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L’ombra di Draghi

L’ombra di Draghi

Andrea Cangini – La Nazione

Mai come oggi Matteo Renzi deve dimostrare al mondo di non essere un Benito Cereno. Niente a che vedere, dunque, col celebre comandante del mercantile spagnolo immaginato dallo scrittore Herman Melville: formalmente nel pieno dei poteri, di fatto ostaggio di una ciurma ammutinata. Il terreno scelto per la prova di forza è, come è noto, la riforma del lavoro. Terreno scelto non dal presidente del Consiglio italiano, che volentieri avrebbe rimandato il fischio di inizio di una partita chiaramente delicata per il Pd, ma dal governatore della Banca centrale europea Mario Draghi. Paradossalmente, l’ombra di Draghi aiuta Renzi.

Aleggia infatti da settimane lo spettro del commissariamento dell’Italia. L’idea cioè, che pur se incarnata dal giovane e dinamico Matteo, la politica italiana sia la stessa di sempre e la capacita di passare dalle parole ai fatti, riformando quel che va riformato, pari a zero. Cominciano a pensarlo sia i poteri più o meno «forti» nazionali sia i partner europei sia gli advisor dei grandi fondi di investimento globali. C’è chi vorrebbe che Draghi diventasse capo dello Stato. E chi auspica – alcuni come il fondatore di ‘Repubblica’ Eugenio Scalfari, dicendolo; altri, come i direttore del ‘Corriere della Sera’ Ferruccio de Bortoli, dicendo il contrario – l’intervento della Troika. Quel che Renzi non riesce a fare lo farebbero i ‘commissari ‘ della Bce, del Fmi e della Commissione europea.

Lavorare affinché Renzi fallisca significa aprire la strada a questa prospettiva. È questa la responsabilità che intendono assumersi i Civati, i Bersani e le Camusso? Diflicile crederlo. Facile invece immaginare che, nel Pd, molti degli attuali dissenzienti temano anche il secondo scenario possibile in caso di fallimento renziano: le elezioni anticipate. E la loro ovvia non ricandidatura. Se a questo si aggiunge il fatto che – sgombrato il campo da totem, feticci e pregiudizi – un ‘intesa sul merito della riforma del lavoro è davvero a portata di mano, c’è da credere che Renzi finirà per spuntarla. Ma perché il mondo si convinca che il premier italiano non è un Benito Cereno, bisognerà che alla direzione de Pd convocata per lunedì Matteo Renzi prenda di petto i suoi avversari interni sbattendogli in faccia le proprie responsabilità e intimandogli di adeguarsi alle decisioni della maggioranza. Non c’è dubbio che lo farà, unendo così all’utile il dilettevole.

Senza riforme l’aspirina valutaria non basterà

Senza riforme l’aspirina valutaria non basterà

Fabrizio Galimberti – Il Sole 24 Ore

Debolezza dell’euro o forza del dollaro? A giudicare non solo dall’1,27 del cambio euro/$ ma dal 109 del dollaro/yen o dallo sgretolamento del prezzo dell’oro, sono i pettorali del biglietto verde a gonfiarsi sotto la spinta di un’economia che cresce. Dall’inizio della crisi a poco tempo fa la divaricazione dei cambi nel mondo aveva rispettato quel che suggeriscono teoria e storia: i cambi dei Paesi emergenti – in primis la Cina – erano andati apprezzandosi, quelli dei Paesi emersi avevano segnato il passo se non indietreggiato. Parliamo qui dei cambi come indicatori della competitività, cioè dei cambi effettivi reali, che tengono conto di tutti i rapporti di cambio con i Paesi terzi e dei differenziali di inflazione.

Da qualche tempo la divaricazione si è andata manifestando anche all’interno dei Paesi emersi, e segnatamente fra le tre maggiori aree economiche: Usa, Europa e Giappone. Fra queste quella che cresce di più è l’America, e il dollaro sta guadagnando terreno rispetto allo yen e alla moneta unica. C’è chi ama i titoli gonfi sulle “guerre valutarie”, ma i cambi sono l’effetto e non la causa delle differenze nella crescita. La crescita di un’economia dipende da fattori strutturali – le “forze innate” di un sistema economico – e dalle politiche di espansione. Di queste due grandi determinanti la prima è di gran lunga la più importante. Una politica monetaria di stimolo può portare in prima battuta a un deprezzamento del cambio, ma, se funziona – cioè se l’economia risponde con la crescita – poi il cambio tende a rafforzarsi. Si prenda ad esempio il dollaro. Fino a pochi mesi fa sia il cambio effettivo reale dell’euro che quello della moneta Usa si erano andati deprezzando all’incirca nella stessa a misura a partire dall’inizio della crisi. Ma, quando è diventato evidente che le due aree rispondevano in maniera diversa – gli Stati Uniti riprendevano a crescere e l’Eurozona si adagiava nella stagnazione – i destini delle monete si sono separati. Gli Usa avevano ripreso un sentiero di crescita per meriti diversi da quelli valutari (le capacità di reazione del gran corpaccio dell’economia americana, la politica di bilancio meno penalizzante), mentre nell’Eurozona erano anche lì fattori non valutari (una austerità malintesa, riforme insufficienti) a far segnare il passo all’economia.

