davide giacalone

Mala scuola

Mala scuola

Davide Giacalone – Libero

L’ultimo proclama recita: d’ora in poi si assumerà solo per concorso, nella scuola italiana. Per la verità quel “ora” data dal 1948, perché tale modalità è scolpita nell’articolo 97 della Costituzione, «salvo i casi previsti dalla legge». E quei casi hanno prodotto assunzioni di massa. È finita? Neanche per idea, perché si dice che da ora in poi ci vorrà il concorso, ma prima di “ora” c’è l’adesso e la prossima infornata di insegnanti sarà ancora ope legis, con apposito decreto legge il prossimo Consiglio dei ministri. Quanti insegnanti assumeranno, senza concorso? Neanche questo si sa, perché il numero varia da 120 a 148mila, ma Renzi ha detto che si attingerà a tutte le graduatorie esistenti, in cui si trovano al momento circa 500 mila insegnanti. Quando si sarà deglutito questo enorme rospo, ammesso che i ricorsi non provochino il rigurgito, non ci saranno altri posti, altre cattedre da assegnare. Per anni. A meno che non si voglia far crescere la spesa pubblica fino alle stelle, con conseguente, siderale, pressione fiscale. “Ora”, quindi, nel vocabolario della politica, significa: poi, un giorno, forse.

Con questo provvedimento si metterà fine alla precarietà e alle supplenze, dicono dal governo. No, procedendo in questo modo si rende sempre più precaria la formazione scolastica, cui suppliranno (con viaggi di studio e integrazioni private) solo le famiglie che possono permetterselo. La politica scolastica concepita come politica per chi nella scuola lavora, anziché per chi nella scuola studia, produce discriminazione a favore dei tutelati e a sfavore dei meritevoli. È una politica che segna il trionfo della coalizione fra somari, impiegati senza voglia né vocazione all’insegnamento e famiglie che alla scuola chiedono promozioni e pezzi di carta. La grande alleanza antimeritocratica. Con scorno di insegnanti e studenti interessati al sapere.

Come si potrebbe rimettere la scuola sui sani binari dell’apprendimento e della selezione? Tre cose, giusto per cominciare, e lasciando da parte la vera rivoluzione: l’abolizione del valore legale del titolo di studio.

1 . Standardizzare le valutazioni e monitorare in continuazione non solo i singoli istituti e studenti, ma anche i risultati che ottengono dopo essere usciti da scuola. Continuiamo a considerare paragonabili numeri, come il voto di diploma o quello di laurea, che paragonabili non sono. Da una parte si va larghi, dall’altra si gioca a far i severi, nell’insieme si ottengono numeri privi di senso comune. Il che vale anche per la valutazione dei docenti che, affidata ai dirigenti scolastici, risentirà di dinamiche solo marginalmente culturali o professionali. La standardizzazione delle valutazioni è pratica corrente in ogni processo produttivo che superi il livello degli scarpari. La si adotti anche a scuola, nel tempo sarà una preziosissima banca dati.

2. Soldi e carriere vadano dove le cose funzionano meglio. Un docente che ottiene risultati ragguardevoli (misurando i suoi alunni nel tempo) merita riconoscimenti economici e di carriera. Lo stesso per una scuola intera. Dove i risultati sono troppo sotto la media è segno che si deve mandare a casa insegnanti e dirigenti. Siccome il prossimo passo consisterà nell’assumerli in blocco, senza minimamente valutarli, si sta andando in direzione opposta.

3. Adottare massicciamente il digitale, anche per ridurre lo spreco di denaro, a carico delle famiglie, che comporta l’acquisto di testi scolastici talora sconfinanti nel ridicolo. Gli studenti sono ovunque digitalizzati, è la scuola ad essere rimasta analogica. Basta alibi pauperistici, grazie ai quali le Regioni stanno buttando valangate di quattrini nell’acquisto di ferraglia inutile, con gran goduria (riconoscente) dei venditori privati.

Non è tutto, non basta, ci vuole di piu. Lo so. Ma sarebbero provvedimenti che dimostrerebbero non solo la reale volontà di cambiare, ma anche di sapere come si può farlo. Richiederanno tempo, per produrre frutti, ma si sarà ben seminato. Qui, invece, si dice “ora” per significare “un di”, nel frattempo lasciando che la scuola sia redistributrice di spesa pubblica. Una fucina di mantenuti che è sempre meno possibile mantenere.

