economia

San Matteo non ha fatto il miracolo

San Matteo non ha fatto il miracolo

Mario Deaglio – La Stampa

Il coraggio – sospira Don Abbondio nel XXV capitolo dei «Promessi Sposi» – uno non se lo può dare. E nemmeno la fiducia, siamo tentati di aggiungere, guardando ai dati, appena resi pubblici dal’Istat, sul clima di fiducia degli italiani che segnalano una netta caduta per il terzo mese consecutivo. Il giudizio degli intervistati è peggiorato su quasi tutto: molto sulla situazione economica dell’Italia, poco o nulla sulla situazione economica attuale della loro famiglia, per la quale, però, è aumentato il numero di quanti si aspettano un peggioramento imminente. Rispondendo alle varie domande del questionario, gli intervistati, quando non vedono nero, vedono tutto con lenti con varie gradazioni di grigio. Questo clima nazionale di sconforto è tanto più deludente in quanto la caduta dell’indice di fiducia segue una sua impennata decisa di inizio anno (spesso attribuita a un «effetto Renzi») che l’aveva quasi riportato ai valori del 2008, ossia all’inizio della crisi.

Per fortuna il clima di fiducia non si traduce necessariamente in comportamenti, così come la salita primaverile non ha portato a una corsa agli acquisti, c’è da sperare – mentre invece le associazioni dei consumatori ne traggono previsioni infauste – che non andiamo incontro a uno «sciopero dei consumatori», peraltro già molto «svogliati» negli ultimi mesi. Dopo l’aggiornamento di questo indice è però più difficile pensare a un aumento, anche piccolo, dei consumi privati. Il «bonus» mensile di ottanta euro che dieci milioni di lavoratori stanno incassando non solo non ha inciso, come già si sapeva, sulle abitudini di spesa, ma non ha neppure aumentato il «buon umore economico» degli italiani. I motivi per i quali il «bonus» – una misura generica di rilancio, meno efficace di misure «mirate» a determinati settori economici o segmenti sociali – non si sta traducendo in un aumento di consumi, ma, al massimo, in una loro stabilizzazione sono nascosti nelle pieghe dei bilanci famigliari. E’ verosimile che, per non ridurre troppo il loro tenore di vita, negli ultimi 2-3 anni, molte famiglie abbiano contratto dei debiti e che usino quest’entrata mensile addizionale per ripagarli; è altrettanto verosimile che, prima dei normali beni di consumo, si pensi a spese sanitarie rinviate scarsamente coperte dal servizio sanitario nazionale (per esempio le cure dentarie).

Invece di attingere ai loro risparmi e convertirli in acquisti necessari, gli italiani continuano a investirli in titoli del debito pubblico che rendono pochissimo: ai tassi dell’asta dei Bot semestrali di ieri (nella quale la domanda si è rivelata molto abbondante, superando di oltre una volta e mezza la quantità offerta) il rendimento di 1000 euro basta appena a prendere un caffè ed e quasi dimezzato rispetto all’asta precedente. Certo, i titoli sono stati tutti acquistati da operatori finanziari, in parte esteri, ma una quota rilevante finirà, prima poi, grazie alla loro intermediazione, nei portafogli delle famiglie italiane che, per paura della crisi, esitano a utilizzare quelle risorse per spese necessarie.

Insomma, San Matteo Renzi ha dato una notevole scossa a molti aspetti del-la vita economica italiana e altre promette di darne con il prossimo Consiglio dei Ministri. Non è riuscito, però (ancora?) a compiere il miracolo di far sorridere gli italiani. D’altra parte, le notizie che giungono dal resto d’Europa mostrano che questo «male italiano» si sta lentamente diffondendo e che praticamente tutte le economie dell’Unione Europea sono in frenata. Per la prima volta ieri su organi di stampa tedeschi si è evocato lo spettro di una recessione,  attribuendone indirettamente la causa al conflitto ucraino che ha seriamente danneggiato le esportazioni della Germania (e dell’Italia) verso la Russia. Gli occhi degli europei, e non solo degli italiani, sono tutti puntati su San Mario Draghi, il quale, dall’alto dei 148 metri dell’Eurotower di Francoforte, dove ha sede la Banca Centrale Europea, sta preparando le sospirate misure «non convenzionali» che dovrebbero immettere denaro nell’economia, raggiungendo direttamente (ossia usando le banche principalmente come tramite) imprese desiderose di investire e famiglie desiderose di sottoscrivere prestiti per acquistare un’abitazione.

E’ ragionevole attendersi un miglioramento che permetta all’economia europea di non scivolare in deflazione, ma non aspettiamoci che le economie ripartano a razzo: in economia è difficile trovare dei grandi santi che risolvano i problemi. Milioni di italiani e di altri europei sembrano invece continuare a credere che la ripresa deve scendere dall’alto, derivare da fatti esterni senza accorgersi che in buona parte la si crea giorno dopo giorno, avendo il coraggio di compiere piccole scelte, comprese quelle di acquistare i beni che servono con spese che rientrino nelle normali disponibilità delle famiglie e di varare piani di crescita che restino nell’ambito della normale attività delle imprese. Decine di milioni di famiglie europee, con la somma delle loro decisioni, determinano in buona parte il «clima economico». Questi milioni di piccoli miracoli individuali sono la condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché ci scuotiamo di dosso quest’infernale recessione.

