Edicola – Opinioni

Il Tfr è mio e lo gestisco io, o no?

Il Tfr è mio e lo gestisco io, o no?

Il Foglio

A chi fa paura il tfr in busta paga? Non ai lavoratori, naturalmente, trattandosi di soldi loro che, sulla base delle intenzioni renziane, finirebbero in busta paga (non tutti, e peraltro in via facoltativa). Logica vorrebbe, quindi, che anche i sindacati si dicessero favorevoli. E per osmosi anche la sinistra old labour dovrebbe mostrare simpatia per un provvedimento che mette gli assunti in condizione di decidere in libertà se congelare o spendere oppure tesaurizzare a piacimento la quota annuale della così detta liquidazione. Invece no, c’e qualcosa di misteriosamente ostile alla proposta del premier Matteo Renzi, un rigagnolo limaccioso e trasversale nel quale scorre una diffidenza sospetta.

Da Confindustria alla Cgil, dai reduci inconsolabili del governo di Enrico Letta (Francesco Boccia del Pd: “Solo chi in un’azienda non ci è mai entrato può pensare che quella del tfr sia una soluzione”) agli avanzi del sindacalismo post fascista (Renata Polverini di Forza Italia), fino ad alcune molecole del mondo accademico che si pretende liberista (Cesare Pozzi della Luiss, per esempio): è tutto un coro stonato ma potente. Ma per quale ragione? Si può capire che a Giorgio Squinzi e alla sua lobby confìndustriale faccia comodo difendere il capitalismo pigro e paraculo grazie ai risparmi del lavoro dipendente ben sigillati nel proprio retrobottega. Si comprende meno come faccia Susanna Camusso ad assecondare lo stesso punto di vista, quando il suo collega/avversario Maurizio Landini della Fiom la pensa invece all’opposto.

Non si comprendono affatto le ragioni degli altri. Quelli che urlano all’attentato statale contro la vecchiaia dei prossimi pensionati; quelli che assicurano che il governo vuole finanziare la domanda attraverso il risparmio privato, o che Renzi sbloccherà i tfr per taglieggiarli meglio con altre tasse; quelli che fanno l’elogio del Bismarck inventore del Welfare prussiano, coatto e a prova d’infrazioni private. È un modo gentile per disprezzare i lavoratori, come fossero minorenni strabici, cicale pronte a rovinarsi l’ultima stagione della vita, o forse solo potenziali simpatizzanti di un governo sgradito.

Il deficit di Renzi

Il deficit di Renzi

Paolo Cirino Pomicino – Il Foglio

La decisione improvvisa e unilaterale del governo francese di avere per due anni in più uno sforamento del 3 per cento nel rapporto deficit/pil, attestandolo sopra il 4 per cento, dimostra non solo la crisi in cui si dibatte l’Unione europea e in particolare l’Eurozona ma anche una sorta di fallimento del semestre italiano ormai agli sgoccioli. Tutti sapevano delle crescenti tensioni sulle politiche economiche e di bilancio di Bruxelles e Renzi, in qualità di presidente di turno, avrebbe dovuto convocare una riunione dei capi di stato e di governo per affrontare per tempo la delicata questione in termini concreti incardinandola come priorità nell’agenda di lavoro. In realtà il governo italiano, focalizzato sui rapporti tra l’Italia e Bruxelles, ha perso di vista la dimensione comunitaria delle tensioni che si stavano accumulando. Dopo la svolta francese tutto sarà più complicato per l’Europa e per l’Italia. Anzi, forse, sarebbe utile rallentare anche alcune partite già in dirittura d’arrivo come l’Unione bancaria che presenta non pochi aspetti problematici. Ma ciò che accade in Europa accade anche in Italia, e cioè una incertezza crescente sulle politiche sinora perseguite e su quelle annunciate.

Forse per qualcuno è stata una sorpresa la Nota di aggiornamento del documento finanziario approvato dal governo per i tragici numeri emersi sulla crescita sulla occupazione e sui conti pubblici, ma per noi è stata solo una conferma di ciò che diciamo da mesi. Anzi il governo non ha detto tutta la verità! Non è vero che alla fine dell’anno la crescita del prodotto interno lordo sarà ne- gativa solo per lo 0,3. Se dovesse intervenire un miracolo forse ci fermeremo a 0,5/0,6 ma deve cambiare il vento nell’ultimo trimestre e le previsioni non sono in quella direzione. La stessa cosa vale per la striminzita crescita prevista dal governo per il 2015 (+0,6) che inizierà con l’effetto di trascinamento negativo del 2014. Il pareggio di bilancio si allontana nel tempo sino a scomparire all’orizzonte e il debito continuerà a salire (il governo pre- vede di far scendere il rapporto debito/pil di uno 0,1 cioè niente) mentre il rapporto deficit/pil si dovrebbe mantenere al 3 per cento grazie alla ricchezza prodotta dalla prostituzione e dalla economia illecita e criminale. Da venti anni l’economia italiana non cresce e da ventidue anni èe affidata esclusivamente a tecnici di indubbio valore ma che con la politica economica hanno scarsa dimestichezza. Anche per l’economia vale quel vecchio aforisma di Georges Clemenceau secondo il quale la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari.

