Edicola – Opinioni

Non bastano i treni a far ripartire il paese

Non bastano i treni a far ripartire il paese

Tito Boeri – La Repubblica

Il tempismo, sul piano della comunicazione, è perfetto. Nel giorno in cui l’Istat certifica il ritorno dopo 50 anni alla deflazione e con un mercato del lavoro sempre più in sofferenza il governo vara un decreto dal titolo molto promettente: sblocca-Italia. Interviene in ritardo rispetto allo scadenziario che lo prevedeva per metà luglio, ma proprio per questo permette al governo di reagire ai dati sui consumi degli italiani dopo l’introduzione del bonus di 80 euro, dati che confermano l’impressione che lo sgravio non abbia avuto gli effetti sperati di stimolo della domanda. Se si va al di là dei titoli e dei relativi cinguettii telematici, affiorano però non pochi dubbi sull’efficacia delle misure varate ieri e, a dispetto delle rivoluzioni annunciate, in molte di loro si respira l’odore stantio del déjà vu.

Di sblocco sulla carta ci sono quasi solo i cantieri delle opere su rotaia. Il bonus edilizia viene semmai bloccato, non rinnovato nel 2015 almeno fino all’approvazione della legge di Stabilità. Le 1617 mail ricevute dai Comuni con segnalazioni di ritardi in piccole opere dovranno aspettare. Non ci sono fondi per le misure contro il dissesto idrogeologico. Non è la prima volta che un governo italiano si affida ai trasporti e soprattutto alle Ferrovie dello Stato (che continuano a non assicurare la pulizia dei treni su gran parte delle tratte) per rilanciare un’economia che non riesce a ripartire. I fallimenti del passato, quando peraltro c’erano ben più risorse da destinare a queste opere, non sembrano essere stati metabolizzati.

Sono lastricate le strade di Palazzo Chigi di comunicati in cui si annunciano miliardate di opere pubbliche di immediata attuazione, a partire dalla faraonica legge obiettivo del 2001 per arrivare al “decreto del fare” (e disfare) lasciato in testamento da Letta. Il fatto stesso che si peschi una volta di più dall’elenco annunciato da Berlusconi a Porta a Porta, attuato solo in minima parte (attorno al 10 per cento) in 15 anni, certifica che non basta decretare per avviare i lavori. E anche questa volta, quando si studiano i singoli dossier, ci si accorge che gran parte delle opere non sono immediatamente cantierabili. Tre quarti di queste potranno, nella migliore delle ipotesi, partire nel 2018. Del resto è lo stesso profilo temporale dei finanziamenti a certificare che non si tratta di misure di impatto immediato: 40 milioni nel 2014, 415 nel 2015, 888 nel 2016. Non è questo tipicamente l’orizzonte delle misure congiunturali che vogliono evitare una nuova prolungata recessione agli italiani.

Una volta di più si annunciano queste misure a costo zero, come se destinassero nuove risorse alle infrastrutture senza sottrarle ad altri interventi. Ma come può un governo che chiede un consenso attorno ad un’operazione politicamente costosa come la spending review, come può un esecutivo che dovrà racimolare nella legge di Stabilità qualcosa come 16 miliardi di tagli alla spesa nel 2015, dire agli italiani che ci sono tutti questi miliardi piovuti dal cielo? È fin troppo evidente a tutti che le risorse che verranno destinate a queste opere, anche quelle che vengono da fondi europei, verranno sottratte a destinazioni alternative. È dovere di un governo spiegare perché queste opere sono più importanti di altre cose che si potevano fare con questi soldi. A partire dalle stesse opere infrastrutturali alternative che potevano essere avviate (perché, ad esempio, il terzo valico Milano-Genova e non il raccordo Fiumicino-alta velocità verso Firenze?). Le analisi costibenefici delle singole opere servono proprio a questo, ma non ce n’è traccia. Offrono le stesse valutazioni che ogni imprenditore compie quando deve decidere se fare o meno un investimento. Perché i contribuenti italiani, al pari degli azionisti privati, non devono avere il diritto di sapere come vengono utilizzati i loro soldi rispetto a diversi scenari e opzioni alternative?

La dimensione del dispositivo entrato in Consiglio dei ministri (125 pagine e, come ormai è prassi, non c’è un testo in uscita) e i commi e sottocommi dei diversi articoli danno l’impressione di burocrazie ministeriali tutt’altro che rottamate. Se il decreto avesse mantenuto l’obiettivo della semplificazione normativa, avremmo un precedente cui appellarci sul piano del metodo. Speriamo che dietro al formalismo non si celino troppi giochi di potere: homo homini lupus . E l’impressione è che almeno al ministero dei Trasporti siano ancora le alte burocrazie a governare.

Forse sarebbe stato più saggio ieri limitarsi alle misure sulla giustizia civile, che hanno potenzialmente un rilievo economico molto importante se sapranno davvero intervenire sugli arretrati, e rinviare le altre misure alla prima legge di Stabilità del Governo Renzi, nella quale confluiranno anche le norme sulle società partecipate. Ci dirà qual è la strategia di politica economica di questo governo.