Se lo stato perde i colossi Eni e Enel

Se lo stato perde i colossi Eni e Enel

Federico Fubini – La Repubblica

Non c’è più tempo e il ministero dell’Economia si sta preparando a muovere in autunno. Fra la seconda metà di settembre e fine novembre, nel momento più adatto in base alle condizioni di mercato, le privatizzazioni entreranno nel vivo. Questa almeno è la tabella di marcia sulla quale stanno lavorando i tecnici del Tesoro. Si punta a partire con ciò che resta dei gioielli della corona, Eni e Enel, senza reti di sicurezza intrecciate grazie all’arte dell’ingegneria finanziaria pur di mantenere il controllo legale delle due società.

Nel Paese dell’Iri, dell’Efim e delle oltre diecimila partecipate di questi anni, per la prima volta un governo italiano è pronto a scendere sotto le soglie dello “Stato padrone” delle società più strategiche. Di entrambe oggi il governo detiene in modo diretto o indiretto appena più del 30%, la quota che permette in linea di diritto di controllare l’assemblea degli azionisti. Entro i prossimi tre mesi, però, dovrebbe andare in vendita il 5% sia di Eni che di Enel, per ricavi da circa 5 miliardi da reclutare a contenimento del debito pubblico.

Non sarà un passo a cuor leggero per le strutture di Via XX Settembre, eredi di una tradizione quasi secolare di controllo pubblico delle imprese. Se ci si sta arrivando, è perché la mano di carte in mano al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan non dà molta scelta. È passato più di un anno da quando il suo predecessore, Fabrizio Saccomanni, iniziò a mettere in cantiere un nuovo programma di privatizzazioni per contrastare il continuo aumento del debito. E sono passati sei mesi da quando Padoan stesso ha stilato una tabella di marcia anche più ambiziosa, che prevede vendite di attività per dieci miliardi l’anno da adesso fino al 2017. Di questi progetti sono stati riempiti molti documenti del governo, inclusi quelli mandati a Bruxelles. Ma dai primi annunci di oltre un anno fa, il Tesoro è riuscito a incassare appena 350 milioni da Cassa depositi e prestiti per la cessione parziale di Fincantieri: il piano originario sulla società di costruzioni navali aveva previsto entrate per 600 milioni.

Per adesso è mancata soprattutto la qualità degli attivi da mettere sul mercato. Il piatto forte quest’anno avrebbe dovuto essere Poste Italiane, di cui il Tesoro intendeva iniziare a cedere il 40%. Ma Francesco Caio, il nuovo amministratore delegato, questa primavera ha scoperto di aver rilevato dal predecessore Massimo Sarmi un’azienda tutt’altro che in condizioni di essere quotata in Borsa. Le attività postali tradizionali viaggiano in una perdita fin qui in qualche modo resa meno visibile dai buoni risultati del Banco Posta. Nei settori più promettenti, soprattutto la spedizione di pacchi, le Poste in Italia hanno una quota di mercato molto inferiore alle omologhe ex monopoliste degli altri Paesi europei. E con i tassi d’interesse ai minimi, anche il Banco Posta fatica a garantire la redditività degli anni passati. Quotare in Borsa l’azienda adesso avrebbe comportato il rischio di un flop.

Caio ha chiesto tempo al governo per ristrutturare l’azienda e ora al Tesoro si conta sul fatto che nel 2015 si possa procedere alla cessione del primo 40% delle azioni. Gli introiti sperati dovrebbero arrivare a quattro o cinque miliardi. In seguito, se tutto andrà per il meglio, lo Stato dovrebbe gradualmente continuare a scendere nel capitale del gruppo di Caio e portare nuovi fondi a contenimento del debito pubblico.

Simile il processo previsto per Enav. L’Ente di navigazione aerea non è in condizioni di attrarre investitori privati oggi, ma si conta che lo sia tra un anno per ricavi da circa un miliardo. Per Sace invece i calendari del ministero dell’Economia sembrano prevedere tempi ancora più lunghi.

Di qui la decisione di accelerare su Eni e Enel, per schierare ricavi a contrasto dell’aumento del debito già da quest’anno. Della società elettrica, che capitalizza circa 31 miliardi di euro, il ministero dell’Economia ha il 31,2% e scenderebbe al 26%. Del gruppo dell’energia, che vale circa 66 miliardi, ha il 3,9% e la Cassa depositi e prestiti (del Tesoro all’80%) controlla un altro 26,3%. La sfida da ora in poi per lo Stato sarà continuare a esercitare il controllo di fatto anche senza il vincolo legale nell’assemblea degli azionisti: un passo in Italia impensabile per gran parte degli ultimi 80 anni, da circa metà dell’era fascista.

Raccontare la verità sui conti in dissesto

Raccontare la verità sui conti in dissesto

Massimo Tosti – Italia Oggi

A mettersi nei panni di Matteo Renzi c’è da sudare freddo. Domani il consiglio dei ministri dovrebbe varare le riforme della scuola e della giustizia e, soprattutto, lo Sblocca Italia, il provvedimento destinato a ridare slancio all’economia. Ma il ministro competente Pier Carlo Padoan incontra difficoltà pressoché insormontabili nel reperimento delle risorse necessarie per lo sblocco. L’impressione è che per troppi anni (più probabilmente decenni) i governi abbiano rinunciato a mettere ordine nei conti dello Stato, con il risultato che oggi è persino difficile raccapezzarsi fra gli impegni di spesa e le prospettive di entrata. È un po’ come se una famiglia avesse perso il controllo della propria situazione patrimoniale, accendendo mutui e firmando cambiali molto al di sopra delle prospettive di guadagno: a un certo punto i nodi vengono al pettine (e gli ufficiali giudiziari bussano alla porta), ma nessuno in famiglia ha un quadro realistico della situazione. Carlo Cottarelli (responsabile della spending review) sta cercando di capirci qualcosa e sta compiendo un lavoro apprezzabile (ma non si sa quanto apprezzato dal presidente del consiglio): l’ultima indagine l’ha riservata alle aziende partecipate, con il risultato di mettersi le mani nei capelli verificando gli sprechi e i debiti accumulati da amministratori distratti (o incapaci, o preoccupati soltanto di assumere amici e amici degli amici in aziende inefficienti e strangolate da un personale pletorico e raccomandato).

