Edicola – Opinioni

I mille giorni: un colpo d’ala mediatico e un sentiero che si restringe

I mille giorni: un colpo d’ala mediatico e un sentiero che si restringe

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

Vedremo presto quanto sarà efficace la nuova strategia dei mille giorni e lo slogan autunnale del “passo dopo passo”. Il presidente del Consiglio ha illustrato i suoi propositi con la consueta capacità di “marketing”, ma un punto sembra certo: la magia si è interrotta. E per magia s’intende quella speciale atmosfera, fatta di speranza, di fiducia e di ottimismo, nella quale Renzi aveva inaugurato il suo mandato alla fine di febbraio. Allora era la rivoluzione, annunciata con spavalderia: una grande rivoluzione al mese per sei mesi e l’Italia sarebbe cambiata. Oggi è la prudenza dei mille giorni e la richiesta di essere giudicato non prima del maggio 2017.

Non ci sarebbe da sorprendersi per questo cambio di tattica, se la strategia fosse confermata; se cioè il programma riformatore riproposto ieri si rivelasse davvero in grado di trasformare il Paese in poco meno di tre anni. Sarebbe invece drammatico se il volontarismo renziano fosse fine a se stesso: un modo dinamico, anzi frenetico, di restare più o meno immobili. Non c’è che attendere i prossimi mesi per scoprirlo. Fin d’ora però sembra chiaro che Renzi non può fare affidamento solo su se stesso e sul carisma personale, come è stato nel primo semestre. Ora che l’estate è passata, occorre qualcosa di più concreto per rinsaldare il patto con i cittadini.

In fondo il 41 per cento delle europee era stato il prodotto dello slancio iniziale. Adesso la ricerca del consenso diventa una partita più complicata e richiede tempi lunghi. Per meglio dire, è quasi inevitabile, almeno a breve termine, la contraddizione fra interventi riformatori efficaci e gradimento popolare ai massimi livelli. La tentazione di ricorrere all’arma letale, ossia al populismo per aggirare il contrasto è sempre incombente. Ma sarebbe un errore fatale che segnerebbe la degenerazione dell’esperimento renziano. E infatti il premier evita di farvi ricorso in modo massiccio, se non per gli attacchi alle “rendite di posizione” dei “privilegiati”, rendite che ovviamente devono essere smantellate.

In realtà il problema di cui il premier è consapevole consiste nell’attuare le riforme che l’Europa pretende dall’Italia. Riforme fondamentali nel campo del lavoro, della competitività, della giustizia civile. L’agenda ormai la conoscono tutti. Ma tali trasformazioni sono spesso socialmente dolorose. Non solo. Esse colpiscono feudi politici che quasi sempre coincidono con serbatoi elettorali a cui è molto difficile rinunciare. Quanto alle decisioni che non presentano costi ma solo benefici (dalle assunzioni dei precari della scuola ai mille nuovi asili), è ovvio che non si tratta di riforme, bensì di nuove spese in un momento in cui le risorse non ci sono, ovvero – quando ci sono – andrebbero destinate a ridurre il deficit e a contenere il debito.

Sono questioni ben note dalle parti di Palazzo Chigi. D’altra parte, Renzi è un politico che non intende commettere un suicidio politico. Si rende conto che la Germania non rinuncerà alla religione del rigore, tanto meno adesso che il partito anti-euro tedesco ha preso il 10 per cento in Sassonia. Al tempo stesso, la sua stessa retorica gli impone di continuare a nutrire l’immaginario collettivo con lo scenario consolatorio di riforme che non fanno male, tranne che alla “casta” dei privilegiati. La sfida fra realismo e illusione non è dunque risolta: è solo spostata in avanti.

Per l’Italia decisivi 120 giorni non mille

Per l’Italia decisivi 120 giorni non mille

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Quanto, e in che tempi, l’Italia deve cambiare per far sì che il disperato sindaco di Locri, in Calabria, non debba raccomandarsi e denunciare a Gesù Cristo – dopo aver inutilmente percorso le strade legali terrene – l’assenteismo cronico dei dipendenti del Comune, sulla carta 125 ma in servizio mai più di 20-25?

Il surreale fatto di cronaca si commenta da solo e dimostra di quale svolta – politica, economica, culturale – necessiti la terza economia d’Europa, oggi un sistema bloccato e prigioniero di sé stesso. Per cui quando il premier Matteo Renzi, presentando il sito istituzionale «passodopopasso» per scandire il conto alla rovescia del programma dei prossimi 1000 giorni di governo, dice che l’Italia e la sua «classe dirigente intesa in senso ampio» è vissuta «spesso» di rendita, afferma una verità amara ma elementare. Inevitabile la conclusione: questa lunga stagione è finita, le riforme vanno fatte, questa è l’unica possibilità per l’Italia, il Governo «è nato per fare quello che per troppo tempo è stato solo discusso o rinviato».

Oggi siamo al giorno 2 del «passodopopasso» e ne restano, salvo complicazioni, 998 fino a maggio 2017. Troppo pochi per immaginare che Locri, dove nel 2014 non si cambiano le lampadine dell’illuminazione pubblica, diventi un’isola felice. Ma tanti, troppi, se l’orizzonte della verifica delle riforme che servono a strappare il Paese ad un destino di stagnazione, se non di caduta verticale, è posto al 2017.

Intendiamoci. Le riforme cosiddette “strutturali” (a partire da lavoro, fisco, burocrazia, per non dire di quelle politico-costituzionali) per rendere l’Italia più semplice e competitiva necessitano di tempo per dispiegare a pieno i loro effetti. Il problema è che il tempo è esaurito e che se è vero che il Governo è nato per fare ciò che è stato rinviato, Renzi non ha altra strada che accelerare la sua corsa attuativa. A cominciare dai 51 decreti da rendere operativi entro la fine dell’anno. Per poi proseguire con il pacchetto “riformista” che attende Governo (il quale dovrà a metà ottobre approvare e trasmettere a Bruxelles la legge di Stabilità), Parlamento, imprese e famiglie nei prossimi quattro mesi, come evidenziato dal Sole 24 Ore del Lunedì. Parliamo di decreti legge nuovi di zecca (su giustizia civile e Sblocca Italia), di disegni di legge già all’esame delle Camere (mercato del lavoro, riforma della Pa e del Senato, fisco, legge elettorale) e di due altri ddl-chiave, quelli su scuola e giustizia, che dovrebbero sbarcare presto in Parlamento.

