliana occupano 7.300 persone, con una spesa di un miliardo e 89 milioni nel quadriennio 2009-2012 per le buste paga. Nello stesso periodo la Regione aveva versato nelle loro casse un miliardo e 91 milioni, cifra che secondo i giudici contabili comprende anche «il ricorso reiterato e improprio a interventi di mero soccorso finanziario a società prive di valide prospettive di risanamento».

E la politica? I consigli regionali, privati di ogni controllo centrale, hanno rivendicato prerogative pari a quelle del Parlamento nazionale, cominciando dall’autodichìa. Ovvero, l’insindacabilità assoluta su come spendono i soldi. Scandali a parte, è potuto accadere così che il consiglio regionale del Lazio abbia sfornato in meno di 40 anni 40 leggi locali ognuna delle quali ha accresciuto i privilegi retributivi e pensionistici dei consiglieri.Il risultato è che oggi un terzo del bilancio del consiglio laziale se ne va per pagare i vecchi vitalizi. Grazie alle antiche regole mai cambiate c’è pure chi continua a prendere l’assegno a cinquant’anni e dopo una sola seduta.Le Regioni spendono per i vitalizi 173 milioni l’anno. Cifra che sale in continuazione ma che potrebbe essere ridotta di almeno 50 milioni, dice il finora inascoltato rapporto sulla spending review , senza gettare sul lastrico nessuno. Ma su questo, da chi si straccia le vesti per i tagli chiesti dal governo, neppure un sussurro.

Le virtù e i difetti nascosti

Le virtù e i difetti nascosti

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

Nella bozza inviata a Bruxelles, la legge di Stabilità è presentata come strumento «per la crescita»: meno pressione fiscale su imprese e famiglie e dunque – si spera – più investimenti, consumi e posti di lavoro. Le cifre confermano che stavolta l’impegno del governo è significativo: 36 miliardi fra entrate ed uscite. L’Irap e i contributi sociali per i neo-assunti (a tempo indeterminato) scenderanno. Il bonus di 80 euro sarà confermato, mantenendo le promesse fatte a maggio. I lavoratori che lo vorranno potranno attingere da subito a una quota del Tfr. Per la prima volta, poi, si concede un po’ di respiro fiscale a quel milione circa di «partite Iva» senza le quali interi settori produttivi sarebbero già scomparsi.

Non sono previsti tagli diretti alla spesa sociale. Anzi, ci saranno risorse aggiuntive per gli ammortizzatori, la famiglia e la scuola. Qui l’intento è virtuoso, ma tutto dipenderà da come i soldi verranno spesi. Colpisce l’inadeguatezza dei fondi destinati al contrasto alla povertà, nonostante le esortazioni a fare di più su questo fronte ricevute a giugno proprio dalla Ue.

Le coperture sono il punto più debole della manovra. Non solo (e forse non tanto) per gli 11 miliardi di maggior deficit, ma per l’aleatorietà di molti dei tagli previsti. Quella spending review che doveva dare inizio ad una incisiva razionalizzazione dell’intero settore pubblico ha partorito una covata di sfuggenti topolini. Ci sono alcuni tagli lineari, una gran quantità di microriduzioni, blocco generalizzato dei contratti nel pubblico impiego, tetti a Regioni ed Enti locali (sui quali si sta originando una spirale di polemiche: come spesso succede, la verità sta nel mezzo). Sicuramente la scure eliminerà varie spese inutili. Non c’è però stata una svolta nell’individuazione di inefficienze e sprechi, andando alla radice dei problemi. Inoltre molti dei provvedimenti di riduzione della spesa non saranno immediatamente esecutivi. Come al solito, richiederanno quella catena di misure attuative e «concerti fra ministeri» che hanno già affossato molte passate riforme.

Come reagirà l’Unione europea? Non è da escludere che la Commissione s’impunti (a questo punto assurdamente) su una questione di decimali. È possibile però che le perplessità Ue siano legate più alla bassa credibilità delle politiche italiane che ai livelli di deficit e debito. Senza nulla togliere alle capacità del ministro Padoan, fra lo smilzo documento in inglese presentato a Bruxelles e la disordinata bozza in italiano uscita dal Consiglio dei ministri c’è un divario preoccupante.

I documenti degli altri Paesi sono molto più ricchi di dettagli e valutazioni, i loro impegni risultano così più affidabili. Sul versante della «serietà», Matteo Renzi ha ancora molto lavoro da fare. Non solo per convincere l’Europa a concedere maggiore flessibilità, ma anche per garantire ai cittadini effettività ed efficacia dell’azione di governo. Condizione necessaria affinché le norme di legge abbiano un qualche impatto sulla realtà, nella direzione auspicata.

I tanti illegittimi dubbi sul taglio delle tasse

I tanti illegittimi dubbi sul taglio delle tasse

Massimo Francaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

L’idea che il peso delle tasse possa (finalmente) diminuire rappresenta un segnale importante per le persone e le imprese. E quei 18 miliardi di riduzione indicati nella legge di Stabilità rappresentano un passo importante. Eppure, quando si parla di tasse è legittimo avere qualche dubbio. Quando fu dato l’addio all’Imu sull’abitazione principale si disse che le imposte sugli immobili sarebbero diminuite e che il sistema sarebbe stato semplificato. Sappiamo che, purtroppo, non è andata così. E allora proviamo a ripercorrere alcuni degli interventi varati.

Partiamo dal Tfr. Se, come sembra, l’anticipo sarà tassato con le aliquote progressive Irpef, si tratta di una misura che alla fine (oltre i 29 mila euro) avrà come principale beneficiario soprattutto il Fisco. Se l’obiettivo era quello di spingere i consumi sarebbe stato meglio lasciare una tassazione più favorevole. Ai lavoratori che faranno questa scelta, infatti, verrà applicata l’aliquota marginale, ovvero quella che si paga sulla quota più elevata di reddito (oscilla tra il 23% e il 43%). Mentre se si decide di incassarlo a fine carriera, come avviene oggi, si subirà un prelievo nettamente inferiore (dal 23% al 33%). E, se lo si investe nei fondi pensione, l’aliquota è ancora inferiore: tra il 9% e il 15%. L’unico a guadagnarci sarà alla fine lo Stato, che riceverà in anticipo (e in misura maggiorata) le imposte che altrimenti incasserebbe tra 15 o venti anni.

Un brutto segnale viene dal capitolo della previdenza integrativa. Qui, per cercare di coprire altri sgravi, si propone di portare il prelievo annuo sui rendimenti dei fondi pensione dall’11,5% al 20% (e dal 20% al 26% quello delle casse private). L’aumento comporta maggiori tasse per 3,6 miliardi. Il 10% delle entrate previste. Un colpo gobbo che colpisce i risparmiatori più previdenti, quelli che stanno investendo per il loro futuro. Quasi tutti l’hanno fatto sapendo di poter beneficiare di un trattamento favorevole, mentre ora vedono infrangersi il patto con il Fisco. La previdenza complementare rischia l’estinzione.

E arriviamo al capitolo più ambiguo: quello degli enti locali. Come è già avvenuto in passato si rischia che la riduzione dei finanziamenti statali venga compensata dagli aumenti delle addizionali Irpef o dei tributi di competenza regionale e comunale. Lo scontro tra Regioni e Stato centrale è appena agli inizi. Diventa sempre più stretta la via per chi amministra e deve rispettare i nuovi parametri di bilancio. Risultato: andiamo verso un nuovo aumento a orologeria. Lo stesso ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, a una domanda su questo rischio ha risposto con un laconico «Può darsi». Speriamo che si sbagli.