Cottarelli si comporta come un tutore al quale il tribunale ha affidato il compito di rimettere in ordine i conti di un capofamiglia appena deceduto che ha lasciato un’eredità confusa e gravata di debiti. Il problema è che il governo non può accettare l’eredità incassata con beneficio di inventario. Ma è già positivo che si stia dando da fare per cercare di correggere i vizi del passato. Probabilmente ci vorranno anni (altro che mille giorni) per raddrizzare i bilanci e rimettere l’Italia in cammino verso la ripresa. L’unico appunto serio che si può rivolgere a Renzi è che, fino ad oggi, non ha avuto il coraggio di raccontarci tutta la verità. E pensare che Monti, l’economista, vedeva la luce in fondo al tunnel.

Numeri, numerini e numeri spaziali

Numeri, numerini e numeri spaziali

Giorgio Santilli – Il Sole 24 Ore

Tornato a Palazzo Chigi, Matteo Renzi si è messo subito al lavoro sugli oltre 100 articoli che gli uffici gli hanno lasciato domenica scorsa dopo il lavoro, durato tutto agosto, di raccolta delle norme del decreto sblocca-Italia dai vari ministeri. A Renzi il testo deve aver fatto la stessa impressione che ha fatto a noi: un corpaccione con molte cose interessanti ma senza un’anima e senza un euro aggiuntivo rispetto a poche, vecchie risorse riprogrammate. Se il decreto vuole essere la risposta ai moniti agostani di Draghi sul rilancio degli investimenti o il biglietto da visita per il Consiglio Ue del prossimo weekend, c’è ancora molto lavoro da fare. Le risorse disponibili ammontano al momento agli 1,2 miliardi del fondo revoche per vecchie infrastrutture mai partite e forse 2,5 miliardi del Fondo sviluppo coesione mai utilizzati. Forse perché gli uffici ministeriali non danno affatto per scontata questa ulteriore posta e l’incontro Renzi-Padoan di lunedì non ha tranquillizzato.

A voler essere generosi si possono inserire nell’orizzonte dello sblocca-Italia un piano per il dissesto idrogeologico che sta cercando di raccogliere almeno un miliardo da revoche (anche qui) di vecchie opere mai partite e un piano depurazione da 1,6 miliardi che non è mai decollato e potrebbe farlo, ammesso che funzioni la ricetta sempreverde dei supercommissari.

I 43 miliardi di cui parla il governo si conferma un numero spaziale, infondato: una farsa come ha scritto il direttore di questo giornale nell’editoriale del 7 agosto. Il governo inserisce l’attivazione di alcune opere infrastrutturali «già finanziate» ma da sbloccare che sono state quantificate con leggerezza in 30 miliardi, ma che a ben guardare ne possono valere 12, intendendo con questo l’avvio entro 12-18 mesi di opere che produrranno poi lavori per 12-15 miliardi in un arco di vita delle opere di 5-6-8-10 anni.

Sulla stima reale di quanto valgano queste opere basta forse rimandare al lavoro puntuale, opera per opera, fatto dal Sole 24 Ore lo scorso 10 agosto e ricordare qualche opera multimiliardaria inserita a sproposito: l’autostrada Orte-Mestre, che pesa per 10,4 miliardi e vedrà forse con il decreto di fine mese aggirare il parere contrario della Corte dei conti alle defiscalizzazioni concesse dal Cipe per 1,9 miliardi, ma dovrà poi fare la gara per individuare il concessionario (oppure confermare il promotore), portare il progetto a livello definitivo, superare un lungo iter autorizzativo e trovare banche e finanziatori per fare in tempi rapidi un closing e poi avviare i lavori. Probabilità che l’opera parta nel giro di un anno o un anno e mezzo: zero. Per altre opere ci sono in quel piano errori grossolani (la ferrovia Messina-Catania-Palermo è conteggiata per 5.250 milioni, cioè il costo totale dell’opera, mentre l’opera ha disponibili solo 2,4 miliardi e il lotto da sbloccare vale 900 milioni). Lasciamo correre opere tutt’altro che facili da sbloccare come la gronda autostradale di Genova (3,2 miliardi) o opere che non hanno nulla da sbloccare come il piano per Fiumicino (2,1 miliardi).

Da premesse tanto incerte nasce quel totale di 43 miliardi. Il discorso andrebbe riportato dentro una cornice più seria e più fattiva: meno numeroni inutili di cui è morta la legge obiettivo, più risorse reali e comunque una selezione di obiettivi strategici per sbloccare piani e opere realmente prioritari. Un’anima, insomma, per evitare il ripetersi di sblocca-Italia che non hanno sbloccato l’Italia e l’hanno invece condannata al più basso Pil d’Europa.

Se Made in Italy fosse un brand sarebbe il terzo al mondo

Se Made in Italy fosse un brand sarebbe il terzo al mondo

Giuliano Noci – Il Sole 24 Ore

Un obiettivo importante – valorizzare il marchio Italia – è finalmente entrato nell’orbita del governo con l’ipotesi del varo di un piano da 160 milioni. È un’arma per combattere la crisi perché la nostra crescita dipende anche e soprattutto da un marchio unitario “Italia” che porterebbe al nostro sistema il vantaggio immediatamente riscontrabile della lotta alla contraffazione. In cifre, solo nell’agro-alimentare, secondo Mise, 54 miliardi (cifra che doppia il nostro export). I colossi internazionali del digitale sono sempre più attenti al Made in Italy. Prova ne sia che Google ha negli ultimi mesi avviato la seconda tappa del suo progetto con Unioncamere, “Made in Italy: Eccellenze in Digitale” .