Ciò che vogliamo dire è che da venti anni manca una visione di politica economica e di politica industriale, pur essendo l’Italia il secondo paese manifatturiero dell’Europa dietro la Germania. Abbiamo la netta impressione che anche il governo Renzi si sia avviato su questa strada, al di là dei fuochi di artificio sull’articolo 18 e sulle tante riforme ordinamentali messe in pista. Renzi ha una forza politica che altri governi non avevano, per contingenze oggettive e per le modalità con le quali ha conquistato prima il Pd e poi il governo, ma rischia di sciuparla per non avere l’umiltà di capire e di operare dopo aver capito. Una cosa è il consenso e la popolarità, altra cosa è l’arte del governare che richiede visione non onirica, strumenti di conoscenza della macchina dello stato e dei processi economici e una squadra all’altezza. Così non è stato e Renzi ha sbagliato l’agenda di lavoro anticipando le riforme istituzionali a quelle economiche.

Per spiegarci meglio, è come se si volesse curare in pronto soccorso un uomo ferito da uno sparo affrontando prima la sua epatite cronica e poi aggredendo la ferita sanguinante. Il tutto avendo, peraltro, un partito alle spalle che ha due anime profondamente diverse. Bisogna dare atto a Renzi di non nascondere questa diversità genetica, tanto da dire nel dibattito in direzione che lui è un cattolico liberale. Musica per le nostre orecchie, ma cosa ci fa un cattolico liberale alla guida di un partito iscritto al Partito sociali- sta europeo? Certo, vi sono sempre stati socialisti cattolici (vedi Jacques Delors) ma in quegli uomini il termine cattolico non era una cifra politica ma solo la testimonianza di una fede religiosa. Ed è anche vero che il cattolicesimo politico ha nel suo Dna un’idea riformatrice e progressista ma profondamente diversa dal socialismo democratico. Di qui, dunque, la debolezza strutturale nell’azione di governo. Davvero Renzi ritiene di fare uscire l’Italia dal tunnel della recessione o della crescita bassissima nella quale è stata relegata da 20 anni con 10-15 mld di euro da spendere e mettendo in busta paga una parte del tfr, come si appresta a fare con la prossima legge di stabilità? Non scherziamo col fuoco. L’Italia è in grande affanno e l’idea che si possa uscire dalle difficoltà gettando la furia popolare contro gli stipendi alti a cominciare da quelli delle Camere che sono un “unicum” nelle società nazionali è un altro errore, perché accanto all’applauso vociante emerge la triste direzione di marcia: siamo tutti più eguali nella povertà.

Per dirla in maniera semplice: o si aggredisce il debito con una manovra finanziaria straordinaria recuperando decine di miliardi dalla spesa per interessi che oggi vanno alla finanza nazionale e internazionale, per darli all’economia reale, o lentamente il paese morirà e i suoi asset migliori saranno acquistati da quanti si sono riuniti qualche giorno fa riservatamente in un albergo di Milano per discutere sugli acquisti migliori da fare nel nostro paese a prezzi stracciati. Per fare operazioni di questo genere, però, non servono tecnici ma politici che abbiano visione e coraggio per chiamare la grande ricchezza nazionale a uno sforzo congiunto e salvare il paese e con esso la ricchezza che gli italiani hanno prodotto nel corso di tanti decenni, battendo nemici come il terrorismo e l’inflazione a due cifre e mantenendo intatto quel profilo democratico senza il quale non si va molto lontano.

La vera riforma dell’articolo 18

La vera riforma dell’articolo 18

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

Che abbia ragione chi sostiene che quella sull’articolo 18 è una battaglia ideologica, perché a difendere i diritti di chi lavora ci sono fortini giuridici, e a frustrare gli interessi degli imprenditori lo Stato provvede con mezzi ben più intrusivi? A far sorgere il dubbio è la questione dei licenziamenti disciplinari. Una sorta di residuo secco tra i licenziamenti discriminatori, – che mai nessuno si è sognato di legittimare – e quelli per giustificato motivo economico – per cui non ci andava molto a capire che il giudice non è la persona adatta a decidere.

È quindi comprensibile che in questa battaglia politica, i licenziamenti individuali siano il contenitore delle riserve mentali: sia di quanti pensano di conquistare riformismo con i decreti delegati sia di chi conta di recuperare garantismo nei tribunali. Se diventassero il contenitore di casi ambigui nella definizione e incerti nella risoluzione, questa sarebbe davvero stata soltanto una battaglia ideologica interna alla sinistra. Per evitarlo c’è una strada molto semplice: stabilire senza equivoci che per tutti i cosiddetti licenziamenti disciplinari l’azienda ha il diritto a sostituire l’eventuale reintegro con un indennizzo di entità nota ex ante.