La scossa degli investimenti

La scossa degli investimenti

Roberto Napoletano – Il Sole 24 Ore

Il bonus da 80 euro non ha portato la scossa auspicata all’economia italiana, ma vendite al dettaglio in caduta del 2,6% rispetto all’anno scorso, nuovo balzo della disoccupazione (12,6%) e l’Italia in deflazione dopo oltre mezzo secolo. Non eravamo d’accordo con quella scelta e lo abbiamo detto subito. Il Paese esige serietà: la stessa somma poteva, da sola, consentire di cancellare il conto dell’Irap sul costo del lavoro privato. Un segnale così forte avrebbe tutelato gli investimenti in essere nazionali e esteri, probabilmente ne avrebbe attratti di nuovi, di certo avrebbe segnalato al mondo che stavamo cambiando per davvero.

La fiducia delle famiglie italiane non si “ricostruisce” con 80 euro in più in busta paga, ma dando un lavoro a chi l’ha perso e una prospettiva ai nostri giovani. Il mondo “brucia”, l’Europa ha le sue colpe gravi, ma noi non ci dobbiamo mettere del nostro e dobbiamo fare in casa le cose giuste. In gioco ci sono il futuro del Paese e la dignità delle persone, guai a dimenticarcelo.

L’idea sbagliata di classe media e il rischio catastrofico dell’euro

L’idea sbagliata di classe media e il rischio catastrofico dell’euro

Paul Krugman – Il Sole 24 Ore

Un nuovo studio dell’istituto economico tedesco Iw mette a confronto le percezioni della disuguaglianza nelle nazioni avanzate: uno dei dati più significativi è che gli americani tendono, molto più degli europei, a pensare di vivere in una società di classe media, nonostante il reddito da quella parte dell’Atlantico sia distribuito molto meno equamente che in Europa. Mettendo a confronto Stati Uniti e Francia, per esempio, esce fuori che i francesi pensano di vivere in una società gerarchica, piramidale, quando in realtà la maggioranza di loro appartiene alla classe media. Gli americani hanno la convinzione opposta. Come sottolineano gli autori della ricerca, anche altri dati indicano che gli americani sottovalutano enormemente la disuguaglianza presente nella loro società, e quando gli si chiede di scegliere un modello di distribuzione ideale della ricchezza, rispondono che gli piace la Svezia. 

Quali sono le ragioni di questa differenza? Io, come molti altri, sono del parere che l’eccezione americana riguardo alla distribuzione del reddito (la nostra peculiare diffidenza e ostilità verso il welfare e i programmi anti povertà) sia strettamente legata alla nostra storia razziale. Tuttavia questo non spiega direttamente perché abbiamo una percezione cosi distorta della disuguaglianza effettiva: la gente potrebbe essere contraria ad aiutare “quelli là”, ma non per questo essere inconsapevole di quanto siano ricchi i ricchi. E’ possibile, tuttavia, che ci sia un effetto indiretto: la divisione razziale rende più forti le formazioni di destra, di ogni tipo, e queste formazioni a loro volta producono propaganda in gran quantità che ignora e minimizza il problema della disuguaglianza.

I sentimenti anti-keynesiani
In un articolo per il Washington Post, Matt O’Brien recentemente ha sottolineato che l’Europa sta andando peggio che ai tempi della Grande depressione. Nel frattempo, il presidente francese François Hollande (che con la sua mancanza di spina dorsale e la sua disponibilità a bersi le fandonie rigoriste ha condannato al fallimento la sua presidenza e forse anche il progetto europeo) incomincia finalmente a suggerire, molto timidamente, che forse ancora più austerità non è la risposta giusta.

L’economista di Oxford Simon Wren Lewis è del parere che l’abbraccio entusiasta delle politiche rigoriste nel Vecchio continente sia dovuto a una contingenza storica: in sostanza, la crisi greca ha rafforzato le posizioni degli austeriani in un momento critico. Secondo me la spiegazione non è così semplice. La mia idea è che in Europa esistevano forti sentimenti anti-keynesiani anche prima della crisi greca e che la macroeconomia così come la intendono gli economisti anglosassoni non ha mai avuto davvero cittadinanza nei corridoi del potere europei. Qualunque sia la spiegazione, sta di fatto che ci troviamo di fronte, come sottolinea O’Brien, a una delle più grandi catastrofi della storia economica.