Un progetto dedicato ai giovani che – se selezionati – riceveranno una borsa di studio di 6mila euro all’esito di un percorso formativo che Google e Unioncamere hanno promosso in collaborazione con l’Agenzia Ice. I giovani dovranno aiutare le imprese dei territori a sfruttare le opportunità offerte dal web per far conoscere le eccellenze del Made in Italy. Samsung , invece, ha varato il progetto Maestros Academy (http://www.maestrosacademy.it) per far crescere una nuova generazione di artigiani italiani mettendo in contatto maestri artigiani e giovani.

Qualche dato: il valore del commercio elettronico a livello mondiale cresce a ritmo sostenuto: 1,3 trilioni di dollari nel 2013 (+ 20% anno su anno). Se il Made in Italy fosse un brand sarebbe il terzo marchio più noto al mondo, dopo Coca Cola e Visa. E le ricerche condotte su Google, nel primo semestre 2013, mostrano che il Made in Italy e i suoi settori-chiave sono cresciuti dell’8% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con picchi in Giappone (+29%), Russia (+13%) e India (+20%). Nonostante questi numeri solo il 34% delle Pmi italiane è presente online con un proprio sito; solo il 4% delle realtà italiane con più di 10 addetti vendono almeno l’1% online, contro il 12% di quelle francesi e spagnole, il 14% del Regno Unito e il 21% delle imprese tedesche; le migliori venti aziende italiane che operano online fanno assieme il 70% del fatturato dell’e-commerce italiano. Le prime 50, l’86 per cento. Le ragioni: investimenti elevati, competenze specifiche, presidio delle leve tecnologiche e di marketing.

Il governo Renzi dovrebbe prendere l’iniziativa di concorrere a costruire un’identità unitaria del Made in Italy, un Master Brand capace di fornire rassicurazioni, specifiche associazioni mentali positive al mercato, soprattutto per le piccole imprese. Proprio come fa Armani, attorno al cui nome sono nate linee di abbigliamento che si rivolgono a segmenti di mercato differenti, beneficiando però dell’appartenenza alla stessa scuderia. Occorre lavorare per trovare un simbolo, una rappresentazione iconica evocativa dell’italianità; Oscar Farinetti ha proposto la mela (per l’agroalimentare), un concorso internazionale dovrebbe aiutarci a celebrare l’integrazione tra creatività e tecnica. Con un motore di promozione, un piano marketing che conti su di una unica cabina di regìa: un’Agenzia Italia (esteri, commercio, turismo e cultura) – alle dipendenze della Presidenza del Consiglio – che si avvalga del braccio operativo della rete diplomatica. Serve un nuovo marketing mix; nel nuovo mondo è fondamentale non solo essere presenti a fiere, organizzare eventi, quanto piuttosto costruire una presenza multicanale del marchio Italia: nuovi media e cinematografia sono i principali strumenti con cui costruire opinioni e preferenze in capo a un soggetto unitario di promozione. Una gestione integrata del marchio Italia promette crescita: solo i settori più ancorati all’effetto Made in Italy (abbigliamento, arredo, agro-alimentare) con un +10% del valore dell’export genererebbero nei prossimi 10 anni circa 100 miliardi di entrate in più. Ben venga dunque Google – che legittimamente intravede nella costruzione di contenuti legati al Made in Italy e nel percoso di alfabetizzazione digitale degli operatori italiani un grande potenziale pubblicitario – ma Governo, sistema camerale, agenzia Ice devono credere nel lancio di un grande piano di formazione e marketing digitale del Made in Italy.