Il programma dei “mille giorni” sarà oggetto di un passaggio parlamentare, ma non è questo il punto. Il problema, per il Governo, è dare una scossa ad un sistema paralizzato e al tempo stesso rendere visibile, in Europa e sui mercati, la progressione dei passaggi attuativi. È questo l’unico cantiere che conta, tanto più a Bruxelles nel confronto serrato sullo “scambio” tra decreti e riforme in corso d’opera da una parte e margini di maggiore flessibilità dall’altra. La presentazione del piano “passodopopasso” è stata l’occasione per ribadire la «scommessa politica» degli 80 euro («non torniamo indietro, cercheremo di allargarla», ha specificato Renzi) e indicare la Germania come modello per il mercato del lavoro, la cui riforma dovrebbe vedere la luce entro il 2014 (verrà riscritto lo Statuto dei lavoratori, il problema non è l’articolo 18, si punterà ad un contratto a tutele crescenti, alla fine dei mille giorni il diritto del lavoro sarà totalmente trasformato, ha spiegato il premier).

Resta da capire quale scossa, sui terreni decisivi del fisco e del lavoro, arriverà in concreto da qui ai prossimi quattro mesi. La manovra degli 80 euro non ha dato i risultati sperati, del taglio ulteriore dell’Irap non si parla più, la spending review è tuttora un oggetto misterioso. “Mille giorni” suona bene, ma ricorda dannatamente anche il “Mille proroghe”, testo legislativo-bandiera, con cadenza annuale, della politica del rinvio. Cosa che, con tutta evidenza, un «Governo nato per fare quello che è stato rinviato» non può permettersi.

Per far ripartire l’economia serve un “New Deal” europeo

Per far ripartire l’economia serve un “New Deal” europeo

Renato Brunetta  – Il Giornale

Dopo la riunione del Consiglio europeo di sabato, che ha in parte definito l’assetto della Commissione europea a guida Juncker, e dopo il pre-vertice all’Eliseo del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, con il presidente francese, Francois Hollande, sempre sabato, il prossimo appuntamento in cui i capi di Stato e di governo dell’Unione europea si troveranno a parlare di economia e di crescita sarà quello del 7 ottobre a Milano. Il governo italiano, cui spetta la presidenza di turno dell’Ue, oltre ad avere l’onore dell’ospitalità ha il dovere della verità e della

trasparenza, e in apertura di sessione dovrà fornire ai leader dei partner europei una ricostruzione sintetica, ma di grande chiarezza storico-scientifica, dell’origine della crisi che dall’estate-autunno 2011 ha travolto i paesi dell’eurozona. Come base da cui partire per le scelte da fare, avendo compreso la natura speculativa dell’ultima crisi, dovuta soprattutto alla mancanza di strumenti della Banca centrale europea, bloccata per Statuto ai Quantitative easing all’americana, nonché all’architettura asimmetrica dell’euro, incapace di risolvere gli squilibri strutturali che il suo stesso successo ha prodotto.

Senza un’analisi seria e approfondita che, a oggi, non è mai stata fatta, i governi, sull’onda degli eventi e delle emergenze, hanno sempre finito per adottare come risposta agli attacchi speculativi, in particolare tra il 2011 e il 2013, la ricetta tedesca del sangue, sudore e lacrime; in maniera acritica, senza mai valutare ipotesi alternative, come potevano essere i provvedimenti presi, in circostanze simili, in America o in Giappone. Risultato: recessione, deflazione, allargamento del divario tra paesi del nord (odiose formiche) e paesi del sud (irresponsabili cicale).

Secondo punto dell’operazione verità che il governo dovrà compiere in preparazione del vertice di ottobre: chiarezza sul ruolo della Banca centrale europea e sui limiti della politica monetaria. Nella banalità teutonica della Commissione europea negli anni della crisi, unico spiraglio di luce ha rappresentato l’assunzione, da parte di Mario Draghi, della presidenza della Bce, che fino ad agosto 2011 era apparsa del tutto impreparata alla crisi, brancolava nel buio e non aveva alcun piano che potesse porre un freno agli attacchi speculativi che i debiti sovrani dei paesi dell’eurozona stavano subendo. Inadeguatezza nella fase iniziale della crisi e impotenza della banca centrale che traspare dalla lettera che proprio ad agosto 2011 la Bce ha inviato all’Italia. Lettera dai contenuti senz’altro giusti, ma irrituale. Sicuramente non uno strumento di politica monetaria.

Solo dopo il parziale fallimento delle due aste di finanziamento agevolato a breve termine alle banche dell’eurozona, a dicembre 2011 e a febbraio 2012, per 1.000 miliardi (di cui da settembre dovrebbe partire una seconda edizione, opportunamente e inevitabilmente riveduta e corretta) e in risposta al susseguirsi di ondate speculative che a luglio 2012 interessavano in particolare la Grecia, con l’impegno a “fare di tutto per salvare l’euro” e il conseguente annuncio di un articolato piano di acquisto di titoli di Stato, la Bce ha finalmente avuto cognizione del proprio ruolo e ha cominciato a esercitarlo nel migliore dei modi. Debellando, in parte, la speculazione finanziaria che stava travolgendo l’Europa, fino a far temere l’implosione della moneta unica. È così che abbiamo tutti apprezzato le misure non convenzionali di politica monetaria adottate da Mario Draghi, ed è, parimenti, a questo punto che ci siamo resi conto che la politica monetaria da sola non basta a risolvere i problemi dell’eurozona. Anche i governi devono fare la propria parte, perché è attraverso la buona politica economica che la politica monetaria si trasmette all’economia reale. E le riforme strutturali che, ripetiamo, creano le condizioni per la buona riuscita delle decisioni di politica monetaria, devono essere simultanee e coordinate in tutti i paesi dell’area euro (ognuno secondo le proprie specificità e necessità), per far sì che ciascuno di essi possa beneficiare degli effetti positivi delle riforme messe in atto dai paesi limitrofi. Motivo per cui Mario Draghi, con l’onestà intellettuale che lo caratterizza, ha auspicato la creazione di una “governance europea delle riforme”.

