Edicola – Opinioni

La svolta del leader

La svolta del leader

Pier Francesco De Robertis – La Nazione

Renzi stavolta è stato meglio di Renzi. Concreto, deciso, quando serviva tattico e conciliante. Decisamente poco renziano. Quasi che, giunto al primo snodo veramente decisivo della sua esperienza a Palazzo Chigi, il presidente del Consiglio si sia rassegnato all’inellutabilità del salto da molti reclamato: passare dalle parole ai fatti. Stavolta o mai più. La battaglia che ingaggia con la «ditta» Pd è quindi durissima, a tratti anche bella da entrambe le parti, e Renzi la combatte, e per il momento la vince, per distacco. Lo fa a modo suo, buttando la un profluvio di parole a volte apparentemente inutili per alzare la polvere come i tori che restando immobili si preparano alla carica, ma al momento giusto mostra il ramoscello d’ulivo, sia con la ditta sia con i sindacati, confermando la sua duttilità tattica già esibita nel corso di altre trattative importanti.

Ma più che la tattica, a dargli ragione è la forza che finalmente trova nell’andare oltre le slide e gli slogan, forse anche contro qualche sondaggio, evenienza per lui davvero insolita. La forza di chi sa di essere al ‘angolo e non avere altra via di fuga che il contrattacco. Un passaggio di maturazione politico-esistenziale decisivo, l’unica strada per passare da politico-bruco a statista-farfalla, raccogliendo la sfida lanciata, prima che dai sindacati o dalla ditta, dal suo amico Dario Nardella, quando un mese fa gli aveva saggiamente consigliato di intraprendere l’inevitabile strada della necessaria impopolarità pur di realizzare le riforme e ambire, per il momento solo ambire, a scolpire il proprio nome nella pietra della storia repubblicana.

Prendendosi sulle spalle il rischio di una riforma organica su uno degli argomenti finora tabù per molti governi anche di destra (quanti rimpianti avrà adesso Berlusconi!) il premier evidenzia il desiderio di passare all’età adulta della politica. La decisione con la quale riuscirà a reggere la barra del partito e del governo anche nel difficile passaggio parlamentare sarà la miglior cartina di tornasole per valutare il senso stesso della sua capacità riformatrice. Una direzione che per adesso Renzi pare aver imboccato e che il positivo risultato della direzione (80 per cento per lui) potrebbe confortarlo per le altre sfide che attendono il governo. Anche se lui per primo sa che i gruppi parlamentari del Pd sono una bestia brutta e inaffidabile, di cui è bene non fidarsi. Il pessimo spettacolo delle settimane scorse sulla mancata elezione dei giudici costituzionali sono solo l’ultimo esempio.

Poteri mosci

Poteri mosci

Davide Giacalone – Libero

Tutti conoscono il gioco chiamato mosca cieca: si benda una persona e la si sfida a toccare gli altri, che ci vedono e si spostano liberamente. Provate a immaginare una variante del gioco: si bendano tutti e brancolano a braccia tese. Un caos inconcludente. Quel gioco sciocco è divenuto trastullo collettivo, nella scena pubblica, incrudelito da manate a casaccio e da un linguaggio sempre più greve.

Quali interessi ha scosso Matteo Renzi? Quali fili scoperti ha toccato, per provocare la risentita reazione di poteri forti, dentro e fuori dalle blasonate redazioni? Sono giorni che domande di questo tipo si rincorrono, rimbalzando per ogni dove ci sia gente che si dice informata ed è per lo più sfaccendata. Ciascuno elabora la propria risposta, naturalmente retta da informazioni riservate e sussurrate. A me pare, invece, che sia in pieno svolgimento il gioco del tutti bendati. I poteri forti non ci sono più, tanto è vero che provano a sentirsi tali usando parole e toni che vorrebbero apparire forti. Tanto è vero che ciascuno pensa di farsi il partito proprio, perché sono a malpartito. Dopo avere predicato la competenza si pratica giulivi la dilettanza. Quella che si dimena è l’Italia dei poteri mosci e degli impotenti turgidi. Ciò che provoca scatti di rabbia non sono gli interessi minacciati, ma la minaccia che non si possa continuare a vivere sognando che il passato sia una garanzia per il presente e una promessa per il futuro.

