disoccupazione

Ecco chi siamo

Ecco chi siamo

Gino Gullace Raugei – Oggi

Cuori nella tempesta economico-finanziaria: i numeri dicono che (forse) il peggio è passato ma il meglio ancora non si vede. A raccontarci l’Italia al tempo della crisi è Giuseppe Roma, direttore generale del Censis (Centro studi investimenti sociali). «Da una parte il Paese appare con tutte le sue grandissime capacità, la sua cultura, la secolare creatività e l’antica inventiva che ci ha fatto essere in qualche modo protagonisti del futuro; dall’altra parte, invece, si vede un Paese sempre pronto a dividersi in una miriade di gruppetti litigiosi che pensano ai loro comodi e non all’interesse nazionale. La storia contemporanea è dominata da giganti, la Cina, il Brasile, l’India e noi ci ostiniamo a rimanere un topolino che rischia di essere schiacciato». La crisi ci ha ributtato agli Anni 50: dominano l’incertezza e la paura del domani. Le statistiche ci dicono però due cose: negli ultimi anni difficili ci ha salvato la vecchia, cara famiglia all’italiana e se la macchina dell’economia ricomincerà un bel giorno a girare sarà merito soprattutto delle donne.

Le grandezze della crisi
Dal 2008 ad oggi il nostro Pil (il Prodotto interno lordo, indice della ricchezza nazionale) è diminuito di circa l’8 per cento. «Vale a dire», spiega il professor Roma, «una somma di circa 119 miliardi di euro, più del Pil dell’Ungheria». Ogni italiano (siamo 60.782.668) ha perso in media 1.957 euro e 79 centesimi. Ma non per tutti è cosi. Già, incredibilmente, tra occupati che diminuiscono e tasse che aumentano, c’è anche chi ha trovato il sistema di diventare più ricco: i 10 uomini più facoltosi d’Italia dispongono infatti di un patrimonio di circa 75 miliardi di euro, equivalente a quello di quasi 500 mila famiglie di operai; e, dichiarazione dei redditi alla mano, i nostri 2 mila Paperoni, cioè lo 0,003 per cento della popolazione. posseggono oggi 169 miliardi (senza contare il valore degli immobili), pari alla ricchezza totale del 4,5 per cento degli italiani.

Famiglie paracadute
Fortunati a parte, la crisi ha reso tutti gli altri più poveri: il reddito degli operai è diminuito del 17,9 per cento, quello degli impiegati e dipendenti del 12, degli imprenditori del 3,7. Risultato: oggi il 72,8 per cento delle famiglie italiane considera insostenibile una spesa extra per un improvvisa malattia o per significative riparazioni della casa o dell’auto; il 24,3 per cento fa fatica a pagare tasse e tributi; il 22,6 per cento spesso non ha soldi per bollette e assicurazioni mentre il 6,8 per cento non riesce più a pagare le rate del mutuo. Il 14 per cento delle famiglie si è trovata nelle condizioni di svendere oro e argento di famiglia per pagare i debiti. Credevamo di esserci americanizzati, finendo con l’annacquare i tradizionali, forti legami parentali; le difficoltà economiche ci hanno invece fatto riscoprire la classica, numerosa famiglia all’italiana che credevamo ormai consegnata ai libri di storia sociale. «In questi anni c’è stato un fortissimo recupero dei valori di solidarietà tra genitori e i figli, nonni e nipoti, fratelli, cugini e persino suoceri» spiega Roma. La famiglia è stata il più efficace degli ammortizzatori sociali, il paracadute che ci ha salvato dalla rovinosa caduta economica. Per il 76 per cento degli italiani la rete familiare include da 6 a 15 persone: un piccolo clan. Solo negli ultimi dodici mesi sono 8 milioni le famiglie che hanno ricevuto qualche forma di aiuto economico dalle rispettive reti familiari.