Una partecipata su 4 con rendimento negativo

Una partecipata su 4 con rendimento negativo

Marco Rogari – Il Sole 24 Ore

Una società partecipata dagli enti locali su quattro presenta un’indice di redditività negativo rispetto al capitale investito (Roe). È quanto emerge dalla mappa aggiornata al 2012 contenuta nella banca dati del dipartimento del Tesoro del ministero dell’Economia che è stata pubblicata dal commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, a pochi giorni dal probabile avvio dell’operazione di potatura della giungla delle partecipate con il decreto “Sblocca Italia” in arrivo venerdì. L’operazione dovrebbe essere poi completata con la prossima legge di stabilità. Anche se resta ancora in piedi l’ipotesi (al momento meno gettonata) di un intervento in un’unica soluzione a ottobre con la “ex Finanziaria”.
La mappa diffusa da Cottarelli è tra l’altro parziale visto che i bilanci 2012 di 1.075 società sono risultati “off limits” per il Mef, che è riuscito a catalogare 5.264 partecipate di cui 1.424 con un rendimento negativo nel rapporto percentuale tra risultato netto e mezzi propri. Le municipalizzate che presentano un patrimonio negativo o nullo sono 143: a guidare questo elenco pubblicato come gli altri sul sito della spending review è la Cmv Spa di Venezia che gestisce il casinò (segno meno di 20,3 milioni di euro), seguita da Fiera di Roma Spa (-15,7 milioni di euro) e da Cotral, partecipata della Regione Lazio e del Comune di Roma (segno meno per circa 15 milioni). Nel censimento rientrano 1.242 società non operative (molte già in liquidazione) e 86 con incoerenze di bilancio. Oltre alle 1.424 partecipate con una redditività in negativo, la mappa presenta 2.708 società con un Roe superiore a zero ma inferiore a 10 e 1.172 con una forte redditività (Roe a due cifre). Utilizzando il parametro della grandezza patrimoniale emerge che le società censite con un capitale fino a 10mila euro sono solo 130, di cui 67 con un Roe negativo; quelle con un capitale tra 10 e 100mila euro sono 1.182 (una su tre con redditività sotto lo zero) mentre le partecipate tra i 100mila euro e 1 milione sono 1.662 (408 con Roe in negativo). A superare la soglia del milione di capitale nel 2012 sono state 2.290 società (612 con un Roe con segno meno).
«La pubblicazione di indici che misurino l’efficienza delle partecipate – si afferma sul sito web dedicato alla spending – può costituire un importante stimolo al miglioramento delle attività di queste società». Cottarelli non arriva, almeno sul sito, ad alcuna conclusione ma fa notare come il Roe (Return on equity) sia «un fondamentale indice di efficienza».
Quanto all’operazione per dare il via allo sfoltimento della giungla delle partecipate, sollecitato ieri anche da molti sindaci, il governo punta sulla quotazione in Borsa (Mercato telematico italiano) delle società che oggi gestiscono in house servizi di trasporto pubblico locale, di igiene e ambiente, di raccolta dei rifiuti. L’obiettivo è molteplice: privatizzazione per attrarre nuovi capitali finanziari e capacità industriali, destinare le somme incassate dagli enti locali a riduzione del debito e al rilancio degli investimenti, ridurre gli sprechi e dare soluzione innovativo a un regime di monopoli in house che si trascina da dieci anni. La carota che Palazzo Chigi ha studiato per incentivare i comuni ad aderire è il prolungamento delle attuali concessioni, che verrebbero a scadenza già il prossimo anno, con varie ipotesi di gradazione fino a un massimo di 22 anni e sei mesi (termine presente nel regolamento comunitario 1370/2007).

Il testo del decreto sblocca-Italia diramato da Palazzo Chigi domenica scorsa conferma le indiscrezioni delle settimane scorse (si veda Il Sole 24 Ore del 20 agosto) ma aspetta il vaglio decisivo del Mef, che potrebbe anche preferire il veicolo della legge di stabilità per intervenire sulle partecipate. La quotazione può avvenire con due modalità per accedere alle agevolazioni: gli enti locali collocano il 60% del capitale oppure tengono il 50,01% delle azioni, collocando una quota inferiore e destinando la quota restante a un partner industriale scelto con gara europea. Il presidente dell’Anci, Piero Fassino (si veda l’intervista al Sole 24 Ore del 25 agosto) ha già detto che la modalità è interessante, anche se se ne devono ovviamente precisare meglio molti aspetti. La relazione allegata alle norme diramate da ultimo domenica scorsa conferma che l’operazione potrebbe portare a un maggior valore per gli enti locali dell’ordine dei dieci miliardi se tutti aderissero.
Nell’ultimo testo una novità interessante riguarda l’attribuzione dei poteri regolatori nel settore dei rifiuti all’Autorità dell’energia elettrica, il gas e i servizi idrici, come successo tre anni fa proprio per l’acqua. Oltre alle norme principali ci sarebbero per gli enti locali numerose altre agevolazioni in caso di fusione di aziende di modeste dimensioni, lo svincolo delle somme incassate dal patto di stabilità interno e anche un contributo per interventi infrastrutturali della stessa dimensione della dismissione fatta, fino a un limite complessivo di 300 milioni per il 2014 e 300 per il 2015.

Più poveri e più tassati

Più poveri e più tassati

Nicola Porro – Il Giornale

Questa settimana il governo darà via al cosiddetto Sblocca Italia. Nomi altrettanto evocativi sono stati dati a decreti precedenti. Nonostante ciò l’Italia è ferma al palo. Il governo Renzi ha fatto un passo in più rispetto ai predecessori: ha restituito agli italiani (o meglio solo a una certa fascia ben identificata) 10 miliardi di euro, in forma di riduzione fiscale. Non è poco. Eppure il Pil, il nostro reddito, è diminuito.

Purtroppo il motivo è semplice: gli italiani non si fidano più. Cerchiamo di essere un po’ più specifici. Ogni riduzione fiscale dovrebbe generare una maggiore propensione media al consumo. E per questa via creare maggiore prodotto e reddito. Si spende di più, le aziende così vendono e assumono. La riduzione fiscale di Renzi (prevista anche per gli anni prossimi) serve a poco per il Pil e molto per chi comunque la incassa e gode di un extrareddito disponibile. Non alimenta la nostra produzione per due ragioni di fondo.

La prima la spiega il presidente della Confedilizia nelle pagine interne. Le diverse patrimoniali sulla casa ci hanno reso più poveri per duemila miliardi. La seconda è che (come dimostra il dibattito estivo) siamo incerti sul futuro fiscale che ci attende: nuove imposte, varate dai passati governi, ma solo oggi in vigore, contributi vari sulle pensioni, riforma delle regole sulle detrazioni fiscali rendono lo scenario tributario a 12-18 mesi fosco. Ebbene nessuna riduzione fiscale avrà mai un effetto positivo sulla produzione se chi ne gode si sente, al tempo stesso, più povero e in prospettiva più tassato.

Si può uscire da questa impasse ? La prima strada è quella di riscrivere un contratto fiscale con gli italiani (tutti, senza distinzione di censo) dicendo loro che le patrimoniali sugli immobili verranno riportate alla situazione pre 2011. Prendiamo atto che quelle imposte hanno impoverito gli italiani più di quanto abbiano arricchito lo Stato. Si dovrebbe poi concentrare lo sforzo di riduzione fiscale sulle imprese. L’elargizione degli 80 euro a dieci milioni di italiani (come bene aveva previsto nel 1958 Milton Friedman) ha un effetto moltiplicatore sul Pil molto inferiore di quello che avrebbe una riduzione fiscale più forte a un milione di imprese.