Esisteva il potere forte del capitalismo statale. Aveva aspetti ragguardevoli e riprovevoli, ma esisteva. Per rendervi conto di quanto sia divenuto moscio, quel potere, basterà osservare che mentre il presidente del Consiglio si trovava negli Stati Uniti, a dispetto degli accordi industriali, politici e militari di cui era portatore, la Camera dei Deputati, su proposta del Partito democratico, il di lui partito, è riuscita a votare un ordine del giorno che stabilisce la rimessa in discussione dell’acquisto degli F35, assieme ad altri ordini del giorno, incuranti della coerenza. Voto che è stato subito così letto: ne acquisteremo la metà, o meno. Omessa ogni altra considerazione, a cominciare dal fatto che con la metà di quegli aerei puoi farci la guerra solo se ad aggredirti è il Principato di Monaco, la scena dimostra che non ci sono poteri, né forti né fiacchi, che esercitano alcun controllo e coordinamento fra i calendari istituzionali, gli interessi economici e le prudenze politiche. Si va a naso, ma senza olfatto. Pensare che il disfacimento di quei poteri possa essere compensato dal crescere delle partecipazioni azionarie della Cassa depositi e prestiti è come credere che si possa partecipare alla formula uno della competizione globale con un go kart. Ed è sempre possibile che una qualche procura della Repubblica ti metta sotto inchiesta per eccesso di velocità.

Esisteva il potere forte del capitalismo privato. No, non esistevano grandi capitalisti. Non li abbiamo avuti. Qualche personaggio con corte, qualche arrampicatore prensile, tanto contorno. Il cuore di quel potere, quando esisteva, era Mediobanca. Per essere più precisi, era Enrico Cuccia: idee chiare, disegno strategico, competenza indiscussa, legami internazionali. Quel cuore riuscì a far contare un mondo che di quattrini veramente investiti ne contava pochi. Ma era debole già prima di fermarsi, perché concepito dentro un mondo che già non esisteva più. Da lì in poi troppi avventurieri arraffatori, tanti parlatori disinvolti (quasi non si conobbe la voce di Cuccia), che per considerarli poteri forti occorre spiccata propensione all’esagerazione. La ciliegia sulla torta è un Quirinale che mette nero su bianco di non avere nulla da testimoniare e viene trascinato sul banco dei testimoni. Icona di un’Italia ove il potere è vaniloquio oscillante fra il supplice e l’arrogante.

L’Italia diversa c’è. Eccome. Se ne colgono i numeri in un prodotto interno lordo e in esportazioni che ancora la rendono forte e ricca. Imprenditori e operai che non sentite parlare, perché sono a lavorare. Ma non sono poteri forti, anzi, sono debolissimi. Anzi: non contano nulla. Ci reggono in piedi, ma li trattiamo come estremità dolenti e odorose. Da usare, ma da non esibire. Da tassare, non da ascoltare. Allora: perché tante voci si destano, contro Renzi? Quali interessi sono stati toccati? Magari fosse così! La scena è animata da caratteristi che provano a collocar sé medesimi, per avere ancora un pezzetto di rendita. Poi s’è fatta una certa ed è subito cena.

Sindacati da pensionare

Sindacati da pensionare

Antonio Selvatici – Il Tempo

Si è tranciata la «cinghia di trasmissione» tra il più grande partito di sinistra e le masse operarie. Probabilmente l’ideologia c’entra poco: in realtà la Cgil si è già condannata alla dimenticanza per cause demografiche. Se si guardano i numeri lo strappo tra politica e sindacato di sinistra è lieve perché la parte più importante della Cgil è composta da arzilli pensionati: sono tre milioni gli iscritti alla Cgil- Sindacato Pensionati Italiani. Ma non doveva essere il sindacato dei lavoratori? Quale rappresentatività? Quale lotta per gli interessi delle classi lavoratrici? Per chi sventolano le bandiere rosse? È chiaro che le esigenze, e quindi le conseguenti rivendicazioni di chi è pensionato, non possono coincidere con quelle di chi lavora. Anzi, in alcuni punti contrastano, stridono, si elidono. E allora perché bisogna confrontarsi con un sindacato che è oggi, per sua struttura, scarsamente rappresentativo? Ma all’origine quando sono nati in Inghilterra non si chiamavano trade unions?

La contrattazione è una parte importante delle relazioni sindacali ed il confronto tra le note parti sociali è determinato anche dal peso, vale a dire anche in termini quantitativi degli iscritti, però con un tasso così importante di pensionati iscritti alla Confederazione sembra che fino ad ora il confronto si sia basato molto sulla quantità e meno sulla qualità. Questa volta Matteo Renzi ha ragione quando si svincola e rifiuta di farsi stritolare dalla potenza del sindacato rosso, non per motivi ideologici, ma numerici. Perché un’analisi serena che si basa sui dati porta a dire che i trascorsi della Cgil condannano il sindacato della Susanna Camusso all’oblio: il sindacato tendenzialmente geriatrico è naturalmente destinato alla tomba. Non per ideologia, ma per consunzione. Se sfogliamo la pagina web della Cgil su sfondo rosso appare: «La Confederazione Generale Italiana del Lavoro è un’associazione di rappresentanza dei lavoratori e del lavoro. È la più antica organizzazione sindacale italiana ed è anche la maggiormente rappresentativa, con i suoi circa 6 milioni di iscritti, tra lavoratori, pensionati e giovani che entrano nel mondo del lavoro». Ma i pensionati pesano troppo e, probabilmente, i giovani troppo poco. In una fase storica in cui il lavoro scarseggia e i pensionati abbondano la politica di Matteo Renzi rischia di irritare di più i frequentatori delle bocciofile piuttosto che le tute blu.