Ripresa in rosa
Le famiglie sono il vero termometro della crisi: lo dicono i dati relativi al risparmio. Nel 2008 le famiglie italiane hanno depositato in banca poco più di 52 miliardi di euro; nel 2009 la somma si è ridotta a 56.7 miliardi: il 30 per cento di meno. Nel 2010 le famiglie italiane non solo non sono riuscite a risparmiare, ma hanno dovuto ritirare dai conti correnti ben l4,7 miliardi di euro; nel 2011 è andata anche peggio, coi prelievi che hanno sfiorato i 21 miliardi. L’anno successivo la tendenza si è però invertira: dall’agosto 2012 all’agosto 2013 le famiglie hanno depositato in banca 37,4 miliardi. Vuol dire che la crisi ha attenuato i suoi effetti reali? «Siamo effettivamente in una fase in cui il peggioramento degli indici economici tende a rallentare», spiega l’economista Francesco Extrafallaces, «ma questo non vuole dire che la crisi è passata. L’anda- mento del risparmio ci dice piuttosto che le famiglie italiane si sono adattate alle difficoltà». Come? Risparmiando sulla spesa e rinunciando a molte cose: se in casa si rompe qualcosa cerchiamo di ripararlo da soli, con le donne protagoniste assolute del ritorno al bricolage: il 29,3 per cento fa tutto da sola, il 15.2 guida e dirige il braccio dell’uomo di casa. Dal 2009 al 2013 1,6 milioni di imprese italiane hanno cessato di vivere. Secondo l’Ufficio studi della Camera di commercio di Monza e Brianza, la crisi ha assassinato anche moltissime aziende storiche, quelle con almeno 50 anni di attività: ne sono sparite 9mila, cioè una su quattro. In questo che sembra un drammatico bollettino di guerra c’è un clamoroso numero in controtendenza che rivela un’Italia che non t’aspetti: secondo Unioncamere, nel 2015 le imprese italiane la cui titolare è donna hanno fatto registrare un significativo saldo positivo, con circa 5mila unità in più. E le regioni in cui è più spiccato il processo di femminilizzazione del tessuto imprenditoriale sono quelle del Sud: Molise (dove sono il 29,7 per cento del totale), Abruzzo (27,8), Basilicata (27,7) e Campania (26,5). A livello nazionale le aziende rosa sono l.429.880, il 23,6 per cento del totale. Le imprenditrici giovani, che hanno cioè meno di 35 anni, sono ben 171.414, cioè il 12 per cento del totale. «Le donne rappresentano una grande speranza per il futuro», dice il professor Giuseppe Roma. «Sono più preparate dei loro colleghi maschi. più determinate ed hanno una qualità importantissima: riescono a fare squadra coi loro dipendenti e questo consente alle loro aziende di adattarsi meglio alla crisi, superando le diffìcoltà». Ricordate la nave albanese Vlona che arrivò nel porto di Bari stracarica di disperati in fuga dalla miseria? Era l’8 agosto del 1991: gli immigrati stranieri residenti in Italia erano allora 625 mila. Oggi sono oltre 5 milioni e parliamo di quelli con regolare permesso di soggiorno; i clandestini si presume invece che siano circa 500 mila.

Gli immigrati: la sfida più difficile
L’Italia è il quinto Paese europeo per numero complessivo di extracomunitari residenti. Le ondate migratorie che da 30 anni investono l’Italia sono il fenomeno sociale più importante della nostra storia recente», ci dice Anna Italia, ricercatrice del Censis. Nell’Italia di oggi, gli immigrati rappresentano una parte importante del tessuto sociale: abbiamo l.6 milioni di stranieri dediti ai servizi domestici un milione dei quali sono badanti che si occupano dell’assistenza agli anziani. Dei 180 mila ristoranti presenti nel nostro Paese, il 10 per cento, cioè 18 mila circa, sono etnici; di questi, uno su 4 è cinese e 1 su 8 arabo. Eppure quando si parla di extracomunitari ci balzano agli occhi le drammatiche immagini dei barconi stracarichi di disperati sulle rotte della morte nel Canale di Sicilia. «Arrivano in media 70 mila persone ogni anno», dice Anna Italia. «Sono quasi tutti in fuga dalle persecuzioni in atto nei loro Paesi d’origine e vengono in Italia per chiedere asilo. Perché, se hanno diritto all’assistenza che spetta agli stranieri perseguitati, scelgono un modo così rischioso per raggiungere l’Italia? «Perché la legge italiana prevede che un cittadino straniero possa chiedere asilo politico solo se si trova in Italia; non può farlo presso le nostre ambasciate o consolati che si trovano sul’altra sponda del Mediterraneo», spiega Anna Italia. I numeri dicono che nel nostro Paese oggi gli extracomunitari stanno occupando spazi importanti anche nei piani più alti del sistema economico. In alcuni settori la presenza di imprenditori stranieri è massiccia; è il caso delle costruzioni edili, dove il 21,2 per cento delle imprese ha proprietari stranieri (in gran parte rumeni); oppure del commercio al dettaglio (il 20 per cento). Mentre i negozianti italiani sono diminuiti del 3,3 per cento, quelli stranieri sono aumentati del 21,3 per cento. In città come Pisa, Caserta e Catanzaro. le botteghe di extracomunitari sono rispettivamente il 35,4, il 34,5 e il 52,7 per cento del totale.

