economia

Il debito pubblico vola a 2.166 miliardi

Il debito pubblico vola a 2.166 miliardi

Il Sole 24 Ore

Non sembra avere limiti il debito pubblico italiano. A fine maggio, secondo i dati pubblicati ieri dalla Banca d’Italia, il disavanzo ha raggiunto il nuovo record storico a 2.166 miliardi di euro, 20 miliardi in più rispetto al mese precedente. L’incremento, sempre in base a quanto riportato nel supplemento al Bollettino Statistico “Finanza pubblica, fabbisogno e debito”, riflette per 5,5 miliardi il fabbisogno delle Amministrazioni pubbliche e per 14,9 miliardi l’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro (pari a fine maggio a 92,3 miliardi e 62,4 miliardi a maggio 2013).

Nel dettaglio, e con riferimento alla ripartizione per sottosettori, il debito delle Amministrazioni centrali è aumentato di 20,9 miliardi, quello delle Amministrazioni locali è diminuito di 0,9 miliardi, mentre il debito degli Enti di previdenza è rimasto sostanzialmente invariato.

Il bilancio complessivo avrebbe potuto essere anche leggermente peggiore, perché l’emissione di titoli sopra la pari, l’apprezzamento dell’euro e gli effetti della rivalutazione dei BTp indicizzati all’inflazione (BTp-i) hanno contenuto l’incremento del debito per 0,4 miliardi.

Interessante l’analisi dello spaccato dei possessori dei titoli di Stato italiani, visto che ad aprile la quota in mano agli investitori non residenti è cresciuta a 671 miliardi di euro rispetto ai 655 del mese precedente: un’altra dimostrazione del ritorno di interesse dei fondi internazionali per i BTp di casa nostra.

La flessibilità serve a poco: bisogna abbassare le tasse

La flessibilità serve a poco: bisogna abbassare le tasse

Renato Brunetta – Il Giornale

#matteohurryup: chi di ashtag ferisce di ashtag perisce. L’Economist ha elogiato negli ultimi giorni l’abilità di Matteo Renzi nell’uso dei social network. Ma non basta per essere un buon presidente del Consiglio. L’analisi dei primi 4 mesi di governo, infatti, è feroce: «A parole, Renzi è favorevole a ampie riforme e mercati più liberi. L’Italia deve cambiare per cambiare l’Europa, dice. Ma la sua promessa di una riforma al mese non è andata in porto. Ora Renzi dice di avere bisogno di 1000 giorni per fare la differenza, non più 100. Renzi è giovane ed energico, ma su di lui pesano anche inesperienza, improvvisazione e momenti di vacuità. Questa settimana ha pubblicato su Twitter una foto della sua scrivania che voleva dimostrare il suo duro lavoro, ma alcuni vi hanno visto solo un ammasso disorganizzato di carta e penne». E ancora: «L’attenzione sulle riforme istituzionali sta distraendo Matteo Renzi dalle riforme molto più urgenti sull’economia in stagnazione e la burocrazia asfissiante. Centinaia di leggi e decreti sono già stati adottati senza essere stati attuati. Il successo di Renzi in termini di riforme istituzionali non conterà nulla se non riuscirà a resuscitare l’economia. Ma lui spende troppo tempo a fare lobby a Bruxelles per più flessibilità sulle regole di bilancio, e troppo poco a parlare di più flessibilità nel mercato del lavoro e dei prodotti in Italia. Invece di chiedere esenzioni per alcune categorie di spesa, come gli investimenti nella tecnologia, dovrebbe fare di più per tagliare gli sprechi». Poi apprendiamo dai giornali nazionali che «È il numero magico del Pil a tormentare Renzi, non quello dei 2/3 in Parlamento sulla modifica del bicameralismo. L’enfasi usata per commentare le tensioni sulle riforme istituzionali è stata un modo per coprire le difficoltà sui conti pubblici e allentare la presa di quanti teorizzano la necessità di una manovra correttiva entro l’anno»; che «Sarà l’economia a determinare la tenuta o la caduta della popolarità del presidente del Consiglio». E, dulcis in fundo, che il presidente del Consiglio ha un suo libro preferito, sempre sottomano, un “livre de chevet”: il riassunto del bilancio dello Stato.

Insomma, Renzi comincia a rendersi conto che la vera partita si gioca sul campo dell’economia, e, oltre a definire la strategia di politica economica per i prossimi anni, deve porre rimedio alle misure in deficit varate dall’inizio del suo governo a oggi. Una per tutte: gli 80 euro. I risultati della Spending review tardano ad arrivare; l’Ecofin ha bocciato la richiesta di rinvio di un anno del pareggio di bilancio, dal 2015 al 2016, e ha chiesto all’Italia «sforzi aggiuntivi» per rispettare il Patto di Stabilità e crescita. La situazione non è per niente buona. Fa bene il presidente del Consiglio a svegliarsi alle 5 del mattino, sabato incluso, per cercare una soluzione. Anche perché tutto quanto sopra assume una valenza ancora maggiore in conseguenza della circostanza per cui dal 1° luglio e fino a dicembre l’Italia ha l’onore e l’onere della presidenza di turno del semestre europeo.