Taxes are not beatiful

Taxes are not beatiful

Il Foglio

Ad aprile il governo inglese abolirà la tassa di successione sul capitale dei fondi pensione, tassa oggi del 55 per cento. Tralasciando le tecnicalità di un sistema basato molto sulla previdenza integrativa, ne beneficeranno gli eredi di oltre 400 mila pensionati che ora, e pur con la superimposta, preferiscono ritirare i soldi a una rendita aggiuntiva alle pensioni. Ma, come ha detto il cancelliere dello Scacchiere George Osborne, l’obiettivo e di principio: “Incoraggiare gli anziani a godersi liberamente il denaro, ed eventualmente lasciarlo ai loro cari anziché al fisco”.

Alla vigilia delle elezioni 2015, i Tory strizzano certo l’occhio a due o tre generazioni; giusto mentre i laburisti chiedono di aumentare l’imposta sulla casa. Ma soprattutto Londra porta avanti un percorso di alleggerimento fiscale attuato con tagli alla spesa: corporate tax ridotta al 20 per cento, mentre in Italia le imprese pagano tra imposte, contributi e burocrazia quasi il 60; cinque punti in meno sulle persone fisiche, cioè il 35 per cento di pressione contro il 44 dell’Italia; ulteriori riduzioni per le giovani coppie; tagli sulle accise di carburanti ed energia.

Quando David Cameron si insediò a Downing Street, nel 2010, i laburisti e vari paludati analisti previdero una Gran Bretagna ridotta alla povertà: oggi il pil cresce del tre per cento, più di tutti gli altri paesi industrializzati, la disoccupazione scende al sei, il deficit si è dimezzato, il debito è al di sotto della media Ue, e 40 punti in meno che da noi. Certo, gli inglesi non hanno i vincoli dell’euro, la loro Banca centrale non aveva una Bundesbank con cui contrattare. Ma il coraggio di voler essere sempre liberi padroni dei loro soldi, quello sì.

Le inutili ipocrisie sulle tasse

Le inutili ipocrisie sulle tasse

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Fino ad ora il governo non ha inserito nell’agenda delle sue priorità il lavoro autonomo e le partite Iva. Quando si è trattato di aumentare il reddito disponibile sono state privilegiate le fasce medio-basse del lavoro dipendente e il Jobs act ha come riferimento un laburismo tutto sommato tradizionale, anche se declinato in chiave di flexsecurity. Il tutto è stato gestito con lo strumento della legge delega che si sta rivelando un contenitore ipocrita: inizialmente appare utile per allargare lo spettro dell’azione di riforma senza generare conflitti, ma nel prosieguo mostra tutti i suoi limiti. Accumula contraddizioni e non è in grado di scioglierle se non con un atto d’imperio finale.

Qualcosa del genere rischia di accadere anche con la delega fiscale, lo strumento «largo» con il quale il governo pensa di riprendere a dialogare con gli autonomi. In linea di principio non si può che essere d’accordo con questo riallineamento di attenzioni perché il lavoro indipendente è destinato a crescere ed è la strada che prendono molti giovani in cerca di prima occupazione, di fatto costretti a «inventarsi» il proprio lavoro. Ma il famoso diavolo continua a nascondersi nei dettagli.

Vale la pena ricordare come l’apertura di nuove partite Iva resta sempre sostenuta, al ritmo di 40-50 mila al mese e la percentuale di quelle che mascherano un rapporto di lavoro dipendente si può stimare attorno al 15-20%. Non di più, come pure lasciano pensare i sindacati confederali che ne hanno fatto – come nel caso della Cisl – un punto focale di propaganda e comunicazione. Il guaio maggiore, caso mai, è che molte di queste nuove partite Iva chiudono la loro attività dopo qualche mese, come si può dedurre dalla dinamica delle cancellazioni che rimane sempre molto elevata (80 a 100 nel rapporto con le nuove iscrizioni) e da una rotazione molto frequente in alcune attività economiche giudicate a bassa barriera d’ingresso, segnatamente la ristorazione nei grandi centri urbani.