Gli emigranti: giovani e arrabbiati
Siamo la terra promessa di moltissimi stranieri, ma nello stesso tempo molti giovani italiani lasciano il Paese per cercare fortuna altrove: il 54,1 per cento dei nostri emigranti ha meno di 55 anni. Fuggono all’estero soprattutto i giovani che hanno alle spalle famiglie con redditi medio alti: la percentuale di 5,6 per cento di nuclei familiari con un reddito mensile di mille euro che hanno almeno un componente fuori dai confini nazionali, diventa del 10.6 per cento nelle famiglie con un reddito di 4 mila euro. Come negli Anni 50, gli italiani emigrano in Australia; dal 2012 al 2013 c’è stato un aumento di partenze del 116 per cento e negli ultimi tre anni ben 32 mila giovani si sono stabiliti a Melbourne o Sydney. Il 72,7 per cento degli emigranti afferma che la scelta di partire è stata giusta e piena di soddisfazione. Tra tutte le ombre, questa è quella più cupa che si addensa sul futuro del nostro Paese.

L’ultimo inganno di Bruxelles, la Garanzia Giovani è un flop

L’ultimo inganno di Bruxelles, la Garanzia Giovani è un flop

Sergio Patti – La Notizia

Un’altra grossa fregatura dall’Europa. Più che uno strumento efficace per offrire concrete opportunità di lavoro a centinaia di migliaia di giovani italiani, l’applicazione italiana del Programma comunitario Garanzia Giovani (che il Ministero del Lavoro ha di fatto delegato nella sua gestione alle singole Regioni) si è purtroppo rivelata un labirinto burocratico che non conduce da nessuna parte. Lo dimostra una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” (consultabile all’indirizzo www.impresalavoro.org) le cui conclusioni sono sconfortanti, a maggior ragione se si tiene conto che tale programma è volto in particolare a risolvere il fenomeno dei giovani Neet 15-24enni (non impegnati in un’attività lavorativa, né inseriti in un percorso scolastico o formativo), stimabili, in Italia, in circa 1,27 milioni (di cui 181mila stranieri) e che corrispondono al 21% della popolazione di questa fascia di età. Un dato estremamente rilevante in ragione della stretta connessione tra l’identificazione della platea dei destinatari e l’entità delle risorse attribuite, per la gestione della Garanzia Giovani, dalla Commissione Europea.

L’Italia ha peraltro deciso di allargare il target group ai giovani di età compresa tra 25 e 29 anni, per un totale di ben 2.254.000 ragazzi. Sulla base di tali dati il nostro Paese riceverà infatti risorse, a titolo della YEI (Youth Employment Initiative), pari a circa 567 milioni di euro. A questi si dovrà sommare un pari importo a carico del FSE, oltre al co-finanziamento nazionale. La disponibilità complessiva del Programma sarà, pertanto, pari a circa 1.513 milioni di euro. Una montagna di denaro pubblico che ha partorito un costosissimo topolino: la ricerca di “ImpresaLavoro” rende noto che al programma comunitario hanno infatti aderito 250.770 giovani, di cui solo 59.150 sono stati poi effettivamente presi in carico dal sistema di Garanzia Giovani.

Mentre l’Europa chiede ai sistemi Paese ingentissime risorse, persino aumentando il budget dei trasferimenti dei singoli Stati alla Comunità, dall’inizio del programma sono stati offerti ai Neet 25.747 posti di lavoro. Questo significa che ogni ragazzo preso in carico è costato sin qui 25.600 euro e che ogni offerta di lavoro ci è costata finora la somma ragguardevole di 58.700 euro. Mentre molte iniziative valide sono rimaste escluse dai fondi.

Il flop della Garanzia Giovani

Il flop della Garanzia Giovani

Metronews

«Più che uno strumento efficace per offrire concrete opportunità di lavoro a centinaia di migliaia di giovani italiani, l’applicazione italiana del Programma comunitario “Garanzia Giovani”, attuata in ordine sparso dalle Regioni, si è rivelata un labirinto burocratico che non conduce da nessuna parte». Lo rivela una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” le cui conclusioni sono sconfortanti. «A maggior ragione – sosiene lo studio – se si tiene conto che tale programma è volto in particolare a risolvere il fenomeno dei giovani NEET 15-24enni (quelli non impegnati in un’attività lavorativa, né inseriti in un percorso scolastico o formativo), stimabili nel nostro Paese in circa 1,27 milioni». L’Italia ha peraltro deciso di allargare il target group ai giovani di età compresa tra 25 e 29 anni, per un totale di ben 2.254.000 ragazzi. Sulla base di tali dati il nostro Paese riceverà infatti risorse, a titolo della YEI (Youth Employment Initiative), pari a circa 567 milioni di euro. A questi si dovrà sommare un pari importo a carico del FSE, oltre al co-finanziamento nazionale. La disponibilità complessiva del Programma sarà, pertanto, pari a circa 1.513 milioni di euro.