#matteononpuoisbagliare

In questo contesto, inutile insistere con le richieste di flessibilità. Si facciano le riforme in Europa e in Italia e la Germania reflazioni. La flessibilità ne sarà la diretta conseguenza. Senza neanche bisogno di chiederla. È nelle cose. Ecco la nostra soluzione per “superare” la soglia del 3% rimanendo europeisti. L’Italia non come eccezione, ma come strategia. Dicevamo: reflazione. Vale a dire aumento della domanda interna, quindi dei consumi, degli investimenti, dei salari, delle importazioni e, di conseguenza, della crescita, per il proprio paese e per gli altri paesi. È questa la parola d’ordine che deve segnare il cambio di passo nella politica economica europea. La Germania deve reflazionare per cause di forza maggiore, cioè per rispondere alle segnalazioni della Commissione europea nei suoi confronti a causa dell’eccessivo surplus della bilancia dei pagamenti (netta prevalenza delle esportazioni sulle importazioni). Gli altri paesi devono farlo per cambiare la politica economica germano-centrica dell’austerità e del rigore cieco ed imboccare la strada della ripresa e dello sviluppo, tanto al proprio interno quanto a livello di intera eurozona (conseguenza della crescita in ogni singolo Stato). Se tutto ciò avverrà a livello europeo, e non di singolo Stato, le risorse necessarie per l’avvio di riforme volte a favorire la competitività di ciascun “sistema paese” potrebbero non rientrare nel calcolo del rapporto deficit/Pil ai fini del rispetto del vincolo del 3% e cadere nell’alveo dei cosiddetti “fattori rilevanti” per quanto riguarda i piani di rientro definiti dalla Commissione europea per gli Stati che superano la soglia del 60% nel rapporto debito/Pil. Concretamente, ciascun paese definisce, sulla base delle proprie caratteristiche e specificità, le riforme da implementare al proprio interno, per 1-2 punti di Pil, con relative scadenze temporali; ciascun paese adotta, poi, simultaneamente le riforme definite con la Commissione europea; e beneficia, quindi, degli effetti positivi tanto delle proprie riforme, quanto di quelle adottate dagli altri Stati, attraverso l’aumento delle esportazioni. Risultato: ogni singolo Stato tornerà a crescere, con regole nuove, moderne, competitive; l’intera eurozona tornerà a crescere, con regole nuove, moderne, competitive. Un gioco a somma positiva. Per tutti.

#matteoattentoalbund

Mentre la politica italiana discute, si dilania e si spacca sulle riforme istituzionali, gli avvertimenti dei mercati diventano sempre più frequenti e più pesanti. Borse giù e spread su. Almeno 5 i fattori: la crisi del Banco Espirito Santo scopre i punti deboli del sistema bancario portoghese; in Bulgaria è corsa agli sportelli della Banca Centrale Commerciale e della First Investment Bank; il bollettino della Bce prevede «Una ripresa molto graduale in Europa nel secondo trimestre 2014 e rischio di revisioni a ribasso delle stime in tutti i paesi dell’eurozona»; i dati macroeconomici relativi all’Italia sono disarmanti e, per dirla con il Centro Studi Confindustria: «Si riducono le possibilità che la chiusura del 2014 rispetti le previsioni del governo di un Pil in crescita dello 0,8%» (per la cronaca: per il governo nel 2014 sarà dello 0,8%; per la Commissione europea dello 0,6%; per l’Ocse dello 0,5%; per Confindustria dello 0,2%. Se chiudiamo a 0 siamo pure fortunati); la Federal Reserve ha annunciato per dopo l’estate la fine del Quantitative easing. Evento che i mercati hanno già cominciato a scontare.

Cos’altro deve succedere per far suonare l’allarme in Europa? Stiamo raccogliendo oggi i frutti amari delle politiche economiche sbagliate imposte ai paesi dell’Eurozona dalla Germania di Angela Merkel negli ultimi 5 anni. E le economie nazionali non sono pronte per affrontare un altro ciclo di speculazione finanziaria e di crisi. L’unico Stato che riesce a trarre vantaggio da questa situazione catastrofica è, ancora una volta, quello tedesco, che vede i tassi di interesse sui Bund tornare ai livelli minimi dell’estate del 2012, intorno allo zero. È di fatto ricominciata la corsa ai titoli del debito pubblico tedesco, considerati bene rifugio. Non è un buon segnale: sappiamo tutti come è andata a finire 2 anni fa. Che fare, allora, perché la storia non si ripeta? Innanzitutto agire tempestivamente. A livello europeo: 1) La Banca Centrale Europea deve cambiare il suo Statuto per poter attuare una politica monetaria più espansiva. 2) Le altre istituzioni europee (Consiglio, Commissione e Eurogruppo), anche in occasione del rinnovo dei propri rappresentanti: portino a termine le quattro unioni (bancaria, politica, economica e di bilancio); avviino un processo di mutualizzazione del debito pubblico europeo attraverso l’emissione di Eurobond/Union Bond; stimolino, come abbiamo detto, tutti gli Stati membri a un processo di riforme strutturali, dei cui effetti positivi beneficiano non solo i singoli Stati al loro interno, ma l’Eurozona nel suo complesso; in particolare, chiedano alla Germania di reflazionare, vale a dire aumentare la domanda interna, quindi i consumi, gli investimenti, i salari, le importazioni e, di conseguenza, la crescita, per il proprio paese e per gli altri paesi. 3) La Banca europea degli investimenti deve essere ricapitalizzata per l’emissione di Project bond finalizzati a finanziare investimenti specifici in ricerca e infrastrutture.