Infatti nella via di un’impresa sono rari i casi in cui per sopravvivere deve licenziare, delocalizzare, oppure ridurre l’occupazione (fini per cui tra l’altro si possono attivare già altri strumenti). Rari i casi di disoccupazione tecnologica: già Sismondi, due secoli fa, ironizzava con chi teme que le roi, demeuré tout seul dans l’ile, en tournant constamment une manivelle, fasse accomplir, par des automates, tout l’ouvrage de l’Angleterre. Rari sono anche i casi opposti, in cui l’azienda aumenta gli organici perché è riuscita a invadere nuovi mercati, oppure perché ha sbaragliato la concorrenza con un’innovazione. La gran parte delle aziende, per la massima parte della loro vita, procede per variazioni incrementali, una nuova filiale di vendita, una macchina più veloce, un’organizzazione del lavoro più efficiente: la metodica, incessante, noiosa ricerca di fare le cose in modo più produttivo. Rare sono le inaugurazioni di nuovi capannoni, rare per fortuna le chiusure, la normalità è migliorare marginalmente ogni fase di ogni attività: e questo significa anche trovare persone marginalmente più capaci di svolgerle.

Fare squadra non è soltanto la qualità mitizzata di leader mitizzati, lo fanno tutte le cellule delle organizzazioni: e nessun allenatore riesce a fare squadra se la sola soluzione di cui dispone è allungare la panchina. Per questo, i miglioramenti marginali di efficienza sono «giustificato motivo economico» per licenziamenti individuali: se anche ci fosse ricorso al giudice e questo ordinasse il reintegro, l’azienda deve potere optare per l’indennizzo. È vero, l’azienda è, per storica definizione, luogo dello scontro di classe; è anche, per umane ragioni, luogo di abrasioni caratteriali: dietro il licenziamento disciplinare ci può essere una meschina ripicca, una stupida vendetta. Ma la fabbrica è anche il luogo in cui ognuno è nodo di un reticolo complesso di relazioni, verticali e orizzontali, anche i rapporti gerarchici sono trasformati dalla generale disintermediazione: sarebbe proprio stupido rischiare di danneggiare un ambiente sociale con una palese ingiustizia.

Recuperare produttività è il cuore del problema italiano. Molto dipende dai servizi erogati dallo Stato, quindi dal funzionamento dello Stato stesso, molto dalla produttività delle singole aziende. Per le poche che sono leader mondiali nei loro settori, per le tante che cercano di tenere il mare, l’aumento della produttività è un processo incrementale, che si basa sulla continua ottimizzazione delle funzioni e sulla selezione di chi meglio le sa svolgere. La produttività dell’Italia ristagna da 15-20 anni, rispetto ad aumenti molto più congrui dei paesi concorrenti: eppure il governo sembra voler lasciare a questo proposito le cose come stanno, non far nulla per facilitare questo processo di miglioramento interno.

Le nuove norme, e quindi anche il considerare «giustificato motivo economico» i miglioramenti marginali di efficienza, non si applicheranno a chi oggi ha un contratto a tempo indeterminato. E nella nostra cultura giuslavoristica rimarrà per anni il principio della job property, che la riforma avrebbe dovuto sradicare. Se per i casi di licenziamento disciplinare non si desse all’azienda la possibilità di procedere per l’indennizzo in luogo del reintegro, e se questa comunque non valesse per tutti i lavoratori con contratto a tempo indeterminato fino alla loro pensione, ci sarebbe veramente da interrogarsi sul perché di tanta contestazione a una legge che estende diritti a molti (dipendenti di aziende con meno di 15 persone, lavoratori non a tempo indeterminato, contratto di reinserimento per tutti) e non ne leva a nessuno. Verrebbe da dire che questa è stata una finta battaglia, ingaggiata soltanto per poter dire di averla vinta.

Il rischio da evitare per il vertice sul lavoro

Il rischio da evitare per il vertice sul lavoro

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Quasi certamente il terzo vertice europeo sul lavoro, che si terrà domani a Milano, non sarà diverso da quelli di Berlino e Parigi che l’hanno preceduto. Parole, impegni vaghi e poi silenzio più o meno pneumatico. Liturgie pubblicitarie utili a chi le celebra: che sia Matteo Renzi, Angela Merkel o François Hollande poco cambia e cambierà per i 26 milioni di disoccupati europei, giovani e non. La soluzione dei loro problemi, infatti, per ora non potrà che essere nazionale e solo in misura marginale targata Ue: anche perché le risorse del bilancio comunitario sono scarse e sempre più insufficienti a coprire il divario tra presunte politiche comuni e risorse disponibili.

Per questo il vero vertice di Milano si giocherà sull’ennesimo braccio di ferro tra il partito del rigore e quello della crescita, tra Germania e nordici da una parte, Francia e Italia dall’altra. La tensione della vigilia è altissima: la Merkel richiama all’ordine i renitenti ai sacrifici, Hollande le risponde picche sull’impegno a portare dal 4,3% attuale al 3% il deficit nel 2015 ma per questo rischia di vedersi bocciata a Bruxelles la legge di bilancio. E Renzi denuncia la vetustà delle regole vigenti pur affermando che non intende violarle, anche se a sua volta difficilmente riuscirà a far fronte alla tabella di marcia europea su conti pubblici e riforme strutturali.

Il tutto mentre si fa sempre più pressante e preoccupato l’allarme della Bce di Mario Draghi sulla crescita europea sempre più fragile e la deflazione che non passa. I dati congiunturali continuano purtroppo a dargli ragione. Ieri il turno degli ordini tedeschi all’industria, crollati in agosto del 5,7% su base mensile, il peggior scivolone dal 2009, con punte del 9,9% fuori dall’Eurozona e una caduta del 2% in Germania. Naturalmente le crisi russo-ucraina e mediorientale hanno dato il loro contributo negativo ma è soprattutto la debolezza dei partner euro a frenare la locomotiva tedesca. Se il buon senso prevalesse sulle profonde diffidenze reciproche e se tutti i protagonisti della partita facessero seriamente la loro parte, la soluzione dei malanni europei sarebbe possibile e anche a portata di mano.