Se la svalutazione dell’euro – il cambio reale è oggi stimabile a circa il 12% più basso rispetto alla media del 2007 – avrà un merito sarà quello di togliere un alibi a quanti sostenevano che era colpa del cambio troppo forte se l’economia non cresceva. Forse la discesa dell’euro non è terminata, ma c’è già una grossa differenza fra l’1,38 contro dollaro della primavera scorsa e l’1,27 di adesso. “Qui si parrà la tua nobilitate”, si potrebbe dire ai produttori italiani ed europei: vedremo se era il fattore valutario a tenervi al palo… Ma non bisogna nascondersi dietro un dito. Il problema dell’economia italiana non sta nell’offerta ma nella domanda. Da una parte, la forte rivalutazione del livello di produttività industriale rilevata nei nuovi dati di contabilità nazionale rilasciati dall’Istat; e, dall’altra, i dati sulle vendite al dettaglio comunicati ieri, sono lì a ricordarci che quel che manca in Italia non è la capacità di offerta ma la voglia e la capacità di spendere.

Una apatia dell’economia che, pur tristemente e lungamente evidente nella Penisola, si va manifestando anche nei Paesi “forti” dell’Eurozona. Una apatia che è riflesso anche dello stallo disperante delle politiche economiche. La Bce ha fatto quel che poteva fare, e la palla è ora nel campo dei governi. Ma questi sono incapaci di trovare i tempi giusti e il sentiero più agevole per conciliare riforme e flessibilità di bilancio. La determinazione del governo italiano nel perseguire la riforma del mercato del lavoro è importante, ma ha bisogno di essere assortita di impegni comunitari sulle regole cieche del Fiscal Compact. Per uscire da questo stallo l’Europa ha bisogno della politica alta, dell’afflato che in passato ha segnato le grandi tappe dell’integrazione. Non basta e non basterà l’aspirina di un euro debole.

La politica Ue non ha funzionato

La politica Ue non ha funzionato

Stefano Cingolani – Italia Oggi

La Draghinomics è arrivata anche al Parlamento europeo, nutrita di accenti pessimistici sulla congiuntura economica. Del resto, i Paesi dell’euro stanno cadendo nella terza recessione dopo quella del 2008-2009 e quella del 2012. Il presidente della Bce ha ripetuto per ben sei volte la parola riforme strutturali, ma attenzione a non fare il solito giochetto di chi strattona la giacca sartoriale per coprire le proprie magagne. Perché la dottrina Draghi è basata su tre pilastri: una politica monetaria espansiva; una politica fiscale fatta di aggiustamento dei conti pubblici per chi li ha in disordine e di sostegno alla domanda per chi invece ha raggiunto il pareggio; più le riforme a cominciare dal mercato del lavoro, ma non solo. Si può anche dire che il trittico non funziona, ma non si può smontarlo a piacimento. Dunque, per prendere sul serio la Draghinomics bisogna sfatare alcuni luoghi comuni:

1) La ripresa passa per le riforme strutturali. Se vogliamo dire che «passa», ebbene è certamente vero, ma è altrettanto certo che non «parte» da lì. Le riforme sono essenziali per rendere lo sviluppo solido e sostenibile, ma producono effetti benefici dopo almeno tre anni secondo gli studi del Fondo monetario internazionale.

2) Mercato del lavoro, sistema giudiziario, Stato efficiente, leggi favorevoli al business sono le leve della crescita. Può darsi, ma allora come la mettiamo con il Giappone dove si verificano tutte queste condizioni eppure il Paese ristagna da vent’anni?

3) I Paesi che hanno compiuto aggiustamenti più radicali e dolorosi oggi vanno meglio degli altri, soprattutto la Spagna (l’Irlanda non è comparabile perché troppo piccola e diversa come struttura economica). Qui occorre mettere a confronto alcune cifre a costo di essere noiosi. La Spagna cresce dell’1 per cento quest’anno, mentre l’Italia è in recessione. I due Paesi hanno perso nell’ultimo anno ciascuno il 5% di prodotto potenziale (cioè la differenza tra il pil effettivo e quello possibile con il pieno impiego dei fattori) e nessuno dei due ha recuperato il livello esistente prima della crisi. Il bilancio pubblico spagnolo era in pareggio nel periodo 2004-2008, è crollato a -11% nel 2009, ora fa registrare un deficit del 5,6% mentre l’anno prossimo salirà a oltre il 6. L’Italia, lo ricordiamo, era a -3 e oggi è a -2,6 dopo un picco di -5,5% nel 2009; dal 2012 è tornata nei ranghi. Anche dal lato del debito le cose sono andate molto peggio in Spagna. Infatti, prima della crisi aveva un debito pari al 41% del pil, mentre oggi è a 100 e l’anno prossimo arriva a 103, con un peggioramento di oltre 60 punti percentuali. L’Italia parte da 105 e arriva a 133, dunque «appena» 28 punti. In sostanza, Roma ha seguito una politica fiscale tendenzialmente restrittiva, Madrid una fortemente espansiva. La Spagna ora sta rimbalzando mentre l’Italia è piatta, incollata al pavimento. Ciò è conseguenza della svalutazione salariale, perché le retribuzioni in Spagna si sono ridotte e così il costo unitario del lavoro (sempre segno meno dal 2010 con una punta di -4 nel 2012) mentre in Italia no. La disoccupazione spagnola è al 25%, aumentata di sedici punti rispetto al periodo pre-crisi (prima del 2008) mentre quella italiana è al 12,8 (+5,7%). Questo esercito industriale di riserva ha contribuito a schiacciare salari e stipendi. Nella distribuzione del valore aggiunto, ciò ha fatto salire la quota del profitto e ha rimesso in moto gli investimenti, insomma ha dato un giro di manovella alla macchina del capitale. Ma quanto ha inciso il deficit spending? La spesa sociale ha certamente ammortizzato il peso della crisi. La Ue ha consentito l’eccezione spagnola per intercessione di Berlino, il secolare alleato, e perché Madrid ha chiesto aiuto per salvare le proprie banche (37 miliardi di euro dal fondo salva-stati del quale l’Italia è terzo contribuente). La Commissione ha agito bene? No, se si ha il culto delle regole. Sì, per quel senso di compassione umana che supera sempre la ragione economica; del resto Bruxelles non può certo diventare l’unione degli affamatori dei popoli. Ma questo non c’entra nulla con i vizi e le virtù della politica economica. Sarebbe onesto riconoscerlo.