D’altro canto, in Italia serve: 1) una vera riforma fiscale che preveda, per esempio, una aliquota unica per tutti i contribuenti, semplificando il sistema, riducendo la pressione fiscale e, allo stesso tempo, aumentando il gettito per lo Stato attraverso il recupero dell’evasione; 2) la riduzione delle tasse sulla casa che, triplicate nel 2014 rispetto al 2011 hanno causato il crollo del mercato immobiliare e di un settore, quello edile, fondamentale per l’economia; 3) una vera riforma del mercato del lavoro, che aumenti la produttività del lavoro e di tutti i fattori produttivi, favorendo la competitività del “sistema Italia”. Senza crescita e con il rischio di una esplosione estiva della crisi, inutile insistere con l’Europa per avere flessibilità per l’Italia, che tra l’altro non è credibile in questa richiesta perché non riesce a usare neanche i margini che le sono già stati riconosciuti (es. per il pagamento dei debiti della Pa, per il contrasto alla disoccupazione giovanile e come fondi

strutturali). La strada da seguire è un’altra. L’ha indicata il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi: «Ci vuole una governance europea per le riforme strutturali». In questo articolo abbiamo illustrato le nostre proposte. #matteofatteneunaragione.

L’ottimismo del premier e la dura realtà

L’ottimismo del premier e la dura realtà

Gaetano Pedullà – La Notizia

Il premier si lamenta dei giornali che vedono nero, che evidenziano i dati negativi e ignorano quelli buoni, che raccontano di un’Italia in ginocchio. Ora, poiché di Giacomo Leopardi non se ne vedono in giro, il pessimismo è ovunque perché una cosa è la realtà e un’altra è il sogno di ciò che vorremmo. Se poi abbiamo a che fare tutti i giorni con dati come la produzione industriale in calo, i consumi ai minimi storici, il credito alle imprese da anni col segno meno, la disoccupazione in crescita e i mercati di nuovo lanciati verso la tempesta perfetta, allora è obbligatorio smettere di sognare e svegliarsi per non cadere inesorabilmente in questi incubi.

Perciò Renzi – che ha molti meriti per il lavoro dei primi quattro mesi di governo – convince poco quando ci racconta che il Paese ha ricominciato ad assumere (una goccia nel mare), che non ci sarà a breve nessuna manovra e si farebbe meglio a raccontare un’Italia diversa. La favoletta dei ristoranti sempre pieni l’abbiamo già sentita. Sarebbe meglio invece evitare di professare ottimismi piacevoli ma in questo momento fuori luogo e affrontare a viso aperto i problemi. L’Europa ci permetterà di tagliare le tasse che stanno ammazzando le imprese? Dopo gli 80 euro, il Governo farà altro per sostenere i consumi? Un’azienda che assume avrà gli incentivi che servono (mica il bonus assunzioni di Enrico Letta, servito infatti a poco)? Adesso sono in agenda le riforme costituzionali. Un passaggio necessario. Ma se Renzi vuol vedere un po’ di ottimismo e i numeri – che sono argomenti testardi! – non lo accontentano, allora tiri fuori le idee. Se son buone, i risultati e l’ottimismo verranno.

“Un po’ per cosa e senza studi precisi così in un’ora inventai il limite del 3%”

“Un po’ per cosa e senza studi precisi così in un’ora inventai il limite del 3%”

Anais Ginori – La Repubblica

Si sente in colpa? «Per nulla. Anzi, orgoglioso». L’uomo a cui dobbiamo Finanziarie lacrime e sangue, innumerevoli salassi e i nostri mali europei, è seduto in una brasserie del quinto arroundissement. Si chiama Guy Abeille, meglio conosciuto come “Monsieur 3%” perché rivendica di aver ideato la discussa regola del 3% di deficit sul Pil, croce di tanti governanti dell’Ue. Nessuno conosce il suo nome, tutti conoscono e temono invece la sua invenzione. «Fu una scelta casuale, senza nessun ragionamento scientifico» confessa adesso l’economista matematico di 62 anni. Anche se la Francia è tra i paesi meno rispettosi del limite imposto nel Patto di Stabilità (quest’anno il deficit è al 3,6%), la norma-faro è nata a Parigi otre trent’anni fa. Abeille, oggi in pensione, allora lavorava al ministero delle Finanze.

Come si arriva a questo numero simbolico?

«Quando François Mitterand venne eletto nel 1981scoprimmo che il deficit lasciato da Valery Giscard d’Estaing per l’anno in corso non era di 29 ma di 50 miliardi di franchi. Sembrava anche difficile fermare l’appetito dei nuovi ministri socialisti. Avevamo davanti uno spauracchio: superare 100 miliardi di deficit. Mitterand chiese all’ufficio in cui lavoravo di trovare una regola per bloccare questa deriva».

Perché proprio il 3%?

«Avevamo pensato in termini assoluti di stabilire come soglia massima 100 miliardi di franchi. Ma era un limite inattendibile data l’alta fluttuazione dei cambi e le possibili svalutazioni. Quindi decidemmo di dare il valore relativo rispetto al Prodotto interno lordo che all’epoca era di 3.300 miliardi. Di qui il fatidico 3%. Qualche mese dopo, Mitterand parlò ufficialmente della regola per il controllo dei conti pubblici. La Finanziaria si chiuse con uno squilibrio di 95 miliardi. Ma Laurent Fabius, allora premier, anziché dare la cifra parlò di un deficit pari al 2,6 del Pil. Faceva molta meno impressione. Così è cominciato tutto».