«Una montagna di denaro pubblico – spiega Giancamillo Palmerini, curatore della ricerca – che ha partorito un costosissimo topolino». Al programma comunitario hanno infatti aderito 250.770 giovani, di cui solo 59.150 sono stati poi effettivamente presi in carico dal sistema di Garanzia Giovani. Dall’inizio del programma sono stati offerti ai NEET 25.747 posti di lavoro. Questo significa che ogni ragazzo preso in carico è costato sin qui 25.600 euro e ogni offerta di lavoro 58.700 euro. «Sono stati offerti pochi posti perché l’economia non va e nessuno assume solo per un incentivo ma quando ne ha necessità» spiega ancora Palmerini. «Occorrerebbero interventi strutturali con l’adeguamento della formazione alle richieste del mercato e la ricucitura dello scollamento tra scuola e mondo del lavoro».

Garanzia giovani: ogni offerta di lavoro è finora costata 58.700 euro

Garanzia giovani: ogni offerta di lavoro è finora costata 58.700 euro

ABSTRACT

Più che uno strumento efficace per offrire concrete opportunità di lavoro a centinaia di migliaia di giovani italiani, l’applicazione italiana del programma comunitario Garanzia Giovani (che il Ministero del Lavoro ha di fatto delegato nella gestione alle singole Regioni) si è purtroppo rivelata un labirinto burocratico che non conduce da nessuna parte.
Lo dimostra una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” le cui conclusioni sono sconfortanti, a maggior ragione se si tiene conto che tale programma è volto in particolare a risolvere il fenomeno dei giovani NEET 15-24enni (non impegnati in un’attività lavorativa, né inseriti in un percorso scolastico o formativo), stimabili, in Italia, in circa 1,27 milioni (di cui 181mila stranieri) e che corrispondono al 21% della popolazione di questa fascia di età. Un dato estremamente rilevante in ragione della stretta connessione tra l’identificazione della platea dei destinatari e l’entità delle risorse attribuite, per la gestione della Garanzia Giovani, dalla Commissione Europea. L’Italia ha peraltro deciso di allargare il target group ai giovani di età compresa tra 25 e 29 anni, per un totale di ben 2.254.000 ragazzi.
Sulla base di tali dati il nostro Paese riceverà infatti risorse, a titolo della YEI (Youth Employment Initiative), pari a circa 567 milioni di euro. A questi si dovrà sommare un pari importo a carico del FSE, oltre al co-finanziamento nazionale. La disponibilità complessiva del Programma sarà, pertanto, pari a circa 1.513 milioni di euro.
Una montagna di denaro pubblico che ha partorito un costosissimo topolino: la ricerca di “ImpresaLavoro” rende noto che al programma comunitario hanno infatti aderito 250.770 giovani, di cui solo 59.150 sono stati poi effettivamente presi in carico dal sistema di Garanzia Giovani. Complessivamente, dall’inizio del programma, sono stati offerti ai NEET 25.747 posti di lavoro. Questo significa che ogni ragazzo preso in carico è costato sin qui 25.600 euro e che ogni offerta di lavoro ci è costata finora la somma ragguardevole di 58.700 euro.
Scarica il Paper “Garanzia giovani: ogni offerta di lavoro è finora costata 58.700 euro“.
Rassegna Stampa:
Italia Oggi
La Notizia
Metronews
C’è anche chi non cerca lavoro

C’è anche chi non cerca lavoro

Michele Tiraboschi – Italia Oggi

I dati del mercato del lavoro e i principali indicatori economici dell’arco temporale 2007-2013 forniscono una fotografia della crisi molto diversa da quelle che sono le principali notazione dell’opinione pubblica e dei mezzi di comunicazione. È vero che si segnala un raddoppio del tasso di disoccupazione dal 6% a 12%, sia per l’intera popolazione che per i giovani, per i quali il tasso ha superato il 40%. È anche vero che il tema centrale non è solo il lavoro precario, che occupa gran parte dei dibattiti, visto che lavoro temporaneo in Italia è ancora al di sotto del 15%.

I veri problemi
Dall’analisi degli indicatori economici diffusi dall’Eurostat altri sono i problemi principali del nostro mercato del lavoro, primo tra tutti il bassissimo tasso di occupazione regolare, quindi l’ampio numero non solo persone che non hanno un lavoro ma anche di coloro che non lo cercano e che non sono quindi considerati nel numero dei disoccupati.