4) I conti in ordine, dunque, favoriscono la crescita, ma non la generano. Sono semmai la condizione per usare il bilancio dello Stato come stimolo alla congiuntura e come strumento di distribuzione dei redditi.

5) Per ridurre il debito, davvero l’unica via è un avanzo nel bilancio primario (al netto degli interessi), come recita il Fiscal compact? Solo se è accompagnato da una crescita del prodotto lordo costante e sufficientemente elevata. Inoltre, una riduzione generalizzata dei prezzi (la deflazione) è in grado di annullare gli effetti «risanatori» di una politica fiscale rigorosa.

6) La Banca centrale europea ha stampato troppa moneta? Il bilancio della Bce ha toccato il picco di duemila miliardi di euro nel 2012, poi è sceso del 50%; quello della Federal Reserve è arrivato a 4.400 miliardi di dollari e continua a crescere. C’è un limite alla politica monetaria e lo ha dimostrato il fallimento della prima tranche di Tltro. Tuttavia il passo falso dipende dal fatto che i prestiti sono ritagliati sulle esigenze del mondo bancario; l’Eurotower resta la banca delle banche, mentre dovrebbe diventare la banca dell’intero sistema, acquistando sul mercato titoli privati e pubblici.

Conclusione: le politiche della Ue non hanno funzionato. Ripeterle con una sorta di reazione pavloviana sarebbe colpevole, gli americani hanno ragione da vendere. Oggi ci vuole un intervento coordinato di politica economica muovendo in modo sincronizzato le tre leve indicate da Draghi (moneta, fisco e riforme). Berlino non ci sta e va per conto suo? A questo punto è la Germania che va sanzionata. Se questa è una Unione e se alla guida ci sono uomini, non solo pupazzi.

Sempre più vitale rianimare la domanda interna

Sempre più vitale rianimare la domanda interna

Luca Orlando – Il Sole 24 Ore

La benzina è finita. Per anni la corsa a doppia cifra delle vendite sui mercati più remoti ha tamponato le difficoltà incontrate dalle nostre imprese sul mercato domestico e in Europa. Illudendoci forse che la travolgente crescita dei paesi emergenti e l’ampliamento della “borghesia” mondiale potessero sostenere all’infinito e in modo automatico l’economia italiana. Il racconto di questi mesi è però diverso e indica una realtà ben più complessa, fatta di squilibri macroeconomici, di monete che sbandano pericolosamente, di smottamenti politici che in più di un paese diventano guerre. La Russia è forse il caso più evidente, anche per il peso relativo non marginale sul nostro export, ma va detto che di questi tempi Mosca è in buona compagnia. Rallentano gli acquisti di Made in Italy del Nordafrica, in cui certo la crisi libica non è d’aiuto; crollano quelli di Tokyo, alle prese con un rincaro dell’imposta sui consumi e con una svalutazione dello Yen; arrancano India, Brasile e Turchia; si inceppa ad agosto anche la crescita cinese, che pure era stata solida per tutto il 2014.

Un quadro per nulla rassicurante, che ha spinto ieri l’Organizzazione mondiale del commercio a rivedere drasticamente al ribasso le stime di crescita del commercio globale, ridotte dal 4,6% al 3,1% con rischi di ulteriore abbassamento a causa dell’irregolarità della crescita globale e degli aumentati rischi di tensioni geo-politiche. Osservare il trend globale delle nostre vendite extra-Ue è desolante e il balzo del 14,9% del 2011 pare preistoria: da allora, mese dopo mese, abbiamo perso ininterrottamente terreno fino al “filotto” negativo del 2014 con sei mesi consecutivi in rosso. Un aiuto, è vero, potrebbe arrivare dall’euro, ai minimi da oltre un anno sul dollaro. Per un 10% di discesa strutturale del cambio Intesa Sanpaolo stima un impatto positivo del 2,4% sull’export e di poco più di un punto sul Pil, spinta di cui in questa fase in effetti si sente un drammatico bisogno. L’alternativa all’export è infatti la domanda interna, dove però il quadro è ancora più cupo. Ovunque si guardi gli indicatori tendono al peggio ma almeno sgombrano il campo da ogni dubbio sulle priorità: senza consumi interni e senza imprese competitive da qui in avanti potremo solo fare peggio.

Per ripartire serve un mix di riforme e incentivi

Per ripartire serve un mix di riforme e incentivi

Riccardo Sorrentino – Il Sole 24 Ore

Un motore potente, ma anche tanta benzina. Occorrono entrambe le cose per fare una lunga, veloce corsa. La situazione di Eurolandia dimostra che ogni ricetta economica riduttiva ha poco valore: chi chiede solo benzina sbaglia come chi chiede solo di cambiare il motore. In economia l’immagine automobilistica si traduce molto rapidamente: occorre la domanda e occorrono le riforme. Il caso tedesco è esemplare: l’economia ha un ottimo motore rispetto ai concorrenti, ma sta mancando la benzina. Potrebbe correre, ma non lo fa e questo avviene – a differenza di quanto accade in una gara, perché questa non è una gara… – anche perché i “concorrenti”, come l’Italia, non vanno abbastanza veloci. La Francia può essere scelta come esempio opposto: qui la domanda e l’offerta di credito, che mancano altrove, è in crescita, l’economia potrebbe funzionare. Il motore però si è inceppato e non è facile ripararlo: coniugare la competitività con lo stato sociale non è compito facile, e le difficoltà francesi lo dimostrano.