Con un surplus dei conti correnti che supera ampiamente il tetto del 6% massimo previsto dalle regole Ue, Berlino oggi dispone dei margini finanziari per aumentare la spesa e rilanciare la domanda interna ed europea ma non intende usarli: ufficialmente perché conta di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2015, nella realtà perché convinta che, allentando la pressione sui Paesi recalcitranti, otterrebbe l’effetto opposto a quello desiderato, inducendoli a fare ancora meno del poco o niente che oggi sono disposti a fare. Malfidenza eccessiva e ingiustificata? È difficile considerare Francia e Italia dei campioni di affidabilità: troppe promesse non mantenute, troppi immobilismi e competitività perduta, troppe divergenze economiche accumulate in un’unione monetaria che non può permettersene più di tanto se non vuole diventare ingovernabile.

Detto questo nessuno oggi, nemmeno la nuova Commissione Juncker che si insedierà il 1° novembre, sembra in grado di aiutare a uscire dal pericoloso impasse nel quale l’Eurozona senza crescita rischia di affondare. Ad ascoltare la pantomima delle audizioni parlamentari dei commissari che si susseguono in questi giorni, più che la generale consapevolezza della grande emergenza economico-sociale da affrontare e risolvere al più presto, si percepisce il solito gioco degli equivoci, degli equilibrismi impossibili, delle ambiguità europee senza fine. Non si capirebbe altrimenti come mai Pierre Moscovici, il socialista francese che fino a poco tempo fa prometteva di impugnare le bandiere della crescita e dell’occupazione a nome di tutta la sinistra europea, tenti ora di accreditarsi come il convinto paladino del rigore e delle regole Ue, come se da ministro delle Finanze non fosse stato proprio lui a ignorarli a ripetizione, con i noti risultati. Né si capirebbe Valdis Dombrovskis, il vice-presidente e falco collaudato che comunque ne controllerà da vicino le mosse, il quale sia pure con gran fatica prova a “colombeggiare” chiosando sulla futura dimensione sociale dell’Europa pur ripetendo che la crescita sarà il prodotto delle riforme e che comunque «nessuna legge impedisce agli Stati membri di uscire dall’euro». Cosa attendersi del resto dal premier lettone che ha portato il suo Paese nella moneta unica tagliando il Pil del 20% in 3 anni, i salari pubblici della stessa percentuale e le pensioni del 10%? Non si capirebbe nemmeno come mai il presidente Jean-Claude Juncker abbia promesso in luglio un piano europeo per la crescita da 300 miliardi che però, a quanto pare, punterà su capitali privati, niente fondi nazionali freschi e risorse “riciclate” tra quelle già allocate al bilancio Ue?

Le smentite a questi dubbi e confusioni di intenti naturalmente saranno più che benvenute, se ci saranno come si spera. L’Europa non può permettersi di ignorare ancora a lungo i suoi problemi. L’impatto con la realtà, troppo a lungo snobbata e travisata, potrebbe infatti riservarle, prima o poi, pessime sorprese.

Il disoccupato riluttante

Il disoccupato riluttante

Massimo Gramellini – La Stampa

Nascere a Berna presenta i suoi vantaggi. Intanto c’è una disoccupazione al 2,6 per cento, per cui hai 97,4 possibilità di trovare un lavoro o di permettere a lui di trovarti. Ma anche nel caso in cui tu faccia le capriole per sfuggirgli, usufruirai delle meraviglie del Renzi Act, che nei cantoni elvetici non è una chiacchiera da bar etrusco ma una legge che garantisce ai senza impiego un sussidio di lauta sopravvivenza. E se lo Stato, in cambio del sussidio, osa accalappiare un lavoro e addirittura proportelo? Potrai sempre fargli causa per mancanza di buongusto.

È quanto è capitato a un laureato disoccupato e sussidiato, nonché padre di neonato, che da anni studia a spese dello Stato per sostenere l’esame da avvocato. Pur di inserire una dissonanza in quell’esistenza piena di rime, gli hanno offerto un posto da spazzino. Mestiere che in Svizzera rasenta il contemplativo, dato che gli abitanti di quelle lande ossessive raccolgono, oltre alle cicche, anche la cenere e passano la cera pure sui marciapiedi. Per impugnare una ramazza simbolica, al prode laureato hanno garantito uno stipendio di 3600 euro al mese. E lui giustamente si è offeso: non tanto per la cifra, quanto per il disprezzo che da una simile proposta trasudava nei confronti dei suoi studi: un laureato in legge può al massimo spazzare il tribunale o una raccolta di codici polverosi. Lo Stato svizzero lo ha posto di fronte a un ricatto odioso: niente ramazza, niente sussidio. Così il nostro gli ha fatto causa, la prima della sua vita, ma l’ha persa. Forse neanche l’avvocato è il suo mestiere.