I numeri
Tre cifre ci aiutano a dipingere la situazione italiana in modo chiaro: in una popolazione di 60 milioni, tra cui una potenziale forza-lavoro di 39 milioni, solo 25 milioni hanno un impiego effettivo o cercano lavoro. Questo spiega tutto, con una popolazione lavorativa sotto i 25 milioni, una persona deve lavorare per sé e per altri due, il vero problema è quindi l’inattività.

Le donne
Questo è evidente guardando la popolazione femminile, inchiodata da trent’anni sotto il 50%, una su due non lavora e se lavora è in nero, in mezzogiorno solo una su quattro. Un ulteriore problema è certamente il tasso di disoccupazione giovanile superiore al 40%, ma più preoccupante è il dato dell’occupazione dei giovani che non supera il 16%. La grande maggioranza quindi non ha un lavoro e non lo cerca.

Gli over 50
È invece significativo il fatto che durante crisi vi sia stato un notevole incremento degli occupati over 50, se ai tempi della Legge Biagi erano uno su tre, oggi siamo a 50%, con 50 italiani su 100 obbligati a lavorare dalla morsa della crisi. Anche in questo caso, oltre agli effetti della riforma Fornero delle pensioni, incide il fatto che molti over 50 sono costretti a lavorare per mantenere quell’ampia fetta di popolazione, soprattutto di giovani, che non lavora e non cerca lavoro.

Conclusione
La semplice lettura di questi dati ci conduce quindi ad ampliare le nostre analisi consuete e a leggerle da un punto di vista differente, con un occhio sì attento alla crisi, ma che guarda anche auna condizione storica del me

Con i processi più veloci l’occupazione salirebbe

Con i processi più veloci l’occupazione salirebbe

Metronews

La lentezza dei contenziosi in materia di lavoro costa in media 4, 8 punti percentuali di disoccupazione per ogni anno di durata. Il dato risulta da una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” che approfondisce le interessanti indicazioni emerse in materia di disoccupazione e lunghezza dei processi sul lavoro dallo “Staff Report for the 2014 Article IV Consultation / Italy”, pubblicato a settembre dal Fondo Monetario Internazionale e nel quale si sostiene che un dimezzamento dei tempi dei processi per lavoro in Italia porterebbe a un aumento della probabilità di impiego dell’8%. Secondo l’Fmi, infatti, il nostro sistema giudiziario è ancora molto lento in confronto alla media europea, e necessiterebbe di misure più opportune rispetto al mero incremento dei costi del giudizio introdotto di recente quali la promozione e l’uso dei sistemi alternativi di risoluzione delle controversie, una razionalizzazione del tipo di cause che trovano accesso al terzo grado di giudizio, l’introduzione di indicatori di performance per tutti i tribunali nonché la condivisione di best practice regionali.

Garanzia giovani, perché non va

Garanzia giovani, perché non va

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Stavolta non c’è neanche l’alibi dei soldi. Gli stanziamenti per la Garanzia Giovani ammontano addirittura a 1,5 miliardi eppure ci stiamo pericolosamente avvicinando a un clamoroso flop. Sull’apposito portale il ministero del Lavoro pubblica un report aggiornato: al 9 ottobre i giovani registrati erano circa 237 mila di cui però solo 53.800 sono «stati presi in carico e profilati». Le occasioni di lavoro pubblicate online dall’inizio del progetto sono poco più di 17 mila. Ma al di là dei numeri, che pure da soli già raccontano di un’iniziativa a scartamento ridotto, la verità è che Garanzia Giovani sta vivendo come fosse una procedura ministeriale. Al dicastero ammettono le lentezze, parlano di realtà «a macchia di leopardo» (vuol dire che al Sud non si è mosso niente), della difficoltà di far dialogare per via telematica Centro per l’impiego (Cpi), Regioni e Stato e dell’intenzione del ministro Giuliano Poletti di fare il punto con gli enti locali a metà novembre. Auguri sinceri.