Ricette troppo semplici, dunque, non funzionano in un’economia complessa. Le riforme strutturali senza domanda hanno poco senso, e non è un caso che Commissione Ue e Bce invochino investimenti pubblici contro il rischio di recessione, per sostenere la domanda. La risposta del Governo tedesco – di una sua parte, in realtà – al rallentamento è dunque astratta e può reggere solo perché il mercato del lavoro tedesco resiste sempre molto bene agli urti. Più adeguata sembra – nelle parole, almeno – la risposta francese, quell’«offerta che crea la domanda» invocata dal presidente François Hollande a gennaio che, al di là della retorica e della citazione colta (Jean-Baptiste Say), sottolinea la necessità delle riforme strutturali. Anche queste, però, vanno fatte bene, nella sequenza giusta e in sincronia con lo stimolo alla domanda. Il rischio, altrimenti, è quello di peggiorare le cose.

L’articolo 18 sul piatto della bilancia

L’articolo 18 sul piatto della bilancia

Tiziano Treu – Europa

È da anni (troppi) che ci interroghiamo sulle regole del mercato del lavoro. Ho sempre sostenuto, che l’obiettivo da raggiungere, e indicato dall’Europa è una vera flexicurity. Quella attuata nei paesi più virtuosi implica, da una parte, una maggiore flessibilità nel lavoro per rispondere alle nuove realtà delle imprese e alle nuove esigenze delle persone, e dall’altra parte una maggiore sicurezza nel mercato del lavoro, per gestire le sue continue trasformazioni. Servono entrambe. Purtroppo in Italia si sono introdotte negli ultimi anni nuove flessibilità, sia in entrata, da ultimo facilitando il ricorso al contratto a termine, sia in uscita riducendo le rigidità delle regole sul licenziamento. Ma non si è prevista una adeguata rete di sicurezza.

Nonostante le modifiche da ultimo della legge 92/2012 sono ancora quasi un milione i dipendenti che sono privi di indennità di disoccupazione. Ne sono privi tutti i collaboratori e partite Iva, che inoltre non hanno quasi nessuna tutela propria dei lavoratori dipendenti. Anche le Cig e le Cigs lasciano fuori oggi oltre 5 milioni di lavoratori, che potrebbero scendere a 2,5 se ci fosse un grande sviluppo dei fondi di solidarietà (non facile). Questi ammortizzatori sono non solo squilibrati per entità e durata, ma anche privi di strumenti di sostegno e accompagnamento per disoccupati e cassaintegrati. Cosicché si traducono in misure assistenziali, costose e poco utili all’occupazione. Sono queste le vere e proprie ingiustizie che vanno corrette. Esse sono state troppo a lungo tollerate anche dai sindacati, preoccupati soprattutto di proteggere gli insider, cioè i lavoratori “storici”. È su questo che insiste Renzi, per cambiare.

È un impegno difficile, perché estendere gli ammortizzatori costa. Anche senza pensare di emulare quelli danesi o tedeschi servono almeno 2 miliardi secondo le stime iniziali. Inoltre, per correggere l’assistenzialismo degli ammortizzatori tradizionali, occorre uno sforzo organizzativo capace di far migliorare i servizi all’impiego pubblici e privati, mettendoli in concorrenza e dando ai lavoratori la possibilità di scegliere da chi farsi aiutare. A questo mira la delega, con indicazioni abbastanza chiare, se si vogliono prendere sul serio.

Mi auguro che sia la volta buona e che su tale fronte si impegnino tutti, con indicazioni abbastanza chiare, dai parlamentari che devono votarle, alle regioni, che finora sono andate troppo in ordine sparso, agli operatori dei servizi che vanno motivati e qualificati professionalmente e aumentati di numero (anche qui senza pensare di emulare i 110.000 addetti della Germania). Realizzare un sistema universale di sicurezze e di aiuti effettivi sul mercato del lavoro ed estendere le tutele a chi non ce le ha, compresi i lavoratori atipici, dovrebbe sdrammatizzare la questione dell’articolo 18 e dei rimedi contro i licenziamenti ingiusti, come avviene nei paesi della vera flexicurity. Sostengo questa tesi da anni, ma senza esito, anche perché è mancata la verifica, cioè una vera sicurezza sul mercato del lavoro, nonché una crescita sufficiente a sostenere l’occupazione.

L’offerta del governo di attuare finalmente un sistema di sicurezze sul mercato del lavoro è importante. Può servire a milioni di giovani e di lavoratori disoccupati e inattivi. E questo va messo sul piatto della bilancia nel valutare le proposte di modifica dell’art. 18 (che riguarderebbero peraltro solo i nuovi assunti) e nel ridimensionarne la portata. Le modifiche della legge Fornero, pur avendo modificato l’art. 18, con l’intento di ridurre l’ambito della possibile reintegra, non hanno dato certezze perché scritte in modo troppo complicato, aperto a interpretazioni diverse da parte dei giudici. La mancanza di certezze circa la decisione del giudice continua a pesare non solo su questo aspetto del nostro mercato del lavoro.

In altri paesi non è così, sia in quelli in cui la reintegra non è prevista dalla legge, (Spagna, Portogallo, UK, ma anche Danimarca), sia dove è prevista, ma di fatto è usata come extrema ratio (salvo naturalmente i casi di discriminazione). Anche per questo in tali paesi il problema non è stato oggetto di discussioni così estremizzate come da noi, e si è potuto risolvere con soluzioni condivise, più semplici e con maggiore discrezionalità dei giudici. Io stesso avevo proposto nel 2001 un ddl con indicazioni simili; che sono state scartate per un contesto politico e sindacale ostile.