All’inizio era soprattutto uno slogan?

«L’obiettivo principale era trovare una regola semplice, chiara, immediata, per contenere le spese dei ministeri. Ma dovevamo anche farci capire dall’opinione pubblica francese e dai mercati internazionali, non tanto per i tassi di interesse quanto per i rischi della speculazione sulla moneta nazionale. Oggi che esiste l’euro pochi lo ricordano ma all’epoca era quella la minaccia che faceva tremare gli Stati».

Come si è arrivati a farne una regola per gli altri paesi europei?

«La regola aveva funzionato bene negli anni Ottanta: i governi francesi non hanno sfiorato il 3%, tranne nel 1986. È stato Jean-Claude Trichet, allora direttore generale del ministero del Tesoro, a proporre questa norma durante i negoziati per il Trattato di Maastricht. Per paradosso, la Germania ha adottato la norma del 3% di deficit sul Pil fino a farne uno dei punti centrali del Patto di Stabilità. Trovo divertente che questa regola nata quasi per caso e oggi imposta dai tedeschi sia nata proprio in Francia».

Davvero non c’erano grandi teorie economiche dietro al 3%?

«Dovevamo fare in fretta, il 3% è venuto fuori in un’ora, una sera del 1981. Qualche anno dopo ho lasciato il ministero delle Finanze per lavorare nel settore privato. Immaginavo che ci sarebbero stati degli studi più approfonditi. In particolare quando il parametro è stato esteso all’Europa. E invece il 3% rimane ancora oggi intoccabile, come una Trinità. Mi fa pensare a Edmund Hillary che quando gli chiesero perché aveva scalato l’Everest rispose: “Because it’s there”. Da quella sera del 1981 in cui il 3% è uscito fuori un po’ per caso, è diventato parte del paesaggio delle nostre vite. Nessuno più che si domanda perché. Come una montagna da scalare, semplicemente perché è lì».

Europa delle banche

Europa delle banche

Davide Giacalone – Libero

Ecco una frase fatta ed equivoca, utile solo a confondere le idee: l’Europa dovrebbe essere dei popoli e non delle banche. Per essere dei popoli, invece, l’Europa ha da essere anche delle banche. Proverò a dimostrarlo segnalando che un elefante è entrato in cristalleria, s’è mosso in modo inappropriato, ma nessuno sembra essersene accorto, perché tutti gli occhi sono puntati sui cocci dei governi e non su quelli dei cittadini e del sistema produttivo. Seguiamo l’elefante, vedrete che porta anche al Nazareno.

Dunque: agitando la durlindana in una battaglia immaginaria, mentre Manuel Barroso certificava che nessun capo di Stato o di governo ha mai chiesto di modificare i trattati, sicché ciascuno ne richiama l’applicazione facendo finta di mettere l’accento sul duro o sul soffice, ma sapendo tutti che c’è l’uno e l’altro, agitando lo spadone, dicevo, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, s’è indirizzato alla Bundesbank e ha detto: voi fatevi gli affari vostri, non provate a far politica in Italia (più di quella che fecero e fanno? ndr), così come io, del resto, non mi occupo delle Landesbanken e delle Sparkassen. Poi l’elefante è uscito dalla cristalleria e nessuno ne ha messo in adeguata evidenza il passaggio. Eppure è rivelatore e decisivo.

Tornando al luogo comune iniziale, quindi, si dovrebbe così correggerlo: l’Europa sia dei e risponda ai cittadini, non sia dei e risponda solo ai governi. Perché le banche centrali sono i e dei governi, mica i e dei sistemi bancari. Perché tutto il gran dibattito ruota attorno a rigore e flessibilità, ma con esclusivo riferimento al bisogno di ciascun governo di correggere i conti per non incorrere in infrazioni. Semmai qualcuno si sta occupando veramente di sviluppo e crescita produttiva, quindi anche industriale, quella è la Banca centrale europea. Verrebbe da dire: magari l’Europa fosse della Bce. Peccato che sarebbe vagamente non democratica.

Di Landesbanken e Sparkassen, invece, ci dobbiamo occupare eccome. E non per farci gli affari degli altri, ma per farci i nostri e quelli comuni. Cosa sono? Sono banche regionali o locali tedesche (la Germania è uno Stato federale, per questo ha una camera degli stati, quindi quel che noi chiamiamo regionale lì è statale, ma non federale). Sono banche che rispondono a potentati locali, fortemente politicizzate. Banche che accettano il denaro contante come in Italia sarebbe più che sufficiente per chiamare subito la Guardia di Finanza. Ed è (anche) grazie a quel sistema, grazie al fatto che la Germania è il Paese con più pagamenti in contante, che quando rivaluteremo il pil con l’economia sommersa il nostro crescerà di uno o due punti, il loro di tre o quattro. Sono banche con cui hanno sostenuto settori produttivi altrimenti fuori mercato. I tedeschi hanno combattuto la loro battaglia contro gli italiani del tessile proprio utilizzando quel genere di credito. Allora, se l’Europa vuole essere dei popoli, quindi dei lavoratori e degli imprenditori, deve essere anche Europa delle banche, nel senso che le regole non possono ammettere eccezioni. Mi piace dirlo: sia perché suona molto tedesco; sia perché sono i tedeschi ad avere chiesto che quelle loro banche siano tenute fuori dalle regole e dai controlli europei. Nein, non si può fare.