RilottizzeRai

RilottizzeRai

Davide Giacalone – Libero

Anziché ascoltare i consiglieri si ascoltino gli elettori. Se Matteo Renzi sta cercando idee per la Rai, un suggerimento lo avrei: dia retta agli italiani. E’ più facile di quel che si crede. Pare sia intenzionato a liberare la Rai dalla lottizzazione e dalle presenze, oltre tutto sempre più dequalificate, dei partiti politici. Bravissimo. Applaudo. Ma come? Semplice: l’11 giugno del 1995, or sono vent’anni, gli italiani furono chiamati a votare, fra gli altri, tre referendum. Due erano proposti dal Pds, il Pd di allora, e chiedevano di cancellare la legge esistente sia per quel che riguardava le concentrazioni che per la raccolta pubblicitaria. Gli italiani risposero di no, bocciando l’iniziativa. Uno, però, proposto dai radicali, proponeva di cancellare la legge che obbligava a mantenere pubblica la Rai, aprendo la via alla privatizzazione. Gli italiani votarono a favore (57% dei partecipanti e 54,90% dei consensi). Quella è la soluzione. Ci si libererebbe anche del canone, e scusate se è poco.

Non lo è, invece, come si dice il governo voglia fare, trasferire al proprietà a una fondazione, cui spetterebbe anche il compito di nominare i consiglieri d’amministrazione. Qualcuno s’incarichi di ricordare ai più giovani che la proprietà della Rai è già stata trasferita, ma finché resta in mani pubbliche è ovvio che la nomina dei vertici resta politica. Si può cancellare la lottizzazione, ovvero la spartizione, facendo in modo che prenda tutto uno. Ma in questo modo non vengono meno le mani politiche sulla Rai, semplicemente la mano diventa una. Che è peggio, non meglio.

Si dirà: ma la fondazione sarebbe di alto valore culturale e indipendente. In quel caso va messo l’antitrust alle scemenze, perché non ho mai visto nascere nulla con l’intento che sia di livello triviale e con vocazione alla sudditanza. Ma lì finisce. Se non è zuppa è pan bagnato. Allora, come si può procedere? Intanto evitando di discutere come se fossimo nello scorso secolo, analogico. Con il digitale tutte le imprese televisive si sono dotate di numerosi canali (altro che tre!). La soglia d’accesso a quel mercato s’è abbassata al punto che anche chi non era editore televisivo (le radio e i giornali, ad esempio) lo è diventato. Ciò comporta che non c’è alcun pericolo venga meno il pluralismo, a presidiare il quale bastano le leggi regolanti il mercato. Ciò non garantisce certo il venir meno del conformismo, ma neanche il cosiddetto (e inesistente) “servizio pubblico” ne è capace. Anzi: ne è uno dei più fantastici contenitori.

La Rai è ricca di impianti e sistemi produttivi. Si vendano, all’asta e prevenendo le concentrazioni. Ci si fanno bei soldi (da destinare al calo del debito) e si rende migliore il mercato. Segnalo, però, che con la quotazione di RaiWay il governo Renzi ha fatto il contrario, finanziando la lottizzazione. Il patrimonio culturale, che è degli italiani, non consiste nella produzione Rai, ma nel suo magazzino, nella sua storia, che è storia d’Italia. Se ne apra l’utilizzo a chi lo chiede. Naturalmente a pagamento.

Può, un Paese, fare a meno del servizio pubblico, esercitato da una società pubblica? Sì, nel mondo digitale può. Eccome. Perché il video non sia precluso alle minoranze basterà regolare quegli accessi e obbligare le emittenti a rendere disponibili gli spazi. Senza remunerazione specifica, perché si tratterebbe di un obbligo derivante da un titolo pubblico (l’autorizzazione a trasmettere). Senza canone, quindi. E senza l’idea bislacca di metterlo nella bolletta elettrica, o di dimezzarlo per poi raddoppiarne o triplicarne i pagamenti dovuti (tutta roma anticipata e poi ritirata dal governo). Il consiglio d’amministrazione in carica, di cui non si ricorda un solo atto degno di nota, scade ad aprile. Se si volesse intervenire sul meccanismo di rinnovo lo si dovrebbe fare per decreto legge. Obbrobrio. Orrido precedente. Al punto che Palazzo Chigi ha smentito d’averlo in mente. E ci mancava solo quello. Più facile e onesto avviare le procedure di vendita, considerando ininfluente chi amministrerà solo per pochi mesi.