Dai vincoli politici armi spuntate per la Bce

Dai vincoli politici armi spuntate per la Bce

Riccardo Sorrentino – Il Sole 24 Ore

L’inflazione scende ancora. Dove andrà? Qualcuno argomenta che ora può solo salire; ma anche se cosi fosse non sarebbe un buon motivo per pensare che la politica della Bce sia oggi sufficiente. Non si può infatti sperare in un vero aumento dei prezzi. L’inflazione, a fine anno, potrà forse allontanarsi un po’ dalla temuta quota zero, ma resterà bassa. Troppo bassa per consentire quel riequilibrio delle economie europee che richiede prezzi alti dove la ripresa ha più forza e prezzi più competitivi dove invece l’attività e più lontana dalle potenzialità del paese. È così quasi scontato che le nuove proiezioni della Bce, giovedì prossimo, indicheranno un peggioramento delle previsioni di inflazione: le indicazioni date a giugno per 2014 (+0,7%) e 2015 (+1,1%) non sono raggiungibili. 

Non si può allora dire che le misure della banca centrale stiano avendo effetto. Soprattutto a giudicare dalle aspettative di inflazione, che sono il vero obiettivo della politica monetaria e che, con i dati di agosto e i prossimi di settembre – destinati a essere altrettanto brutti – non potranno che peggiorare. A luglio, la Bce già ammetteva nel suo bollettino che «le aspettative di mercato suggeriscono» che l’inflazione possa tornare «vicino al 2% non prima del 2020». A inizio mese, scegliendo il meno favorevole degli indicatori a disposizione, il presidente Mario Draghi ha detto che le aspettative di inflazione a cinque anni puntano all’1%, e il 22 agosto a Jackson Hole ha ammesso che queste aspettative sono peggiorate. L’obiettivo del 2% a medio termine è lontano. 

Possono bastare allora le prossime operazioni finalizzate ai prestiti alle imprese? Forse no. Innanzitutto lasciano tutta l’iniziativa alle banche (mentre occorre chela Bce sia attiva nell’aumentare la liquidità). Aumenta poi la sensazione che, in assenza di domanda, questi Tltro possano solo favorire la concorrenza sui tassi tra le aziende di credito, in un gioco quasi a somma zero. È troppo poco, e questo poco può segnalare due cose. O la politica della Bce è asimmetrica, teme l’inflazione che sale troppo sopra il 2% ma non quella che scende troppo sotto il 2%, e questo è un errore. Oppure i vincoli politici sono troppo forti, e questo è un male.

Le recenti ingerenze del ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, sono state in questo senso un segnale molto brutto. Schäuble prima si è sentito in diritto di dare l’interpretazione autentica delle parole di Draghi a ]ackson Hole, dicendo che è stato frainteso. Poi ieri ha detto di non ritenere «che la Bce abbia gli strumenti per combattere la deflazione». Detta da un giornalista, sarebbe una sciocchezza, ma detta da un ministro è una dichiarazione politica: quegli strumenti non vanno usati. Perché? Perché aiutano la politica fiscale. Il punto – se si vuole il problema – è però proprio questo: la politica monetaria può sostenere prezzi e crescita anche, se non soprattutto, aiutando la politica fiscale. Altrimenti gli obiettivi sfuggono e la politica monetaria fallisce.

Lavoro flessibile in crescita: togliere lacci crea posti

Lavoro flessibile in crescita: togliere lacci crea posti

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Il mercato del lavoro resta in grande crisi. Ma laddove si tolgono i vincoli, e si ha più coraggio, qualcosa inizia a muoversi. Nel secondo trimestre di quest’anno l’Istat evidenzia un aumento dei dipendenti a termine del 3,8%, pari a 86mila lavoratori in più rispetto ai 12 mesi prima. Anche il ministero del Lavoro e l’Isfol, analizzando i dati sui rapporti di lavoro attivati, segnalano, negli stessi tre mesi, una crescita dei contratti a termine del 3,9 per cento. Un incremento maggiore, ed è una notizia, riguarda l’apprendistato che dal varo della Testo unico Sacconi (fine 2011) inverte rotta e nel terzo trimestre 2014 cresce addirittura del 16,1% (+12mila contratti circa rispetto al secondo trimestre 2013, +8mila, su base destagionalizzata, rispetto al trimestre precedente). Un incremento concentrato essenzialmente nella classe d’età compresa tra i 20 e i 29 anni. Resta invece in difficoltà l’apprendistato di primo livello per i giovani in età 15-19: dal 2010 il numero di nuovi rapporti risulta più che dimezzato.

Il dato sull’apprendistato è un primo segnale. Ma indicativo di quanto aiutino regolazioni semplici. Le aziende, da sempre, lamentano difficoltà nell’utilizzo di questo strumento carico di troppa burocrazia e di difficile gestione pratica (nonostante gli incentivi e i forti sgravi contributivi previsti). Ebbene, prima il decreto Giovannini, poi ulteriori interventi semplificatori su libretto formativo e formazione pubblica contenuti nel decreto Poletti, hanno colto nel segno e reso un po’ più accessibile l’apprendistato alle aziende. Sul coinvolgimento degli studenti il decreto Carrozza ha lanciato un programma sperimentale per coinvolgere alunni di quarta e quinta superiore. Il provvedimento attuativo è però arrivato ben sette mesi dopo, a ridosso della fine della scuola. A settembre partirà solo una grande azienda, Enel, con circa 150 assunzioni di studenti-apprendisti.