Riforme strutturali sincroniche, da realizzare attraverso lo strumento dei Contractual arrangements, già in discussione presso la Commissione europea e per la definizione puntuale dei quali sarà decisiva proprio la riunione del Consiglio europeo di ottobre, come ha ricordato più volte l’ex ministro per gli Affari europei, Enzo Moavero Milanesi, che aveva avviato questo percorso nell’ambito del suo mandato di governo con gli esecutivi Monti e Letta. È così che si utilizzerà veramente quella flessibilità tanto agognata e sbandierata, ma in realtà già prevista dai Trattati. Si definisca secondo le specificità del singolo Paese l’incentivo da riconoscere, di natura finanziaria o non finanziaria, a chi attua le riforme strutturali, anche per scongiurare comportamenti opportunistici post-contrattuali (il famoso “azzardo morale”). Potremmo definirlo, pertanto: il piano Draghi-Moavero. E soprattutto l’Italia, nel semestre di presidenza dell’Unione, proponga questo modello a tutti gli Stati, per coordinare il processo riformatore nell’intera area dell’euro. Su questo punto anche il ministro dell’Economia e delle finanze, Pier Carlo Padoan, si è detto favorevole in numerose dichiarazioni pubbliche.

Presidente Renzi, inutile perdere tempo con noiose disquisizioni giuridiche sulla modifica dei Trattati, che richiede un processo troppo lungo e troppo costoso dal punto di vista politico. Non se ne caverà nulla di buono. Dopo l’analisi, che abbiamo auspicato in precedenza, sulle cause della crisi, fatti portatore in Europa di un’operazione non di modifica, bensì di interpretazione dei Trattati e dei regolamenti, nell’ambito della flessibilità che essi già implicano. Con i contenuti scritti nella risoluzione presentata da Forza Italia prima del Consiglio europeo dello scorso 28 giugno, che tu hai bocciato, ma che probabilmente non hai neanche letto. Soprattutto, parla chiaro alla testa e al cuore degli europei. Fa’ vedere loro una via d’uscita. Regala loro una visione strategica di lungo periodo. Cose possibili, fattibili, concrete, e non astratti ragionamenti, esoterici, su astrusi parametri: deficit strutturale, deficit nominale, avanzi, disavanzi, rinvii, che la gente non comprende.

E al piano Draghi-Moavero, esposto sopra, va in contemporanea aggiunta la novità proposta, sia pure nel silenzio di tutti, dal nuovo presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, vale a dire investimenti comunitari per 300 miliardi di euro. Presidente Renzi, riempiamo di contenuti, insieme, il piano Juncker, e presentiamo la nostra proposta ai partner europei che sotto la presidenza di turno italiana si riuniranno a ottobre a Milano. Mettiamo insieme da subito, contemporaneamente e con l’appoggio di tutti i paesi, la linea Draghi e la proposta Juncker. Chiamiamolo piano Draghi-Juncker, o New deal, purché riesca a combinare le riforme sincroniche nei singoli Stati, per consentire la trasmissione della politica monetaria, da un lato e gli investimenti dall’altro. Con riferimento a questi ultimi, facciamo qui qualche esempio di misure concrete, per una maggiore integrazione del mercato interno (in particolare nel settore dei servizi); per migliorare la regolazione e la normativa comunitaria; per costruire nuove infrastrutture; per migliorare i piani di approvvigionamento energetico; per dare impulso agli investimenti in ricerca e sviluppo, innovazione, capitale umano. Chi ha una rete ha un tesoro. Come le reti infrastrutturali sono state i catalizzatori della nascita degli Stati nazionali nell’800, così le reti europee dovranno essere i catalizzatori della nuova Europa.

Con quali risorse fare tutto ciò? Attraverso l’emissione di Project bond garantiti dalla Banca Europea degli Investimenti (Bei), per finanziare investimenti in infrastrutture, in ricerca e sviluppo, innovazione, capitale umano. La capacità di intervento della Bei verrebbe potenziata attraverso l’istituzione di un Fondo di garanzia ad hoc, la cui capitalizzazione sarebbe a carico dei singoli paesi secondo diverse formule, con un punto fisso: i fondi trasferiti dagli Stati membri alla Bei non rientrano nel computo del 3% del rapporto deficit/Pil. In alternativa, il Fondo di garanzia potrebbe anche essere capitalizzato facendo ricorso, con tutte le cautele del caso, a quella quota delle riserve auree delle banche centrali nazionali eccedente rispetto agli obblighi di copertura dell’euro. Questo pacchetto non comporta modifiche ai Trattati, mentre consente di utilizzare, rispettando le regole, la flessibilità già prevista. E soprattutto parla chiaro al popolo europeo, per uscire dalla crisi, dalla recessione, dalla deflazione, dalla disoccupazione. Riforme e reti europee, quindi, per una nuova idea di Europa, oltre l’egoismo tedesco. New deal, contro e dopo la grande depressione europea, come messaggio di pace e di coesione geopolitica. Crescita e sviluppo, come esito finale. Per dirla con Marchionne: non possiamo più sopportare gente con barchette e gelati.

Una commedia degli equivoci

Una commedia degli equivoci

Danilo Taino – Corriere della Sera

Certe volte, sempre più spesso, l’Europa è il palcoscenico di una commedia degli equivoci. Di fronte alla disoccupazione alta, alla stagnazione dell’economia, al pericolo della deflazione, gli equivoci non dovrebbero però essere ammessi: l’eurozona è tornata a vivere una stagione di crisi e le ambiguità politiche e interpretative la rendono drammatica. 

La telefonata di ieri di Angela Merkel a Mario Draghi andrebbe catalogata tra gli scambi di valutazioni tra leader di fronte all’emergenza – non diversamente dall’incontro in Umbria di Matteo Renzi con il presidente della Bce una decina di giorni fa. La famosa frase di Draghi che bloccò la crisi del 2012 – la Banca centrale avrebbe fatto «qualsiasi cosa» per evitare la rottura dell‘euro – fu, per dire, preceduta da una conversazione tra il presidente della Bce e la cancelliera tedesca. Invece, oggi, si tende a verdere ovunque scontro e divisione. Non dovrebbe essere così. 