In economia meno potere agli Stati

In economia meno potere agli Stati

Stefano Lepri – La Stampa

Mario Draghi è oggi il primo degli europeisti. E si tratta di un europeismo democratico, non tecnocratico. Il suo discorso dell’altro giorno rappresenta in primo luogo una svolta radicale nella dottrina della Bce: l’economia nell’area euro non ripartirà senza un impulso – uno stimolo, per dirla all’americana – dai bilanci pubblici. Per realizzarlo occorreranno decisioni che esprimano l’interesse dei cittadini dell’area euro nel loro insieme; non basta la sommatoria delle politiche dei governi, che ci ha condotto nel vicolo cieco dove ci troviamo. Questo risulta dalla stringente analisi economica condotta da Draghi; ovviamente trarne le conclusioni spetterà ai politici. Ne saranno all’altezza?

Nei mesi scorsi, il presidente della Bce era stato accusato di muoversi con troppa lentezza, timoroso di nuove rotture con i tedeschi. Per molto tempo, aveva proceduto a passi piccoli, talvolta quasi impercettibili, seppur con costanza. Infine, davanti a un pubblico americano a lui più vicino per studi e mentalità, ha compiuto un balzo. Alcune cose che ha detto stanno facendo, faranno scandalo in Germania. Ha detto che l’austerità degli anni 2011-12 era «necessaria» a causa dei difetti di costruzione dell’area euro, ma è stata anche eccessiva. Continua a sostenere che le riforme strutturali sono urgenti ma vi aggiunge – novità assoluta – che per la ripresa occorrono «politiche di domanda» ossia meno rigore di bilancio.

Si attenua l’ansia per l’eccessivo debito pubblico, di fronte a troppe persone senza lavoro. In parte, la crescita la può ottenere ciascuno Stato tagliando spese poco utili e abbassando le tasse (operazione politicamente ardua, perché le resistenze delle relativamente poco numerose vittime dei tagli sono più forti, all’inizio, della gratitudine dei contribuenti). Ma non basta.

Tuttavia non si possono infrangere le regole di bilancio europee, frutto della diffidenza reciproca tra gli Stati, giustificata dai passati comportamenti irresponsabili di alcuni tra essi. Ne risulterebbero contrasti capaci solo di condurre alla paralisi. Ma la somma di politiche nazionali che rispettano le regole produce, oggi, un bilancio troppo restrittivo, recessivo, per l’insieme dell’area euro. Questa è la vera «cessione di sovranità» che Draghi propone. Non dunque di esautorare governi liberamente eletti a favore di qualche gelido progetto tecnocratico. Tutt’altro: in nome degli interessi dei cittadini dell’area euro – soprattutto di quelli che sono disoccupati – occorre vedere che cosa aggiungere alle politiche dei governi nazionali. Ovvero, se lo Stato italiano ha troppi debiti per spendere, gli investimenti necessari al futuro benessere nostro e del resto dell’area euro dovranno venire dal bilancio della Germania e degli altri Stati dai bilanci sani, o da quel programma comune promesso dal neopresidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e a cui Berlino fa resistenza.

Nel gioco europeo sono dunque cambiate molte carte in tavola. Ricordiamoci che fino a ieri la Bce sosteneva che le regole del Fiscal Compact, casomai, non erano severe abbastanza. D’ora in poi, pignolerie eccessive contro l’Italia sono escluse. Tanto più quando Draghi ricorda che la stessa Commissione europea esprime dubbi su uno dei parametri usati per definire l’«obiettivo di medio termine» dei bilanci pubblici. Dove sono gli ostacoli da superare? C’è in realtà una simmetria perversa tra il nazionalismo economico conservatore dominante in Germania e un nazionalismo di sinistra che, presente da tempo in Francia, trova ora le sue forme anche in Italia. Una Europa più vicina ai cittadini si costruisce, appunto, in Europa; non ridando potere alle classi politiche nazionali.

Il “miracolo” delle grandi opere

Il “miracolo” delle grandi opere

Valerio Castronovo – Il Sole 24 Ore

Particolari sconti fiscali per le infrastrutture figurano nel decreto legge “Sblocca Italia”, previsto nel Consiglio dei ministri di fine agosto. Le opere pubbliche, insieme all’edilizia, erano le leve su cui faceva affidamento anche lo “Schema” per lo sviluppo del reddito e dell’occupazione (a cui venne dato poi il nome di “Piano”) che il ministro del Bilancio, Ezio Vanoni, mise a punto insieme a Pasquale Saraceno, 60 anni fa, nell’agosto 1954, durante alcuni giorni di vacanza che essi passarono in Valtellina, a Morbegno e in Val Masino.
Ministro del Commercio estero nel 1947, Vanoni aveva svolto un ruolo di rilievo dal 1948 al 1953, quale titolare delle Finanze (a lui si dovevano, fra l’altro, la riforma tributaria e l’istituzione dell’Eni); Saraceno, un veterano dal 1933 dell’Iri (dove dirigeva il Servizio studi), era stato fra i promotori della Svimez e proprio nell’ambito dell’Agenzia per lo sviluppo del Mezzogiorno (un cenacolo di autorevoli meridionalisti e giovani studiosi di valore) s’era avviato – in coincidenza con la redazione di un documento presentato in aprile all’Oece sulla struttura dualistica dell’economia italiana – un progetto inteso a individuare e valutare quali avrebbero potuto essere i fattori propulsivi per una crescita dell’economia e del lavoro e per la riduzione del divario fra Nord e Sud.