Ha detto Renzi: “Vogliamo fare della televisione di Stato la più innovativa azienda di produzione culturale”. Quella era la Rai di Ettore Bernabei, governante Amintore Fanfani. Non starò a ricordare che era la sinistra a ritenerla uno sfregio alla libertà e alla democrazia, mi limiterò ad osservare che cercare in quel passato l’innovazione significa essersi dimenticati con quale sistema si ovviò al monocolore televisivo, a gran richiesta e con il plauso della sinistra: con la lottizzazione.

Prorogando il rinvio

Prorogando il rinvio

Davide Giacalone – Libero

Correre si corre, ma a prorogare e posticipare. Nelle stesse ore in cui l’attuazione della delega fiscale, approvata dal Parlamento un anno fa, veniva ulteriormente posticipata, al punto che della parte più sostanziosa se ne parlerà entro settembre, la Camera votava la fiducia al governo, posta sulla conversione in legge del decreto Milleproroghe. Un mostro che, oramai, accomuna tutti i governi e si ritiene normale esista. Quel decreto, però, scade fra dieci giorni, quindi ora si deve correre al Senato, e il cielo non voglia che non si proroghino i mille ritardi legislativi e governativi. Che non sono figli solo di svogliatezza e complicità, dato che molti devono i natali all’incapacità.

Pensate alla faccenda delle frequenze televisive, che qui abbiamo già raccontato: mentre giornali e pensatori venivano mandati fuori a giocare, discutendo di sconti e regali a questo o a quello, accadeva prima che con un decreto legge si smentisse un decreto legge, togliendo all’Autorità delle comunicazioni un compito che le si era assegnato, poi che si scoprisse non solo lo sgorbio che ne nasceva (come qui avvertito), ma che si pretendeva di far pagare l’affitto a quelli che non erano più gli affittuari (alle emittenti televisive anziché agli esercenti le reti), in una gara a chi commette l’errore più marchiano. Sicché s’è risolta la faccenda prorogando il passato, che almeno un gettito lo assicurava. E di storie come queste “a mille ce n’è nel mio cuore da narrar”, come avvertivano melodiose le “fiabe sonore” della nostra infanzia. Appunto: a mille-proroghe.

Ieri s’è detto, al Consiglio dei ministri, che i tre decreti legislativi in materia fiscale (catasto, fatturazione elettronica e internazionalizzazione delle imprese), non potevano essere discussi perché il ministro dell’economia era assente, impegnato con l’Eurogruppo. Se ne riparlerà fra una decina di giorni. Spero, almeno a testimonianza che l’intelligenza è sopravvissuta, che a qualcuno non sia sfuggita la perfida ironia: si potevano discutere i decreti fiscali alla presenza del ministro competente, ma tenuto all’oscuro di quel che contenevano (il celebre 3% quale esimente per l’avvio del procedimento penale in caso di evasione), ma non si possono discutere con lui assente, benché concordati. Se fosse vera una simile versione si sarebbe potuto procedere diversamente: i decreti venivano posti in discussione e varati, ove non vi fossero state obiezioni; mentre se ne sarebbe rinviata la discussione ove fossero sorti dei dubbi o dei contrasti. Il che risulta piuttosto difficile, visto che la volta scorsa manco s’accorsero di cosa c’era scritto, finché non fu fatto notare dai primi lettori del testo, ovviamente non componenti il Consiglio dei ministri.

Per il governo che corre e s’affretta, la formula qui proposta sarebbe stata più consona. Invece no, hanno rinviato. Come se il varo di un decreto fosse il parto (comunque non rinviabile) cui il futuro babbo intende assistere. La verità è più prosaica: come dimostra il pasticcio dell’imposta sul deposito in banca del denaro contante, che c’era eccome nei documenti preparatori, questi decreti sono il frutto d’insalsicciamenti in cui ciascuno porta il proprio ingrediente, scoprendosi poi che gli uni supponevano fosse un cotechino e gli altri un salame di cioccolata. Un tempo esisteva la regia di Palazzo Chigi, per le stesure definitive. Ora si deve rinviare, per evitare altri scivoloni. Tutto qui.