Renzi sbaglia: noi di quelle banche abbiamo il dovere di occuparci, perché devono essere rappresentati gli interessi di tutti i sistemi produttivi, altrimenti si rappresentano solo gli interessi dei ragionieri che redigono i bilanci statali. Che è esattamente l’Europa fallimentare.

Da qui si arriva al Nazareno. A molti piace dirlo e a taluni anche crederlo: la riforma del senato è quel che serve per dimostrare che l’Italia si mette al passo con tempi e mercati. L’accordo fra Berlusconi e Renzi regge, provocando l’ulcera a chi è di sinistra e a chi è di destra, sicché siamo sulla buona strada. Occhio, perché è evidente che a Berlusconi serve mostrarsi decisivo e a Renzi è utile mostrarsi determinato, avendo ciascuno in animo di usare l’argomento in campagna elettorale (che il secondo vorrebbe fare al più presto, mentre il primo deve ancora capire cosa più gli conviene), ma che dalla riforma del senato passi la riscossa dell’Italia non è una favola, è una barzelletta. Provino a usare il Nazareno come vitaminico per porre il problema di un serio, coerente e accettabile sistema bancario europeo: meno giornalisti capiranno, meno tifoserie si animeranno, ma molti più imprenditori e lavoratori avranno l’impressione che s’appresta il miracolo.

Asta fallimentare

Asta fallimentare

Davide Giacalone – Libero

Vendere l’Italia come se fosse un’asta fallimentare è l’esatto opposto di usare il valore del patrimonio per abbattere il debito. Incassare un’offerta di 530 mila euro per un’isola veneziana (Poveglia) non significa che quello è il valore offerto dal mercato, ma che è fuori dal mercato e dal mondo la procedura utilizzata. Queste operazioni si fanno in maniera radicalmente diversa: 1. si aggregano pacchetti che consentono valorizzazioni importanti; 2. si chiamano investitori da ogni parte del mondo, con annunci sulla stampa internazionale. Qui, invece, si vendono conventi e castelli come se fossero la stamberga lasciata libera dalla nonna defunta.

“Venghino signori venghino”. Si scomodò il presidente del Consiglio, per mettere all’asta quattro scarcassoni, supponendo che ci fossero in giro feticisti disposti a spendere per potere possedere l’auto nella quale pose le terga il ministrucolo di turno. Per vendere isole e palazzi storici, invece, il demanio procede a umma-umma, sbriciolando il patrimonio e chiamando a concorrere quello stesso mondo fallimentare che al ministrucolo fece da corte. Così le cose si svendono, deprezzano, maltrattano. Impoverendoci tutti. Così stando le cose le aste meglio riuscite sono quelle andate deserte.

Ci sono due strade, che possono essere degnamente imboccate. La prima consiste nel convincere gli altri europei a creare un fondo comune delle dismissioni immobiliari, costruendolo in modo tale che i conferimenti generino immediatamente una parte della liquidità relativa al valore stimato (mettiamo l’80%). Il fondo può agevolmente finanziarsi con bond europei, che non susciterebbero la ribellione di taluni (leggi Germania e Olanda), perché non comporterebbero una federalizzazione dei debiti nazionali, essendo garantiti dal patrimonio conferito. Il fondo avrebbe il compito di vendere, per far questo utilizzando soggetti professionali di primo livello, selezionati nel mondo, e attirando investimenti altrettanto globali. Una volta effettuate le vendite queste genererebbero la retribuzione degli intermediari e si potrebbe poi conguagliare con il Paese conferitore (se vendi a 100 e hai anticipato 80 giri la differenza, al netto delle commissioni). La seconda consiste nel fare la stessa cosa, ma a livello nazionale. In questo caso non ci potrebbero essere bond, dato che il patrimonio è lo stesso oggi messo a garanzia del debito, ma si potrebbe portare in Borsa il veicolo societario approntato. Stiamo parlando di valori che superano, solo per l’Italia, i 500 miliardi. Anche in questo caso si devono chiamare operatori professionali di livello globale, senza riserve di caccia per gli amichetti rapaci e incapaci. La prima è migliore della seconda, ma la seconda è mille volte preferibile al sistema che si sta utilizzando.

Il patrimonio immobiliare, inoltre, potrà essere adeguatamente valorizzato se nelle condizioni di vendita sono già illustrate le condizioni d’uso (quel che si può fare e quello che no) e quelle fiscali. Nessuno investe in un Paese in cui non esiste il diritto e il rispetto del contribuente, talché a ogni conto sbagliato corrisponde una nuova tassa adottata.

Sarà bene ricordare che, per uno Stato come per una famiglia, il patrimonio si vende una volta sola, mentre i debiti non estinti si pagano per sempre. Siccome il patrimonio si accumula negli anni (nei secoli), mentre la liquidità che se ne ricava si è in grado di mangiarsela nei mesi, la sola cosa moralmente accettabile è che il patrimonio di tutti serva ad alleggerire tutti dal debito collettivo e dal suo insopportabile costo. Visto che si inalberano in tanti se i tedeschi ci mandano a dire una cosa ovvia, ovvero che il debito crescente non propizia lo sviluppo, ma la miseria, lasciate che sia un cittadino italiano, contribuente, a dire che se il patrimonio viene in quel modo gestito allora è preferibile evitare ogni operazione, lasciandolo a marcire dove si trova. Non è un affare, ma, almeno, non è neanche un malaffare.