L’annuncio da parte di De Gasperi, in giugno, al Congresso della Dc a Napoli, che Vanoni stava lavorando a un piano in grado di «assicurare a ciascuno un lavoro, una casa, una sussistenza degna di un uomo libero», suscitò naturalmente molte aspettative. Si era ormai esaurita la spinta impressa all’economia italiana dal recupero nel dopoguerra degli impianti non totalmente utilizzati, dalla ripresa fisiologica dell’agricoltura e dagli aiuti straordinari del Piano Marshall; inoltre s’era manifestato un disavanzo complessivo della bilancia commerciale, che registrava saldi attivi soltanto con la Svizzera e la Germania occidentale.
In pratica, lo “Schema” di sviluppo a cui lavorò, sotto la regìa di Vanoni, un gruppo di esperti della Svimez e di consulenti stranieri (tra i quali Paul Rosenstein Rodan e Jan Timbergen) era una sorta di “manifesto”, di disegno di programmazione, per una politica economica di lungo periodo, che assicurasse un efficace coordinamento dei provvedimenti dello Stato e un buon funzionamento del mercato. In sostanza, nell’arco di un decennio ci si proponeva di conseguire tre obiettivi: la creazione di quattro milioni di posti di lavoro nei settori industriale e terziario, che compensassero la riduzione dell’occupazione agricola (destinata a scendere, stando alle previsioni, dal 41 al 33% del totale); il superamento del divario Nord-Sud attraverso la promozione degli investimenti nel comparto industriale; il raggiungimento dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Affinché tutto ciò si realizzasse, si calcolava che ci sarebbero voluti un tasso di sviluppo medio annuo del 5%, un costante aumento della propensione al risparmio, e un mutamento della ripartizione settoriale e territoriale degli investimenti, sostenuti in particolare dallo Stato e dalle imprese pubbliche.

Approvato alla fine del 1954 dal Governo centrista presieduto da Mario Scelba, questo “Piano” raggiunse, alla fine del decennio, alcuni risultati di rilievo: come, l’aumento di 2,6 milioni di addetti nell’occupazione extra-agricola (sebbene l’esodo dalle campagne fosse stato superiore alle previsioni) e l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Inoltre, il varo dello “Schema Vanoni” concorse alla decisione della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo di incrementare i suoi prestiti, di cui venne a beneficiare la Cassa del Mezzogiorno.
Tuttavia, furono soprattutto l’aumento della produttività per unità di lavoro e gli effetti dei progressi tecnologici e organizzativi, con le relative economie di scala, nonché l’incipiente espansione della domanda di beni di consumo durevoli, a determinare un salto di qualità, nel giro di pochi anni, rispetto all’idea di un’evoluzione assai più graduale in cui s’imperniava il Piano Vanoni. D’altra parte, agì da acceleratore l’adesione dell’Italia nel marzo 1957 alla Comunità economica europea e, quindi, l’impegno per una progressiva liberalizzazione degli scambi. Sta di fatto che mano pubblica e mano privata posero, ognuna per la propria parte, le basi del “miracolo economico”.

Quel balletto sulle pensioni dà una mazzata alla ripresa

Quel balletto sulle pensioni dà una mazzata alla ripresa

Renato Brunetta – Il Giornale

Difficile dare torto a Enrico Morando, migliorista doc (la corrente del Pd di Giorgio Napolitano) quando dice che ritornare sul tema delle pensioni è «estremamente negativo, perché la riforma della previdenza pubblica già è stata fatta». Ne avrebbe tuttavia dovuto parlare prima con Pier Paolo Baretta, ex Cisl, ben più possibilista, disposto a salvare solo le pensioni minori: 2.000 euro al mese.

Lordi o netti? Si tratta di autorevoli esponenti della maggioranza parlamentare. Fanno parte non solo dello stesso governo, ma dello stesso Ministero: quello dell’economia. Il primo: vice ministro; il secondo: sottosegretario. Forse era opportuno, prima di procedere ad ulteriori esternazioni, invocare il coordinamento del ministro Pier Carlo Padoan. Che, a sua volta, andando a ritroso nella catena di comando, avrebbe dovuto interessare della questione il premier, Matteo Renzi, che avrebbe, a sua volta, dovuto frenare il ministro del lavoro, Giuliano Poletti, prima dell’intervista che ha determinato una nuova piccola tempesta estiva.

Se abbiamo rievocato la vicenda è solo per dimostrare lo stato di confusione in cui versa il governo in una materia così delicata, come la previdenza, che interessa circa 16 milioni di persone. Se aggiungiamo che la maggior parte di loro sono capifamiglia, possiamo ben dire che l’argomento è universale. Riguarda tutti gli italiani. Dalla singola pensione non deriva solo il sostentamento del singolo, ma quell’economia familiare – il welfare naturale – che è uno degli antidoti più potenti ai morsi della crisi. Sono sempre più spesso i padri che aiutano i figli disoccupati o con un reddito insufficiente. I nonni che si sobbarcano dell’onere di far quadrare il magro bilancio familiare. Turbare, in modo intermittente, quel delicato equilibrio non è solo un atto inutile di crudeltà. Genera la più generale incertezza. E con essa un’ulteriore contrazione dei consumi – quelli che possono – nel timore di tempi più neri. Risultato: un ulteriore avviluppo della crisi, nella spirale della deflazione.