La direzione è quella giusta, ma la burocrazia va combattuta fino in fondo e serve un piano di comunicazione e orientamento ad ampio raggio. È poi importante abbattere le barriere ideologiche semplificando ancor più l’apprendistato a partire dai 14 anni, come chiede una parte della maggioranza capeggiata da Maurizio Sacconi (la misura convince pure il sottosegretario all’Istruzione, Gabriele Toccafondi). Molto può fare anche «Garanzia giovani» (che è partita in forte sordina) e serve un legame vero tra scuola e lavoro, come sottolineano anche dal Pd, con l’economista del lavoro Carlo Dell’Aringa. È positivo, poi che il nuovo regime di a-causalità fino a 36 mesi dei rapporti a tempo non abbia “colpito” i contratti a tempo indeterminato che fanno segnare la prima variazione positiva (+140/0) da oltre due anni. L’attenzione ora è alla delega lavoro sul «Jobs act»che riparte a settembre. Serve coraggio, magari togliendo il limite del 20% ai contratti a termine e rendendo più flessibili mansioni e recesso nei contratti a tempo indeterminato. Il lavoro ha bisogno della ripresa economica, non c’è dubbio. Ma anche norme semplici, certe e chiare per le imprese possono aiutare.

L’inganno dei costi bassi. Ecco perché una buona notizia diventa negativa

L’inganno dei costi bassi. Ecco perché una buona notizia diventa negativa

Eugenio Fatigante – Avvenire

Finalmente una buona notizia, Così potrebbe pensare l’ignaro lettore, poco esperto di cose economiche, nel leggere che dopo 55 anni l’Italia è in deflazione (e l’Europa ci si avvicina). Bene, i prezzi scendono, quindi il conto nei negozi e nei supermercati diventa più basso (pur ricordando che si tratta, come sempre, di un indice, quindi di una media, e che ci possono essere anche prodotti i cui prezzi salgono ancora): non capirebbe allora – sempre il nostro ignaro lettore -il perché dei toni tanto preoccupati che si leggono nei commenti davanti a questo fenomeno. 

Cosa c’è che non va nel livello dei prezzi entrato in territorio negativo, e comunque lontano da quel 2% “ideale” che è l’obiettivo fissato dalla Bce di Francoforte? La questione va vista sotto due punti di vista: quello strettamente legato al costo della vita e i suoi riflessi sui conti pubblici. Nel primo campo, come spiegano tutti i manuali di economia la dinamica dei prezzi “versione 2014” diventa negativa perché, in questo caso, non è la conseguenza di un aumento di produttività delle industrie, bensì della bassa domanda di beni e servizi e del calo globale dei consumi. Va poi considerato che, secondo diversi economisti, la presenza di prezzi al ribasso e l’aspettativa di un’ulteriore discesa finiscono per spingere i consumatori, soprattutto per i beni più costosi, a rinviare ancora gli eventuali acquisti nella speranza che il prezzo di quel bene cali ancora. Ma questo è il minimo. L’aspetto più grave è che gli scontrini più bassi (per i consumatori) hanno un rovescio della medaglia; si riducono pure i margini di ricavo di supermercati e negozi e, con essi, quelli delle imprese produttrici. Di conseguenza si hanno meno investimenti, meno posti di lavoro e  salari ridotti. Ecco, allora, che il portafoglio in cui restano più soldi per la spesa, allo stesso tempo si “alleggerisce” – in via generale – per i problemi occupazionali e salariali. Rischiando di innescare una vera spirale deflattiva, che porta a prezzi ancor più bassi. Insomma, il vantaggio della deflazione c’è solo per chi ha l’assoluta certezza del posto di lavoro e anche di un reddito medio-alto.

C’è poi l’altro versante per cui l’inflazione negativa diventa deleteria, anche per la vita delle famiglie: gli effetti sul bilancio dello Stato. Per far comprendere questo “passaggio” basti pensare a 10mila euro chiesti in prestito a un amico, da restituire dopo 2 anni senza interessi. In condizioni normali, con prezzi e salari che salgono, il valore di quei 10mila euro diventa inferiore per chi li rimborsa perché, pur restando sempre 10mila, con quella somma – trascorsi 24 mesi – si possono in realtà comprare meno beni e servizi. Grosso modo lo stesso avviene per gli Stati che hanno un alto debito pubblico (come l’Italia), con la “complicazione” degli interessi. Per questo si afferma che una delle armi per contenere il debito è, oltre al ritorno alla crescita, un “certo livello” d’inflazione, non troppo basso. 