Si poteva non arrivare a questo punto? Forse. Ma occorreva un’altra lungimiranza riformatrice, da parte di tutti, partiti e sindacati. Al punto in cui siamo l’incertezza non può continuare. Anche per questo Renzi ha chiesto di voltare pagina. Ma la nuova pagina va letta tutta. Può essere più europea e più equa, anche cambiando l’art. 18, purché si attui tutto il disegno della legge delega e si varino efficaci misure per la crescita e per l’occupazione, anche forzando l’Europa.

Cento giorni per mettere in rotta la barca Italia

Cento giorni per mettere in rotta la barca Italia

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

Il peggioramento dello scenario economico e il modesto risultato dell’ultima iniezione di credito della Bce hanno suggerito a molti analisti che si stia avvicinando il momento in cui la Banca centrale europea debba ricorrere all’acquisto di titoli sovrani dell’area euro. Sarebbe un errore pensare che l’eventuale intervento della Bce sia il capolinea delle preoccupazioni italiane e che sia sufficiente galleggiare fino ad aggrapparsi a quel salvagente. Infatti, se dietro l’aspettativa dell’intervento della Bce c’è una logica economica abbastanza lineare, perché questa logica prevalga è necessario che si realizzi in Europa un equilibrio politico molto delicato a cui l’Italia dovrà dare un proprio contributo decisivo entro i prossimi cento giorni.

La logica economica è semplice: gli ultimi dati segnalano un nuovo rallentamento nell’attività delle imprese manifatturiere europee. Si spiega così la debole domanda di credito e quindi, in parte, anche lo scarso successo dell’offerta di prestiti della Bce. È poco probabile che le condizioni dell’economia cambino radicalmente entro dicembre quando la Bce offrirà nuovi prestiti a basso costo. Questo fa prevedere che la Banca debba ricorrere in ultima istanza all’acquisto di titoli sovrani con l’obiettivo di modificare la composizione del portafoglio delle banche. Sostituendo i titoli pubblici con nuova liquidità, si porterebbero le banche a utilizzare la liquidità per attività più rischiose come i prestiti alle imprese. In un’analisi pubblicata dalla Sep (Luiss), Lorenzo Bini Smaghi prevede che la domanda di fondi delle banche europee resterà modesta nel medio termine e che ciò comporti una riduzione tendenziale delle dimensioni del bilancio della banca centrale. Come abbiamo osservato venerdì scorso, l’annunciato programma di acquisto di titoli con collaterale (Abs) non servirebbe a incrementare granché il bilancio della Bce.

Il recente rifiuto di Francia e Germania di offrire una garanzia pubblica sulle componenti più rischiose degli Abs riduce sensibilmente, infatti, l’ammontare di titoli che la Bce può acquistare sul mercato aperto. In sostanza, l’unico modo di riportare il bilancio della Bce alle dimensioni del 2012 sarebbe di acquistare titoli di Stato, altrimenti l’impronta della politica monetaria resterebbe ancora restrittiva in una fase di prezzi calanti e lontani dall’obiettivo del 2%. Esistono tuttavia serie obiezioni giuridiche all’acquisto di titoli sovrani da parte della Bce. La minaccia di farle valere davanti alla Corte costituzionale è spesso evocata a Berlino anche da esponenti di governo per giustificare la contrarietà tedesca a nuove azioni della Bce. I vincoli sono in ultima istanza di natura politica: anche se la cancelliera Merkel può godere di una pausa insolitamente lunga nel ciclo elettorale tedesco, la pressione del partito anti-europeo è sempre più forte. “Alternativa per la Germania” si è ormai stabilizzata sopra l’8%, ma può pescare in un bacino del 20-25% dell’elettorato tedesco. Non a caso il “circolo di Berlino”, costituito da “neo-con” della Cdu, spinge il partito della Merkel a rincorrere “Alternativa”, la quale a sua volta si sta spingendo su posizioni ancora più radicali selezionando i nuovi parlamentari regionali tra gli esponenti della destra estrema.

È possibile che all’ultimo momento la cancelliera, come ha già fatto nel 2012, si schieri con la Bce anziché con la Bundesbank e con gli euro-scettici, riconoscendo la necessità che la Banca centrale difenda la stabilità dei prezzi contro il rischio di deflazione. Ma resteranno pur sempre da superare gli ostacoli giuridici, cioè l’obiezione che gli acquisti di titoli pubblici rappresentino un finanziamento degli Stati vietato dai Trattati. Per superare questi ostacoli, in passato la Bce ha potuto intervenire solo quando la crisi era diventata così grave da mettere in pericolo la stabilità dell’area euro nel suo complesso. Solo in tali circostanze, diventano giustificabili interventi che estendono l’interpretazione letterale del Trattato e fanno prevalere l’obbligo di difendere la stabilità della moneta, sia in osservanza dello statuto della Bce, sia per rispettare il requisito posto dalla Corte tedesca alla partecipazione della Germania all’euro e cioè che appunto l’euro fosse una moneta stabile.