La verità è che doveva trattarsi di una grande mobilitazione di energie e persino di un’operazione pedagogica. I giovani fino a 29 anni dovevano essere chiamati a fare uno sforzo culturale, a rendersi occupabili. La comunicazione è stata invece debole, non ha colpito i ragazzi e non li ha messi in movimento. Occorreva spiegare loro che non basta volere un posto di lavoro ma oggigiorno diventa decisivo mettersi in grado di conquistarlo e allora bisogna considerare il curriculum come un tesoretto che si accumula e sul quale si investe di continuo. Niente di tutto questo è stato fatto e non vale la considerazione che pure si sente ripetere spesso ovvero che i nostri Centri per l’impiego contano 9 mila addetti e l’Agenzia nazionale tedesca 100 mila. Di un altro carrozzone pubblico facciamo volentieri a meno. Debole come capacità di mobilitazione il ministero lo è stato anche nel coinvolgimento dei soggetti potenzialmente interessati. Il terzo settore, ad esempio, poteva essere mobilitato per tempo per la capacità di offrire tirocini ai giovani. Più in generale bisognava creare una coalizione di organizzazioni che si facevano promotrici di Garanzia Giovani e lo inserivano in agenda tra le priorità. Vi risulta che qualche associazione di categoria abbia organizzato iniziative in merito o assicurato un’informazione puntuale? E non valeva la pena incalzare anche i sindacati e i loro centri di assistenza? Anche questa capacità è mancata e nei territori questo vuoto si sente. Al Sud non ne parliamo. I ragazzi non vengono interessati nemmeno per via indiretta, non sentono che attorno i «grandi» si sono mobilitati. Così quando vengono chiamati finiscono per adempiere a un obbligo burocratico e non si responsabilizzano. E poi aspettano che il telefono suoni.

Garanzia Giovani poteva essere un test di politiche attive per il lavoro e invece sta perpetuando l’equivoco dei Cpi. Si comincia dal paradosso che a dar lavoro ai disoccupati dovrebbero essere dei co.co.pro. che lavorano a intermittenza nei Centri e poi si arriva alla mancata collaborazione con le agenzie private. Non si contano gli ostacoli che sono stati frapposti alle collaborazioni con le varie Adecco, Gi Group, Manpower, Quanta. Disposizioni regionali di 20-30 pagine, doppio accreditamento nazionale e regionale, impossibilità di avere rapporto diretto con i ragazzi. Accanto ad alcuni assessori regionali più aperti e moderni ce ne sono altri che continuano a pensare che occuparsi di lavoro «sia un compito dello Stato e basta». Il risultato di queste incomprensioni è che Garanzia Giovani alla fine trascura il contatto con le imprese. Non è un caso che la Nestlé voglia assumere qualche migliaio di giovani senza passare di lì o che la McDonald’s in Italia non abbia trovato la collaborazione giusta. Bastava copiare quello che molte università fanno con il placement ovvero i colloqui diretti giovani-aziende e si sarebbe innovato profondamente. Invece sul portale girano sempre gli stessi annunci, lo stesso fotografo viene cercato da settimane e settimane e comunque le richieste puntano su profili esperti e non alla prima prova. E come ha detto il giuslavorista Michele Tiraboschi «basta scavare un po’ più a fondo per accorgersi che il sito governativo non fa altro che rimbalzare offerte presenti su altri siti».

Che fare adesso per evitare che il flop demotivi tutti, le strutture e soprattutto i giovani disoccupati? Tiraboschi ha steso addirittura un decalogo di miglioramenti pratici per far funzionare il portale. Dall’inserire un filtro che selezioni subito i giovani per condizioni occupazionali/formative a permettere una ricerca avanzata tra i diversi annunci che oggi si affastellano in 400 pagine di visualizzazione. Si cominci pure da qui ma è proprio il caso di dire che bisogna cambiare marcia. Non si può lasciare tutto in mano ai ministeriali, se non altro perché non possiamo buttare dalla finestra un miliardo e mezzo.

Ps. Anche questa settimana a Roma ci sarà il solito e inutile mega convegno su Garanzia Giovani.

Ammortizzatori sociali, nel 2013 spesi 23,8 miliardi

Ammortizzatori sociali, nel 2013 spesi 23,8 miliardi

Serena Uccello – Il Sole 24 Ore

Nel 2013, i cittadini che hanno beneficiato di un ammortizzatore sociale (Cassa integrazione guadagni, mobilità e indennità di disoccupazione, Aspi e MiniAspi) sono stati quasi 4,6 milioni, con un aumento del 6,5% rispetto al 2012 (280mila unità in più). Se si paragonano, invece, i dati del 2013 con quelli del 2008 (ultimo anno senza la piena crisi), l’aumento è stato di 2,4 milioni di persone (+113,6%), in quanto in quell’anno le persone beneficiarie di ammortizzatori sociali furono 2,1 milioni. A rivelarlo è il terzo Rapporto del Servizio Politiche del Lavoro della Uil, secondo cui nel 2013 sono stati spesi 23,8 miliardi, segnando un aumento del 5% rispetto all’anno precedente (1,1 miliardi di euro in più).