Detto questo, l’ipotesi di provvedimento che il ministero dell’Economia e finanze ha in gestazione per le mini-imprese (un milione di contribuenti) e che dovrebbe approdare nella delega fiscale appare, nelle intenzioni, ambiziosa perché punta a semplificare drasticamente le procedure, a limare la pressione fiscale e a introdurre nuovi criteri di equità tra i contribuenti di diverse fasce di ricavi. Tre obiettivi in uno, non facili da raggiungere in contemporanea perché da una parte il gettito che proviene da queste attività non può calare di brutto e nello stesso tempo bisogna dare un segnale di riduzione delle tasse. Come se non bastasse occorre affrontare anche alcune contraddizioni che si sono prodotte nel tempo come quella che, proprio a causa del regime forfettario, fa sì che le nuove imprese non siano incentivate a crescere per il rischio di dover pagare a caro prezzo (fiscale) le commesse aggiuntive conquistate. È giusto, quindi, affrontare le strozzature erariali e normative che oggi penalizzano le piccolissime imprese, ma non va sottovalutato il rischio che il messaggio possa non arrivare chiaro e limpido. Il governo, dunque, si occupi degli autonomi e delle partite Iva ma stia attento allo sperimentalismo fiscale. Le cavie potrebbero non gradire.

Case e tasse rebus, salvate l’Italia malata di fisco

Case e tasse rebus, salvate l’Italia malata di fisco

Massimo Scotton – Il Secolo XIX

Il sistema fiscale del nostro Paese necessita da tempo di essere riformato, è un tema che da anni, meglio decenni, ascoltiamo dibattere tra le forze politiche di ogni tendenza, con particolare intensità in periodi di campagna elettorale, nei quali spesso si sente parlare di semplificazione forse senza conoscerne a fondo il significato. Risultati concreti tuttavia non se ne sono visti, anzi. La crisi economica porta alla ribalta l’eccessiva onerosità del carico fiscale su cittadini e imprese oltre alla continua difficoltà di reperire gettito a copertura della spesa pubblica. Fa sorridere, per inciso, leggere la proposta di adeguamento dell’imposta di successione ai più alti standard europei, laddove non si ricorda a memoria di uomo che vi siano mai stati adeguamenti al ribasso in numerosi altri settori impositivi nei quali siamo leader indiscussi a livello europeo, se non mondiale. Ho inteso pertanto riferirmi al sistema fiscale, piuttosto che a questa o quell’imposta nel particolare, per il fatto che è l’intero impianto a dover essere riformato affinché possa costituire una infrastruttura su cui possa basarsi l’attività economica, produttiva e sociale per lo sviluppo del Paese nei prossimi decenni.

L’attuale condizione ha generato inoltre la tangibile compromissione del rapporto di fiducia tra i cittadini, lo Stato e nel particolare la sua amministrazione finanziaria. Quali fattori hanno determinato questa situazione? Un sistema fiscale complesso, fatto di norme per la maggior parte emanate con decretazione di urgenza, che non si inseriscono in maniera organica in alcun disegno globale di tassazione bensì alterano di volta in volta le precedenti condizioni. Un legislatore fiscale che spesso dimostra di non conoscere la materia lasciando ampi varchi a postume interpretazioni. Un sistema sostanzialmente mutante, instabile, spesso persecutorio, mai precettivo, che si traduce in una tassazione ormai insopportabile sia in termini diretti che in termini di oneri indiretti e costi di compliance a carico di imprese e cittadini. Una condizione di incertezza costante non più sostenibile che penalizza altresì gravemente l’immagine del nostro Paese.

L’Italia infatti è stabilmente accreditata di un “deficit di attrattività” per quanto riguarda gli investimenti esteri che preferiscono altre sedi europee, anche in uscita dall’Italia. Le recenti statistiche hanno preso in esame l’ultimo ventennio con raffronti allarmanti: un gap di uno a cinque tra noi e la Gran Bretagna ad esempio, ma non solo, Francia e Germania quasi il triplo rispetto a noi. Tutte le altre nazioni europee riescono a vendere il loro sistema molto meglio dell’Italia, con una legislazione semplice, certezza e stabilità del diritto, poca burocrazia, bassa pressione fiscale e non certo favorendo l’evasione, attraendo quindi, inesorabilmente, capitali ed investimenti. È un mercato anche questo, globale, sul quale è obbligatorio competere. Gli indirizzi espressi alla stampa dal nuovo Direttore dell’Agenzia delle Entrate all’atto del suo insediamento hanno posto in evidenza un rinnovato approccio di valutazione nei confronti di ciò che effettivamente concretizza fenomeni di evasione fiscale rispetto ad errori di interpretazione o applicazione delle norme esistenti. Non si può che condividere tale approccio auspicando ancora una volta che le leggi in materia fiscale diventino più chiare, semplici, a tutto vantaggio di un concreto sostegno all’attività di contrasto a comportamenti chiaramente orientati al compimento di illeciti.