Peccato che se t’inventi il nome di “certezza del diritto”, per giunta fiscale, e poi metti in scena solo la certezza del rinvio, l’impressione che ingeneri è che il diritto sia nebbioso e incerto, consegnando tutti in balia di toghe che s’esprimono negli anni. Il che nuoce gravemente alla salute produttiva. Oltre a scoraggiare chi voglia investire. Per sfortunata coincidenza, inoltre, tutto questo accade assieme ai supplementari della partita greca. La sostanza è definita, l’apparenza va sistemata. Non era un giallo di Christie, Doyle o Simenon, in cui si deve scoprire come va a finire e chi è l’assassino, semmai una trama alla Levison e Link (il tenente Colombo): sai già chi è l’assassino, lo spettacolo consiste nel vedere come ci si arriva. Ecco, ad Atene, dopo avere riempito i giornali di moda maschile e fatto scrivere fiumi di amenità, hanno scoperto l’ovvio: se rinvii sempre le cose da farsi, o addirittura le neghi, il tempo che perdi non passa in cavalleria, sei tu che passi alla cassa per pagarlo.

Polemica Padoan-Bce, l’Italia non sa accettare la realtà

Polemica Padoan-Bce, l’Italia non sa accettare la realtà

Davide Giacalone – Libero

Dalle zampogne alle rampogne. Dai dati Ocse ai rilievi della Bce. In ventiquattro ore la musica passa da «allegro immotivato» a «mesto con brivido». Questo, però, solo nella bocca dei propagandisti e nelle pagine degli approssimativi, perché qui avevamo osservato la realtà ed avevamo visto giusto. Ieri ancora suonavano le trombe per la correzione delle previsioni Ocse. Che lette attentamente, senza lasciarsi distrarre dal chiasso strumentale, erano preoccupanti.

Nell’autunno scorso l’Ocse prevedeva una crescita italiana, per il 2015, di appena lo 0,2%. Ora corregge quella previsione al rialzo, portandola allo 0,6. Una buona cosa? Certamente, ma solo se si commette l’imperdonabile errore di misurarsi con sé stessi, in una sorta di autoerotismo statistico.

Gli stessi dati Ocse ci dicono che la crescita dell’eurozona è prevista all’1,4%. Quindi la nostra è meno della metà. Può festeggiare solo chi pensa diingannare gli altri e nel frattempo si prende in giro da solo. Lo 0,6 era la previsione fatta dalla Commissione europea a novembre, sempre per l’Italia, quando la stessa fonte immaginava una crescita dell’eurozona pari all’1%. Eravamo a poco più della metà. A gennaio hanno rivisto le previsioni: eurozona +1,3; Italia +0,6. Inchiodati e ricollocati a meno della metà. L’Ocse ha confermato questa prospettiva, che è allarmante, non rassicurante. Quando l’alta marea, indotta dall’aumento di liquidità praticato dalla Banca centrale europea, rilluirà, quando l’espansionismo monetario non potrà essere spinto oltre, alcuni avranno preso il largo e dispiegato le vele, mentre noi saremo ancora a ridosso degli scogli. Per di più con la ciurma che discute di riforme costituzionali.

Ieri è arrivato il bollettino della Banca centrale europea, che conferma queste nostre riflessioni. Per niente fenomenali, semmai piuttosto banali e di buon senso. Merce che scarseggia, nel gran bazar della propaganda. Dicono alla Bce: la politica di bilancio, in Italia, non sta rispettando il necessario programma di rientro dal debito. E va di lusso, perché se non avessimo accettato le correzioni alla legge di stabilità e non fosse partita la politica espansiva europea (e se i greci non facessero intatti), a questo punto ci troveremmo con la trimestrale di cassa che certifica il disallineamento, provocando la reazione altrui e innescando il meccanismo delle ulteriori (dolorose) correzioni.

Siamo solo agli scappellotti, e va bene. Risponde il nostro ministro dell’Economia: lavoriamo sul debito operando con le riforme. In serata tramite comunicato, il Mef addirittura specifica che il bollettino contiene imprecisioni. La politica di bilancio non deve dire grazie solo al risparmio sui tassi d’interesse. Una risposta poco cortese e soprattutto affrettata, perché il secondo rilievo della Bce è chiaro: sulle riforme l’Italia è in ritardo e il Paese deve portarne a termine altre, se si vogliono usare per la crescita. Si rammenti che la Bce, anche perché unica protagonista attiva di rango europeo, ha una visione positiva dei dati, tanto è vero che colloca la crescita dell’Eurozona, per l’anno in corso, all’1,5. Più dell’Ocse e della Commissione europea. A Francoforte non c’è alcuna propensione al pessimismo. Ma i numeri sono numeri e i fatti sono fatti. Contestare i numeri appare come 1’ultimo tentativo di negare la realtà.