Ai tanti smemorati della maggioranza, ricordiamo che il contributo di solidarietà sulle pensioni più alte esiste già. Lo ha previsto la legge 486 del 2013: gentile lascito del governo Letta. Colpisce tutte le pensioni superiori a circa 5mila euro netti al mese. Con una progressione che va dal 6 al 18 per cento per quelle superiori a 195mila euro lordi l’anno (circa 10mila netti al mese). In quest’ultimo caso la somma delle due aliquote (quella erariale ed il contributo) porta ad un prelievo marginale di circa il 65 per cento. Siamo al limite dell’esproprio. La rilevanza di questi argomenti spiega il diluvio di prese di posizione che questi propositi hanno alimentato. La ferma opposizione di parti consistenti della stessa maggioranza. Le preoccupazioni dei sindacati e di tutti coloro che operano nel sociale. La nostra stessa dura reazione per porre fine ad un gioco stupido e dannoso. Non sono mancate, naturalmente, le voci dissonanti. Gli economisti della voce.info hanno quasi brindato. Chi condanna senza appello il metodo retributivo non tiene conto del fatto che quand’esso era operante la «speranza di vita» degli italiani – la base di ogni discorso serio sulla previdenza – era di gran lunga minore di quella attuale.

Può sembrare pura necrologia, ma non è così. La logica del pro-rata, vale a dire della sola applicazione «de futuro» delle riforme, aveva quell’origine statistica. Il sistema venne progressivamente modificato – l’ultima volta con la legge Fornero – proprio a seguito dell’allungamento della vita media. L’alterazione del parametro demografico rendeva progressivamente insostenibile, cosa che invece era nel t-n, come direbbero gli economisti della Voce . Ossia nel tempo precedente. Può sembrare fin troppo sofisticato. Ma questa è stata la base materiale di decine di sentenze, sia della Corte Costituzionale (sentenza 116/2013) che della Cassazione (sentenza n. 17892/2014), nel ribadire la non retroattività di quelle disposizioni di legge o atti amministrativi a danno delle pensioni già in essere.

Considerazioni che dovrebbero bastare. Sennonché la logica espropriativa che è alla base delle argomentazioni di chi vorrebbe colpire il presunto privilegio rappresentato da una pensione non di semplice povertà è ancora più devastante. Il parametro numerico è solo uno degli elementi che caratterizzano la relativa equazione. Le altre incognite – altrettanto essenziali – sono date dall’entità dei contributi versati e dal numero degli anni che hanno caratterizzato quel prelievo. Ma di questo non si parla. È semplicemente scomparso dal radar dei nuovi «livellatori». La cosa è paradossale. Se si accettasse la tesi del ricalcolo delle pensioni – passaggio dal «retributivo» al «contributivo» ad essere principalmente colpiti non sarebbero i «ricchi», ma i poveracci. Di fronte a quest’obiezione, le risposte sono state sempre sconcertanti. Il ricalcolo – è stato detto – va applicato solo ai benestanti. Vale dire a quella classe media, considerata la forte progressione delle aliquote Irpef , già massacrata da una pressione fiscale senza precedenti. Si avrebbero, in questo modo, due diversi sistemi di calcolo: vantaggioso per i meno abbienti, punitivo per gli altri. Il tutto, naturalmente, in barba al principio d’eguaglianza – articolo 3 della Costituzione – e della progressività del carico fiscale – articolo 53 della stessa.

Le polemiche di questi ultimi giorni non hanno senso. O meglio hanno un senso traslato, com’è nella migliore tradizione del politicismo italiano. L’indizio è stato fornito da la Repubblica : non solo giornale bene informato, ma molto spesso il vero suggeritore occulto delle posizioni di alcuni esponenti del governo. La polemica è legata all’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Proposta condivisa da tutto il centrodestra. Piuttosto che impegnarsi in una discussione seria su questo argomento, ecco la mossa del cavallo. Alimentiamo un nuovo tormentone sulle pensioni, per arrivare all’inevitabile compromesso: voi la piantate di agitare il tema e noi facciamo lo stesso per le pensioni. Risultato finale? Niente di niente.

È accettabile questo baratto? Lo sarebbe se non avessimo a cuore il destino degli italiani. Insistere sulla maggiore flessibilità del mercato del lavoro, non è un totem: come ama ripetere Matteo Renzi. Ma quel che più conta è che quel freno (non certo l’unico) ha progressivamente azzoppato l’economia italiana, impedendo la crescita della produttività che è il vero ed unico volano dello sviluppo. Ha infatti reso impossibile politiche attive per il lavoro, che sono il volto nascosto che alimenta il denominatore. E se il Pil non si muove – checché ne dicano i cultori della «decrescita felice» – si fermano tutte le altre componenti dell’economia.

Questa politica, che è il sale dello sviluppo economico moderno, può essere sostituita dalla pura redistribuzione del reddito, come traspare dal libro di Gutgeld, il consigliere di Matteo Renzi («Più eguali, più ricchi»)? Che il mercato vada addomesticato è fuori dubbio. Ma da qui a sopprimerne, con politiche cervellotiche, l’intimo dinamismo ce ne corre. Vale un vecchio principio, tratto dalla saggezza contadina. Le pecore vanno tosate, non ammazzate. La loro eventuale macellazione può servire per un grande banchetto, ma il giorno dopo, se non si hanno altre risorse, è lo spettro della fame a prendere il sopravvento.

P.S. Nei giorni scorsi il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, con il suo «Le pensioni non si toccano» ha messo fine al disastroso dibattito agostano sulle pensioni. Bene, anche se la frittata è difficilmente rimediabile. I 16 milioni di pensionati non si fidano più. Con tutto quel che ne conseguirà in termini di incertezza. Come farsi del male inutilmente. E lo diciamo con amarezza e grande preoccupazione.