A livello comunale abbiamo assistito ad un notevole inasprimento della tassazione con l’introduzione di nuovi tributi locali il cui pagamento è in scadenza nei prossimi mesi. A questi si aggiunge la rateazione delle imposte a saldo e acconto per le annualità 2013 e 2014. Un impegno pressante per i cittadini e le imprese. Gli enti locali hanno emanato una normativa regolamentare improvvisata, per nulla omogenea sul territorio nazionale, istituendo nuovi tributi Iuc,Tari, Tasi, in parte sostitutivi di altri, le vecchie Ici e poi Imu. Il risultato allo stato attuale è devastante in termini di oneri a carico del cittadino nel reperire aliquote comunali, esenzioni, detrazioni ed altro al fine di poter adempiere con una qualche minima tranquillità all’obbligazione tributaria. Alcune municipalità provvedono, e bene fanno, ad inviare a domicilio bollettini precompilati, altre devono ancora decidere le aliquote. Davvero complicato adempiere da parte del cittadino e di chi professionalmente lo assiste. Benvenuti siano quindi gli 80 euro in busta paga, anche se la maggior parte finisce verosimilmente in pagamento dei tributi comunali nel prossimo mese e la rimanente in pagamento delle rate di prestiti al consumo 60 mesi con i quali è stata comprata la produzione industriale degli anni 2008/2009. Per quella di oggi non ci sono più soldi. Per il legislatore nazionale c’è veramente spazio per una riforma del sistema fiscale italiano, purché davvero abbia voglia di cominciare.

Quando è l’impresa a frenare la crescita

Quando è l’impresa a frenare la crescita

Federico Fubini – Affari & Finanza

Pochi Paesi sono ossessionati come l’Italia dal proprio declino, pochissimi sembrano così incapaci di venirne a capo. Dalle regole del lavoro alla burocrazia, alle tasse, ovunque vengono additati dei colpevoli. Una categoria però sembra attraversare indenne il crollo della produzione industriale del 25% in questi anni: coloro che ad essa hanno presieduto, gli imprenditori. Valutazioni sulla capacità e competenza di molti di loro non entrano nei dibattiti sulle riforme strutturali. Qualche indizio dice che è il caso di iniziare a farlo. Non sarà tutta colpa dell’articolo 18 se le imprese italiane sono fra le più fragili in Europa: nelle loro strutture finanziarie, il capitale proprio è il 15% (il resto è debito), contro il 24% della Francia, il 28% della Germania, il 44% della Gran Bretagna. Gli imprenditori non mettono i loro soldi in azienda e non lasciano che lo facciano altri, magari in Borsa.

Bruno Pellegrino dell’Università della California e Luigi Zingales di Chicago stanno per pubblicare uno studio per il National Bureau of Economic Research, il primo think tank economico degli Stati Uniti, dove mostrano un fallimento. Gli imprenditori italiani hanno azzoppato la produttività del Paese perché spesso hanno preferito circondarsi di manager scarsi ma fedeli piuttosto che bravi. Il virus del familismo ha portato al potere nelle imprese troppi incompetenti, che non sono riusciti a cavalcare la rivoluzione tecnologica. Dicono Pellegrino e Zingales: «Il clientelismo e favoritismo nelle imprese sono le cause ultime della malattia italiana». L’aspetto sorprendente è che non è vero ovunque.

C’è un ceto di imprese italiane fra i 500 milioni e i tre miliardi di fatturato, spesso leader mondiali di settore, che in questi anni sta prosperando. Intercos nella cosmetica, Ima o Gd nel packaging, Interpump nella meccanica, Danieli nell’acciaio e vari altri. Nomi che alla maggioranza degli italiani dicono poco, ma non solo perché non sono a contatto con i consumatori. Se non se ne parla, è perché i loro azionisti e manager non cercano sponde nei partiti o nelle lobby. È gente che sa lavorare, cresce sul serio e, in questo caos di Paese ha rinunciato da un pezzo a esercitare la prerogativa più preziosa: il potere dell’esempio. Preferiscono sparire, volare sotto al radar per non attrarsi guai, piuttosto che mostrare ai colleghi come si fa e tutti gli italiani che vincere si può. Su questo ceto di aziende, medie su scala globale, adesso grava una responsabilità. Devono assumere il ruolo delle grandi imprese che l’Italia non ha più. Nella moda, nel packaging, nella meccanica o nell’alimentare è ora che cadano le logiche di famiglia, le rivalità di distretto o le gelosie di marchio per creare, nel tempo, nuove realtà con muscoli davvero globali. Soggetti aggregatori senza passaporto francese o indiano, ma italiano. È una riforma strutturale che non necessita accordi nelle sedi di partito: forse, per una volta, si può.