La gravità della situazione nell’area euro – l’unica al mondo che non riesce a togliersi di dosso i postumi della crisi e sembra immobilizzata –  è chiara a tutti. E i governi sanno che vanno messe in opera tutte le azioni – riforme, politiche di bilancio, politiche monetarie – capaci di scuotere la situazione, di dare una svolta. Significa che i governi nazionali devono fare quelle riforme finalizzate a rendere efficienti le economie: erano il presupposto della creazione della moneta unica europea, 15 anni fa, e molti Paesi non le hanno fatte. Significa che spese produttive e riduzioni del peso fiscale vanno messe in campo per stimolare le economie. Significa che la Banca centrale europea deve fare tutto ciò che può per evitare la spirale della deflazione e per favorire il credito all’economia. Il fatto è che tutto è chiaro, non ci sono misteri. Ma ci sono gli equivoci. 

Al seminario dei banchieri centrali di fine agosto a Jackson Hole, Wyoming, Draghi ha sostenuto che «nessuna quantità di aggiustamenti fiscali o monetari può sostituire la necessità di riforme strutturali: la disoccupazione strutturale era già molto alta nella zona euro prima della crisi». Senza riforme strutturali, più spesa pubblica e una politica monetaria espansiva semplicemente non funzionano, perché si perdono nelle sabbie di economie inefficienti. Qualche media internazionale ha invece dato una lettura del discorso di Draghi a Jackson Hole come un ripudio delle politiche seguite finora dall’eurozona, volute soprattutto dalla Germania. Commentatori e mercati sono entrati in confusione e, probabilmente, così qualche governante. In realtà, la posizione di Draghi – nota non da ora – è che si tratta di fare riforme che mettano i Paesi in grado di beneficiare di ogni azione espansiva possibile, di spesa o monetaria che sia. Non c’è equivoco, se non lo si crea.

La strada difficile della ripresa

La strada difficile della ripresa

Mario Deaglio – La Stampa

Moltissimi italiani sono vittime di un terribile equivoco: si illudono che un «buon» governo, non importa se l’attuale o un altro, sia in grado di scaricare sulla loro porta di casa una splendida ripresa già bell’e confezionata, possibilmente senza creare loro alcun incomodo. Così si spiegano le critiche «quantitative» ai provvedimenti del governo, già adottati o di prossima messa a punto, secondo le quali «le risorse non bastano». Come ha detto il presidente dell’Ance, Paolo Buzzetti, «se non ci mettiamo i soldi… i problemi restano tutti lì». E siccome qualche soldo c’è, ma non basta (e questo lo sanno tutti), e non è possibile stamparne tranquillamente degli altri, si direbbe che i problemi sono destinati a rimanere tutti lì, magari per molto tempo. La ripresa che piacerebbe a milioni di italiani consiste nel «riprendere››, appunto, ritmi, modalità di vita e produzione degli anni precedenti la crisi.

Più che una ripresa sarebbe un recupero e una conservazione di valori, da quelli monetari a quelli culturali. E questa ripresa si potrebbe realizzare semplicemente ritoccando qualche legge – possibilmente senza conseguenze scomode per i diretti interessati – e affidandosi al «buon senso». Sarebbe molto bello, soprattutto per un paese in cui gli anziani sono una componente sempre più importante, se la ripresa fosse effettivamente così. Purtroppo le cose stanno andando diversamente. 

Quella che stiamo vivendo a livello globale è una «distruzione creatrice», come l’aveva definita l’economista austriaco Joseph Schumpeter all’incirca settant’anni fa: uno «sciame» di innovazioni irrompe sulla scena economica, altera la struttura dei costi, si presenta di prepotenza con nuovi prodotti, cambia di fatto il nostro modo di vivere e ne instaura un altro, si inventa nuovi mercati e nuovi modi di produrre. 

Lo si vede benissimo osservando con attenzione la nostra vita quotidiana: dopo trent’anni in cui si è limitata a renderci le cose più facili, l’elettronica sta rendendo la nostra esistenza sensibilmente diversa. Iphone e Ipad cambiano i nostri ritmi di vita e di lavoro: con il telefonino (che è sempre meno «cellulare» in quanto passa sempre più da Internet) possiamo acquistare un biglietto ferroviario 0 aereo, effettuare un bonifico bancario, pagare in diretta il posteggio dell’auto. Sempre con questo o altri simili mezzi elettronici potremo «scaricare» e seguire a nostro piacimento interi corsi universitari, tenere la nostra salute sotto controllo, acquistare un numero crescente di oggetti senza passare dal negozio dai supermercati. 

Possiamo legittimamente pensare che tutto ciò sia un bene o sia un male. In ogni caso siamo costretti a muoverci in questa direzione perché gli altri Paesi lo stanno facendo e perché dobbiamo vendere all’estero i nostri prodotti per pagarci l’energia e le materie prime di cui abbiamo bisogno (sempre che non prevalgano i venti di guerra che soffiano sull’Ucraina e sul Medio Oriente, con qualche sinistra somiglianza con quelli di cent’anni fa). La ripresa, insomma, non sarà per niente comoda e rassicurante, sarà scomoda e incerta; offrirà delle opportunità, non garantirà a nessuno di raggiungere i risultati sperati. 

Nessun governo, in nessun Paese, potrà fare meraviglie, tutti i governi e tutti i Parlamenti dovranno mettere i loro cittadini nelle condizioni di “fare”, di rischiare al meglio, di elaborare un progetto di vita che non sia bloccato da ostacoli legislativi antiquati. Le leggi non creeranno ripresa, metteranno i cittadini nelle condizioni di crearla. Per questo sono necessari i «piccoli miracoli individuali» di cui ho parlato in un precedente articolo, un’affermazione alla quale alcuni lettori hanno reagito con fastidio sostenendo che i miracoli li devono fare i governi. 

Per la verità, i giovani italiani stanno cominciando a muoversi in questa direzione. Sono diverse decine di migliaia quelli che, dopo aver conseguito buone lauree in Italia si vedono proporre spezzoni di lavoro, stage non pagati, contratti di pochi euro e senza futuro o al massimo lunghe carriere per arrivare a posizioni di rilievo all’età della pensione; al di là delle Alpi, da Monaco a Londra, ricevono spesso offerte di posti (e salari) adeguati alla loro professionalità da imprese spesso dirette da trentenni o quarantenni. 