Neanche qui si ha alcuna propensione all’umore funesto. Se guardiamo la curva del prodotto interno lordo, da anni in caduta, e la accostiamo a quella delle esportazioni, da anni in crescita, vediamo ad occhio nudo la forza indomita del nostro sistema produttivo. Gli splendidi risultati che dobbiamo a imprese e lavoratori. Ma quello è solo un pezzo d’Italia. Sulle cui spalle, per giunta, carichiamo il peso di una spesa pubblica improdutüva e galoppante. Non è la realta industriale italiana (pur molto provata) a provocare il pessimismo, è la superba cretineria di usare gli indicatori economici per misurare il proprio presente istantaneo con il proprio passato prossimo. Esercizio da scemi. O da imbroglioni.

Tassa sui versamenti in contanti, ndo cojo cojo

Tassa sui versamenti in contanti, ndo cojo cojo

Davide Giacalone – Libero

Provando e riprovando è una cosa, ndo cojo cojo un’altra. Il primo è il motto dell’Accademia del cimento, ispirato al metodo galileiano, il secondo è la cieca e disperata speranza di azzeccarne una. Dopo il dietrofront, indietro march, sul fronte libico, arriva la retromarcia su quello fiscale. Il Sole 24 Ore (mica un pettegolezzo) aveva anticipato uno dei provvedimenti che il prossimo Consiglio dei ministri avrebbe varato: imposta di bollo progressiva per chi versa in banca più di 200 euro al giorno. Silenzio nella foresta. La mattina, a chi chiamava allarmato, dal governo fanno sapere: è solo una cosa allo sttrdio. Poi, nel pomeriggo, una nota che smentisce l’ipotesi. Potremmo chiuderla qui, ma rimane la volontà di ridurre l’uso del denaro contante, che può anche andare bene, a determinate condizioni, ma fuori da quelle è la trappola nella quale erano caduti. Quindi meglio metterci un cartello.

Prendete lavoratori come i tabaccai, i giornalai, i tassisti e tanti altri: è normale che incassino più di 200 euro, in contante, ogni giorno, ed è normale che li versino in banca. Devono essere puniti, per questo? L’incasso, inoltre, non è mica il guadagno, ad esempio: la gran parte dei soldi che un tabaccaio incassa li deve poi girare allo Stato, visto che vende beni sottoposti al suo monopolio; per pagare lo Stato deve fare un’operazione bancaria; per farla deve avere i soldi sul conto. Lo Stato che incassa è lo stesso che pretende di avere un’imposta di bollo superiore perché quel delinquente versa i soldi in banca? E c’è anche l’orrida beffa: scorrendo le cronache si trovano rapine, subite dai tabaccai, in tutta Italia. Come anche peri benzinai. Tali rapine sono incentivate dal fatto che queste piccole imprese hanno un giro d’affari magari non elevato, ma quasi tutto in contante. Quando un tabaccaio viene rapinato, sperando che salvi la pelle, deve poi comunque pagare allo Stato i soldi che s’è fatto derubare, quale corrispettivo di beni già venduti. Quindi: il tabaccaio porta sulle spalle il rischio legato ai soldi che incassa e lo Stato potrebbe anche chiedergli di pagare di più quando li versa in banca.

Non basta che la cosa sia smentita, è necessario rendersi conto che è culturalmente e logicamente abominevole. Una cosa è colpire l’evasione fiscale, altra demonizzare e/o tassare l’uso di banconote che, fino a prova contraria, sono prodotte e tutelate dallo Stato, dalla banca centrale nazionale e da quella europea. L’imposta su cui lavoravano avrebbe colpito le persone oneste, proprio perché tali. Più assurdo di cosi è difficile immaginare. Pensare di colpire l’evasione fiscale colpendo il contante è come supporre di frenare la violenza carnale punendo il sesso: nel migliore dei casi ne viene fuori una società di pervertiti. Che è l’inferno fiscale italiano.

Il tutto senza contare che l’economia più forte d’Europa, nonché quella che ha reagito meglio alla crisi, ovvero la Germania, è anche la sola a non avere limite all’uso del contante. Che ci sia un nesso? Si vuole disincentivare il contante e incentivare la moneta elettronica? Non è questa la strada. Semmai si renda più conveniente la seconda, mentre oggi è vero l’opposto. Sia per il cliente. Sia per il negoziante, che deve pagare una percentuale per avere, in ritardo, i soldi relativi a una prestazione che ha reso o a una merce che ha venduto. Per forza che quando si vanno a pagare piccoli acquisti, specie se il guadagno è percentualmente molto basso, all’apparire della carta di credito vedi occhi imploranti: non è che siano tutti evasori, è che se paghi il pizzo su un margine microscopico non si capisce perché ti alzi al mattino e tiri su la saracinesca. Non dimenticando, infine, che se lo Stato vuole incentivare la moneta elettronica (giusta e bella cosa) dovrebbe cominciare a rendere obbligatorio accettarla, in tutte le sue forme consentite, ovunque abbia sportelli propri per pagamenti, riscossioni e transazioni. Invece non è così, sicché predica claudicando e ruzzola praticando.