Cerchiamo di farci capire anche qui con un esempio. Ai livelli massimi toccati dai tassi di interesse sui titoli italiani contribuiva anche un alto livello di inflazione: nel pieno della tempesta che ci colpì, nel novembre 201 1, il rendimento del Btp decennale aveva toccato il 7,5%, ma l’inflazione veleggiava al 3% e questo dava una “spinta” anche alle voci in entrata del bilancio. Il rendimento reale (e quindi il costo “vero”del rimborso del debito per lo Stato) era attorno al 4%. Oggi, pur essendo sceso il Brp sotto il 3%, con l’inflazione sottozero il costo resta quasi uguale per il Tesoro. Solo se l’inflazione fosse rimasta attorno al 2%, il costo del servizio del debito si sarebbe tramutato in un reale beneficio per le casse pubbliche (quello “vero”, difatti, si sarebbe ridotto a un 1%). Questo spiega perché la deflazione finisce col penalizzarci ancor più nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica concordati con la Ue. E la cosiddetta “sostenibilità “del debito diventa un problema ancor più grave.

Un cono gelato e poco altro

Un cono gelato e poco altro

Stefano Feltri – Il Fatto Quotidiano

Si capisce che non è il momento migliore per Matteo Renzi, da centravanti di sfondamento deve improvvisarsi mediano, difendere invece che attaccare. E gli costa fatica. “Il carretto passava e quell’uomo gridava gelati, al 21 del mese i nostri soldi erano già finiti”. Lucio Battisti, I giardini di marzo, offre la sintesi della giornata politica. 

CREMA E LIMONE. Cortile interno di Palazzo Chigi: Matteo Renzi scende al termine del Consiglio dei ministri e c’è un gelataio della catena Grom con apposito carretto. Un cono crema e limone per rispondere all’Economist che ha ritratto il premier sulla barca di carta dell’economia europea mentre fissa il vuoto e tiene un gelato in mano. “Il gelato artigianale è buono, non ci offendiamo per le critiche, perché facciamo un lavoro serio”, il premier lecca e offre ai giornalisti di condividere (non succede), abbronzato dopo le vacanze a Forte dei Marmi, ma ancora un po’ appesantito nonostante il tennis pomeridiano. Poi conferenza stampa. 

PASSODOPOPASSO. Ormai ci vuole un dizionario per orientarsi nella propaganda governativa: Renzi presenta una nuova serie di slide, nome in codice “passodopopasso” che servono a indicare la traccia del “programma dei mille giorni” che verrà presentato in un`altra conferenza stampa e servirà a dare sostanza alla promessa di “cambiare verso” all’Italia. Tutto questo si sostanzia in una serie di provvedimenti, qualche decreto e molti disegni di legge delega dai tempi lunghi, testimone sempre – non se ne possono leggere, bisogna affidarsi alla trasmissione orale delle promesse. Che sono, ovviamente, tantissime. Ma per una volta non trasmettono la consueta frenesia renziana, bensì un po’ di affanno. “Tanta roba”, dice l’ex sindaco di Firenze con una delle espressioni più à la page del vocabolario renziano, ma non ci crede neppure lui.

I SOLDI. Quanto vale il decreto sblocca Italia? Non si sa. “Zero”, dice il ministro dell`Economia Pier Carlo Padoan, riferendosi all’impatto netto sulla finanza pubblica. Renzi aveva promesso di “sbloccare” 43 miliardi di euro per le opere pubbliche. A sentire il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi, ce ne sono giusto 3,8. Soldi che già c”erano e che cambiano destinazione. Il premier prova a riassumere: il decreto Sblocca Italia “tenta di risolvere e anticipare una serie di problemi burocratici che si sono creati”. Sbadigli in sala.

LA MINISTRA. Renzi sa che giornali e tg si eccitano per i numeroni e le grandi riforme, questa volta non ne ha da offrire e quindi snocciola elenchi di misure che sembrano più da amministratore di condominio che da presidente del Consiglio. Il colpo doveva essere la riforma della scuola, ma il ministro delI’Istruzione Stefania Giannini ha rubato i titoli dei giornali al premier, anticipandone i contenuti. Risultato? Niente riforma. “Si farà mercoledì”, dice Renzi che si riappropria del dossier e anticipa che “non ci sarà la stabilizzazione dei precari”, ma un misto di posti per chi è in graduatoria combinato con la valutazione della performance. Vedremo. Di giustizia Renzi non vuole parlare troppo: si capisce che la considera una fastidiosa eredita della Seconda repubblica segnata dai guai di Silvio Berlusconi. Al premier piace presentare la riforma della giustizia civile, “dimezzeremo i processi”. Il resto lo lascia al Guardasigilli Andrea Orlando (vedi pezzo qui sotto). 

80 EURO SBIADITI. La deflazione, la recessione, i consumi che continuano a crollare. Anche sull’unica misura importante del suo governo, il bonus Irpef da 80 euro al mese per i redditi bassi, Renzi deve giocare in difesa, parare critiche di aver speso male 6,6 miliardi e di prepararsi a buttarne 10 all’anno con la legge di Stabilità. “Apprezzo chi mi contesta sugli 80 euro perché dimostra d avere un’altra filosofia, un’altra idea dell’Italia. Noi il bonus lo confermeremo”. Traduzione: io taglio le tasse ai dipendenti, mentre gli economisti, Forza Italia e la Confindustria vorrebbero usare quei soldi a favore delle imprese (il Pil salirebbe, ma non i voti al Pd).