Poste, Enav, demanio: privatizzazioni a rilento. Padoan ora punta sul 5% di Eni e Enel

Poste, Enav, demanio: privatizzazioni a rilento. Padoan ora punta sul 5% di Eni e Enel

Federico Fubini – La Repubblica

Quando la mongolfiera non ce la fa, il pilota mette la zavorra fuori bordo. Il piano di privatizzazioni che Matteo Renzi ha ereditato da Enrico Letta minaccia di afflosciarsi al suolo subito dopo il decollo e ormai al Tesoro non resta che una soluzione: spezzare il tabù della quota di controllo del 30% in mano allo Stato e liberarsi, già quest’anno, delle risorse più pesanti. Pacchetti del 5% di Eni e di Enel possono andare sul mercato in autunno. Per far prendere quota alle privatizzazioni e contrastare l’aumento del debito non è (quasi) rimasta alternativa.

Non doveva andare così, non subito almeno. Il primo obiettivo del piano di dismissioni è arrivare a dieci miliardi di ricavi quest’anno e poi su ciascuno dei tre anni seguenti. Se l’operazione riuscisse, toglierebbe due punti e mezzo dal rapporto fra debito e Pil: la sostenibilità della posizione finanziaria dello Stato si gioca dunque anche su questo programma. Fabrizio Saccomanni lo aveva avviato da ministro dell’Economia di Letta; il suo successore Pier Carlo Padoan ora vuole ampliarlo, anche perché il debito sta salendo più in fretta del previsto.

Il problema è che nessuna delle attività designate per il mercato nel 2014 sembra pronta. Non se dalla vendita si vogliono generare sufficienti risorse. Da Poste Italiane a Enav, passando per i problemi di questi giorni nel collocamento di Fincantieri, le prime imprese da privatizzare ora non sembrano in grado di attirare l’interesse degli investitori privati. E anche quelle gestite meglio, a partire da Sace, sono gravate di compiti assegnati dall’azionista di controllo che ne ostacolano lo sbarco sul mercato.
Emblematico il caso Fincantieri, che ha dovuto ridurre la quota in vendita da 600 a 350 milioni di euro. Il gruppo di costruzioni navali è controllato al 99,3% da Fintecna, che fa capo alla Cassa depositi e prestiti. Questo doveva essere il progetto-pilota della nuova stagione delle privatizzazioni, ma qualcosa è andato storto. Durante la presentazione dell’offerta di azioni, l’amministratore delegato Giuseppe Bono ha parlato di una prossima sospensione dei dividendi per tre anni; il presidente di Cdp Franco Bassanini ha aggiunto che in futuro «non si può escludere un altro aumento di capitale», che avrebbe diluito i soci esistenti. Certo non il modo migliore di attrarre investitori privati, che hanno sospettato una certa fragilità finanziaria nel gruppo. In più restano dubbi sui sussidi pubblici che riceve Fincantieri e sul fatto che il suo debito sembra più basso perché – precisa l’azienda non viene calcolato secondo i criteri europei di contabilità. Il risultato è che molti grandi investitori si sono sottratti. Generali sembra aver comprato un pacchetto solo dopo un «suggerimento » di Cdp, azionista di controllo di Fincantieri e secondo socio della compagnia di Trieste con il 4,4%. Ma alla fine l’operazione non ha dato l’esito sperato.
Anche per questo la cessione del 40% Poste, che in teoria dovrebbe fruttare fra 4 o 5 miliardi, di fatto è rinviata. Francesco Caio, il nuovo amministratore delegato, non ha trovato un’azienda in condizioni per interessare ai privati. Il settore postale è in rosso e in caduta: Caio punta a un accordo con i sindacati per distribuire le lettere solo a giorni alterni, con relativi tagli.

C’è molto da fare anche per far crescere l’area della consegna pacchi, la più promettente; ma qui l’azienda è in ritardo, con un’attività minima rispetto alle omologhe europee. E con i tassi d’interesse così bassi, anche Banco Posta non potrà rendere in futuro come ha fatto in passato. Insomma Poste non è l’azienda in salute che forse qualcuno credeva e servirà tempo per renderla attraente agli investitori. Simili valutazioni valgono anche per Enav, l’ente di navigazione aerea. Resterebbero le vendite di immobili, ma anche qui si va a rilento. Una recente asta del Demanio per cinque beni «di pregio », dall’isola veneziana di Poveglia a un ospedale militare dell’800, è andata quasi tutta a vuoto: poche offerte e troppo basse. Dato l’alto debito pubblico, gli investitori temono nuove tasse sul mattone in futuro.

Padoan però non demorde. Fonti del Tesoro ricordano che «altre attività possono rientrare nelle cessioni quest’anno». Oltre al 5% di Eni e Enel, con lo Stato che rinuncia al controllo legale, c’è un piano anche per Stm. Il Tesoro è pronto a cedere per 750 milioni a Cdp la sua quota nel gruppo tecnologico: non è una vera privatizzazione, perché la Cassa è controllata dal Tesoro al 70%. Ma è fuori dal bilancio pubblico. E con un debito al 135% del Pil, non è più il caso di andare tanto per il sottile.