«Un gran numero di persone – sottolinea Guglielmo Loy, segretario Confederale Uil – circa un terzo dei lavoratori del settore privato, ogni anno conosce l’esperienza, spesso amara e angosciante, in alcuni casi un sollievo per l’aver evitato comunque il licenziamento, di avere una forma di sostegno al reddito». Un sistema di protezione sociale che, tra indennità e contributi figurativi, nell’ultimo anno è costato 23,8 miliardi di euro, (+13,8 miliardi di euro rispetto al 2008). Il tutto finanziato per 9,1miliardi di euro con i contributi di lavoratori e aziende e per 14,7 miliardi di euro a carico della fiscalità generale.L’importo medio, tra sussidi e contribuzione figurativa, per ogni beneficiario di ammortizzatori sociali, è di 5.191 euro pro capite (4.353 euro per la cassa integrazione, 18.589 euro per la mobilità e 4.768 euro per l’Aspi, Mini Aspi e indennità varie di disoccupazione). Nello specifico – spiega Loy – le persone protette dalla cassa integrazione guadagni, tra ordinaria, straordinaria e deroga, sono state 1,5 milioni (in diminuzione del 3,9% rispetto al 2012); mentre aumentano dello 0,9% le persone in mobilità, ordinaria e in deroga (arrivando a 187mila unità complessive); mentre tra Aspi, MiniAspi e Indennità di disoccupazione ordinaria, speciale edile e agricola, i benefieiari sono stati 2,8 milioni con un aumento del 13,6% rispetto al 2012 (+341mi-
la).

Tornando ai costi, perla cassa integrazione la spesa è stata di 6,7 miliardi di euro, in aumento del 9,9% rispetto al 2012 (604 milioni di euro); per le indennità di mobilità ordinaria e in deroga il costo è stato di 3,5 miliardi di euro, con un aumento del 19,6% sul 2012 (+568 milioni di euro); perAspi, Mini Aspi e disoccupazione ordinaria, speciale edile e agricola, il costo è stato di 13,6 miliardi di euro in leggera diminuzione rispetto al 2012 (-0,3%). Il capitolo degli ammortizzatori in deroga, finanziati completamente dalla fiscalità generale, nel 2013 e stato, tra cassa integrazione in deroga e mobilità in deroga, di 2 miliardi di euro.

E intanto si sprecano le vere occasioni

E intanto si sprecano le vere occasioni

Michele Tiraboschi – Panorama

Garanzia giovani: se Matteo Renzi l’avesse fatta funzionare ora sarebbe molto più autorevole su art. 18 e.Iobs act. Perché se la svolta epocale sta nel passaggio dalla vecchia idea del posto fisso alle moderne tutele sul mercato del lavoro, occorre saper rassicurare i lavoratori che perdere l’impiego non è più un dramma. Ciò almeno nella misura in cui politiche di ricollocazione e riqualificazione professionale esistono davvero, attraverso una robusta ed efficiente rete di servizi al lavoro su cui l’Italia mai ha potuto contare anche dopo la fine del monopolio statale del collocamento. Gli oppositori del Jobs act hanno sempre obiettato a Renzi che, per superare il regime di apartheid tra garantiti e precari, il nodo centrale è quello delle risorse che non ci sono (o comunque non in misura sufficiente) per l’avvio di politiche attive del lavoro. Eppure non è esattamente così. Lo dimostra il fallimento di Garanzia giovani che si sta consumando in questi mesi nell’indifferenza della politica e del sindacato, anche perché offuscato dalla contesa sull’art. 18.

Il piano, pensato dall’Europa per fronteggiare disoccupazione e inattività giovanile, porta in dote all’Italia ben 1,5 miliardi di euro. Però il nostro Paese non ha saputo far altro che organizzare centinaia di convegni, promuovere qualche triste spot pubblicitario che mai i ragazzi vedranno e riattivare la storica polemica tra Stato e regioni sulle colpe della inefficienza dei nostri Centri per l’impiego. La lista di intese, protocolli, piani di attuazione è infinita. Si firma a ogni livello: nazionale, regionale, locale. Senza però che alle parole seguano i fatti. E cosi una azienda che voglia dare una vera occasione a un giovane, ancora oggi non riesce a capire se i fondi a disposizione siano attivi o no. Anche nel migliore dei casi, poi, la complessità per accedere agli stanziamenti è tale che il più delle volte viene voglia di lasciar perdere. A farne le spese sono ovviamente i giovani: vittime sacrificali dell’ennesimo annuncio che alimenta timide speranze che, subito, si traducono in rabbia e delusione. Per loro Garanzia giovani è oggi unicamente un grigio portale internet, costruito male tecnicamente e per di più incomprensibile. Le offerte di lavoro o di tirocinio sono contenute in quasi 500 pagine da consultare online, costruite senza ordine e logica. Orientarsi è pressoché impossibile.