Perché le obiezioni politiche e giuridiche siano superabili, in quello che rappresenta un po’ il “mezzogiorno di fuoco” della crisi europea, è necessario che l’Italia si presenti in condizioni coerenti prima dell’acuirsi della crisi. Un Paese incapace di tagliare la spesa e fare le riforme renderebbe insormontabili le obiezioni politiche e quelle giuridiche. Draghi nell’audizione di lunedì al Parlamento europeo ha osservato che in passato gli interventi della Bce sono stati sprecati dagli Stati: la spesa pubblica non è diminuita come doveva e le riforme non sono state realizzate. Uno studio della Dg Ecfin sull’impatto delle riforme osserva che lo slancio dei governi italiani per le riforme si è fermato a metà 2013, nemmeno un anno dopo il primo “salvataggio” di Draghi, e che successivamente si sono visti annunci nella direzione giusta, ma pochi fatti. Il paradosso è invece che per arrivare all’ultima spiaggia bisogna prima mettere la barca in condizioni di navigare, se l’Italia non fosse in grado di sfruttare gli interventi della Bce per ritrovare la crescita, avrebbe sprecato anche l’ultima carta. Ma prima di verificare se la Bce interverrà o meno sui titoli di Stato, dovremo comunque attendere dicembre e gli effetti della prossima tranche di prestiti a lungo termine. È il tempo a disposizione per rimettere a posto la barca. A occhio quindi non abbiamo mille giorni, ma forse poco più di cento.

Articolo 18: a Renzi non andrà come a D’Alema con Cofferati

Articolo 18: a Renzi non andrà come a D’Alema con Cofferati

Fabrizio Rondolino – Europa

Lo scontro fra sinistra riformista e burocrazia sindacale non è una novità di questi giorni: è stata, al contrario, una costante della sinistra europea da Tony Blair in poi, e in Italia risale agli albori della Seconda repubblica. In Europa prima o poi hanno sempre vinto i riformisti, da noi finora hanno sempre vinto i conservatori. Tornare al 1997, ai primi mesi del primo governo di centrosinistra, aiuta a comprendere quanto indietro sia rimasto il nostro paese, e quanto tempo la sinistra e l’Italia abbiano perduto.

Il 23 febbraio 1997 Massimo D’Alema, allora segretario del Pds e azionista di maggioranza del governo Prodi, conclude il congresso del suo partito con un discorso memorabile sull’innovazione e sulla modernità, dedicando al sindacato un passaggio esemplare. Ad un segretario della Cgil «più chiuso e più sordo all’esigenza di una riflessione critica», D’Alema oppone la necessità di un profondo rinnovamento non soltanto del sindacato, ma «di tutta la sinistra», perché «anche noi ci sentiamo sfidati dalla realtà». E la realtà del lavoro, spiega il leader del Pds, è fatta di «mobilità e flessibilità»: non soltanto perché la «fabbrica fordista» è al tramonto, ma anche perché le nuove generazioni vedono nella flessibilità e nella mobilità una sfida e persino un’occasione. Perché «questa società più aperta» non generi «insicurezza», bisogna «rinnovare profondamente gli strumenti della contrattazione» e «costruire nuove e più flessibili reti di rappresentanza e di tutela». In caso contrario, ammonisce D’Alema, «rappresenteremo soltanto un segmento del mondo del lavoro, quello che sta in mezzo, fra chi è sufficientemente bravo per negoziare da solo e chi, in basso, vive di lavoro nero, non tutelato e precario. Ma quelli che stanno in mezzo sono sempre di meno». Poi, l’affondo: «Nel Mezzogiorno ci sono due milioni di lavoratori in nero: ma se li facessimo emergere, avremmo un milione di disoccupati in più. Non chiedo al sindacato di legalizzare il lavoro nero e il lavoro precario: ma dovremmo preferire essere lì con quei lavoratori e negoziare, anziché restare fuori da quelle fabbriche con in mano una copia del contratto nazionale di lavoro». La platea applaudì convinta, i giornali celebrarono con entusiasmo la svolta, Cofferati sibilò freddo: «Il segretario del mio partito ha idee diverse dal sindacato».

Quelle idee, purtroppo, durarono poco. Meno di un mese, ad essere precisi. Il 19 marzo D’Alema partecipò ad una tavola rotonda con il leader della Cgil. L’intenzione era quella di mantenere la posizione aprendo però un dialogo con il sindacato. Il risultato fu catastrofico. D’Alema ribadì alcune verità («La spesa sociale non va ai più poveri», «Il blocco sociale tutelato dal nostro Welfare è diventato una minoranza», «Una sinistra che non guarda in faccia i problemi non serve a nulla»), ma le accompagnò ad un’excusatio non petita che somigliava tanto ad un’inversione di rotta: «Forse al congresso sono stato ingeneroso nel non riconoscere alla Cgil un impegno assai più avanzato nello sforzo di governare la flessibilità… Non c’è stata alcuna frattura tra il Pds e la Cgil».

Lo scontro con Cofferati si chiuse definitivamente il sabato successivo, 22 marzo, quando D’Alema decise di partecipare alla manifestazione “per il lavoro” indetta dai sindacati confederali. Era di fatto una manifestazione contro il governo, e sembrò bizzarro che il segretario del maggior partito della maggioranza vi partecipasse. Letteralmente circondato da un robusto servizio d’ordine che impediva a chiunque anche soltanto di avvicinarsi, D’Alema sfilò in testa al corteo insieme a Cofferati. Il quale, come ogni vincitore che si rispetti, si mostrò magnanimo: «Una forza politica che ha insediamenti radicati nella società sa che l’occupazione e il lavoro sono un’esigenza profonda per tutti’». Peccato che proprio D’Alema avesse dimostrato giusto un mese prima come quell’“esigenza profonda” non potesse più essere soddisfatta dal sindacato e dal suo sistema di relazioni, protezioni, leggi e burocrazie. Quel triste 22 marzo 1997 si chiude, simbolicamente e praticamente, la stagione riformista della sinistra italiana.