Perdite e poltrone, la giungla delle spa locali

Perdite e poltrone, la giungla delle spa locali

Luca Cifoni – Il Messaggero

Latte certo. Ma anche formaggio, prosciutto, carne, pesce, ortaggi, vino. Si trovano più o meno tutte le eccellenze dell’alimentare italiano scorrendo le ragioni sociali delle circa 10mila partecipate degli enti locali. Regioni, Comuni e Province non si occupano solo di fornire servizi pubblici ai propri cittadini ma spaziano in uno spettro di attività amplissimo, invadendo settori che sembrerebbero avere una vocazione più spiccatamente commerciale. Negli ultimi anni il numero delle società (e di riflesso delle poltrone) è cresciuto senza freni, tanto che gli organismi a cui tocca vigilare, come la Corte dei Conti, fanno fatica a stare al passo: con criteri più restrittivi ne hanno censito 7.500, anche statali. Il compito di disboscare è ora affidato al commissario alla revisione della spesa Carlo Cottarelli, che entro fine mese deve fare una proposta al governo.

Il core business dovrebbe essere rappresentato dai cinque servizi pubblici di base: acqua, elettricità, gas, trasporto pubblico locale, rifiuti. In realtà le partecipate che si occupano di queste attività sono solo il 20 per cento, anche se valgono circa la metà del fabbisogno complessivo. Poi ci sono farmacie comunali, terme, case di riposo, enti di promozione turistica, società sportive, di gestione del patrimonio immobiliare, agenzie di viaggio. Circa 320, secondo alcune stime recenti, sono le società il cui obiettivo è produrre beni o servizi la cui natura è senza ombra di dubbio commerciale. Insomma qualcosa che lo Stato, nelle sue propaggini territoriali, farebbe probabilmente bene a lasciare ai privati.

Non è un affare

Di sicuro c’è che il capitalismo locale non è un affare, soprattutto per il contribuente che prima o poi è chiamato in una forma o nell’altra a ripianare le perdite: risulta in perita circa un terzo delle società. A volte in modo clamoroso e incomprensibile. Non ci sono solo le ex municipalizzate delle grandi città: a Oderzo, in provincia di Treviso, la Fondazione Oderzo Cultura evidenziava nel 2012 un valore della produzione di 76.286 euro e un risultato negativo di 413.000. A Busseto in provincia di Parma, terra di Giuseppe Verdi, la Busseto Servizi metteva insieme appena 598 euro di valore della produzione riuscendo ad arrivare a 10mila euro di perdita. A l’Aquila il centro turistico del Gran Sasso era in rosso di oltre un milione e mezzo su una produzione di circa 1.185.000.

Moltissime realtà appaiono più che altro inutili: anche se le verifiche sono complesse e non univoche in un settore così magmatico, si stima che circa un migliaio siano quelle in cui il numero degli amministratori supera quello dei dipendenti. Insomma, salvo forse in casi particolarissimi, veri e propri poltronifici.

D’altra parte è noto come a partire dall’inizio del decennio scorso la giungla delle spa (o srl) pubbliche, comprese quelle locali, si sia allargata in tutte le direzioni soprattutto per due esigenze. La prima era aggirare le varie norme sul blocco delle assunzioni scaricando i costi del personale su entità esterne al perimetro della pubblica amministrazione. La seconda, ancora meno nobile, era trovare un posto ai politici non più rieletti o ad altri personaggi contigui alla sfera partitica.

Accanto alla semplice esternalizzazione di attività non sono mancati gli sforzi di fantasia. Nella Provincia di Salerno opera una “Fondazione salernitani nel mondo” mentre a Oristano è stato creato dal Comune un Istituto storico arborense che si occupa di ricerche sul Giudicato d’Arborea e il Marchesato di Oristano. Le ragioni del gusto sono ben rappresentate. A Roma c’è un’enoteca regionale, a Parma un’azienda agraria sperimentale che cura anche la vendita diretta dei prodotti biologici. Accanto ai caseifici non mancano le aziende che si occupano di carne: a Fabriano ad esempio la Agricom alleva bestiame bovino e ovino, precisando che si tratta di servizio di pubblica utilità perché bistecche e costolette vanno a rifornire le mense delle scuole comunali.

Quei mali cronici che frenano l’attrattività

Quei mali cronici che frenano l’attrattività

Roberto Iotti – Il Sole 24 Ore

Avevano cominciato i tessili, seguiti poi dai calzaturieri. Ora sono i produttori di elettronica. Il back reshoring – cioè il rientro in Italia di attività delocalizzate negli anni scorsi – è un fenomeno in lenta ma costante crescita. Soprattutto per quelle aziende che avevano spostato la produzione in Paesi dove condizioni e costi dei fattori produttivi erano più vantaggiosi rispetto all’Italia. Il quadro economico però è mutato: importare manufatti o semilavorati dai Paesi dell’est europeo o dall’Asia non è più conveniente a causa dell’innalzamento dei costi di trasporto e della logistica. Non solo: le imprese che rientrano spiegano che lo fanno anche perché solo in Italia esistono manualità e una qualità di alto livello delle lavorazioni. Infine anche nei Paesi meta delle delocalizzazioni si stanno innalzando il livello del confronto sindacale e quello salariale. In pratica stanno sfumando i presupposti di un tempo e si sta riapprezzando la qualità intrinseca di certe produzioni che solo l’expertise dei lavoratori italiani sa esprimere.