I rimedi alla brutta crisi italiana, in sostanza sono solo in piccola parte quantitativi e soprattutto qualitativi; e possono richiamare in un circuito produttivo un po’ di ricchezza finanziaria netta delle famiglie che, secondo la più recente indagine della Banca d’Italia, è pari a circa 8 volte il reddito disponibile lordo delle famiglie italiane, in linea con Regno Unito, Francia e Giappone e sensibilmente superiore a quella di Stati Uniti, Canada e Germania. Se le famiglie italiane non useranno almeno una parte di questa ricchezza (le sole attività finanziarie valgono più del doppio del prodotto interno lordo) è possibile che finiscano con il perderla. E perderemo tutti una parte delle speranze del Paese.

La scelta delle banche che non aiutano il paese

La scelta delle banche che non aiutano il paese

Andrea Monticini – Il Secolo XIX

Nonostante innumerevoli provvedimenti legislativi (salva Italia, cresci Italia, sblocca Italia) di crescita, in Italia negli ultimi 15 anni, ce ne è stata ben poca. Una delle ragioni che permettono di spiegare una recessione e il declino di un’economia è la cattiva allocazione del risparmio privato. In altre parole, il risparmio di famiglie e imprese viene utilizzato per finanziare settori produttivi che operano in mercati a basso tasso di crescita e soprattutto a basso valore aggiunto, invece di finanziare quelle attività in grado di generare maggiore ricchezza. 

Per comprendere le ragioni della crisi italiana occorre quindi analizzare quali siano stati i settori produttivi finanziati dalle banche italiane negli ultimi 15 anni: in Italia infatti la fonte principale per il finanziamento degli investimenti è senza dubbio il canale del credito bancario, in quanto purtroppo gli scandali dei bond Parmalat, Cirio ecc. hanno distrutto il mercato obbligazionario corporate, privando così le imprese italiane di una fonte di finanziamento alternativa al credito bancario. Incrociando questa informazione con l’andamento del valore della produzione (è ragionevole assumere che gli impieghi siano correlati con il valore della produzione piuttosto che al valore aggiunto) di tali settori si può quindi capire se il sistema bancario abbia indirizzato in modo corretto (o meno) il risparmio privato. A questo proposito, nell’anno 2000, circa il 4-1% degli impieghi bancari era indirizzato al settore industriale ed in misura quasi equivalente, il 43%, al settore dei servizi. I restanti impieghi si concentravano per circa il 4% nel settore agricolo e per circa il 12% nelle costruzioni. Questi impieghi permettevano, rispettivamente, al settore industriale di contribuire per circa il 40% e dai servizi per circa il 51% del valore della produzione totale italiana.

La situazione nel 2013 è notevolmente cambiata. Infatti, gli impieghi bancari sono per il 28% orientati al settore industriale e per circa il 50% ai servizi, che è aumentato in buona ragione per l’aumento dei servizi immobiliari. Gli impieghi nel settore agricolo sono rimasti stabili a circa il 4 e, infine, il 18 al settore delle costruzioni. Si evidenza quindi un aumento considerevole dell’allocazione del credito al settore dei servizi, il cui finanziamento passa dal 43% al 50%,e al settore delle costruzioni (dal 12% al 18%), a scapito principalmente del settore industriale. Ci si aspetterebbe quindi un aumento proporzionale del contributo dei servizi alla produzione totale italiana. Invece, nel 2013, il settore industriale contribuisce per circa il 39%, mentre il settore dei servizi per circa il 52%. Quindi, nonostante un notevole incremento degli impieghi bancari nel settore dei servizi (dal 43% al 50%), il contributo di questo aumento alla creazione di beni e servizi è stato modesto, passando dal 51% al 52%.

Questi numeri ci permettono di effettuare due considerazioni. In primo luogo, l’economia italiana dal 2000 al 2013 è sempre più caratterizzata per la presenza dei servizi ed è quindi fondamentale che in tale settore avvengano ulteriori liberalizzazioni volte ad aumentarne l’efficienza e la concorrenza. In secondo luogo, le banche in questi 13 anni hanno finanziato un settore, quello dei servizi (in particolare sono aumentati i finanziamenti al settore dei servizi immobiliari), non troppo esposto alla concorrenza internazionale e a basso tasso di crescita. Così facendo hanno senza dubbio assolto il loro fine di imprese private che massimizzano i propri profitti, magari sfruttando settori protetti, ma il rendimento di tali investimenti è stato modesto ed ha ulteriormente posto le basi per la profonda recessione che stiamo vivendo.

Eurolandia non si fida dell’Italia

Eurolandia non si fida dell’Italia

Federico Fubini – La Repubblica

Se c’è un’istantanea dell’Italia che resta nella testa di Angela Merkel è quella dell’agosto 2011. Non è la foto da uno dei suoi tanti soggiorni a Ischia. È il ricordo di quello che la cancelliera visse come un tradimento. A quell’epoca, con una lettera di Mario Draghi e Jean-Claude Trichet sul tavolo, il governo italiano promise misure importanti in cambio del soccorso della Bce. L’aiuto di Francoforte arrivò, le promesse di Roma finirono in soffitta poche ore più tardi.

In Italia di quell’episodio oggi si ricorda il fatto che fu Silvio Berlusconi, allora premier, a determinare il voltafaccia. In Germania invece si continua a pensare che responsabile ne fu semplicemente l’Italia, anche perché da allora tutti i governi seguiti a Berlusconi hanno omesso gran parte degli impegni. Quel passaggio del 2011 torna attuale nella mente della Merkel ora che, di nuovo, in Europa si parla di grandi compromessi. Interventi in Italia o in Francia per mettere le due economie in condizioni di competere, in cambio di un po’ di più pazienza a Bruxelles. Un taglio di spesa e di tasse sulle imprese, insieme a nuove regole sul lavoro, in contropartita a una certa tolleranza sul deficit e sul debito pubblico.