La riforma monca

La riforma monca

Giuseppe Turani – La Nazione

Incontro di Renzi con i sindacati (un’ora) e poi con la Confindustria per cercare di mandare in porto la contestatissima riforma del lavoro. Su un altro tavolo, riservato, proseguono intanto le trattative con la minoranza del Pd, molto contraria a dare deleghe in bianco al governo e schierata in difesa dell’articolo 18. Sarà la volta buona?

La sensazione è che il governo ai sindacati abbia più cose da chiedere che da dare: la riunione, quindi dal punto di vista della Cgil e degli altri suoi colleghi rischia di essere del tutto inutile, se non dannosa. Ma il governo potrebbe decidersi di fare qualche concessione proprio sull’articolo 18 in cambio del via libera al Tfr in busta paga. Stessa cosa, ma rovesciata con la Confindustria. Difficile immaginare l’esito delle due riunioni. E ancora di più della trattativa riservata con la minoranza Pd. Alla fine, comunque, è possibile, molto possibile, che Renzi riesca a procedere con il suo progetto di riforma del lavoro. E allora la domanda che tutti si pongono è: sarà una svolta? Servirà a creare qualche occupato in più? La risposta immediata che viene in mente è: nemmeno uno. E non è una cosa difficile da capire.

Fino a quando il sistema economico è in crisi, in recessione, come ora, si può anche stabilire che i lavoratori andranno in fabbrica o in ufficio gratis, ma nessuno li assumerà per la semplice ragione che non si saprebbe che cosa fargli fare. Dopo questa riforma, se non ci saranno cambiamenti sostanziali, il datore di lavoro avrà più libertà per disfarsi della manodopera non gradita. E questo è certamente un incentivo. Ma solo in periodi di forte crescita economica e quindi con la necessità di aumentare la produzione. In questo momento, invece, abbiamo un quarto del sistema industriale del Paese che, semplicemente, è come se non esistesse più: luci spente e fabbriche ferme. Qui è evidente che non esiste alcun problema nel rapporto con i dipendenti: sono tutti a casa. in cassa integrazione.

Nel resto del sistema produttivo c’è una situazione molto composita. Ci sono aziende che vanno molto bene (perché esportano molto) e aziende che vanno molto male (perché hanno quasi solo il mercato interno). È difficile immaginare che una riforma (per quanto ben fatta) del mercato del lavoro possa indurre le prime a esportare di più e le seconde a trovare un mercato che non c’è. Se si voleva ottenere le due cose appena dette, la strada maestra è stata indicata da tempo da tutti gli esperti: bisognava abbattere di 30-40 miliardi il peso fiscale che grava sul lavoro (portandolo così al livello di quello tedesco). Per fare questo, però, bisognava mettere in cantiere tagli di spesa pubblica almeno per analogo importo.

Ma la spesa pubblica sembra che sia un totem intoccabile. Tutti sanno che i nostri guai maggiori vengono dalle spese della pubblica amministrazione, ma alla resa dei conti nessuno riesce a toccarla. Ormai siamo al terzo governo di emergenza, tutti hanno promesso che avrebbero aggredito il moloch della spesa pubblica. Ma i risultati finora sono stati assai deludenti. Non potendo discutere di questo, che è il tema centrale della nostra precaria condizione, si discute d’altro, ad esempio del mercato del lavoro. La riforma in corso d’opera un giorno si rivelerà probabilmente utile e interessante, quando questo Paese sarà tornato a crescere. Ma nessuno sa dirci quando sarà quel giorno. Forse nel 2016, o nel 2017.

Confindustria è un residuo del passato, Renzi e Marchionne l’hanno rottamata

Confindustria è un residuo del passato, Renzi e Marchionne l’hanno rottamata

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Non c’è solo il patto del Nazareno a dettare tempi e condizioni del cambiamento. In economia è l’accordo raggiunto tra il premier ed i n. 1 della FCA, Sergio Marchionne, a imporre il ritmo di marcia. Patto di Detroit, si potrebbe chiamare l’intesa siglata tra il boyscout di Firenze e il manager italo-canadese. Un’intesa che punta dritta al cuore dei problemi italiani: far saltare tutti gli intermediari ormai inutili, oltre che eccessivamente costosi, nella gestione dell’economia contemporanea. E tra questi c’è sicuramente la Confindustria, dalla quale Marchionne è già uscito da un paio di anni.

La lobby confindustriale, così come è ancora organizzata, non serve più perché è solo un frenatore del cambiamento e un luogo per parrucconi desiderosi di comparsate a Ballarò o da Bruno Vespa. La velocità del business vero è altrove, non più, da anni, in Viale dell’Astronomia. Così Renzi e Marchionne hanno deciso di procedere all’unisono per rottamare Confindustria. Su art. 18, tfr in busta paga, sul primato della contrattazione aziendale per rilanciare la produttività, sulla lotta all’Irap, sulle molte riforme nell’agenda del governo l’amministratore delegato della Fiat sarà al fianco di Renzi. L’obiettivo è quello di dare all’Italia un capitalismo moderno, con relazioni meno intermediate da poteri sempre meno rappresentativi del mondo del lavoro e di quello dell’impresa perché forgiati nella logica della concertazione a tutti i costi e, soprattutto, autoconvinti di essere l’ombelico del mondo. I templari delle riforme, i guardiani del cambiamento che senza il loro via libera non può farsi realtà.