Per ora il tentativo è fallito. Bene. Ma una roba simile non va messa nel congelatore, come l’altra inversione di marcia, relativa alla delega fiscale, per poterci pensare qualche mese. Meglio buttarla direttamente via. Fra rifiuti non riciclabili, così si rispetta anche la raccolta differenziata.

Toga toga toga

Toga toga toga

Davide Giacalone – Libero

Al grido di Toga Toga Toga l’Italia si lancia verso il ridicolo e il ribaltamento di ogni divisione e gerarchia dei poteri. La differenza, rispetto al Tora Tora Tora, con cui i giapponesi comunicarono il successo dell’attacco contro gli americani è che quello fu a sorpresa, mentre qui non si sorprende nessuno.

Il Tribunale amministrativo regionale di Palermo ferma i lavori per la realizzazione, oramai quasi completata, del Muos, sistema di comunicazioni satellitari. Lavori seguiti dalla Marina militare Usa, naturalmente in accordo con il governo italiano. Già a suo tempo fermati dalla Regione Sicilia, dopo che al suo vertice era arrivato il megafonato esponente anti-Muos, Rosario Crocetta. Poi riavviati per ferma volontà del nostro ministero della difesa. Nelle stesse ore i lavori per il Tap (Trans adriatic pipeline), rete necessaria all’approvvigionamento energetico, che erano stati da poco sbloccati dal Tar del Lazio, finiscono oggetto d’inchiesta penale, a cura della procura della Repubblica di Roma, che indaga sulle procedure seguite dal ministero dell’ambiente e che avevano portato al rilascio della Via (valutazione impatto ambientale). Può essere questione militare o economica, riguardare la sicurezza o l’energia, coinvolgere alleati o partners, smentire autorità locali o nazionali, ma tutto finisce in toga.

Se ne potrebbe dedurre, in un eccesso d’ottimismo, che in Italia si largheggia nel tutelare la certezza del diritto. È vero il contrario: si è generosi nell’ingigantire la sua incertezza. Tutti e due i casi citati, del resto, si basano sull’interminabile diatriba circa la nocività dei lavori già autorizzati e in corso. Il che non tutela affatto la salute pubblica, limitandosi a moltiplicare i costi e diluire i tempi dei lavori stessi. Dato che a contraddirsi sono autorità pubbliche, ciascuna teoricamente incaricata di tutela del diritto, della salute e dell’ambiente, il succedersi singhiozzante di decisioni contraddittorie certifica che il diritto tutto è, dalle nostre parti, meno che certo.

Le comunicazioni satellitari funzionano in tutto il mondo, senza generare disastri. Esporsi a emissioni ad alta intensità è certamente pericoloso, non a caso tale genere d’impianti si trovano in zone che dovrebbero essere adeguatamente protette e isolate. Ma pur sempre su questa terra. L’area che si trova a Niscemi, in Sicilia, è stata ripetutamente considerata adeguata nel non creare pericoli per la popolazione civile. La quale, del resto, usa abbondantemente le comunicazioni satellitari per tante cose cui nessuno rinuncerebbe, dalla televisione ai telefoni. Trovi sempre, però, qualcuno pronto a scrivere il contrario, ovvero che qualche pericolo residua. Il che è anche vero, ne sono sicuro, perché il solo modo per sottrarsi ai pericoli connessi allo sviluppo e alla civilizzazione consiste nel vivere da eremiti, lontani da ogni illuminazione e comunicazione, quindi non nel pericolo, ma nella certezza di crepare al primo mal di denti.

In tutto il mondo le tubazioni portano verso i clienti il gas e il petrolio estratto in altro luogo del pianeta. Così come gli elettrodotti portano l’energia con cui alimentiamo le nostre case, stampiamo questo giornale e scrivo questo articolo. I campi di margherite sono più belli da vedersi, non lo discuto, ma dubito assai che la regressione allo stadio pre-energetico suggerisca all’umanità di lanciarsi nella passione per la botanica. Anzi, ora che ci penso, sarebbe impossibile, perché i fertilizzanti e i pesticidi si producono con petrolio, energia e chimica.