Varie versioni di proposte di questo tipo circolano fra i governi da almeno un anno. C’è però un dettaglio che passa quasi inosservato a Roma, mentre a Berlino resta la tessera centrale del mosaico: niente più concessioni all’Italia in cambio di impegni solenni o altri esercizi verbali. Qualunque accordo sulla “flessibilità”, cioè la speranza per l’Italia di non rischiare una multa e una sorveglianza stringente a Bruxelles, prevede prima i fatti. Precise riforme dell’economia approvate come leggi, tradotte in provvedimenti, applicate nella vita reale del Paese. Nient’altro basta ad avviare un negoziato in buona fede su come applicare il Fiscal Compact, cioè le regole di bilancio, in maniera meno burocratica. Forse perché in Italia sono cambiati quattro governi in meno di tre anni, spesso sfugge alla classe politica come l’erosione della credibilità in Europa oggi riguardi l’intero Paese: non il primo ministro di turno o quello appena sostituito da uno nuovo, forte o debole nei sondaggi che sia. È praticamente certo che di questi argomenti Merkel non parli esplicitamente con Draghi. Il canale di comunicazione diretta fra la cancelliera e il presidente della Bce da anni è aperto e funziona benissimo, fondato com’è sul rispetto dei rispettivi ruoli. Due anni fa, Draghi sapeva di avere l’as- senso di Merkel quando salvò l’Italia dal collasso annunciando che avrebbe fatto «qualunque cosa» per preservare l’euro. Anche oggi il banchiere centrale e la cancelliera la vedono in modo simile, almeno su un argomento: l’Italia, la sua stasi e la depressione in cui si dibatte da cinque anni. Entrambi vorrebbero vedere subito progressi nelle norme sul lavoro e nel taglio fiscale al costo di fare impresa, perché nel frattempo il Paese sta restando indietro anche rispetto alle economie più fragili o ai suoi stessi alleati.

La Francia di François Hollande, in teoria in “asse” con Roma, si è messa in marcia. Manuel Valls, il premier, ha espulso dal governo i dissenzienti e ora procede verso un piano di tagli di spesa da 50 miliardi di euro e riduzioni di tasse sulle imprese da 40 miliardi. Se lo porterà a termine tra tre anni, come da programma, l’export transalpino avrà guadagnato competitività su quello dell’Italia per qualcosa come il 2% del Pil francese. Le imprese francesi torneranno ad assumere, quelle italiane, surclassate, continueranno a chiudere. Quanto alla Spagna, è già avanti nel cambiamento e da anni gode della “flessibilità” di cui parla Matteo Renzi. Il deficit di Madrid viaggia intorno al 7% del Pil, ma il Paese non rischia sanzioni da Bruxelles. Nel frattempo, ha cambiato in profondità le regole sul lavoro e sui rischi d’impresa. Le procedure di fallimento delle aziende piccole e medie sono rapide, concluse senza giudici e a basso costo: gli investitori possono mettersele alle spalle e ripartire. I contratti di lavoro sono commisurati alla capacità di un’impresa di stare sul mercato e guadagnare. I licenziamenti per ragioni economiche o organizzative ora sono più facili, eppure la Spagna sta creando nuovi posti di lavoro ogni mese. L’Italia invece ne distrugge e resta in recessione – non il modo migliore di difendere i diritti acquisiti – mentre la Spagna cresce al ritmo del 2% annuo.

È di fronte a queste realtà che Draghi e Merkel fanno i conti e si trovano d’accordo. La cancelliera deve gestire le pressioni verso il rigore da parte della sua Corte costituzionale tedesca, del suo ministro finanziario Wolfgang Schaeuble e dell’opinione pubblica. Ma, come Draghi, sa che l’Italia è troppo grande per non essere aiutata: l’Italia che fa, ovviamente. Non quella che promette.

Le aspettative crescenti dell’uomo della Provvidenza

Le aspettative crescenti dell’uomo della Provvidenza

Gianfranco Summo – La Gazzetta del Mezzogiorno

Il bluff è uno degli aspetti più affascinanti del poker, almeno per gli appassionati del gioco. In fin dei conti è la strategia dove si mette sul tavolo la personalità del giocatore piuttosto che le sue carte. A vincere una mano con la scala reale sono buoni tutti, a zittire gli avversari con un punticino ci vuole forza, carisma, credibilitá.

Non coraggio, ma credibilità. Ecco, Matteo Renzi con il decreto (annunciato) Sblocca Italia sta puntando le sue ultime fiches di credibilità. Un grande italiano d’Europa, Mario Draghi, giocò nell’estate del 2012 una mano di poker con un bluff memorabile: annunciò al mondo di essere pronto a tutto per salvare l’euro e questa semplice «minaccia» fu sufficiente a rassicurare mercati, Ue e singoli Paesi. In realtà la Bce non spese un euro. Ma bastò l’autorevolezza di Draghi a rendere credibile l’annuncio. Però quell’annuncio non era stato preceduto da un’altra diecina di affermazioni pirotecniche e non si è mai visto il presidente della Bce mangiare un gelato davanti all’Eurotower per fare dispetto alle critiche di un giornale. E quindi Draghi è tuttora un pilastro dell’Europa, al punto che si scomoda la Merkel in persona se legge che il presidente della Bce prende posizione contro il rigorismo germanico. 

Non si può bluffare ad ogni giro, come sa pure un mediocre giocatore di poker. O anche solo di briscola- Allora, il decreto Sblocca Italia: per non tramutarlo in una bufala, innanzitutto il governo Renzi dovrà dimostrare che i dieci miliardi promessi siano soldi «nuovi». Se (come sembra) si tratta solo di mettere insieme opere già finanziate, se si tratta di attingere a fondi europei già disponibili, allora il bluff è scoperto fin da ora. E non basta sostenerlo dicendo che il decreto accelera le cantierizzazioni. Perché se solo di questo si tratta, allora vuol dire che il governo si scomoda e «occupa» un decreto semplicemente per una operazione di pura burocrazia. Che ci stanno a fare, dunque, ministri e ministeri? Non basta che facciano il loro lavoro, individuino priorità e disponibilità e diano corso a quello che dovrebbe essere la normalita di un Paese, cioé rispettare termini e scadenze di una opera pubblica? 

Verrebbe da pensare che il decreto Sblocca Italia serva a fare marketing e allo stesso tempo mascherare i limiti di una squadra di governo non ancora padrona delle proprie prerogative. E sarebbe doppiamente grave. Triplamente grave, poi, se consideriamo che in amministrazione, come in natura, non esiste il vuoto e lì dove la politica non riesce a fare il suo lavoro, ci pensano i burocrati. Esattamente il senso contrario a quello promesso da Renzi. 