Renzi e Marchionne vogliono condurre il capitalismo italiano oltre la concertazione e la palude dei negoziati a oltranza e della rappresentanza, sempre più marginale, che ha potere di veto. Oltre lo status quo che ha fatto raggiungere alla disoccupazione giovanile la soglia record del 44,2% e fatto arretrare il pil di 10 punti. L’Italia della concertazione del ‘900 non ce la può fare a tenere i ritmi imposti dalla globalizzazione e dall’eurozona germanizzata. Questo per Marchionne è un concetto chiarissimo; Renzi se lo sente ripetere ogni volta che varca le Alpi. Via, dunque, il fardello Confindustria dalle spalle sempre più gracili del capitalismo del Belpaese, perché la lobby degli imprenditori deve diventare moderna e occidentale. Non più un troppo ambizioso contropotere politico ma una organizzazione capace di seguire bene le poche policy di cui è tenuta ad occuparsi. Anche stavolta Renzi ha scelto con arguzia il suo alleato, perché nessuno meglio di Marchionne incarna nel mondo il volto dell’Italia che lavora 16 ore al giorno e che non si rassegna mai alla sconfitta. E con il suo supporto la rottamazione di Confindustria è cosa già realizzata e i prossimi mesi serviranno solo a registrarlo.

Quel difficile confronto con l’Europa sulla legge di bilancio

Quel difficile confronto con l’Europa sulla legge di bilancio

Ricardo Franco Levi – Corriere della Sera

Nelle intenzioni e nelle speranze dell’Italia che l’aveva proposta a fine agosto, la Conferenza dell’Unione europea sul lavoro che si terrà domani a Milano avrebbe dovuto essere il grande appuntamento per affrontare con proposte concrete e condivise la piaga della disoccupazione, a partire da quella giovanile, vera emergenza dell’Europa. Purtroppo non sarà così. Vista l’opposizione soprattutto tedesca e, personalmente, del cancelliere Angela Merkel a un’enfasi sulla disoccupazione che avrebbe potuto portare a un indebolimento della linea dell’austerità sui conti pubblici, non sarà un vero e proprio vertice ma (e non è poco, visto il rischio che l’appuntamento fosse addirittura cancellato) solo un «dibattito aperto e libero», prima tra ministri del Lavoro e poi tra capi di Stato e di governo.

Questo passo indietro è un segnale indicativo del vento gelido che soffia sull’Europa e segna per l’Italia l’avvio di un difficile slalom sulla pista ghiacciata e tra le porte strette del calendario europeo. Il 15 ottobre il governo italiano presenterà la bozza della legge di bilancio alla Commissione europea che, da quel momento, avrà due settimane di tempo per approvarla o rimandarla al mittente per una riscrittura. Il 23 ottobre ci saranno un Consiglio europeo (l’istituzione che riunisce i capi di Stato e di governo dei Paesi membri dell’Unione) dedicato a un esame della situazione economica dell’Unione accompagnato da un «summit» della zona euro. Il primo di novembre, sempre che le audizioni di fronte al Parlamento europeo non portino alla bocciatura di uno o più commissari e quindi a uno slittamento della data, s’insedierà la nuova Commissione europea presieduta dal lussemburghese Jean-Claude Juncker. Il 4 di novembre la Commissione presenterà le proprie previsioni d’autunno che varranno a dare il quadro di riferimento aggiornato per l’evoluzione dell’economia europea. Entro il 30 di novembre, ma con buona probabilità attorno al 12, la Commissione renderà nota la propria opinione sulla bozza di bilancio presentata dal governo italiano. Un vero e proprio slalom, dunque. E in condizioni molto, ma molto impegnative. La settimana scorsa, a fronte di una crisi che continua a far sentire il proprio morso e che sconsiglia di gettare altra acqua gelata su economie già depresse, tanto l’Italia quanto la Francia hanno annunciato programmi di finanza pubblica che non rispettano gli impegni presi con l’Unione europea. L’Italia, pur impegnandosi a mantenere il disavanzo sotto il limite del 3 per cento del prodotto interno lordo, ha rimandato dal 2015 al 2017 il pareggio di bilancio strutturale (un traguardo che, al di là del dettaglio tecnico, segna il raggiunto equilibrio dei conti pubblici). La Francia è andata anche oltre, annunciando che fino al 2017 resterà sopra, e abbondantemente sopra, pure al limite del 3 per cento. Possiamo sperare, affiancandoci alla Francia, di godere di un occhio di riguardo da parte degli altri Paesi membri e delle autorità dell’Unione europea?

La risposta, è bene non farsi illusioni, è «no». No, perché il fronte dell’austerità si è ormai esteso a comprendere quasi tutti i Paesi, non più solo la Germania e i suoi alleati più tradizionali (Austria, Repubblica Ceca, Olanda, Finlandia, Paesi baltici) ma anche Paesi «periferici» come la Spagna e addirittura il Portogallo che nelle ultime riunioni si è segnalato ed espresso come «il più duro tra i duri». In queste condizioni, cosa può fare e cosa può aspettarsi l’Italia?