Gli storici discuteranno sui motivi di una sconfitta così veloce e bruciante, se cioè sia dipesa dai rapporti di forza allora dominanti (Prodi si reggeva su Bertinotti, e il suo modello di relazioni sociali è sempre stato quello della concertazione), o dalla mancanza di coraggio politico di D’Alema. Quel che è certo è che siamo ancora lì – salvo che i “garantiti” sono ormai non più di un quarto di chi lavora. Spetta dunque a Renzi completare l’opera, o per meglio dire mettere finalmente al centro la grande questione dell’uguaglianza e dei diritti sociali, oggi calpestati da un sistema di cui il sindacato è parte integrante. E c’è da scommettere che gli andrà meglio.

L’articolo 18 è un simbolo da abrogare: non crea occupazione

L’articolo 18 è un simbolo da abrogare: non crea occupazione

Fabrizio Rondolino – Europa

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori va abrogato non perché la sua eliminazione basterà da sola a riformare un mercato del lavoro nemico dei lavoratori, e neppure perché creerà magicamente nuova occupazione (l’occupazione la creano le imprese, non i governi o le leggi). L’articolo 18 va abrogato perché è un simbolo: delle diseguaglianze del mondo del lavoro e dello strapotere di una burocrazia sindacale interessata all’autoconservazione. È per questo che Matteo Renzi non intende recedere e, se necessario, farà un decreto, ed è per questo che Susanna Camusso estrae aglio e crocifisso e lo accusa nientemeno che di avere in mente la Thatcher (come se fosse un insulto).

Nella prospettiva dei mille giorni – e non c’è motivo di dubitare che il presidente del consiglio preferisca la certezza del governo all’incertezza di una nuova campagna elettorale – Renzi ha bisogno, preliminarmente, di sottrarre il potere di veto alle corporazioni più forti. Per fare le riforme radicali che le classi dirigenti passate hanno sempre promesso e mai realizzato, non c’è bisogno soltanto di una maggioranza parlamentare coesa e di una pubblica amministrazione efficiente: è altresì necessario che i gruppi di potere non legittimati dal voto rientrino nell’alveo loro proprio. Che è quello della rappresentanza legittima di interessi particolari, non della cogestione feudale della cosa pubblica. La magistratura è uno di questi poteri. Il sindacato un altro. I dipendenti a tempo indeterminato che godono della protezione dell’articolo 18 (perché le loro imprese hanno più di 15 impiegati) sono circa 6,5 milioni. I lavoratori in Italia sono 22,5 milioni, cui se ne aggiungono almeno altri tre in nero. Dunque l’articolo 18 protegge soltanto un quarto dei lavoratori, e nessun disoccupato: non è un diritto, ma un privilegio.

Se la Cgil sceglie la strada del muro contro muro, non è perché abbia a cuore gli interessi dei lavoratori – i quali da tempo, con l’eccezione dei metalmeccanici e del pubblico impiego, non sono più rappresentati da nessuno – né tantomeno perché voglia creare nuova occupazione. L’interesse dominante della Cgil – l’unico che ne definisca oggi la ragione sociale – è conservare un potere di veto, di condizionamento e di ricatto a spese dei lavoratori. La visione del mondo della Cgil prevede un padrone cattivo, un dipendente sempre e comunque intoccabile e uno Stato grande elemosiniere: non c’è merito, non c’è qualità, non c’è libertà d’impresa, non c’è valore del lavoro. Ci sono invece molte tasse, burocrazie immense, sprechi e clientelismi, consociazione e stagnazione.

Questa visione del mondo è oggi intollerabile: perché è sbagliata, perché è profondamente ingiusta, e perché sono finiti tanto i soldi quanto i posti di lavoro. La pretesa della Cgil (e della minoranza del Pd, che ancora una volta cede al richiamo della foresta) di difendere e conservare la stratificazione castale e l’ingiustizia stridente del sistema che ha soffocato il Paese, è un ostacolo oggettivo alla ripresa economica. E come tale va rimosso. La Cgil forse non se ne è accorta, ma l’Italia si sta giocando l’osso del collo: e non può essere una burocrazia sindacale a bloccare il paese.

Proprio perché si combatte intorno ad un simbolo, la battaglia contro l’articolo 18 è politicamente cruciale. Perché ridimensiona lo strapotere sindacale, chiude una volta per tutte la partita truccata della concertazione, e rovescia le priorità: non più gli apparati e il posto fisso, ma i lavoratori e il lavoro. È un peccato che in questo scontro la Cgil scelga la trincea della conservazione e del privilegio: perderà la battaglia e anche la guerra, e a rifare il sindacato dovrà pensarci qualcun altro.

Draghi, i governi e i passi falsi

Draghi, i governi e i passi falsi

Eugenio Scalfari – La Repubblica

Sui giornali di tutta Europa ieri mattina campeggiava nelle prime pagine l’asta della Bce che sperava di collocare almeno 100 se non addirittura 150 miliardi di prestiti alle banche, ma ne aveva erogati soltanto 83. La richiesta di liquidità del sistema bancario per quattro anni di durata e a bassissimo tasso di interesse (lo 0,15 per cento) era stata circa metà del previsto. Draghi aveva dunque sbagliato diagnosi e ricetta per sconfiggere la deflazione?

La risposta a questa domanda nella maggior parte dei media era prudente nella forma ma critica nella sostanza: sì, Draghi aveva sbagliato. Ma qual era stato l’errore? Risposta: sopravvalutare il bisogno di liquidità in un’economia senza crescita. Ridotto all’osso: non è la Bce e quindi non è Draghi che può salvare l’Europa e la sua moneta. I fattori sono altri e riguardano l’economia reale, non quella monetaria. I vessilliferi di questa tesi sono da sempre alcuni grandi giornali americani ed europei e in particolare il Financial Times, il Frankfurter Allgemeine, il Wall Street Journal e cioè, per dirlo con chiarezza, la business community della Germania, la City di Londra e Wall Street; banche d’affari, fondi d’investimento speculativi, interessi che vedono l’euro come il fumo negli occhi.