Con una delle sue (tante) battute che farebbero invidia a Berlusconi, Renzi spiegò agli italiani in una intervista televisiva a La7 che lui ha detto che vuole cambiare verso, non può cambiare l’universo. Un simpatico modo per frenare forse gli entusiasmi che egli stesso ha acceso, quegli entusiasmi che lo hanno portato a guidare il governo e dell’Italia senza essere neppure stato eletto una sola volta al Parlamento. Dalle primarie del Pd, alla guida del partito e di lì alla presidenza del Consiglio dei ministri a furore di popolo. Tanto viscerale consenso ha come contraltare inevitabile una aspettativa altrettanto vertiginosa. 

Quindi Renzi non si stupisca se dopo soli sei mesi gli imprenditori cominciano a mugugnare, proprio quegli imprenditori che avevano traslocato armi e bagagli dal berlusconismo ad un Pd finalmente decomunistizzato. Ha cominciato due mesi fa la Confindustria di Giorgio Squinzi, poi la Confcommercio e ieri è arrivato il presidente dell’Ance, l’associazione dei costruttori, Paolo Buzzetti: servirebbero progetti per cento miliardi, ma basterebbero anche dieci miliardi purché siano «veri».

Ora Renzi non si spazientisca, non se la prenda con gli italiani che non apprezzano la sua buona volontà. Non faccia come l’italiano medio per il quale la colpa è sempre di qualcun altro. Renzi è un uomo politico giustamente ambizioso e ha ancora una grandissima fortuna dalla sua parte: l’Italia è allo stremo e non ha neppure la voglia, oltre che la forza, per cercare un altro leader; l’Europa, in tutte le sue articolazioni, è preoccupatissima perché l’Italia non è il Portogallo (che in termini di pil vale quanto la provincia di Treviso…) e salvare l’Italia o lasciarla affondare è roba da far crollare l’intero sistema dell’Unione e forse anche mezzo mondo. Due circostanze che fanno di Renzi l’uomo della provvidenza malgrado tutto e tutti, lui stesso compreso. Allora, un po’ di pazienza, Matteo Renzi: le carte buone arrivano, meno chiacchiere e più serietà. Anche perché i soldi sul tavolo da gioco sono i nostri ultimi risparmi.

L’impresa di resistere in un paese stanco

L’impresa di resistere in un paese stanco

Claudio Magris – Corriere della Sera

Nel Tramonto dell’Occidente – libro che negli anni Venti ebbe un enorme successo per il suo pathos epocale e il suo miscuglio di intuizioni geniali ed enfasi apocalittica zeppa di strafalcioni logici – Spengler annunciava che la civiltà occidentale – per lui sostanzialmente germanica – esaurito il suo slancio faustiano di espansione e di conquista sarebbe presto morta. Il suo ultimo stadio sarebbe stata una sua pallida ed esangue copia collocata vagamente in Oriente, fra la Vistola e l’Amur, presto destinata a spegnersi. Non è il caso di lasciarsi affascinare dai bagliori della decadenza – già la musica e il suono della parola «Occidente» hanno una seduzione di declino – né dai profeti quasi sempre soddisfatti di proclamare sventure e impermaliti, come Giona, quando tali sventure non si avverano. Se la nostra civiltà occidentale ha certo le sue gravi difficoltà, nelle altre parti del mondo e nelle altre culture non si sta molto bene.

È innegabile tuttavia che la descrizione di quella civiltà spenta e opaca, priva di passioni, che Spengler situa in un’Europa orientale semiasiatica, assomiglia all’atmosfera che, da non molto tempo ma sempre più diffusamente, si è creata nel nostro Paese. La crisi economica sembra provocare non tanto una lotta per la sopravvivenza, quanto una fiacca rassegnazione. Certamente vi sono molti individui che lottano, con le unghie e con i denti, per la loro esistenza e per la dignità della loro esistenza. Sono essi i protagonisti, i combattenti di questa difficile battaglia. Quello che resiste è il più autentico capitalismo legato ancora all’iniziativa individuale, al rapporto diretto tra il lavoro e il profitto, alla piccola attività ed impresa, mentre il grande capitalismo dei tronfi ed inetti signori del mondo, sempre più anonimi e scissi dalla dura realtà del lavoro, è spesso largamente, talvolta criminosamente colpevole della crisi.

Ma la nostra società sembra aver perso, in generale, mordente, slancio, capacità di progetto e di protesta, passione. Ciò che manca, da qualche tempo, è soprattutto la passione politica, che ha contrassegnato – con le sue lotte, i suoi furori, le sue faziosità, i suoi ideali – la vita del Paese dal Dopoguerra (l’antifascismo e i diversi antifascismi, lo scontro tra comunismo e democrazia liberale, la tumultuosa crescita economica che portava con sé tensioni, entusiasmi e progressi sociali) agli anni dei governi Berlusconi, che scatenavano ancora amori e odi. L’ultima fiammata di irruente accensione degli animi è stato il Movimento 5 Stelle, che tuttavia non solo sembra affievolirsi, ma che non pare essere stato, a differenza di altre formazioni pur tendenti all’estremismo, una componente organica del Paese.

L’Italia sembra vivere stanca, depressa ma senza drammi, indifferente alla politica ovvero al proprio destino, giacché la politica è la vita della Polis, della comunità. Un Paese senza. Fra i negozi vuoti spiccano le trattorie e i ristoranti, decisamente più frequentati; la gola è l’ultimo appetito a morire, resiste alla depressione e alla mancanza di senso più del sesso. Speriamo di non essere alle soglie di un abisso, come negli anni Venti; in ogni caso, manca quella frenesia trasgressiva e disperata di vita che c’era in quegli anni sciagurati ma vivi e che risuona nelle canzoni di Brecht o nelle musiche di Cabaret. La nostra esistenza assomiglia piuttosto a quella di un personaggio di Gozzano, Totò Merùmeni: «E vive. Un giorno è nato, un giorno morirà».