Strane idee sul futuro del Tfr

Strane idee sul futuro del Tfr

Walter Passerini – La Stampa

Nei giorni scorsi è ventilata la notizia che il governo stia pensando a un provvedimento per anticipare mensilmente il Tfr futuro, vale a dire l’accantonamento annuale che alla fine del rapporto di lavoro si trasforma in liquidazione. Si tratta di quasi 30 miliardi all’anno, di cui, questa è la proposta, la metà finirebbe ogni mese in busta paga, mentre la metà resterebbe in azienda. Ovviamente la mensilizzazione del Tfr potrebbe far gola a molti, con un interrogativo: meglio 1’uovo oggi o la gallina domani?

L’idea nasce dall’esigenza di stimolare i consumi, immettendo nel mercato una liquidità di 13-15 miliardi. Per le imprese, vi sarebbero delle compensazioni, finanziarie e fiscali, dal momento che il Tfr è una pura posta contabile e non viene fisicamente accantonato ogni anno. Per le persone vi sarebbe l’opportunità di avere ossigeno in busta paga (l’ammontare è una mensilità all’anno da suddividere mensilmente), trasferendo la somma o in consumi o in risparmio.

Da qualche tempo una parte di Tfr viene accantonata per la previdenza integrativa, ed è questa la sua destinazione naturale. Alla fine del rapporto di lavoro o del lavoro tout court, il lavoratore avrebbe a disposizione un certo capitale e un’integrazione pensionistica. Con l’aria che tira sulle future pensioni contributive, forse sarebbe meglio essere previdenti, avere pazienza e aspettare, piuttosto che consumare, ritrovandosi poi con un pugno di mosche in mano.

La riforma necessaria

La riforma necessaria

Giuseppe Turani – La Nazione

Se il lavoro manca, e ne manca tantissimo, la colpa non è di Renzi e nemmeno di quelli che l’hanno preceduto negli anni scorsi (Monti e Letta). La mancanza di lavoro ha due padri precisi. Il primo è la Grande Crisi che dal 2008 ha colpito l’economia internazionale e che ha portato l’Italia a perdere, come reddito pro-capite, un terzo di quello che aveva nel 2007. Di fronte a una botta così grande, è evidente che i famosi 80 euro rappresentano soltanto un risarcimento parziale. D’altra parte per ridare agli italiani quel terzo di reddito che hanno perso nella crisi ci vuole altro che qualche decreto governativo. Ci vorranno almeno dieci anni di buona crescita, ammesso che si riesca a farli. Ma poi c’è un secondo padre dei tantissimi disoccupati. È un padre collettivo. Si tratta di tutti quelli che facevano parte della classe dirigente negli ultimi trent’anni: sono loro che hanno consentito lo scempio del bilancio pubblico e la trasformazione dello Stato in una sorta di opera pia di prebende, stipendi, pensioni, rendite, enti inutili e tutto il resto. Fino a portarci oltre i due mila miliardi di euro di debiti. Si dirà: ma allora il colpevole è certamente Berlusconi. Calma. Berlusconi ha le sue colpe, ma anche tutti gli altri non possono andare in giro a testa alta.

Io non ho mai visto la signora Camusso o il compagno D’Alema sfilare in piazza contro l’eccesso di spesa pubblica. Anzi, sono lì che ne chiedono altra anche adesso (con quanto buonsenso lascio immaginare). Ma è proprio questa montagna di debiti che ha impedito all’Italia di mettere in campo misure di sostegno e di rilancio dell’economia. Siamo qui, bloccati in mezzo al guado, assistiamo impotenti al crescere della disoccupazione, perché non abbiamo un soldo: siamo ricchi solo di debiti. Oggi abbiamo tanti disoccupati, per essere sbrigativi, perché la generazione precedente è stata un fallimento totale: ha scambiato, a destra come a sinistra, consenso politico con spesa pubblica, e lo ha fatto per vent’anni, o trenta, di fila. Avrebbero ammazzato un elefante, non solo un Paese gentile come l’Italia. Adesso siamo a una prima resa dei conti. Renzi vuole cambiare il diritto del lavoro e contro di lui è schierata tutta la generazione che ha fallito. Il nostro diritto del lavoro ha mezzo secolo e, attraverso stratificazioni successive, è diventato un tale caos che l’unica cosa da fare è quella di abolirlo totalmente e scrivere un testo nuovo.