I problemi informatici sono comunque poca cosa rispetto alla qualità degli annunci contenuti. Nessuno sembra occuparsi di verificare quanto immesso nel portale governativo. E così basta scavare un po’ più a fondo per accorgersi che il sito www.garanziagiovani.gov.it non fa altro che rimbalzare offerte già presenti su altri siti. Il programma è pensato per giovani disoccupati, da tempo inattivi o comunque alle prime armi. Ma quasi tutte le offerte del portale, generalmente veicolate da agenzie di lavoro interinale, pongono come requisito l’esperienza pregressa nella mansione o nel settore. Alcuni esempi tra i tanti? «Cerchiamo meccanico con esperienza per gestire autonomamente la manutenzione di escavatori cingolati, gommati, pale auto, furgoni e camion». E ancora: «Cerchiamo per azienda cliente operaio specializzato produzione di calzature. Si richiede esperienza pregressa e pluriennale». Per non parlare del «fotografo, dotato di propria macchina fotografica professionale», che viene ricercato per un lavoro giornaliero. Un piano europeo di 1,5 miliardi si traduce così in un grande spot nazionale maldestramente alimentato da un modesto motore di ricerca di quel poco che è già presente sulla rete, senza farsi carico dell’orientamento dei nostri ragazzi e senza mantenere l’impegno, importantissimo per un giovane, rispetto alla parola data: e cioè la promessa di non lasciarli soli.

La battaglia sull’art. 18 avrà un vincitore certo: quel Matteo Renzi abile nel mettere con le spalle al muro quanti hanno saputo dire solo «no» a ogni cambiamento. Il rischio, tuttavia, è che all’esito della battaglia Renzi avrà perso la parte migliore del suo esercito: i tanti ragazzi italiani sempre più scoraggiati e delusi dalle istituzioni e dalla politica. Ragazzi che hanno smesso di sognare il loro futuro anche perché privati dell’unica garanzia possibile: quella di poter dimostrare a qualcuno che meritano fiducia e anche rispetto.

Nel tunnel a lungo

Nel tunnel a lungo

Giuseppe Turani – La Nazione

Ci attendono quattro anni di navigazione difficile. Se qualcuno aveva pensato a un certo slancio dell’economia italiana e a un netto miglioramento dei suoi numeri, si sbagliava. Le ultime cifre fornite dagli esperti del Fondo monetario internazionale sono una doccia gelata. Quest’anno l’Italia andrà indietro dello 0,2 per cento (quindi terzo anno di recessione). La disoccupazione arriverà al suo massimo del 12,6 er cento. Il nostro debito pubblico salirà, rispetto al Pil, dal 132,5 del 2013 al 136,7. E questo è probabilmente il dato più preoccupante: in un solo anno il rapporto defici/Pil peggiora di 4,2 punti. E le cose non sono destinate a migliorare tanto in fretta. Nel 2015, infatti, il Fondo monetario prevede che il rapporto defici/Pil scenda solo al 136,4. Per vedere una discesa consistente, con un rapporto al 125,6, bisognerà aspettare il 2019. Nel 2015, infine, la crescita italiana sara dello 0,8 per cento.

Questi numeri hanno anche una loro qualità. E questa consiste nel fatto che è in corso un rallentamento dell’economia mondiale: al punto che è lo stesso Fondo monetario a parlare, per quanto riguarda l’Europa, di un aumento dei rischi di recessione, di deflazione e di stagnazione. E fa paura la previsione che fino a 2019 l’inflazione in Europa rimarrà al di sotto del 2 per cento: in ogni istante, quindi, ci sarà la possibilità di piombare nella deflazione.

La conclusione alla quale si arriva, purtroppo, è che i prossimi quattro anni, che saranno di bassa crescita andranno anche vissuti con il fiato in gola, con lo spettro della possibile deflazione dietro l’angolo Questo scenario cattivo dipende solo in parte da noi: siamo davanti a una frenata dell’economia mondiale contro la quale possiamo fare ben poco, anzi niente. L’unica cosa certa è che dopo sette anni di crisi ne abbiamo davanti altri quattro pericolosi. Per questo sarebbe opportuno accelerare quelle riforme di struttura che tutti ci stanno chiedendo. La Bce di Draghi, che il Fondo monetario elogia, fa quello che può (positiva è giudicata l’idea degli Abs), ma sono i singoli paesi che devono andare avanti con il processo di cambiamento. Se si fa questo, non è impossibile migliorare l’andamento dell’economia.