Tutto questo però non deve suonare come una condanna senza appello per la delocalizzazione. Portare produzioni all’estero – negli anni scorsi – spesso ha significato entrare in mercati prima sconosciuti a molte aziende. Ed è stato il primo passo – si veda la Cina e la Russia – per arrivare a produrre direttamente per quei mercati locali, oggi sempre più importanti. Ma c’è un altro aspetto, non secondario, connesso al back reshoring: chi rientra lo fa – secondo il sondaggio Anie – per una scelta di politica aziendale, non certo perché la situazione italiana è migliorata. Fisco esoso, credito bancario scarso, burocrazia invadente, giustizia civile da incubo, energia a caro prezzo sono ancora le molte palle al piede della competitività del sistema manifatturiero. Affrontare e risolvere questi temi – certamente non nuovi – potrebbe essere un incentivo a far tornare sui loro passi altre aziende che hanno delocalizzato negli anni scorsi ma anche un incentivo ad aziende straniere a portare in Italia parte delle loro produzioni. Creando occupazione e portando investimenti.

La giungla delle società pubbliche produce soltanto dei buchi nei conti

La giungla delle società pubbliche produce soltanto dei buchi nei conti

Paolo Baroni – La Stampa

A prenderla larga le società controllate o partecipate dalle pubbliche amministrazioni sono più di 39mila, secondo la Corte dei Conti invece non si arriva a 7.500. C’è di tutto: si va dalle ex municipalizzate elettriche alle aziende rifiuti, dalle farmacie alle terme, dalla lavorazione delle uova alla produzione di prosciutti. E spesso hanno più consiglieri di amministrazione che dipendenti. Quel che è certo è che pesano sui bilanci dello Stato ma soprattutto di Comuni e Regioni per qualcosa come 26 miliardi di euro l’anno. Un punto e mezzo di Pil, in pratica 3 volte il valore del bonus da 80 euro. Inevitabile puntare i riflettori su questa vera e propria giungla: lo fa da anni Confindustria, che chiedeva alla politica di disboscare questo mondo ben prima che la spending review diventasse di moda («discariche per politici trombati» le aveva definite Luca Montezemolo), e lo fa ora il governo. Che punta a tagliare sprechi e a far cassa. Quella che sta per iniziare è una battaglia che vede ancora Roma contro tutti perché, come ha accertato la magistratura contabile, delle 7.472 società censite (ma solo 6.386 sono attive) appena 50 fanno capo allo Stato (e a loro volta controllano altre 526 società di secondo livello). Poi però ce ne sono ben 5.258 partecipate dagli enti locali. In totale ci sono 1.963 società per azioni, 1.235 srl, 758 società consortili, 202 cooperative, 1.019 consorzi, 561 fondazioni, 182 istituzioni, 274 aziende speciali e 178 «altre forme». E se il loro numero è «variabile» è perché queste società «sono soggette a frequenti modifiche dell’assetto», gli assetti sono spesso «mutevoli» e soggetti a vicende che i magistrati contabili definiscono «complessi». Per il loro peso finanziario e per la dimensione economica, gli enti partecipati – denunciava a inizio giugno il procuratore generale della Corte Salvatore Nottola – «hanno un forte impatto sui conti pubblici, sui quali si ripercuotono i risultati della gestione quando i costi non gravano sulla collettività, attraverso i meccanismi tariffari». Solo l’anno scorso questo sistema è costato 25,9 miliardi di trasferimenti.

Insomma non c’è solo Renzi che vuol passare «da 8.000 a 1.000 società partecipate», c’è anche la Corte dei Conti che preme. E sollecita a sua volta «un disegno di ristrutturazione organico e complessivo che preveda regole chiare e cogenti, forme organizzative omogenee, criteri razionali di partecipazione, imprescindibili ed effettivi controlli da parte degli enti conferenti».

Il maggior numero di partecipazioni appartiene alla Lombardia (7.496 controllate), seguono Piemonte (7.061), Veneto (4.123) e Toscana (3.606). La Pa nel Lazio (che includono anche le amministrazioni centrali) sostengono un onere di quasi 9,5 miliardi. In Lombardia poco più di 5,5 miliardi. Per la Corte dei Conti circa l’80% di queste società non si occupa di servizi indispensabili alla collettività. Una indagine di Confindustria di fine 2013 si ferma a circa due terzi ed arriva a ipotizzare ben 12,8 miliardi di risparmi per effetto della cessione o della loro liquidazione. Anche per il commissario alla spending review Carlo Cottarelli, che in base a un campione analizzato dal ministero dell’Economia stima che solo le municipalizzate nel 2012 abbiano perso almeno 1,2 miliardi di euro, è arrivato il momento di «chiudere il rubinetto». Solo per le multi-utility (1.100 in tutto tra acqua, luce e gas con 40 miliardi di fatturato ed oltre 600 milioni di euro di utili nel 2013) è prevista una via di fuga. Ma dovranno comunque aggregarsi. E la Cassa depositi e prestiti ha già detto di essere pronta a finanziare le fusioni.