La Cgil e i suoi amici dentro il Pd hanno deciso di fare barricate sull’articolo 18. Segno che non hanno molto da dire sulla riforma del lavoro. Si aggrappano all’articolo 18 perché pensano che sia un tema popolare e di sicuro effetto: impedire ai padroni di licenziare. Ma vari sondaggi hanno già spiegato che a due terzi degli italiani dell’articolo 18 non importa nulla. È una garanzia in più per quelli che comunque un lavoro (e a tempo indeterminato) lo hanno. Ma qui il problema è di chi un lavoro non lo ha mai visto. Ancora una volta, cioè, una certa sinistra difende il proprio orticello e lascia gli altri (i piu sfortunati) sotto la pioggia e la neve.

Ma perché l’articolo 18 non può restare? Intanto perché è appunto la barricata di quelli che sbagliano. Inoltre una cosa è chiara: il nuovo modello di mercato del lavoro deve avere alla sua base la massima flessibilità in entrata e in uscita dalle aziende, prevedendo le giuste ricompense e la giusta assistenza per chi perde il lavoro (e il reddito). Ma diciamo basta ad anni di aule giudiziarie per chi vuole liberarsi di un dipendente incapace o lavativo.

Euro più debole e inflazione: le mosse per tornare a crescere

Euro più debole e inflazione: le mosse per tornare a crescere

Renato Brunetta – Il Giornale

La scorsa settimana si è caratterizzata non tanto per il viaggio del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, negli Stati Uniti; non tanto per il dibattito, sempre più duro, sulla riforma del mercato del lavoro e, in particolare, sul superamento dell’articolo 18, ma soprattutto, sul fronte economico-finanziario-Europa-mercati, per la svalutazione dell’euro sul dollaro. Del tutto in secondo piano è passato il tema della Nota di aggiornamento al Def, che il governo avrebbe già dovuto presentare al Parlamento (il termine previsto dal semestre europeo è il 20 settembre di ogni anno), ma che probabilmente solo oggi vedrà la luce. Probabilmente. Nella settimana che si è appena chiusa, dicevamo, il rapporto di cambio euro/dollaro ha raggiunto il suo livello minimo da 14 mesi: sotto quota 1,28. Il dato non può e non deve passare inosservato, per l’importanza dei motivi che lo hanno determinato e per gli effetti che esso ha, e avrà, sulle maggiori economie mondiali.

Il valore della moneta unica europea è in diminuzione in quanto, da un lato, è in aumento la domanda di attività finanziarie denominate in dollari, che promettono rendimenti superiori, a seguito dell’annuncio della banca centrale americana, la Federal Reserve, di una imminente stretta monetaria: la fine del Quantitative easing (Taper off) dal prossimo mese di ottobre e l’aumento dei tassi di interesse tra marzo e giugno 2015. Dall’altro lato, al contrario, la Banca centrale europea manterrà bassi ancora a lungo i tassi d’interesse dell’area euro, e si appresta a varare nuove e straordinarie misure espansive di politica monetaria nei prossimi mesi. Ne deriva un ampliamento del differenziale atteso dei tassi d’interesse tra Europa e Usa a favore degli Stati Uniti. Inoltre, gli ultimi dati disponibili rilevano un peggioramento della bilancia commerciale dell’area euro, determinato in generale dalla cattiva performance economica, in termini di crescita, dei paesi europei, e, più in particolare, dal calo dell’export della Germania nei confronti dei paesi extra-Ue. Questo crea un ulteriore aumento della domanda di dollari (per acquistare beni e servizi americani) e una diminuzione di quella di euro. Il combinato disposto di questi due fattori ha determinato la rivalutazione del dollaro e la conseguente svalutazione dell’euro cui abbiamo assistito nell’ultima settimana. Mercati in movimento, quindi. Incerti, ma vigili. Fare attenzione. Ottobre è arrivato.

Come abbiamo anticipato, la presidente della Federal Reserve americana, Janet Yellen, la scorsa settimana ha confermato che con il prossimo acquisto, in ottobre, di asset per 15 miliardi di dollari finirà la politica di Quantitative easing che fino ad oggi ha assicurato bassi tassi di interesse a sostegno dell’economia. In realtà, il cosiddetto “Tapering”, cioè la riduzione progressiva, di 10 miliardi al mese, della terza tranche di QE, iniziata a settembre 2012 con acquisti mensili di asset per 85 miliardi di dollari, era attesa da oltre un anno.