Questo non è un paese per giovani

Questo non è un paese per giovani

Ilvo Diamanti – La Repubblica

Temo che l’immagine di Renzi cominci a risultare inadeguata per raffigurare il Paese. Troppo “giovane” e “giovanile”. Troppo spavalda e, perfino, esagerata. Rispetto a un Paese che sembra viaggiare – e guardare – in direzione contraria. Cioè, verso il passato. Perché l’Italia mi sembra un Paese sempre più rassegnato. Che ostenta un ottimismo triste, attraversato da rabbia diffusa. È un Paese di pensionati, con tutto rispetto per chi la pensione se l’è guadagnata, dopo anni e anni di lavoro. Però, è difficile non rilevare le tensioni continue intorno al sistema pensionistico. Dal punto di vista sociale e politico. Perché l’età di accesso alla pensione si è “allungata”, per contenere il costo della previdenza pubblica, in una società sempre più vecchia. Dove i pensionati sono oltre 7 ogni 10 occupati. Ma, in questo modo, l’ingresso nel mercato del lavoro per i più giovani si è ulteriormente ristretto. Così la generazione dei padri – e, talora, dei nonni – sessantenni vorrebbe andare in pensione. Ma non ci riesce. Neppure quando il governo, come ha fatto nelle scorse settimane, lo prevede. Ad esempio: per gli insegnanti (cosiddetti) “quota 96”. Che a 61 anni abbiano maturato 35 anni di contributi. Perché, dopo l’annuncio, si scopre che non ci sono le coperture, le risorse. Un po’ com’è avvenuto per gli “esodati”. Un’invenzione linguistica. Participio passato di un verbo che non c’è. Coniato per significare quelle persone sperdute, in “esodo” verso la pensione. Ma rimasti per strada. Pre-pensionati senza pensione. A causa di im-previsti legislativi. Esistono ma non si vedono. Sono “pensionandi”. In attesa che lo Stato trovi le risorse per “pensionarli” davvero, dopo la chiusura anticipata del rapporto di lavoro, negoziata con l’impresa.

D’altronde, l’Italia è un Paese schiacciato dalla spesa pubblica. Dal debito pubblico. Nonostante che il pubblico impiego sia in costante calo. Il 7% in meno negli ultimi 5 anni. Ma circa il 20%, per quel riguarda gli statali. Con l’esito, paradossale, che la spesa pubblica non è calata. Al contrario. Perché, come ha annotato Tito Boeri, alcuni giorni fa su queste pagine, “gli stipendi pubblici in meno si sono trasformati in pensioni in più da pagare, sempre a carico del contribuente”.

Questo Paese di esodati, pensionandi e aspiranti pensionati, come può avere e, prima ancora, “immaginare” il futuro? Al massimo: il presente. Ma, più facilmente, il passato prossimo. Nell’Italia di oggi, nonostante Renzi, il futuro: è ieri. Al massimo, stamattina. D’altronde, non per nulla, questo Paese per vecchi, come io stesso ho rilevato altre volte, sta perdendo e ha già perduto i suoi giovani. Che sono pochi e sempre di meno, visto che i tassi di natalità, in Italia, sono fra i più bassi dell’Occidente. Mentre i tassi di occupazione giovanile scendono e quelli di disoccupazione crescono continuamente.

I giovani: sono “esodati” anche loro. Visto che si contano circa due milioni di Neet, un altro neologismo per significare una popolazione fuori dalla scuola e dal lavoro. Dunque, anch’essa sperduta. Tra le pieghe dell’impiego temporaneo e informale. Protetta dalle famiglie, che offrono loro un ancoraggio, in attesa di una stabilità imprevista e imprevedibile. I giovani. Se ne vanno dall’Italia, se e quando possono. Sempre più numerosi. In particolare, durante i corsi di laurea. Utilizzano l’Erasmus, programma che prevede alcuni mesi di studio presso università straniere in convenzione con quelle italiane. Ma poi, dopo la laurea, ripartono di nuovo. Proseguono la loro “formazione” in altre università straniere. E spesso trovano impiego. Altrove. Perché l’Italia è un Paese di pensionati dove i giovani “esodano”. Soprattutto i “laureati”. Che sono sempre meno. Il 20% della popolazione fra 25 e 34 anni. Cioè, la metà della media Ocse. D’altronde, il saldo fra giovani laureati che escono e vengono, in Italia, è negativo (-1,2%, secondo un Rapporto di Manageritalia). Il peggiore della Ue.

Così, siamo diventati un paese di vecchi, attraversato da inquietudini e paure. Perché, quando si invecchia, crescono e si diffondono anche le paure. E ci si difende dagli altri, chiudendosi in casa. Guardando tutti con crescente sospetto. In Italia, più di due persone su tre diffidano di chi hanno di fronte (Oss sulla Sicurezza, Demos-Oss. Pavia-Fond. Unipolis). Perché ci potrebbero “fregare”. In particolare, preoccupano – e spaventano – gli stranieri che affollano l’Italia, in numero crescente. Perché sono tanti, sempre di più, quelli che arrivano. Con ogni mezzo. In particolare, dal Nord dell’Africa. Non per “piacere”, ma spinti da paure ben più immediate e drammatiche delle nostre. Le guerre, la fame, i conflitti. Fuggono dal loro mondo che è lì, a un passo dal nostro. E intraprendono viaggi brevi ma, spesso, infiniti. Perché finiscono in modo tragico. In fondo al mare. Ai nostri mari che assomigliano a cimiteri liquidi, dove si depositano, a migliaia, i corpi di migranti che tentano di scavalcare il muro che li separa da noi. Il Mare Nostrum che ormai è divenuto un Mare Mostrum. Quel tratto di mare: è un muro, una barriera. Costruita con le nostre paure, per difendere la nostra solitudine, la nostra vecchiaia infelice. Per coltivare la nostra indifferenza.

Noi, l’estremo confine d’Europa. Ultima frontiera di una civiltà senza più civiltà. Senza più pietà. Senza più futuro. Perché se fai partire i tuoi giovani (più qualificati) e tieni lontani quelli che vorrebbero entrare, dal Sud ma anche dall’Occidente, i poveri e i disperati, ma anche i più istruiti e specializzati: che futuro vuoi avere? Al massimo un passato. Sempre più incerto, anch’esso. E annebbiato. Come la memoria. Per questo la rappresentanza, o meglio, la “rappresentazione” offerta da Renzi, oggi, mi appare inadeguata. Troppo giovane e giovanile. Troppo giocosa. Rispetto al Paese: rischia di proporre uno specchio deformante. Difficile predicare la “crescita” se siamo in “declino” – demografico. Se i giovani sono pochi e quando possono se ne vanno. Non basterà, di certo, un gelato a farli rientrare. Né a farci ringiovanire tutti. Più facile, piuttosto, che lui, il premier, rispecchiandosi nel Paese, invecchi presto.