I siti internet ieri avevano invece già cambiato tema e le Borse, che giovedì erano state piuttosto pesanti, ieri erano in eccezionale euforia: la secessione scozzese era stata battuta al referendum, il Regno Unito restava tale, la sterlina saliva ad un tasso di cambio nettamente più forte del dollaro e dell’euro, le critiche a Draghi confinate nelle sezioni economiche. Non c’è di che stupirsi, il circuito mediatico segue l’attualità. Del resto il referendum scozzese aveva sconfitto la tesi della secessione e la sorte dell’Europa era cambiata. Se il risultato fosse stato l’opposto probabilmente l’Europa oggi sarebbe agitata da un’altra tempesta che si aggiungerebbe a quelle già esistenti. Il tema della deflazione, della liquidità, del credito bancario, resta dunque, superato senza danni lo scoglio scozzese, un elemento dominante della situazione. L’Europa supererà la recessione che l’ha colpita e la deflazione che la sta soffocando?

La deflazione dipende da un crollo della domanda, la recessione dal crollo dell’offerta. L’Europa sta soffrendo di entrambi questi fenomeni ed è evidente che questa contemporaneità aggrava la crisi. Fino all’anno scorso si diceva che avevamo purtroppo raggiunto il livello di squilibrio del 1929; adesso si dice giustamente che l’abbiamo superato. Per sconfiggere la deflazione occorre una liquidità che tonifichi il sistema bancario e il volume dei prestiti che esso è in grado di offrire alle imprese. Ma se le imprese non hanno nuovi beni e nuovi servizi da offrire, non chiederanno prestiti alle banche. Il reddito nazionale diminuirà e con esso l’occupazione, i prezzi delle merci e dei servizi e le attese di ulteriori ribassi.

La Banca centrale offre liquidità alle banche ed esorta le autorità europee e i singoli governi nazionali ad effettuare riforme che rendano le imprese più competitive e con maggiore produttività. Le esorta, ma non spetta a lei di manovrare il fisco e influire sull’economia reale. Questo compito è assegnato alla Commissione europea. Sono la Commissione e il Parlamento a dover creare le condizioni di rilancio dell’offerta produttiva e quindi della crescita. Se questo non avviene il disagio sociale aumenta e altrettanto aumentano le diseguaglianze tra i ricchi, il ceto medio, i poveri.

Mi domando se la realtà di quanto sta accadendo sotto i nostri occhi sia chiara ai governi confederati nell’Unione europea. A mio parere no, non è affatto chiara perché ciascuno di loro pensa a se stesso, al proprio egoismo nazionalistico, al proprio potere politico. Trionfo della politica sull’economia? Questo slogan esprime una volontà di potenza localizzata e sballa un sistema debole e incompleto. La Germania pensa a se stessa e idem la Francia, l’Italia e tutti gli altri. Questo è lepenismo allo stato puro, leghismo a 24 carati ed è ciò che voleva il 45 per cento degli scozzesi. Sembra paradossale sottolineare che il nazionalismo imperante coincide con le varie leghe antieuropee. Sono tutti e due fenomeni negativi che differiscono sulla localizzazione ma hanno la medesima natura: la politica deve dominare l’economia.

Questo è il clima che alimenta i governi autoritari e le dittature che non si accorgono dell’insufficienza degli Stati nazionali o regionali di fronte ai continenti. L’America del Nord è un continente, la Cina, l’Indonesia, la Russia dal Don a Vladivostok è un continente, l’America del sud è un continente. E noi ci battiamo per gli staterelli europei o addirittura per molte regioni inventate come la Padania? È la stessa cosa, lo stesso terrore, la stessa corta vista che ha la sua motivazione nella volontà di potenza dei singoli leader e nell’indifferenza di gran parte dei popoli ad essi politicamente soggetti.

Noi europei per uscire dalla crisi che ci attanaglia ormai da cinque anni dobbiamo riformare lo Stato con riforme mirate contro la recessione e la deflazione. La Banca centrale mette una massa monetaria a disposizione ma farà anche di più: sconterà titoli emessi dalle aziende, acquisterà titoli sovrani sul mercato secondario, punterà (e in parte c’è già riuscita) a svalutare il tasso di cambio euro/dollaro per favorire le esportazioni. Ma nel frattempo i governi, seguendo la politica della Commissione di Bruxelles dovranno privilegiare le riforme economiche su tutte le altre. Il nostro presidente del Consiglio vuole fare insieme una quantità di riforme per portare al termine le quali ci vorrebbero almeno due legislature. Chi può credere a programmi di questo genere?

Forse ignorano le cifre che riflettono la realtà, oppure hanno deciso di non tenerne conto. Faccio un esempio (ne ha già parlato il collega Fubini ma merita d’essere sottolineato). Si tratta della disoccupazione tra Italia e Spagna. Le cifre ufficiali dicono che in Italia è al 12 per cento e in Spagna al 24. La Spagna è dunque al doppio di noi calcolato sul numero degli abitanti quale che ne sia l’età. Ma la realtà non è questa. Se calcoliamo sulla popolazione attiva l’occupazione è in tutte e due i paesi del 36 per cento. Se calcoliamo sull’età dai 16 ai 64 anni gli occupati in Spagna sono il 74 per cento e in Italia il 63. Il governo conosce queste cifre? E se ne domanda il perché? La Spagna cresce più di noi. Come mai? Dov’è che stiamo sbagliando? L’ho già detto varie volte perciò non mi ripeterò. Dico soltanto che non è Draghi che sbaglia e neppure le autorità di Bruxelles cui la Spagna ha obbedito passo dopo passo. C’è anche un modo di fare i passi giusti e quelli sbagliati.