L’interazione tra le politiche monetarie della Bce e della Fed, che continueranno a essere di segno contrario, seppur in posizioni invertite, consentirà un riequilibrio in termini di crescita tra Europa e Stati Uniti? Ciò dipenderà dai tempi con i quali il mutamento della politica della Fed si trasmetterà sull’aumento dei tassi d’interesse nell’area dollaro, soprattutto sui tassi a lungo termine, da come la Federal Reserve riuscirà a orientare e/o controllare la progressività dell’aumento e soprattutto da come la Fed reagirà a possibili scostamenti dei tassi di crescita dell’economia e di disoccupazione americani da quelli previsti e sui quali essa ha basato le proprie decisioni di normalizzazione monetaria. Ma ciò dipenderà ovviamente anche da quel che accadrà in Europa.

L’obiettivo principale che deve porsi oggi la Banca centrale europea è duplice: ottenere una consistente riduzione del tasso di cambio dell’euro e alzare il tasso d’inflazione, per evitare l’emergenza di una spirale deflazionistica già iniziata in vari paesi europei. I due obiettivi sono strettamente connessi, perché la svalutazione dell’euro sembra ormai a molti commentatori l’ultimo strumento per ottenere nel breve periodo, al tempo stesso, un aumento dell’inflazione importata e un aumento della domanda, sia estera sia domestica, di prodotti europei. Questo appare, dunque, l’unico modo per riavviare la crescita, in attesa che l’Europa riacquisti un dinamismo competitivo endogeno. Il deprezzamento dell’euro sul dollaro dell’ultima settimana sembra dare una risposta al possibile effetto congiunto dell’espansione monetaria inseguita dal presidente della Bce, Mario Draghi e l’annuncio della fine della stessa politica negli Stati Uniti.

Qui si pone, tuttavia, una questione di non poco conto per i paesi europei più indebitati come l’Italia. L’afflusso di capitali in Europa ha avuto un effetto benefico sulla sostenibilità dei debiti, determinando un costo del debito ai minimi, e sui valori azionari che sono saliti nonostante la stagnazione/recessione, ma ha avuto come prezzo un ostacolo alla crescita determinato dal valore alto dell’euro. Il desiderato deprezzamento dell’euro, e, soprattutto, l’attesa di deprezzamento, implica una possibile inversione di tendenza anche dal lato della remunerazione richiesta per il finanziamento dei debiti che, quindi, aumenterebbe, con conseguenti guai per molti paesi europei e per l’Europa nel suo complesso. Per questo crediamo che la Bce debba prepararsi a un necessario intervento non convenzionale che possa estendersi all’acquisto di debito pubblico (leggi: Quantitative easing europeo).

Rimane anche un dubbio complessivo legato al passaggio, annunciato dalla Fed, dall’approccio “Forward guidance”, fino ad oggi adottato, all’approccio del “Data-driven stance”. Il primo approccio è quello seguito dal predecessore di Janet Yellen alla guida della Federal Reserve, Ben Bernanke, negli ultimi anni, in base al quale la banca centrale comunica con largo anticipo agli operatori le decisioni di politica monetaria che intende prendere. Altro approccio è quello di stare a vedere cosa accade all’economia, fare piccole correzioni nei tassi di interesse, o altre azioni di intervento, e annunciare che ulteriori decisioni verranno prese se gli stimoli non si dimostrano sufficienti a far ripartire la spesa in consumi e investimenti (Data-driven stance). Questo approccio sembra guidare sostanzialmente anche gli ultimi interventi della Bce e i suoi annunci di ulteriore e crescente ricorso a strumenti di politica monetaria non convenzionali. Gli stimoli monetari messi in campo fino ad oggi dalla Bce non hanno avuto gli effetti sperati. Ha dunque ragione Draghi quando afferma che la politica monetaria da sola è inefficace se non aiutata dalla politica economica, quindi dalle riforme strutturali, degli Stati, e anche che entrambe le politiche possono poco se non si sbloccano i mercati e le istituzioni.

La conclusione è che, con la svolta della politica monetaria americana, per l’Italia la strada rischia di complicarsi ulteriormente, e diviene sempre più cruciale la necessità di grandi capacità di governance e di decisioni non solo rapide, ma anche forti e condivise. Se fino ad oggi i tassi di interesse sul nostro debito pubblico sono rimasti bassi, per esempio rispetto ai picchi del 2012, grazie alle “magie” della politica monetaria, non solo e non tanto della Bce, ma soprattutto della Federal Reserve, adesso lo scenario sta cambiando e il ruolo dei governi torna centrale. Se si vuole evitare una nuova tempesta finanziaria, le banche centrali non bastano più: la palla è in mano ai governi. Solo ai governi. Purché facciano le cose giuste.