MOGHERINI FOREVER. Renzi elenca la lunga teoria di vertici domestici e internazionali che lo attendono. Ma soltanto uno gli interessa davvero: quello di oggi a Bruxelles, il Consiglio europeo che ratificherà la nomina di Federica Mogherini, oggi ministro degli Esteri, ad alto rappresentante per la politica estera dell’Unione. Il premier si è impuntato, si è giocato la reputazione su una nomina di prestigio e – nonostante una vasta opposizione di giornali e governi – dovrebbe vincere. Questa notte, quando arriverà in conferenza stampa a Bruxelles, Renzi confida di tornare ai toni trionfalistici che gli sono più consoni.

Più che il lavoro, a costarci troppo cari sono il denaro e la finanza sregolata

Più che il lavoro, a costarci troppo cari sono il denaro e la finanza sregolata

Paolo Cirino Pomicino – Il Foglio

Al direttore – La riunione dei banchieri centrali tenutasi alcuni giorni fa nel Wyoming ha avuto come tema centrale del dibattito il mercato del lavoro, un tema che affligge da anni le democrazie occidentali che presentano un tasso di crescita modesto o, come nel caso italiano, negativo, dopo oltre cinque anni di recessione. E sinora la ricetta messa in campo dagli Usa, dal Giappone e dalla stessa Gran Bretagna e sempre la stessa, una politica monetaria e di bilancio espansiva, con debiti pubblici crescenti. E’ davvero questa l’unica ricetta? Noi crediamo di no anche se per invertire un ciclo economico negativo c’e bisogno in prima battuta di politiche monetarie accomodanti e di politiche di bilancio espansive che mettano al centro dell’attenzione una diversa qualità della spesa pubblica orientata, prima ancora che alla sua riduzione, alla crescita per concorrere a una politica anti ciclica. Bene ha fatto Mario Draghi nel ribadire che la politica monetaria non può sostituire una politica economica fatta di politiche di bilancio, di politiche sociali, di formazione, di ricerca e di innovazione, Avremmo gradito, in verità, anche un riferimento più preciso dall’insieme dei governatori delle Banche centrali sulla crisi che ha investito in particolare l’occidente. Una crisi che, a nostro giudizio, e di domanda e non di offerta tant’è che il nuovo spettro e la deflazione mentre se fosse una crisi dell“offerta avremmo visto crescere i prezzi. Sottolineiamo questo aspetto perché un’analisi non precisa o non completa rischia di portare a soluzioni parziali o addirittura incoerenti, Non e un caso, infatti, che i suggerimenti emersi dalla riunione dei banchieri centrali siano in una unica direzione, ridurre il costo del lavoro e contrarre gli stessi salari per recuperare competitività all’impresa, unico soggetto, pubblico o privato che sia, capace di produrre ricchezza, E questo sarebbe un errore. Non perché non sia necessario ridurre il costo del lavoro ma perché la competitività di una impresa ha anche altre componenti altrettanto importanti come, ad esempio, la finanza intesa nel suo doppio versante, patrimoniale e del fabbisogno di credito. Una questione, questa, del tutto assente non solo nel dibattito ultimo tenuto a Jackson Hole nel Wyoming, ma anche e principalmente nei comportamenti delle Banche centrali e, per quanto riguarda l’Europa, nella messa a punto di Basilea 3 che aumenta in maniera notevole per le banche l”onere dei propri impieghi e quindi, a cascata, gli oneri finanziari per le imprese. Sembra quasi che l*unica preoccupazione debba essere la salvaguardia del denaro delle banche e non dell’altra componente dell’impresa che e il lavoro dell’imprenditore e delle s ue maestranze. Tanto per f’are un esempio di casa nostra, la Banca d’Italia da per il trimestre luglio-settembre 2014, per affidamenti creditizi superiori a 5 mila euro, una forchetta di tassi applicabili tra il 10,20 e il 16,75. Un siffatto onere e o non è un elemento che pesa sulla competitività delle imprese almeno quanto il costo del lavoro? E per non indurre in errore chi ci legge, anche in paesi diversi dal nostro che hanno, cioè, tassi più bassi, il costo del denaro è un elemento non secondario sulla competitività delle aziende. Questo aspetto non può che rientrare nella competenza delle banche centrali ma anche in quella delle imprese bancarie che devono poter ridurre il costo della propria struttura per alleggerire il peso di quel pilastro degli oneri finanziari che opprime la competitività delle imprese alla stessa maniera di come il carico tributario pesa sulle banche e sui loro equilibri di bilancio, essendo anche esse imprese. Come si vede e una filiera il cui anello terminale resta l’impresa e la sua competitività.Ma c’e di più. Da vent’anni a questa parte la finanza ha via via dismesso il suo ruolo di infrastruttura al servizio dell”economia reale per diventare una industria a se stante in cui la materia prima son quattrini e il prodotto son più quattrini, La dimostrazione di questa mutazione genetica sta nella vita delle stesse imprese, in particolare in quelle medio-grandi, il cui fatturato e per almeno un quinto legato ad attività finanziarie e non ad attività di produzione o di servizi. Un solo dato: nel triennio 2009-2011 gli impieghi di natura finanziaria (acquisizioni, dividendi e liquidità )delle multinazionali americane, europee e giapponesi sono stati 1,5 volte quelli industriali. Questa e una grave distorsione del capitalismo occidentale perché investe in pieno la crescita del benessere fondato sulla diffusione di prodotti e di servizi che elevano il tono di vita complessivo delle società moderne. Una modernità che non prevede una utopica uguaglianza nel tono di vita ma che non può a lungo sostenere una crescita esponenziale di disuguaglianze, come quelle che abbiamo visto in questi venti anni durante i quali larghe masse di quello che una volta si chiamava ceto medio produttivo e professionale si sono impoverite mentre una sempre più stretta élite finanziaria ha accresciuto in maniera notevole le proprie ricchezze. Questa mutazione genetica del capitalismo occidentale arriva da lontano, dalla deregolamentazione dei mercati finanziari che con i suoi prodotti innovativi hanno attratto sempre più risorse sottraendole alla economia reale e, per essa, alla competitività delle imprese per quanto abbiamo sinora detto, creando, inoltre, una economia di carta sovrastrutturale che, se non fermata a tempo, farà scoppiare una bolla monetaria dagli effetti devastanti. Quando invochiamo una diversa regolamentazione dei mercati finanziari non pensiamo a vecchie tentazioni dirigiste ma a una diversa convenienza tra investimenti finanziari e quelli nell’economia reale, privilegiando questi ultimi. Il capitalismo finanziario, infatti, rischia di ammazzare quella economia di mercato che per crescere e consolidarsi ha bisogno di una armonia di tutte le proprie componenti (della incidenza della componente energetica sulla competitività parleremo in altra occasione), e senza la quale diventa difficile difendere anche quel sistema democratico che l’occidente si è dato nel secolo scorso. Come si vede in politica come in economia tutto si tiene ed è forse giunto il tempo che la politica torni a discutere di economia, rompendo quella esclusività di un dibattito solo tra economisti e banchieri centrali. 