Stante le regole attuali – regole, è bene ricordarlo sempre, volute e approvate dai governi – una bocciatura della bozza di bilancio approvata martedì scorso dal governo con la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza (il cosiddetto Def) di aprile è da mettere nel conto delle cose possibili. Appellandoci al grado di flessibilità, invero importante, previsto dalle regole comuni e facendo valere la clausola sulla «severa recessione» nella zona dell’euro o dell’intera Unione potremmo cercare di negoziare un allungamento dei tempi concordati per il raggiungimento del pareggio di bilancio o una temporanea sospensione delle eventuali procedure di infrazione. Ma l’aria che tira non sembra particolarmente favorevole a questa via d’uscita. A meno che… A meno che il governo italiano non sia in grado di mettere sul piatto un pacchetto di riforme così rilevante nella sua portata e così credibile nella sua realizzazione (attenti però! brucia ancora il ricordo di quando la Francia ottenne due anni in più per mettersi in regola, salvo poi non mantenere alcun impegno) da mutare i termini della situazione. Termini – è chiaro -, non tecnici, ma chiaramente ed esplicitamente politici.

La più difficile delle curve che lo slalom potrà presentare sarà quella che potrebbe seguire a un’eventuale bocciatura della bozza di legge di bilancio. In quel caso, potrebbe essere forte la tentazione di rilanciare con una sfida, di rispondere contestando apertamente ogni disciplina e minacciando di seguire la Francia sulla strada di bilanci con disavanzi non più diligentemente sotto il 3 per cento ma volutamente e abbondantemente sopra quel limite. Per l’Europa dell’euro potrebbe essere un momento di rottura. Per l’Italia, appesantita da un enorme debito pubblico, si potrebbe aprire una partita molto dolorosa con i mercati finanziari.

La retribuzione e la carica (doppia) del fisco

La retribuzione e la carica (doppia) del fisco

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

L’anticipo del Tfr in busta paga potrebbe valere un incasso annuo per lo Stato che va da 1,7 a 5,6 miliardi a seconda del tasso di adesione dei lavoratori alla proposta lanciata dal premier Matteo Renzi. I calcoli sono stati fatti dall’economista Stefano Patriarca per il sito la voce.info. Nell’ipotesi di un’adesione media, il gettito si posizionerebbe intorno ai 3 miliardi.

L’ipotesi è che il Tfr, anche se aggiunto in busta paga, venga tassato separatamente, non si sommi, quindi, agli stipendi ai fini delle trattenute mensili, e con l’applicazione di un’aliquota del 23%, la minima prevista ai fini Irpef. Si tratterebbe, ovviamente, di un anticipo di tassazione perché lo Stato incasserebbe oggi quello che, mantenendo l’istituto della liquidazione, incamererebbe tra 20 o 30 anni. Attualmente sul Tfr si paga anche un’imposta dell’11% sui rendimenti annui. Sulla sorte di questo prelievo non si hanno notizie. I progetti del governo non sono stati svelati completamente, ma guardando queste cifre viene il sospetto che l’obiettivo non sia solo quello di rilanciare i consumi. Certo, questo è l’obiettivo più importante. Ma con l’effetto non secondario di garantire all’Erario un tesoretto non indifferente. Se poi mettiamo in conto l’Iva sui maggiori consumi, il gettito si arrotonderebbe di un altro miliardo, forse di più.

Con il Tfr in busta paga i lavoratori vedrebbero aumentare il loro reddito e il loro potere d’acquisto, anticiperebbero ora le imposte sul Tfr, e lo Stato incasserebbe dai 3 ai 6/7 miliardi. Niente male. Senza contare che la rivalutazione potrebbe essere a rischio. Più consumi, incassando più tasse. Un piccolo miracolo all’italiana. Sarebbe importante chiarire da subito quale potrebbe essere il trattamento fiscale perché l’operazione non sembri finalizzata soprattutto ad aumentare le entrate. I sindacati chiedono che l’anticipo del Tfr sia a tassazione zero, difficile crederlo. Altrettanto importante è chiarire come andare incontro alle esigenze finanziarie delle piccole imprese. Le banche, questa volta, risponderanno presente?

Politiche attive, rilancio urgente

Politiche attive, rilancio urgente

Michele Tiraboschi – Il Sole 24 Ore

Superare la vecchia idea del posto fisso e l’articolo 18. È questo il progetto di Matteo Renzi e del Jobs Act per portare l’Italia nella modernità. Operazione certamente possibile. A condizione, tuttavia, di garantire a chi perde un lavoro un’efficiente rete di servizi al lavoro e adeguati programmi di riqualificazione professionale. Solo così si potrà realizzare il più volte annunciato passaggio da un sistema passivo di welfare, ormai alle corde, alle politiche attive e di ricollocazione del celebrato modello nordico.

Di politiche attive, invero, si parla da almeno vent’anni, a partire dalla legge Treu e, a seguire, dalla legge Biagi. Ma nulla è stato fatto. Anzi, la situazione si è non poco complicata con la riforma del Titolo V della Costituzione, che ha contribuito a una profonda frammentazione delle politiche del lavoro oggi gestite, con differenziali di efficienza preoccupanti quanto evidenti, su scala regionale. Si spiega così una delle novità più importanti contenuta nel progetto di Jobs Act: l’istituzione di un’Agenzia nazionale per l’occupazione, alla quale si intendono attribuite competenze gestionali in materia di servizi al lavoro, politiche attive e indennità di disoccupazione. Alle Regioni verrebbe garantito il mantenimento della definizione delle politiche attive del lavoro e anche un loro coinvolgimento nella costituzione dell’Agenzia nazionale. Quanto all’indennità di disoccupazione, poiché è una competenza dell’Inps, si prevede il raccordo tra l’Agenzia nazionale e l’Istituto, sia a livello centrale che a livello territoriale.