Questi procedimenti giurisdizionali, per la natura dei lavori che colpiscono, si proiettano in mondovisione, rendendo chiaro il perché l’Italia della genialità e degli ottimi lavoratori è anche Paese dal quale stare lontani: per le pessime regole. Certo che il cittadino anelante giustizia è bene trovi un giudice che possa dargli ragione, o torto. Male che ne trovi una moltitudine, pronta a smentirsi e riprodursi. Un incubo. La giustizia funzionante, nella sua promessa di equità e nella sua continua minaccia di severità, è un bene non rinunciabile. Ma per farla funzionare va anche riordinata e sfoltita. Il procedimento amministrativo è divenuto una barzelletta che non fa ridere. La giustizia contabile non aspira neanche al rango di barzelletta, è una scemenza. Le sovrapposizioni fra penale, fiscale, civile e amministrativo producono caos. Non ci sono sistemi perfetti, ma non è una buona ragione per tenerci il peggiore, fra quelli civili.

Delega fiscale, il verso dell’avvoltoio

Delega fiscale, il verso dell’avvoltoio

Davide Giacalone – Libero

Prima era agghiacciante, ora è devastante. Il decreto legislativo nato sotto al titolo “certezza del diritto” non riesce ad assicurare neanche la certezza della data, in compenso è già garantito che per inseguire quella certezza si dovrà venire meno a quanto prevede la legge, ovvero la scadenza della delega fiscale, fissata al prossimo 27 marzo. Un anno di tempo non è stato sufficiente al governo, altrimenti noto per voler fare tutto velocemente e a passo di carica. Prorogare è meglio che perdere del tutto l’occasione di riformare, certo. Ma guai a far finta di non capire cosa questo significa. Se neanche la delega fiscale prende corpo, essendo un atto governativo e non dipendendo dalle maggioranze parlamentari, vuol dire che attraverseremo l’anno iniziato fidando solo sulle spinte esterne, senza coinvolgimenti economici e legislativi interni, e ciò porterà a chiuderlo senza modificare le previsioni, che ci vedono in crescita meno della metà dell’eurozona. Non è robetta, è robaccia.

La semplificazione fiscale, essenziale per la crescita quanto la discesa della pressione, è direttamente connessa alla materia degli accertamenti, della certezza del diritto, della giustizia tributaria, del coinvolgimento penale e delle modalità di riscossione. Tutto questo è rinviato a maggio. Decretare a maggio significa avere rinunciato a vedere i risultati delle novità nel 2015. Nel frattempo continueranno a essere avviati procedimenti penali che poi cadranno nella zona delle depenalizzazioni, quindi a far svolgere lavoro inutile. Il tempo perso non è solo guadagno mancato, ma anche spesa sprecata.

La delega fiscale, e il conseguente riassetto della materia, è anche l’occasione per non rendere devastanti gli effetti del reverse charge Iva. È una materia che a molti non dice nulla, ma i cui effetti riguardano tutti. In settori che vanno dalle costruzioni alle forniture verso la pubblica amministrazione, puntando anche a quelle verso la grande distribuzione (i supermercati, si attende solo il via libera Ue), l’Iva non è più messa nella fattura che il cliente paga, ma scorporata da quella e versata dal cliente direttamente al fisco. Apparentemente non cambia nulla ma nella realtà cambia tutto, perché i fornitori si ritrovano con il 22% in meno di cassa, sebbene per cifre da gestire finanziariamente e dover poi sborsare. Ciò li porta, tutti, ad andare pesantemente a credito d’Iva. Poco male, se non fosse che lo Stato non paga i suoi debiti, che consistono in quei crediti. Quindi l’Iva diventa, per quelle società, un costo da sopportare per un tempo troppo lungo. In queste condizioni saltano.

Nei giorni scorsi abbiamo parlato di quella che, impropriamente, è chiamata “Bad Bank”, in pratica uno strumento per sgravare le banche di crediti incagliati e deteriorati, in modo che possano fornire più credito al sistema produttivo. Ma il rischio grosso è che il maggior credito andrà a finanziare proprio l’inefficienza dello Stato: che prende e non restituisce, non paga e ritarda le riforme. Quel credito, dunque, almeno per sua parte consistente, non genererà produzione sviluppo ma galleggiamento in attesa che l’elefante state decida di togliere le terga dal groppone di chi lavora. E mentre questa attesa consuma le settimane, i mesi e gli anni, i concorrenti che lavorano in altre parti dell’eurozona (non dico mica in Asia, no, qui in Ue) si muovono con meno zavorre e pesi morti. Ecco (anche) perché cresciamo la metà degli altri.