Renzi, l’economia e la storia della costruzione dei volenterosi

Renzi, l’economia e la storia della costruzione dei volenterosi

Mario Sechi – Il Foglio

Splende il Sole, arriva l’alluvione. E’ venerdì 29 agosto, alle dieci in punto l’Istat apre la diga per far defluire gli ultimi dati sull’economia italiana. E’ il gong che segnala l’apertura dell’Armageddon contabile. Mezz’ora dopo il botto del cannone del Gianicolo (alle 12 in punto, sparo a salve dell’obice progettato nel 1914 dalla Skoda per l’Imperial Regio Esercito Austro-Ungarico dal Palazzo del Quirinale) decolla un comunicato: “Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha ricevuto questa mattina al Quirinale il ministro dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan”. Routine? Sì e no. Sì perché è imminente il Consiglio dei ministri; no perché pochi minuti dopo (ore 12 e 55) compare un altro dispaccio che fa lampeggiare le spie del sub-sonar: “Il Presidente Napolitano ha avuto con il Ministro dell’Economia uno scambio di vedute sulle prossime occasioni di chiarimento e di intesa a livello europeo (ad esempio in occasione della prossima seduta dell’Ecofin) per il rilancio della crescita dovunque in Europa. Nella ricognizione si sono considerate attentamente le importanti indicazioni contenute nel discorso pronunciato dal Presidente della Bce, Mario Draghi, a Jackson Hole”.Letto bene? Ecofin. Crescita. Draghi. Politica. Problema. Soluzione. E’ il segno che la situazione italiana si sta deteriorando? Sì, ma il nocciolo della faccenda è l’ormai religiosa fiducia riposta in Draghi, quello che nella copertina ice-cream dell’Economist tira via l’acqua a secchiate dalla barca europea. Basterà? Vedremo. Sul taccuino restano gli scampoli di un pazzo agosto, con tratti d’imprudenza psichedelica: Renzi mercoledì 27 agosto ci casca con il tweet del mattino, ore 6 e 20: “Non male questo fine settimana: giustizia, sblocca Italia, nomine europee, poi scuola e #millegiorni #italiariparte #ciaovacanze”’: Acme anticipatorio deluso quando la scuola sparisce da Twitter il venerdi alle ore 6 e 52: “Oggi giustizia e sblocca Italia. Domani vertice europeo. Lunedì la presentazione ufficiale #millegiorni con obiettivi e sito #italiariparte”. Missing in action, come il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini. 