Pur con le difficoltà di coordinamento con i vari enti competenti di servizi e funzioni che essa dovrebbe gestire, ci si attende che l’Agenzia possa realizzare diversi obiettivi. Innanzitutto, superare la sostanziale mancanza di indirizzo e coordinamento a livello nazionale delle politiche attive e dei servizi per il lavoro dell’attuale regime. Inoltre, si spera che possa finalmente realizzare un più efficace raccordo tra politiche attive e passive e una vera condizionalità dei sussidi con un’effettiva attivazione dei lavoratori disoccupati, in particolare percettori di indennità di disoccupazione, pena la perdita del sostegno al reddito.

La realizzazione di tale obiettivo di collegamento di misure di sostegno al reddito e misure volte al reinserimento del disoccupato nel mercato del lavoro è attuata anche attraverso la grande novità degli accordi di ricollocazione stipulati tra agenzie per il lavoro o altri operatori accreditati e i percettori di un sostegno al reddito. Gli operatori privati sarebbero incentivati alla presa in carico dei lavoratori disoccupati per la loro ricollocazione mediante una remunerazione a fronte dell’effettivo inserimento nel mercato del lavoro per un periodo minimo e proporzionata alla difficoltà di collocamento del soggetto reinserito al lavoro.

Il rapporto tra servizi pubblici e privati per l’impiego si inquadra in un doppio canale. Accanto alla competizione per il ricollocamento di disoccupati e in particolare percettori di sostegno al reddito, si rilancia la promozione della collaborazione e la valorizzazione delle sinergie tra servizi pubblici e privati per il lavoro, con l’obiettivo di rafforzare le capacità d’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Con questo obiettivo paiono volersi ridefinire i criteri per l’accreditamento e l’autorizzazione dei soggetti che operano sul mercato del lavoro, nonché i livelli essenziali delle prestazioni nei servizi pubblici per l’impiego.

Dopo il fallimento della Borsa nazionale del lavoro, la delega del Jobs Act intende anche rilanciare i sistemi informatici esistenti per la gestione del mercato del lavoro e il monitoraggio delle prestazioni sociali erogate. Sarebbe questo uno strumento fondamentale, che dovrebbe essere a disposizione di tutti gli operatori del mercato del lavoro per garantire un efficace collegamento delle politiche attive e passive. Per rendere più efficace il sistema informativo del mercato del lavoro si prevede l’istituzione del fascicolo elettronico unico comprensivo di tutti gli elementi riferibili alla vita attiva della persona, dai percorsi educativi e formativi a quelli lavorativi, alle transizioni e ai relativi sussidi, fino al conto corrente previdenziale.

Tutto questo è condivisibile. La domanda, tuttavia, è se vi sono oggi le condizioni per realizzare progetti da tempo noti e presenti nelle riforme del lavoro che via via si sono succedute. La credibilità del Jobs Act si gioca, del resto, tutta qui: nella ragionevole aspettativa che il lavoratore che perde il posto non sarà lasciato solo e che una moderna rete di servizi al lavoro, pubblici o privati poco importa, lo accompagnerà verso la ricerca di un nuovo impiego.

Su questo fronte, la recente esperienza di Garanzia Giovani non lascia invero ben sperare. A fronte di uno stanziamento di 1,5 miliardi si è capito, dopo i primi mesi di sperimentazione, che per il nostro Paese il vero problema non tanto sono le risorse quanto la capacità di utilizzarle bene attraverso un’amministrazione pubblica in grado davvero di costruire le premesse dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro. Ebbene, nonostante la “garanzia” della presa in carico e del diritto a ottenere, entro quattro mesi, una proposta di lavoro o di stage o, in alternativa, un percorso di riqualificazione professionale, meno di un quarto dei 200mila giovani italiani registrati al programma Garanzia Giovani è stato convocato per un colloquio preliminare e poco altro. Tutti gli altri sono fermi davanti a una porta, quella delle politiche attive, che rimane incomprensibilmente chiusa anche quando le dotazioni finanziarie ci sono. Una prova ulteriore che le riforme del lavoro non passano necessariamente dalle leggi e dalla loro pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, quanto dalla capacità della nostra politica di attuarle giorno dopo giorno.

Sul lavoro le idee – come gli annunci e i convegni – non mancano. Ma se non vogliamo attendere il fallimento della quinta riforma del lavoro negli ultimi cinque anni è necessario un cambio di prospettiva che porti a prestare maggiore attenzione, più che alle regole, alla loro effettiva implementazione. Queste sono, del resto, le politiche attive. E non saremmo ancora oggi a parlare di introdurre una condizionalità dei sussidi, chiave di volta di un equo e moderno sistema di welfare, se avessimo dato attuazione a leggi vigenti da oltre un decennio.