La notizia è: in campo discale possiamo ancora aspettare fino a settembre, sicché gli effetti si vedranno nel 2016, quando, secondo i dati della Commissione europea che abbiamo già pubblicato, il nostro svantaggio relativo si sarà ulteriormente accresciuto. Non s’è mai capito cosa significhi “cambiare verso”, ma temo che questo sia il verso dell’avvoltoio.

Bad & Bank

Bad & Bank

Davide Giacalone – Libero

Alleggerire i bilanci delle banche dal peso dei crediti sofferenti e incagliati è utile. Trasferirli al contribuente non è solo inaccettabile, ma anche pericoloso. Siccome andiamo verso la creazione di un contenitore dove scaricarli, che lo si chiami Bad Bank o meno, e siccome in quello avrà un ruolo lo Stato, quindi i contribuenti, meglio fissare dei paletti e rendere comprensibile a tutti la faccenda, senza inutili tecnicismi.

Le banche sono imprese il cui mestiere consiste nel raccogliere il denaro e darlo in prestito. Se lo prestano a soggetti sbagliati, talché non ne ricevono indietro il giusto guadagno, o, addirittura, non rivedono più i quattrini, è segno che fanno male il loro mestiere. Quindi è bene che falliscano. Se questa è la regola generale si deve anche aggiungere, però, che dopo tre anni di recessione e quattro lustri di perdita di competitività, molti crediti si sono deteriorati non per colpa delle banche, ma perché i debitori non sono stati più nelle condizioni di pagare. Così come si deve aggiungere che, fin qui, l’Italia ha speso poco e niente per aiutare le proprie banche mentre tedeschi, francesi e inglesi (per citare solo i più grossi) hanno già abbondantemente messo mano al portafoglio pubblico.

Posto ciò, se lo strumento per raccogliere i crediti deteriorati (circa 300 miliardi, di cui più di 180 sulla soglia dei soldi persi) fosse un consorzio fra banche, quindi tutto privato, il compito pubblico sarebbe solo quello di verificarne la trasparenza e affidabilità. Per il resto: affari loro e del mercato. Ma non andrà cosi, perché non solo si parla di intervento pubblico, ma il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, ha detto di averne parlato con la Commissione europea e di avere chiarito che non si tratterebbe di aiuti di Stato (che sono proibiti). Se il dubbio c’è vuol dire che il problema sussiste. Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha detto che l’intervento pubblico può configurarsi in due modi: a. prestando garanzia; b. defiscalizzando l’operazione. Nel primo caso ci si appoggia ai soldi pubblici, nel secondo si rinuncia al gettito. ln tutti e due si fa riferimento ai soldi dei contribuenti, senza contare che è in discussione anche l’ipotesi di finanziare direttamente il fondo. Si deve fare? A quali condizioni? E che altro è bene fare?

Togliere quei pesi dai bilanci bancari serve a rendere maggiormente possibile l’erogazione di credito verso il sistema produttivo. Sì, si deve fare. Facendolo, però, si alleggeriscono le banche anche dai loro errori. Il che è distorcente e corruttivo, quindi si mettano delle condizioni: a. l’intervento deve essere temporaneo; b. le cartolarizzazioni devono essere negoziabili e le perdite, alla fine, devono essere ripartite per quota fra chi le ha generate; c. nel corso di questa operazione, per tutta la sua durata, ciascuna banca che avrà crediti sgravati nel fondo (a partecipazione o garanzia pubblica, diverso se privato) non potrà pagare un solo centesimo di premi ai propri dirigenti. Il premio, semmai, dovrebbero darlo ai contribuenti. In altre parole: il ricorso alla garanzia pubblica deve essere possibile, ma disincentivato. Il tutto senza dimenticare che il nostro è un sistema esasperatamente bancocentrico. Siccome non siamo geneticamente diversi da paesi dove la realta è più equilibrata, la ragione va cercata in un fisco satanico, nemico dell’impresa, e in una burocrazia stregonesca. Mali per curare i quali non servono i soldi del contribuente, ma serve prendergliene di meno e ridurre o cancellare superfetazioni inutili e dannose.