Sembra tutto più semplice sabato 23 agosto quando Renzi sventaglia al settimanale Tempi una raffica di ultimatum: “E’ l’Italia che aiuta l’Europa, non l’Europa che aiuta noi. Togliamo il Paese ai soliti che vanno nei salotti buoni. All’Italia serve lo spirito del maratoneta”. Gajardo. E poi? La settimana è andata avanti con altro passo e spasso. Lunedì (25 agosto) Renzi inaugura l’hashtag #ciaovacanze con tanto di foto di Palazzo Chigi all’alba: “Buon lavoro a chi torna oggi in ufficio #ciaovacanze“ e il ministro dell’Economia Padoan si presenta alle 17 per conferire con il premier. Alle 18 e 26 esce da Piazza Colonna e si capisce che non c’e un euro da spendere o quasi. E poi ci sono le crisi internazionali e Renzi all’ora dei tg parla con il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, chiacchierata di modesta entità che spazia “dall’Africa al Medio Oriente”, così informano i bollettini d’agenzia ai quali ormai manca solo un tocco poetico, un sobrio “Dall’Alpi alle Piramidi/dal Manzanarre al Reno”. Martedì 26 agosto alle 10 in punto il cambio della bicicletta governativa s’inceppa nella lingua di Francesco Paolo Sisto, deputato di Forza Italia che dà una martellata sulla prescrizione: “Il processo deve avere una durata ragionevole. Una paralisi della prescrizione al primo grado comporterebbe in Italia un processo di secondo grado e di Cassazione infinito”. Non ha tutti i torti, chi tocca i fili della giustizia resta fulminato. In fase post-prandiale sul Moleskine resta impresso lo scatto d’orgoglio del militante. Festa dell’Unità, lettera del segretario Renzi: “Le priorità sono chiare. Non accettiamo lezioni”. Sempre tosto. Ma alle 17 e 26 una velina di Palazzo Chigi fa suonare i sistemi d’allarme: “Le bozze dello Sblocca-Italia che stanno circolando sono scadute”. Ultima pagina del taccuino, nota a margine: “Yogurt legislativo”. Sto per chiudere il pezzo, è venerdì pomeriggio, il Consiglio dei ministri è riunito, sul telefonino lampeggia un tweet che mi ha inviato il banchiere d’affari Guido Roberto Vitale: “Urge sostenere Renzi nella sua lotta per le riforme”. Siamo alla coalizione dei volenterosi.

Due idee fiscali per il governo (a costo zero) per mobilitare risorse private

Due idee fiscali per il governo (a costo zero) per mobilitare risorse private

Andrea Tavecchio – Il Foglio

Negli ultimi tempi il tono della discussione sulla crisi italiana, che dura da sette lunghissimi anni, ha preso una direzione quasi unanime. Non è più sufficiente l’ordinaria amministrazione ci vuole una terapia d’urto. Le soluzioni proposte sono tante. Accanto a ricette più classiche – ma troppe volte rimandate – come una riduzione significativa delle imposte su chi produce reddito accompagnata da una seria spending review e da una modernizzazione dei contratti di lavoro sulla scia delle proposte del senatore Ichino, si comincia a leggere, finalmente, sia delle necessità di intervenire – con modalità simili a quanto già avvenuto in altri paesi Europei – sulle sofferenze bancarie sia di mobilitare centinaia di miliardi di euro facendo leva sul patrimonio pubblico. Tutte ipotesi da realizzare al più presto, senza ulteriori indugi anche perché queste manovre, come ricordato anche dal ministro Padoan, ci mettono almeno diciotto mesi per dare dei frutti visibili. Non c’è tempo da perdere. Quello di cui si discute ancora poco è di come mobilitare le risorse private. In Italia bisogna cambiare marcia nel rapporto tra fisco e contribuente, l’obiettivo deve essere far pagare le tasse, ma senza bloccare i consumi e gli investimenti.

Qui di seguito due proposte. Il governo si impegni perché l’ordinamento tributario italiano si doti di una norma, di rango costituzionale, che riconosca il principio della certezza dei rapporti giuridici in materia fiscale, rafforzando i principi di irretroattività e di affidamento previsti dallo Statuto del contribuente. La seconda proposta è modificare il modello Unico delle persone fisiche – inserendo nella dichiarazione dei redditi anche la situazione patrimoniale – come accade in molti altri Paesi occidentali. Dalla dichiarazione dei redditi si deve poter confrontare, anno per anno, il reddito netto dichiarato con le dotazioni patrimoniali esistenti. In questo contesto, di maggiore certezza nel rapporto fisco-contribuente e con una dichiarazione dei redditi finalmente moderna il Governo potrebbe impegnarsi, per chi pagasse un contributo straordinario, ad accorciare i termini di accertamento sulle persone fisiche. Sarebbe una riforma fiscale non depressiva, anzi, farebbe gettito e modernizzerebbe – in modo duraturo – il rapporto tra Fisco e Contribuente.